Un viaggio tra Prometeo e Cristo

May 23, 2017 | Autor: Giacomo Benedetti | Categoría: Christianity, European History, Mythology
Share Embed


Descripción



4



Fig. 1 p. 45
"Avvinse Prometeo dagli svariati consigli con ceppi indissolubili, / con legami terribili, spingendo una colonna nel mezzo" (Esiodo, Teogonia, traduzione di E. Vasta, Milano: Mondadori, 2011, vv. 521-522)
"Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito Santo dava loro il potere di esprimersi. Allora Pietro con gli Undici si alzò e parlò così: […] Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret […] voi, per mano di pagani, l'avete crocifisso e l'avete ucciso. Ora Dio lo ha resuscitato, liberandolo dai dolori della morte […]. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire" (Atti 2, 1-4/ 2,14/ 2, 22-23/ 2, 32-33)
In occasione del meeting di Rimini tenuto dal Monsignor Angelo Scola, come si vedrà più avanti
"L'ambiguo peso del tempo passato nell'idea e nella sostanza dell'Europa è il frutto di un dualismo primordiale. E' il mio quarto assioma: la doppia eredità di Atene e Gerusalemme […] Essere europei significa cercare di negoziare sul piano morale, intellettuale ed esistenziale gli ideali, le pretese, le praxis contrastanti della città di Socrate e di quella di Isaia" (G. Steiner, Una certa idea di Europa, traduzione di O. Ponte di Pino, Milano: Garzanti, 2010, p.40)
"Come avrebbe potuto, un uomo di cultura, ignorare Omero e Virgilio? E per conseguenza come avrebbe potuto un insegnante, per far intendere ai propri allievi le narrazioni dei poeti, non raccontar loro la storia scandalosa dell'Olimpo?" (J.Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, traduzione di G. Niccoli, Torino: Bollati Boringhieri, 1990, p.120)
Da questo punto di vista, interessante è la razionalizzazione del mito di Prometeo da parte di Lattanzio che, nell'Epitomé alle Divinae Institutiones (20,12-13), fa di lui uno scultore, le cui creazioni sembravano tanto simili ad esseri viventi che nacque da ciò la leggenda che lo proclama creatore di uomini (e questa razionalizzazione verrà pure ripresa nel XIII volume dell'Enciclopedia illuminista, per cui il Titano fu il primo scultore a plasmare una statua con fattezze umane)
"Non enim oportet fallaces commemorare fabulas neque philosophorum inimicam Deo sapientiam sequi, ne in judicium aeternae mortis, Domino discernente cadamus […] Non ego Saturni fugam, non Jiunonis iram, non Jovis stupra […] commemoro. Sed ista omnia tamquam super harenam locata et cito ruitura conspiciens ad divina et evangelica potius miracula revertamur." (S. Gregorio, Liber de gloria martyrum, pp. 487 e ss.)
La dinastia imperiale degli Antonini, che segue quella dei Flavi, incomincia con la nomina a imperatore di Ulpio Traiano, nel 98 d.C., e si conclude con la morte di Marco Aurelio nel 180 d.C. Copre, dunque un'ottantina d'anni, durante i quali si susseguono quattro tra i più grandi imperatori di Roma: Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio
un'apologia in 42 capitoli in cui l'autore assiro si scaglia contro la civiltà classica con l'intento di dimostrare la superiorità della fede cristiana
Asclepio, Esculapio per i romani, era il dio figlio di Apollo inventore della medicina. Cfr. Apollodoro, Biblioteca,III, traduzione di M. Cavalli, Milano, Mondadori Editore, 2013, p. 165
Taziano, Discorso ai Greci, traduzione di S. di Cristina, Torino: Borla, 1991, par. XXI, p.101
Per tre volte Gesù preannuncia ai suoi discepoli che, una volta rientrato a Gerusalemme, verrà consegnato ai capi dei sacerdoti per essere crocifisso. Si veda, ad esempio, Matteo 16,21; 17,22-23 e 20,17-19
Taziano, Discorso ai Greci, par. XXI, p. 102)
"Quant à Promèthèe, ainsi que ses frères Epimèthèe et Atlas, il fut contemporain du septième roi d'Argos, Triopas et aussi de Io et de Cècrops" (M.G. de Durand, Prométheé dans la littérature chrétienne antique, Revue des Etudes Augustiniennes 1995, n°41, p. 226).
L'Apologeticum consiste in una sentita difesa del Cristianesimo contro i crimini, palesi od occulti, imputati ai suoi fedeli, mentre l'Adversus Marcionem, come suggerisce il titolo stesso, è un'opera che mira a smontare la tesi di Marcione (85ca - 160), il vescovo di Sinope per cui esistevano due distinte divinità, il Dio degli Ebrei ed il padre di Gesù Cristo, e solo quest'ultimo era l'unico vero Dio.
"Fin dalle origini infatti Egli mandò nel mondo uomini che per la loro purezza ed equità fossero degni di conoscere e di rivelare Dio e, inondati di spirito divino, predicassero l'esistenza di un Dio unico, il quale creò l'universo e dal fango plasmò l'uomo: poiché egli è il vero Prometeo che distribuì il tempo in periodi determinati, ordinandolo attraverso la successione delle stagioni" (Tertulliano, Apologeticum, traduzione di A.R. Barrile, Bologna: Zanichelli, 1980, par. XVIII, 2, p. 73)
Questa versione del mito è attestata a partire dalle commedie di Filemone e Menandro, dunque dal IV secolo a.C. (H. Blumenberg, Elaborazione del mito, traduzione di B. Argenton, Bologna: Mulino, 1991, cap. X, p. 399) Nella versione più antica a disposizione, ovvero nella Teogonia di Esiodo, risalente al VII secolo a.C., infatti, non c'è traccia di un Prometeo creatore degli uomini
"Allora il Signore plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente" (Genesi 2,7)
"All is torpid, everything stark. Savagery is there the only thing warm –such savagery as has provided theatre with tales of Tauric sacrifices, Colchiam love-affairs, and Caucasian crucifixions. Even so, the most barbarous and melancholy thing about Pontus in that Marcionem was born there […] more brittle than ice, more treacherous than the Danube, more precipitous than Caucasus. […] When by him the true Prometheus, God Almighty, is torn to bits with blasphemies" (Tertulliano, Adversus Marcionem, traduzione di E. Evans, Oxford: Oxford University Press, 1972, I, par. I, 4, p. 5)
Ifigenia è la celebre figlia di Agamennone che dovette essere sacrificata per permettere alla flotta greca, trattenuta dall'ira della dea Artemide, di salpare verso Troia. Medea invece è la potente maga figlia del re Eeta, signore della Colchide, che aiutò Giasone a conquistare il Vello d'Oro (le due storie si veda Apollodoro, Biblioteca, Epitome, pp. 208-209 e Biblioteca,I, pp. 49-57)
"Quant aux –croix du Caucase-, elle sont bien, comme Stanley le suggère, une allusion au supplice encore infligé aux voleurs du temps de Tertullien. Et elles sont mises en paralléle avec les aventures d'Iphigénie en Tauride et de Médée, sujets de tragédie, comme la légende de Prométhée, non pas avec la Passion du Christ" (Promethèe dans la lettérature chrétienne, in Revue des Etudes Augustiniennes, 1995, n°41, p. 221)
Un'opera in sette libri simile a quella di Taziano, in cui Lattanzio, dopo aver confutato i fondamenti della religione pagana, espone la dottrina cristiana
" [ i poeti ] dissero che l'uomo era stato plasmato col fango, per opera di Prometeo. Presero un abbaglio, non nella cosa in se stessa, ma nel nome dell'artefice" (Lattanzio, Divinae Institutiones, traduzione di G. Mazzoni, Siena: Ezio Cantagalli, 1973, II, par.10, 5-7, p. 184)
"E che costui non sia stato d'origine divina, lo dice chiaramente la pena che ebbe a soffrire nei giochi del Caucaso" (Ibidem, II, par. 10,7, p. 185)
Ovidio, Metamorfosi, traduzione di P.B. Marzolla, Torino: Einaudi, 2012, I, vv. 253-312, pp. 16-19
"Se, dunque, avvenne un cataclisma, perché si disperdessero quella malvagità e quella corruzione che erano andate crescendo fra le genti, come poté Prometeo essere quello che formò l'uomo? Eppoi, i poeti dicono che Deucalione, suo figlio, fosse stato, lui solo, salvato, per la sua giustizia […] Appare evidente che è falso ciò che narrano del sacrificio di Prometeo" (Lattanzio, Divinae Institutiones, II, par. 10, 10-11, pp. 185-186)
Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cap. XI p.431 e ss.
Emblematiche le tavole di J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, tra le quali appare Zeus simile ad un frate francescano o Ermes ad un vescovo (Fig. 2 e 3 p. 45)
Si pensi, ad esempio, alle allegorie del Prometeo proposte dal Boccaccio nella Genealogia Deorum Gentilium, in cui viene inclusa addirittura l'aquila che rode il fegato del Titano, simbolo delle continue riflessioni che tormentano l'uomo di pensiero (Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cap. XI, p. 437)
Non deve sorprendere, dunque, che solamente nel 1518 appaia nuovamente sull'orizzonte culturale europeo il Prometeo Incatenato di Eschilo, dopo secoli in cui quest'ultimo non è stato nulla più di un nome (F. Condello, Prometeo, variazioni sul mito, Venezia: Marsilio, p. 28)
Cfr. J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, cap. I, 2 e cap. III, 2

Il parallelismo con Adamo, proposto da Giordano Bruno nella Cabala del cavallo Pegaseo, e quello con Caino, presente invece in una lettera di Erasmo da Rotterdam del 1499 indirizzata a John Sixtin, sono in H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cap.XI, p. 435 e ss. e p.444 e ss.). Per il parallelismo con Adamo cfr. anche E.Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, traduzione di F. Federici, Torino: Bollati Boringhieri, 2001, cap. III pp. 149 e ss.)
Cfr. F. Condello, Prometeo, variazione sul mito pp. 32-24
Per via di un cambio di rotta dell'autore tedesco, il quale, preannunciando l'avvento del Romanticismo, riscoprirà un nuovo e non più conflittuale rapporto con la natura e il divino. Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito di Blumenberg, pp. 479-670)
No, io qui sono e sto / e formo gli uomini /a mia immagine, / una razza che mi somiglia / destinata a piangere, a soffrire, / a godere e a gioire / senza badare a te, / così, come faccio io (Inno a Prometeo, vv. 50-57, traduzione di M.G. Ciani)
Si tratta di un dramma risalente al 1807, nel quale ben si manifesta la mutata mentalità di Goethe, anche solo riprendendone il finale, nel quale afferma che il compito di condurre al bello e al bene eterno deve essere lasciato agli dei

"Had I framed my story on this model, I should have done no more than have attempt to restore the lost drama of Eschylus; an ambition, which, if my preference to this mode of treating the subject had incited me to cherish, the recollection of the high comparison such an attempt would challenge might well abate" [ Se io avessi plasmata la mia storia su questo modello, non avrei fatto di più che un tentativo di ristorazione del perduto dramma eschileo; ambizione, che, se la mia preferenza per questo modo di trattare il soggetto mi avesse spinto a sceglierlo, il ricordo dell'alta prova avrebbe sfidato il mio tentativo, sì da scoraggiarmi ben presto] (P.B. Shelley, Prometeo Slegato, traduzione di Cesare Pavese, Torino: Einaudi, 1997, Prefazione, p. 3)
Da una lettera datata 6 Aprile 1819, inviata da Shelley all'amico Thomas Love Peacock
"[Il mito di Shelley] non è mai né UNA storia, né UN personaggio, ma il punto di incontro di una serie di mitologemi. Il mito coincide con il passato delle sue narrazioni, delle sue rielaborazioni secondarie, delle sue testualizzazioni nell'universo sterminato della letteratura […]. Per questo nella trama mitica di Prometeo si trovano intrecciati i destini di altre figure mitico-letterarie; come quelle di Adamo, di Satana, di Cristo, di Edipo, di Narciso, di Amleto, solo per citarne alcune" (G. Cerulli, Nel nome del figlio. Saggio sul Prometheus Unbound, pubblicato sulla rivista Questioni Romantiche nell'autunno 1998, n°VI, par. III, p.176)

"Three thousand years of sleep-unsheltered hours, / and moments –aye divided by keen pangs / till they seemed years, torture and solitude, / scorn and despair, -these are mine empire:- / more glorious far than that which thou surveyest / from thine unenvied throne, O Mighty God!" (P.B. Shelley, Prometeo Slegato, Atto I, vv. 12-17, p. 15)
"But thou who art the God and Lord – O thou / who fillest with thy soul this world of woe, / to whom all things of Earth and Heaven do bow / in fear and worship – all-prevailing foe! / I curse thee! Let a sufferer's curse / clasp thee, his torturer, like remorse, / till thine Infinity shall be / a robe of envenomed agony; / and thine Omnipotence a crown of pain, / to cling like burning gold round thy dissolving brain." [Ma tu che sei il Dio e il Signore: oh tu / che riempi col tuo spirito questo mondo di dolore, / tu, a cui tutti gli esseri della Terra e del Cielo s'inchinano / intimoriti, in adorazione: nemico che trionfi su tutto! / ti maledico! La maledizione di un sofferente / s'avviticchi a te, il suo carnefice, come un rimorso; / finché la tua Infinità ti diventi / una veste di agonia avvelenata; / e la tua Onnipotenza una corona di dolore / che s'attorca come oro scottante intorno al tuo cervello in putrefazione] ( Ibidem, Atto I, vv. 282-292, p. 30)
"It doth repent me: words are quick and vain; / grief for awhile is blind, and so was mine. / I wish no living thing to suffer pain." ( Ibidem, Atto I, vv. 303-305, p. 32)
Una delle tremila Oceanine figlie del Titano Oceano e Teti, personificazione dei fiumi e delle correnti (per il loro numero, non lo stesso in tutti gli autori che lo riportano, si segue qui la versione di Esiodo riportata nella Teogonia, v. 364)
Si tratta di una divinità sconosciuta al mondo classico, probabilmente nata da una corruzione di epoca medievale del termine demiourgos, che Platone utilizzava (per la prima volta nel Timeo) per indicare la forza ordinatrice e plasmatrice dell'Universo. Boccaccio, nella Genealogia deorum gentilium, lo definisce come "il padre e il principio di tutti gli dei pagani […] mente divina mescolata […] alla terra produttrice di tutte le cose" (I, Proemio III, p. 75). Non ha un aspetto definito, ma si tratta di un essere di puro spirito, come prova la descrizione di Pantea: "I see a mighty Darkness / filling the seat of power; and rays of gloom / dart round, as light from the meridian Sun, / ungare upon and shapless –neither limb / nor form- nor outline; yet we fel it is a living Spirit" [Vedo una grande oscurità che / riempie il seggio del potere, e i raggi bui dardeggiano / intorno, come luce dal sole del meriggio, / raggi mai visti, informi. Essa non ha membra, / né forma, né un'apparenza, eppure noi sentiamo / che è uno Spirito vivente] (P.B. Shelley, Prometeo Slegato, Atto II, vv. 2-7, p. 90)
Note ai romani come Erinni, le Furie Megera, Aletto e Tisifone, nate dal sangue di Urano quando questi venne evirato da Crono (Cfr. Esiodo, Teogonia, vv 176-187), erano personificazione della vendetta, soprattutto contro coloro che si macchiavano di crimini contro i propri parenti
"Awful Sufferer! / To thee unwilling, most unwillingly / I come, by the great Father's will driven down / to execute a doom of new revenge. / Alas! I pity thee, and hate myself / that I can do no more. […]" [Tremendo Sofferente! / Io vengo a te malvolentieri, con infinita malavoglia, / spinto giù dalla volontà del Padre, / a eseguire la sentenza di una nuova vendetta. / Oh! Io ti compiango, ed io odio me stesso / di non poter far di più] (P.B. Shelley, Prometeo Slegato, Atto I, vv. 352-357, p. 34)
"Eternity –demand no direr name. / Descend, and follow me down the abyss" [ L'Eternità. Non domandare una parola più terribile. Discendi e seguimi giù nell'abisso] (Ibidem, Atto III, vv. 52-53, p. 112)
L'atto di Demogorgone è esattamente agli antipodi rispetto al dramma eschileo dove, sulla base dei frammenti rimasti delle altre due tragedie che accompagnavano l'Incatenato (Prometeo Liberato e Prometeo Portatore del Fuoco), Zeus e Prometeo si riappacificano e questi viene liberato da Ercole che uccide l'aquila tormentatrice. Per una trattazione dettagliata della trilogia di Prometeo si veda H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cap. IX, p. 384-389 ed anche P. Brunel, Dizionario dei miti letterari, Prometeo, traduzione di G. Gabetta, Milano: Bompiani, 1995, pp. 430-432)
La descrizione del lento risveglio della Natura che occupa gli ultimo due atti del drama si ispira ad un paesaggio preciso: "This Poem was chiefly written upon the montainuos ruins of the Baths of Caracalla, among the flowery glades, and thickets of odoriferous blossoming trees, which are extended in ever winding labyrinths upon its immense platforms and dizzy arches suspended in the air. The bright blue sky of Rome, and the effect of the vigorous awakening of spring in that divinest climate, and the new life whit which it drenches the spirits even to intoxication, were the inspiration of this drama" [Questo poema fu scritto principalmente sulle montagnose ruine delle Terme di Caracalla, tra le radure fiorite e i boschetti di piante sboccianti petali odorosi, che si estendono in labirinti sinuosissimi sulle sue immense piattaforme e sugli archi vertiginosi, sospesi nell'aria. Il cielo azzurro-smagliante di Roma, l'effetto del risvegliarsi vigoroso della Primavera, in quel clima divino e la nuova vita di cui essa impregna gli spiriti fino a intossicarli, furono l'ispirazione di questo dramma] (P.B Shelley, Prometeo Slegato, Prefazione, p. 5)
"Sceptres, tiaras, swords and chains, and tomes / of reasoned wrong, globe by ignorance" (Prometeo Slegato, atto III, vv. 166-167, p. 138). Per l'attacco alle istituzioni si ricordi anche G. Cerulli, Nel nome del figlio, in Questioni Romantiche, 1998, n° VI: "La sua lotta è diretta contro quei miti […] che hanno assicurato la permanenza e la tenuta delle gerarchie sociali ereditate dal passato […]. In altre parole, contro l'intero sistema delle finzioni politiche, religiose, etiche ed ontologiche del genere umano. Come il Cristianesimo dogmatico; le istituzioni civili come il matrimonio; i regimi politici dittatoriali." (par. III, p. 171)
"Thou Earth […] / Thou Moon […] / Ye Kings of suns and stars, Demons and Gods, Etherial Dominations […] / Ye happy dead […] / Ye elemental Genii […] / Spirits […] / ye beasts and birds –ye worms and fish –ye living leaves and buds –lightning and wind –and ye untameable herds, meteors and mists, which throng Air's solitudes […] / Man […] / This is the Day which down the void Abysm / at the Earth-born's spell yawns for Heaven's Despotism, / and Conquest in dragged Captive through the Deep / […] Gentless, Virtue, Wisdom and Endurance, / these are the seals of that most firm assurance / which bars the pit over Destruction's strength" [ Tu, o Terra / Tu, o Luna / Voi, re dei soli e degli astri, Demoni e Dei, Dominazioni eteree / Voi morti felici. / Voi, Geni elementari / Spiriti / Voi animali e uccelli, voi vermi e pesci, voi, vive foglie e germogli, folgori e venti; e voi mandrie indomabili, meteore e nebbie che affollate i deserti dell'aria / Uomo / Questo è il giorno che il vuoto abisso si spalanca, / alla maledizione del figlio della Terra, per inghiottire il despota del cielo / e che la Conquista è trascinata prigioniera nel profondo. / […] Gentilezza, Virtù, Saggezza e Costanza / -questi sono i sigilli della migliore assicurazione / che chiude la fossa sulla forza di Distruzione] (P.B. Shelley, Prometeo Slegato, Atto IV, vv. 521-564, p. 174)
" I wish no living thing to suffer pain" [ Non voglio che alcuna cosa vivente soffra] (Ibidem, Atto I, v. 305, p. 32)
Cfr. Giovanni 11, 38-44
"Yought with patient looks nailed to a crucifix" (Prometeo Slegato, Atto I, v. 585, p. 50)
"[…] Henceforth I am omnipotent. / All else has been subdued to me –alone / the soul of man, like unextinguished fire, / yet burns towards Heaven […]" [ D'or innanzi io sono onnipotente. / Tutto è stato sottomesso a me; solo lo spirito dell'uomo, come un fuoco estinto, / arde verso il cielo] (Ibidem, Atto III, vv. 3-6, p. 110)
"All spirits are enslaved who serve things evil: / Thou knowest if Jupiter be such or no" (Ibidem, atto II, vv. 110-111, p. 96)
"Could vomit forth its secrets: -but a voice / is wanting, the deep truth is imageless; / for what would it avail to bid thee gaze / on the revolving world? What to bid speak / Fate, Time, Occasion, Chance and Change? To these / all things are subject but eternal Love" (Ibidem, Atto II, vv. 115-120, p. 98)
"Love from its awful throne of patient power / in the wise heart, from the last giddy hour / of dread endurance, from the slippery, steep, / and narrow verge of crag-like Agony, springs / and folds over the world its healing wings" (Ibidem, atto IV, vv. 557-561, p. 176)
Il concetto è espresso in uno dei manoscritti giovanili di Pavese, riportato da M. Pietralunga nell'introduzione al Prometeo Slegato, p. VII: "Per lui [Shelley] tutti gli aspetti dell'universo erano apparenze diverse di una sola realtà, l'Amore, e questa realtà era velata dal male come da una nebbia, che appena qua e là lascia scorgere gli oggetti. Ma questa nebbia sarebbe dileguata. Nel Prometeo Liberato, canta il trionfo su di essa" ( FE 21-22, c. 3r.)
"Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avrete? Non fanno così anche i pubblicani?" (Matteo 5, 44-46)
Matteo 23, 37-40

Giovanni, 12-13
G. Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgames. Figure del mito, Milano: Raffaello Cortina, 2004, cap. I, pp. 17-18
"The only imaginary being resembling in any degree Prometheus, is Satan; and Prometheus is, in my judgement, a more poetical character than Satan, because, in addition to courage, and majesty, and firm and patient opposition to omnipotent force, he is susceptible of being described as exempt from the taints of ambition, envy, revenge, and a desire for personal aggrandisement […] . But Prometheus is, as it were, the type of the highest perfection of moral and intellectual nature, impelled by the purest and the truest motives to the best and noblest ends"( P.B. Shelley, Prometeo Slegato, Prefazione, p.5)

"Remit the anguish of that lighted stare / -Close those wan lips -let that thorn-wounded brow / stream not with blood -it mingles with thy tears! / fix, fix those tortured orbs in peace and death, / so thy sick throes shake not that crucifix, / so those pale fingers play not with thy gore. / Oh horrible! Thy name I will not speak, / it hath become a curse. I see, I see / the wise, the mild, the lofty and the just, / some hunted by foul lies from their heart's home, / an early-chosen, late lamented home, / as hooded ounces cling to the driven hind, / some linked to corpses in unwholesome cells: / some –hear I not the multitude laugh loud?- / impaled in lingering fire: and mighty realms / float by feet like sea-uprooted isles, / whose sons are kneaded down in common blood / by the red light of their own burning homes" (Ibidem, Atto I, vv. 597-615, pp. 50-52)
Anch'essa rivolta all'amico Thomas Love Peacock, datata 9 Ottobre 1819
"A passion for reforming the world" (P.B. Shelley, Prometeo Slegato, Prefazione, p. 9)
"And behold! Thrones were kingles, and men walked / one with the other even as spirits do, / none fawned, none trampled; hate, distai, or fear, / self-love or self-contempt, on human brows / no more inscribed, as o' er the gate of hell, / "All hope abandon, ye who enter here"; […] / Thrones, altairs, judgement-seats and prisons; wherein, / and beside which, by wretched men were borne / scepters, tiaras, swords, chains, and tomes / of reasoned wrong, glozed on by ignorance, / were like those monstrous and barbaric shapes, / the ghosts of a no more remembered fame, / which from their unworn obelisks look forth / in triumph o'er the palaces and tombs / of those who were their conquerors, mouldering round. / Those imaged to the pride of Kings and Priests / a dark yet mighty faith, a power as wide / as is the world it wasted and are now / but an astonishment; […]" (Ibidem, Atto III, vv. 131-176, pp. 136-138)
Dante, Divina Commedia, Inferno, canto III, v. 9
G. Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgames. Figure del mito, cap. I, p. 18
Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cap. XV
"Il sogno […] di dare vita alla materia inerte, rivaleggiando con il potere e i segreti del dio (Prometeo), si traduce nella drammatica parabola di un creatore che, pieno di rimorso e di senso di colpa, si trova infine a rinnegare il mostro orrendo uscito dal suo laboratorio, attuando il disperato tentativo di distruggerlo, di cancellale ogni traccia dell'empio esperimento" (D. Susanetti, Favole antiche. Mito greco e tradizione letteraria europea, Roma: Carocci, 2005, cap. II, p. 55-56)
Difatti, ne La scommessa di Prometeo, del 1824, il Titano pretende di ricevere un premio per la miglior creazione divina, ma viene costretto ad osservare la dura realtà: il fuoco che egli ha consegnato agli uomini viene utilizzato in India per bruciare le vedove sui roghi, dai selvaggi per preparare pasti cannibalici e dai lord inglesi troppo annoiati dalla vita per suicidarsi (Ibidem, cap. II, p.55)
Si pensi, ad esempio, alle Selve di Lorenzo il Magnifico (1449-1492): "E così fu troppo dannoso e caro / el foco che furasti nella ferula: / da poi fu il mondo crudele ed avaro, / la mente sempre disiosa e querula, / le guerre, incendi e torti e 'l pianto amaro […]" ( Selve, I, 77-81)
Nel Discorso sulle scienze e sulle arti, 1750, denuncia infatti Prometeo come inventore di quelle scienze che non hanno fatto altro che pervertire l'uomo, gettandolo dalla vera felicità in cui viveva quando ancora era allo stato selvaggio nel vizio e nella corruzione
Cfr. F. Condello, Prometeo. Variazioni sul mito, p. 59-60

"Immagino che un essere intelligente extraterrestre giunga sul nostro globo […] e si intrattenga con noi sull'ordine che regna in questo mondo […] Certamente il genio viaggiatore non esiterebbe nemmeno un istante: farebbe del boia tutti gli elogi […] –E' un essere sublime-, ci direbbe; -E' la pietra angolare della vostra società; poiché il delitto è venuto ad abitare sulla vostra terra, levate dal mondo l'esecutore ed ogni ordine scomparirà con lui. D'altronde, quale grandezza d'animo! Quale nobile interesse dobbiamo necessariamente supporre nell'uomo che si dedica a funzioni così rispettabili senza dubbio, ma tanto penose e contrarie alla vostra natura" (J. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, traduzione di L. Fenoglio e A.R. Cattabiani, Milano: Rusconi, 1986, VII, p. 379)
Ibidem, IX, p. 487
Ibidem, IX, p. 486

Ibidem, IX, p. 491
Come suggerisce il nome stesso del Titano, Prometeo era in grado leggere il futuro (Prometheus, in greco antico significa infatti "colui che pensa prima", "previdente"), ed era dunque a conoscenza della pena per lui prevista se avesse rubato il fuoco all'Olimpo per donarlo agli uomini. Si legge nel Prometeo Incatenato eschileo: "Ma io sapevo tutto questo. / Ho voluto, ho voluto il mio peccato: / e non lo smentirò. Per dare aiuto / a chi moriva ebbi la mia pena" (Eschilo, Prometeo Incatenato, traduzione di E. Mandruzzato, Milano: Bur, 2012, Atto I, vv. 265-267)
Cfr. San Paolo: "Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore col quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia, infatti, siete stati salvati" (Efesini 2,4-5)
J. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, XI, p. 590. Le parole sono del Senatore, ma di eco machiavelliana: "Donde ei si nasca, io non so, ma si vede per gli antichi e per gli moderni esempj che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia che non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigj o da altri segni celesti predetto" (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 56)
Cfr. Giovanni 14, 10-11: "Non credi che io sono nel Padre ed il Padre è in me? Le parole che io vi dico non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre ed il Padre è in me
J. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, IX, p. 487
F. Condello, Prometeo. Variazioni sul mito, p. 55
P. Brunel, Dizionario dei miti letterari, Prometeo, p. 540
Le Sibille erano vergini con poteri profetici concessi loro da un dio, consultate da eroi e sovrani per sapere del proprio futuro o la spiegazione di oscuri presagi, ma i loro vaticini, scritti o pronunciati al momento dell'estasi, spesso erano di difficilissima decifrazione. Tra le più celebri vi sono la Sibilla di Cuma, che accompagna Enea agli inferi (Eneide, canto VI) e quella di Delfi, detta anche Pizia, citata in numerosissime tragedie ed opere antiche.
F, Condello, Prometeo. Variazioni sul mito, p. 55
N. Gaetani Tamburini, Edgar Quinet, Milano: Tipografia internazionale, 1865, p. 52
Ibidem, p. 53-54
P. Brunel, Dizionario dei miti letterari, nella sezione riguardante Prometeo, p. 540
C. Spitteler, Prometeo ed Epimeteo, traduzione di Rodolfo Paoli, Milano: Fabbri, 1965, parte I, cap. I, p. 61
Ibidem, parte I, cap. I, p. 65
D. Susanetti, Favole Antiche: mito greco e tradizione letteraria europea, cap. II, p. 57
C. Spitteler, Prometeo ed Epimeteo, parte I, cap. III, p. 123
Ibidem, parte II, cap. I, P. 156-159

Ibidem, parte III, introduzione, p. 223
Ibidem, parte III, cap. II, p. 271
Ibidem, parte IV, cap. I, p. 316
D. Susanetti, Favole Antiche: mito greco e tradizione letteraria europea, cap. II, p. 57
Ibidem, parte V, cap. I, p. 345
F. Condello, Prometeo. Variazioni sul mito, p. 56
Fig. 4 p. 45
F. Condello, Prometeo. Variazioni sul mito, p. 67
Crf. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cap. XVIII, pp. 746-749
"Quando dall'alto del Caucaso, Prometeo ebbe provato e riprovato sulla propria pelle che catene, cavicchi, camicie di forza, barriere e tutti gli altri accorgimenti, tutto sommato, gli impedivano i movimenti, per cambiare posizione si sollevò sul lato sinistro, stese il braccio destro e un autunno, tra le 4 e le 5, scese il viale che va dalla Madeleine all'Opéra" (A. Gide, Prometeo male incatenato, cap. I)

"Nulla si fa che non ritorni […] Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà" rivela Prometeo ad Eracle, giunto a salvarlo. C. Pavese, La rupe, in Dialoghi con Leucò, Torino: Einaudi, 1999, p. 73
"Di Prometeo narrano quattro leggende. Secondo la prima egli venne incatenato al Caucaso perché aveva tradito gli dei per amore degli uomini, e gli dei mandavano aquile a divorare il suo fegato, che sempre rinasceva. Stando alla seconda Prometeo, per il dolore dei becchi che lo dilaniavano, si serrò sempre di più contro la roccia, finché non divenne tutt'uno con essa. Secondo la terza il suo tradimento venne dimenticato nel corso dei millenni; gli dei dimenticarono, le aquile dimenticarono, egli stesso dimenticò. Secondo la quarta ci si stancò di ciò che ormai aveva perso la sua ragione d'essere. Gli dei si stancarono, le aquile si stancarono, la ferita, stanca, si richiuse. Rimase l'inesplicabile catena rocciosa. La leggenda tenta di spiegare l'inspiegabile. Poiché essa discende da un fondamento di verità, deve per forza, a sua volta, finire nell'inspiegabile" (F. Kafka, Racconti, traduzione di G. Schiavoni, Milano: Bur, 1995, p. 315-316)
"Tante cose restano al di fuori [della Chiesa], tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio, perché altrimenti sarebbero prive di esistenza. Tutta l'immensa distesa dei secoli passati […]; tutti i paesi abitati da razze di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; e nella storia di questi ultimi, tutte le tradizione accusate di eresia […]; tutto ciò che il Rinascimento ha prodotto, troppo spesso degradato ma non privo di valore" (S. Weil, Attesa di Dio, traduzione di M.C. Sala, Milano: Adelphi, 2008, parte I, pp. 35-36)
"Sono, per così dire nata, cresciuta e sempre rimasta nell'ispirazione cristiana. Ancorché il nome stesso di Dio non avesse alcun posto nei miei pensieri, avevo tuttavia nei confronti dei problemi di questo mondo e di questa vita una concezione esplicitamente e rigorosamente cristiana, incluse le nozioni più specifiche che essa comporta. Alcune di queste nozioni sono in me dai primi momenti di cui serbi memoria" (Ibidem, parte I, pp. 23-24)
"Simone Weil fonda la propria fede non […] sull'adesione ad una dottrina, ma sul desiderio della verità in quanto bene, nonché sulla vocazione personale –che a suo giudizio coincide con la volontà di Dio operante su di lei- e sull'incontro inatteso con il Cristo" (Ibidem, prefazione, pp. XIII-XIV).
"Mi pare che la volontà di Dio non sia che io entri nella Chiesa adesso. […] Non posso fare a meno di continuare a domandarmi se, in quest'epoca in cui una parte così grande dell'umanità è sopraffatta dal materialismo, Dio non voglia che vi siano uomini e donne che, pur essendosi votati a lui e a Cristo, rimangono fuori della Chiesa. […] So che il Cristo ha detto: -Se qualcuno avrà vergogna di me davanti agli uomini, io avrò vergogna di lui davanti al Padre mio-. Ma vergognarsi del Cristo forse non significa per tutti e in ogni caso non aderire alla Chiesa. […] Ma non ho in alcun grado amore per la Chiesa propriamente detta, se non per il rapporto che intrattiene con tutte quelle cose che amo" (Ibidem, parte I, pp. 9-11). "Credo di poter concludere che Dio non mi voglia nella Chiesa. […] E, salvo errore, mi sembra sia sua volontà che io ne rimanga fuori anche in futuro" (Ibidem, parte I, p. 35). "Mentre portavo a termine il lavoro sui Pitagorici, ho avvertito in modo definitivo e certo […] che la mia vocazione mi impone di restare fuori dalla Chiesa, e di restarvi per di più senza alcun impegno, neppure implicito, verso di essa" (Ibidem, parte I, p. 45)
"Ciò che mi fa paura è la Chiesa in quanto cosa sociale Non solo a causa delle sue macchie, ma proprio perché ha, fra gli altri, un carattere sociale. […] Esiste un ambiente cattolico pronto ad accogliere con calore chiunque vi entri. Orbene, io non voglio essere adottata in un ambiente, abitare in un ambiente dove si dice –noi- e far parte di questo –noi-, né sentirmi a casa mia in un ambiente umano." (Ibidem, parte I, pp. 13-15)
M.Marianelli, Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Roma: Città Nuova, 2004, cap. III, p. 49
S.Weil, Attesa di Dio, prefazione, p. XIV. Cfr. anche Ibidem, parte II, p. 129: "Chi ha le membra rotte da una dura giornata di lavoro […] porta nella carne […] la realtà dell'universo. La difficoltà per lui sta nel guardare e nell'amare […]. E' l'immenso privilegio che Dio ha riservato ai suoi poveri. Ma loro non lo sanno quasi mai. Nessuno glielo dice […]. Basterebbe cambiarne di poco la condizione per farli accedere ad un tesoro […]. All'epoca in cui esisteva ancora una civiltà popolare, di cui oggi si collezionano le briciole come pezzi da museo con il nome di folklore, il popolo probabilmente aveva accesso a questo tesoro. Anche la mitologia, parente assai stretta del folklore, ne è una testimonianza, se si sa decifrarne la poesia.", e ancora Ibidem, parte II, p. 142: "Fra le diverse forme di vita religiosa ci sono, come parziale compensazione delle differenze visibili, alcune equivalenze nascoste che forse anche l'intuito più acuto può soltanto intravedere. Ogni religione è una combinazione originale di verità esplicite e di verità implicite; ciò che è esplicito in una è implicito in un'altra."
" [ i poeti ] dissero che l'uomo era stato plasmato col fango, per opera di Prometeo. Presero un abbaglio, non nella cosa in se stessa, ma nel nome dell'artefice" (Lattanzio, Divinae Institutiones, II, par.10, 5-7, p. 184)
"Fin dalle origini infatti Egli mandò nel mondo uomini che per la loro purezza ed equità fossero degni di conoscere e di rivelare Dio e, inondati di spirito divino, predicassero l'esistenza di un Dio unico, il quale creò l'universo e dal fango plasmò l'uomo: poiché egli è il vero Prometeo che distribuì il tempo in periodi determinati, ordinandolo attraverso la successione delle stagioni" (Tertulliano, Apologeticum, par. XVIII, 2, p. 73)

"Mi sembra che la Scrittura stessa contenga la prova lampante che molto tempo prima del Cristo, all'alba della storia, vi è stata una rivelazione superiore […]. Non vedo quale altro significato si possa attribuire alla storia di Melchisedec e al commento che ne ha fatto San Paolo" (S. Weil, Attesa di Dio, parte I, p. 81)
M.C. Sala, Prefazione a S. Weil, Attesa di Dio, p.1
M.Marianelli, Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, cap. II, pp. 40-41
Si tratta di un inno omerico che narra del rapimento di Core/Persefone, figlia di Demetra/Cerere da parte di Ade, il dio dell'Oltretomba, che, costretto a restituirla da Zeus, riuscì ad ottenere di averla per sé almeno un terzo dell'anno facendole mangiare un chicco di melograno. Era una severa regola degli Inferi, infatti, che chi avesse gustato una pietanza proveniente dalle sue valli poi non potesse più ritornare in vita (il mito è in Apollodoro, Biblioteca, I, p. 16-17). Per la favola si veda invece S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, traduzione di M.H. Pieracci e C. Campo, Torino: Borla, 1967, p. 115
S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, p. 189. Sul silenzio di Gesù durante l'interrogatorio e la crocifissione concordano tutti e quattro i Vangeli (si veda, ad esempio, Matteo 27, 14 Marco 14, 61 Luca 23, 9 e Giovanni 19, 9). La citazione è di Isaia 53,7
Ibidem, p. 194
Ibidem, p. 196. La citazione è in Giovanni 3, 14
Eschilo, Prometeo Incatenato, Atto IV, v. 762
Si tratta del primo dramma della trilogia nota come Orestea (composta dall'Agamennone, appunto, Le Coefore e Le Eumenidi), con la quale Eschilo vinse le Grandi Dionisie del 458 a.C.
Eschilo, Prometeo Incatenato, atto III, vv. 443-444
"Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: -Elì, Elì, lemà sabactàni?- che significa: -Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?-" ( Matteo 27, 46)
Poiché anche in questo momento Cristo continua ad amare il Padre, e viceversa: "Dio ha creato per amore e fin d'amore. Dio non ha creato altro che l'amore stesso e i mezzi dell'amore. Egli ha creato tutte le forme dell'amore. Ha creato esseri capaci d'amore a tutte le distanze possibili. Alla distanza massima, la distanza infinita, è andato Dio stesso, poiché nessun altro avrebbe potuto farlo. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, lacerazione suprema, dolore senza pari, meraviglia dell'amore, è la Crocifissione […]. L'amore fra Dio e Dio, che è esso stesso Dio, è questo legame dalla duplice virtù; questo legame che unisce due esseri al punto di renderli indistinguibili e realmente uno solo; questo legame che si tende al di sopra della distanza e trionfa nella separazione infinita. L'unità di Dio nella quale si dissolve ogni pluralità, l'abbandono in cui crede di trovarsi il Cristo pur non cessando di amare perfettamente il Padre sono due forme della virtù divina del medesimo Amore, che è Dio stesso." (S. Weil, Attesa di Dio, parte II, pp. 177-180)
Si ricordi, infatti, che il Prometeo Incatenato fa parte di una trilogia delle cui altre due tragedie , il Prometeo Portatore del fuoco e il Prometeo Liberato appunto, si hanno solamente pochi e scarni frammenti (cfr. cap. II, nota 20)
S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, pp. 198-199
Cfr. cap. III, nota 14
"Avvinse Prometeo dagli svariati consigli con ceppi indissolubili […]Ma il forte figlio di Alcmena belle caviglie, / Eracle, lo uccise, allontanò dal crudele flagello/ il figlio di Giapeto e lo sciolse dagli affanni, / non contro il volere di Zeus Olimpio che regna nel cielo, […] così rispettandolo, rese onore al figlio suo insigne; e, per quanto adirato, cessò dalla collera che prima nutriva" (Esiodo, Teogonia, vv. 521-534)
"Così non è possibile ingannare la mente di Zeus, né sfuggirle. / Né infatti il figlio di Giapeto, Prometeo benefico, / evitò la sua ira tremenda, ma di necessità, / pur essendo molto sapiente, un grande legame lo trattiene" (Ibidem, vv. 613-616)
S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, p. 200
La Weil cita infatti Apocalisse 13, 8: "L'adorarono [la bestia] tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell'Agnello immolato."
M. Marianelli, Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, cap. III, p. 49
"Infine, non si dimentichi che Prometeo, […], è un dio che ha preso la folgore a Zeus per dare il fuoco agli uomini, per amore degli uomini, e che a causa di ciò è stato crocifisso. (Questo passo mostra che il fuoco di Prometeo non era il fuoco materiale). Si veda che cos'è la folgore nell'Inno di Cleante. San Luca, 12, 49: -Io sono venuto a gettare un fuoco sulla terra, e che voglio di più se l'incendio è già appiccato?-. Atti degli Apostoli: lingue di fuoco. San Matteo, parole di San Giovanni Battista: -Egli vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco-." (S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, p. 80)
D. Susanetti, Favole antiche. Mito greco e tradizione letteraria europea, cap. II, p. 57
"Presso i Greci il dio altro dal Dio supremo e nel contempo a lui identico viene dissimulato sotto una miriade di nomi che non lo velerebbero se non fossimo accecati dai pregiudizi. Infatti un'infinità di rapporti, allusioni e indicazioni spesso chiarissime mostrano l'equivalenza di tutti questi nomi fra loro […]. Alcuni di questi nomi sono: Dioniso, Prometeo, Amore, Afrodite celeste, Ade, Core, Persefone, Minosse, Ermes, Apollo, Artemide, Anima del mondo." (S. Weil, Attesa di Dio, parte II, pp. 208-209)
F. Condello, Prometeo. Variazioni sul mito, p. 57
"Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi […] Allora Pietro con gli Undici si alzò e parlò così: […] Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret […] voi, per mano di pagani, l'avete crocifisso e l'avete ucciso. Ora Dio lo ha resuscitato, liberandolo dai dolori della morte […] Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire" (Atti 2, 3-4/ 2,14/ 2, 22-23/ 2, 32-33)
"[…] egli è il vero Prometeo che distribuì il tempo in periodi determinati" (Tertulliano, Apologeticum, par. XVIII, 2, p. 73)
La lezione è disponibile sulla rivista online "Zetesis", -http:// www.rivistazetesis.it/ Prometeo2.htm-
Eschilo, Prometeo Incatenato, Atto III, vv. 444-450

Si ricordi, a questo proposito, il compassionevole Prometeo shelleyano, che più non vuole "che alcuna creatura vivente soffra" (P.B. Shelley, Prometeo Slegato, atto I, v. 305. Cfr. cap. II)
Eschilo, Prometeo Incatenato, atto III, v. 449
P. Brunel, Dizionario dei miti letterari, Prometeo, p. 533
Cfr. cap. II nota 5

ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in Lettere


UN VIAGGIO TRA PROMETEO E CRISTO.
Breve storia di un'analogia

Tesi di laurea in Letteratura e Civiltà Greca




Relatore: FEDERICO CONDELLO


Presentata da: GIACOMO BENEDETTI


Sessione Seconda
Anno accademico
2013-2014

INDICE

INTRODUZIONE………………………………………………………………………………......4

CAPITOLO I E LA GENESI DELL'ANALOGIA……………………………………………….6

CAPITOLO II E IL LUNGO SILENZIO PRIMA DI SHELLEY……………………………..12

CAPITOLO III E LA GRANDE FIORITURA DELL'ANALOGIA………………………….24

CAPITOLO IV E L'ANALOGIA DURANTE IL DECLINO DI PROMETEO……………...32

CONCLUSIONE…………………………………………………………………………………..43

IMMAGINI…………………………………………………………………………………….......45

BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………………………..46








Da Prometeo, incatenato nella Scizia per avere rubato il fuoco, l'errabonda Io sa che, giunta in Egitto, genererà dal "tocco" di Zeus, Epafo. Appare poi Ermete, minacciando che il fulmine lo colpirà se a Zeus non dice qual è l'avvenimento che sta per accadergli; e nella chiusa, scoppiato un tuono, Prometeo scompare. Questa composizione mitica si trova in modo indiretto nelle Colchidi di Sofocle, in Euripide non si trova affatto. La scena del dramma è la Scizia, sulla montagna del Caucaso. Il coro è formato da ninfe figlie di Oceano. Il centro è l'incatenamento di Prometeo.
(Prometeo Incatenato, Eschilo, Argomento)








Prometeo impastò acqua e terra, e creò gli uomini. A essi poi donò il fuoco, sottraendolo di nascosto a Zeus dentro una canna cava. Quando Zeus se ne accorse, ordinò ad Efesto di inchiodare il corpo di Prometeo sul monte Caucaso, che sorge nella Scizia. Infiniti anni Prometeo restò così incatenato: e ogni giorno un'aquila si avventava su di lui e gli divorava il fegato, che poi di notte ricresceva. Così Prometeo scontava la colpa di aver rubato il fuoco, fino al giorno in cui Eracle lo liberò.
(Biblioteca, Apollodoro, I, 7)



INTRODUZIONE
"L'ambiguo peso del tempo passato nell'idea e nella sostanza dell'Europa è il frutto di un dualismo primordiale. E' il mio quarto assioma: la doppia eredità di Atene e Gerusalemme" George Stainer
Passeggiando per il Musée Moreau di Parigi, è possibile ammirare, tra le numerose opere inerenti alla mitologia classica, che tanto interessava al maestro, il suo Prometeo, dipinto attorno al 1868. Per l'osservatore che ben conosce il mito del Titano, è immediata l'individuazione dei classici mitologemi che caratterizzano la sua vicenda: l'incatenato ad una rupe tra i monti del Caucaso (con la presenza di una colonna, riportata, tuttavia, solamente dalla versione del mito di Esiodo), l'avvoltoio che gli rode il fegato come punizione del suo atto ed un secondo avvoltoio morto ai piedi del Titano, col Titano stesso che sembra spingere il proprio sguardo privo di sofferenza verso un orizzonte lontano e sereno come probabile preludio della sua liberazione da parte di Ercole. Ma quando lo sguardo si sposta dalla precisione di questi dettagli alla sommità del capo di Prometeo, l'osservatore non può che rimaner perplesso innanzi all'anomala fiamma che lo sovrasta, la quale, più che ricordare il furto del Titano all'Olimpo, sembra rimandare all'episodio della manifestazione dello Spirito Santo agli Apostoli il giorno della Pentecoste. Ma da precursore del Simbolismo, come dai più è considerato, proprio questo potrebbe essere stato l'intento di Moreau: suggerire come, in realtà, il fuoco sottratto agli dei e donato da Prometeo agli uomini sia la prefigurazione del dono dello Spirito Santo di Cristo agli Apostoli dopo la sua assunzione in cielo, la conoscenza simboleggiata dalla capacità di parlare ed intendere tutte le lingue del mondo, motivo per cui è posto al di sopra del Titano e non nella ferula cava che esige il mito. Per quanto affascinante, non è certo un'analogia immediata quella proposta dal pittore: il confronto tra Prometeo e Cristo, infatti, pone in gioco due sfere, quella della mitologia Pagana e quella del Cristianesimo, considerevolmente distanti tra loro (inutile ricordare come il Paganesimo sia stato il principale avversario della religione cristiana, la quale è riuscita a sradicarlo solamente dopo secoli di persecuzioni, fino alla celebre data dell'Editto di Tessalonica, il 27 febbraio 380, con cui il Cristianesimo venne proclamato religione ufficiale dell'Impero Romano da parte dei principes Graziano e Teodosio). Eppure si tratta di un parallelismo, come testimoniano i diversi autori ed illustri personaggi che hanno dato vita alla corrente che lo propone, che hanno continuato a nutrirla e che continuano tuttora (ancora nel 1998 se ne sente parlare e nulla esclude che potrebbe in futuro essere ripreso), di cui il pittore francese altri non è che un ulteriore testimone, e neppure il primo, che è perdurato nel tempo, nonostante i grandi mutamenti introdotti dall'azione della Storia non solo nella fisionomia del mondo, ma pure nel pensiero dell'uomo. Del resto, sosteneva il professor George Stainer, fa parte del nostro essere cittadini europei il cercare una sorta di punto medio tra gli ideali contrastanti del mondo greco e della religione cristiana, quindi si tratta di una operazione in fondo comune e che, in realtà, per quanto complessa, scaturisce dall'essenza stessa di essere appartenenti a questo continente così ricco di storia. L'obiettivo che qui ci si è proposto sarà, dunque, un'immersione nel tempo a partire dal I° secolo a.C. (epoca in cui si attestano le prime percezioni di un collegamento tra il martire del Caucaso e quello del Golgota) e da qui seguire le orme lasciate dallo sviluppo dell'analogia tramite quegli autori che l'hanno voluta analizzare o, quantomeno, hanno dato prova nelle loro opere di averla ben presente. Si verificherà, così, quali suoi aspetti sono stati citati da ciascun illustre personaggio sopra cui si sosterà, se vi sono aspetti in comune con altri autori e quale percezione del mito di Prometeo ciascuno possedeva (diversa da autore ad autore, come si vedrà) in modo da intuire per quale ragione proprio in quel periodo storico e proprio in quell'opera Cristo e Prometeo sono stati messi a confronto, fino a giungere al'accenno più recente di un argomento che mai è scemato del tutto dopo la sua nascita.




CAPITOLO I E LA GENESI DELL'ANALOGIA
"Fin dalle origini infatti Egli mandò nel mondo uomini che per la loro purezza ed equità fossero degni di conoscere e di rivelare Dio e, inondati di spirito divino, predicassero l'esistenza di un Dio unico, il quale creò l'universo e dal fango plasmò l'uomo: poiché egli è il vero Prometeo che distribuì il tempo in periodi determinati, ordinandolo attraverso la successione delle stagioni" Tertulliano
Il nome di Prometeo, così come i nomi degli altri celebri dei della mitologia classica, sia romana che greca, risuona spesso negli autori della prima era cristiana e non solamente per invitare i fedeli a guardarsi dalla falsità dei miti che li caratterizzano e dei riti che li celebrano. Si tratta di un atteggiamento, però, che non deve sorprendere: in primo luogo, come nota giustamente il Seznec, neppure i Padri della Chiesa potevano escludere dall'insegnamento e dall'educazione le grandi opere classiche, veri e propri serbatoi di esempi e sapere, né, da uomini di cultura quali erano, ignorarle del tutto, se non altro per poter apostrofare i propri avversari con maggior efficacia, sul loro stesso "campo". In secondo luogo, sempre per la stessa ragione per cui nessun autore voleva od osava contrastare la grandezza dei maestri della poesia come Omero o Virgilio, lo sforzo degli antichi fu sempre quello di rendere la mitologia pagana, per così dire, inerte, non quello di cancellarla del tutto dalla memoria, e questo tramite due procedimenti: o appoggiando la teoria del filosofo Evemero da Messina (330-250 a.C.), per cui gli dei e gli eroi classici altro non sono che grandi sovrani o grandi uomini divinizzati da quelli del loro tempo, oppure riducendola a pura allegoria, col rischio, tuttavia, di ingannarsi nell'interpretare certe vicende mitiche (e, difatti, non tutti i ministri della Chiesa approvavano queste rischiose operazioni; Gregorio di Tours, ad esempio, ammoniva i suoi lettori a lasciare da parte gli dei per dedicarsi solo alle Sacre Scritture). Così, dunque, la mitologia Pagana poté facilmente sopravvivere ed attraversare il Medioevo fino al Rinascimento, dove riacquistò poi nuovo vigore. Tuttavia, se numerose sono le citazioni che riprendono il mito di Prometeo, dal racconto che fa di lui il creatore dell'uomo fino a quello, più celebre e conosciuto, che lo vuole ladro del fuoco e martire sul Caucaso, molto meno numerose di quanto ci si potrebbe aspettare sono quelle che lo mettono effettivamente in parallelo con Cristo, riducendosi potenzialmente a soli tre autori: Taziano il Siro, Quinto Settimio Fiorente Tertulliano e Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio.
Delle opere sopravvissute al declino medievale appartenenti al teologo Taziano (120ca - 180ca d.C), vissuto in piena dinastia Antonina, di rilievo è ciò che racchiude il capitolo XXI del Discorso ai Greci, dedicato ad un confronto tra Gesù ed alcuni dei o semidei pagani. Qui, in una lista che pone il Titano affianco ad Asclepio ed Eracle come esempio di divinità che subirono sofferenze o la morte, Taziano afferma che:
Prometeo incatenato al Caucaso ha subito il castigo per aver beneficiato gli uomini
Proponendo, così, un parallelismo con Cristo dal punto di vista dell'amore per l'uomo: come Prometeo ha tanto amato gli uomini da difenderli nel momento in cui Zeus voleva annientarli per costruire una nuova civiltà, così Gesù è salito consapevolmente sulla croce per amore di quell'umanità alla quale era stato mandato dal Padre per annunciare la salvezza nel Regno dei Cieli. Ma si tratta di un confronto, afferma Taziano qualche riga più in basso, che neppure vale la pena citare poiché
Ciò che noi concepiamo di Dio, nemmeno è lecito mettere a confronto con quelle cose che si rivoltano nella materia e nel fango
Riferendosi in questo modo alle credenze dei greci (si tratta pur sempre di un'opera in cui l'autore assiro cerca di smontare la mitologia Pagana). E neppure ritenere Prometeo un'autentica divinità se al capitolo XXXIX della stessa opera lo trasforma in un personaggio storico vissuto ai tempi del re di Argo Triopante, come nota De Durand.
Più complesso è il discorso per Tertulliano (155ca - 230ca) poiché il parallelismo che le sue citazioni suggeriscono, una nell'Apologeticum e l'altra nel Adversus Marcionemè, in realtà, discutibile. Nella prima di queste due opere, Tertulliano sostiene, infatti, che:
Viros enim iustitiae innocentia dignos deum nosse et ostendere a primordio in saeculum emisit spiritu divino inundatos, quo praedicarent deum unicum esse, qui universa condiderit, qui hominem de humo struxerit (hic enim est verus Prometheus qui saeculum certis temporum dispositionibus et exitibus ordinavit)
Non solo qui l'autore cristiano si richiama ad una versione secondaria del mito, ovvero ad un Prometeo creatore dell'uomo tramite il fango, ma neppure si riferisce a Cristo, suggerendo invece un collegamento con il racconto della Genesi per cui Dio plasmò l'uomo dalla polvere e diede vita a queste statue tramite un soffio divino. Se, dunque, effettivamente Tertulliano propone un rimando alla tradizione cristiana, non si tratta però della vicenda di Gesù, cosa che induce a scartare la citazione. Rimane la citazione dell'opera contro Marcione:
Omnia torpent, omnia rigent; nihil illic nisi feritas calet, illa scilicet quae fabulas scenis dedit de sacrificiis Taurorum et amoribus Colchorum et crucibus Caucasorum. Sed nihil tam barbarum ac triste apud Pontum quam quod illic Marcion natus est […] gelu fragilior, Istro fallacior, Caucaso abruptior […] penes quem verus Prometheus deus onnipotens blasphemiis lancinatur
La quale, come si può notare, si riduce, in realtà, ad un paio di parole di rilievo, "le croci del Caucaso", ed un nuovo riferimento a Prometeo. Il primo caso potrebbe effettivamente richiamare le tre croci del Golgota, di Gesù e dei due ladroni crocifissi ai suoi lati, ma non è da trascurare l'ipotesi riportata dal de Durand, ma suggerita dal poeta Thomas Stanley (1625-1678), per cui Tertulliano utilizzi questa espressione soltanto perché ancora al suo tempo la crocifissione era la punizione per tutti i ladri (e Prometeo è annoverato tra essi per aver sottratto il fuoco dall'Olimpo), escludendo, in questo modo, qualsiasi probabile riferimento al divino, senza contare che gli altri due esempi citati col supplizio, Ifigenia e Medea, sono entrambi soggetti mitologici. Per quanto riguarda invece la seconda citazione di Prometeo, da notare è la somiglianza con l'Apologeticum: se in quest'ultimo si legge che "hic est verus Prometheus", nel Adversus Marcionem si trova "verus Prometheus deus omnipotens blasphemiis lancinatur", motivo per cui questo accenno al Titano potrebbe ancora riferirsi a quel "Dio che ha creato l'Universo". Ma i due termini "blasphemiis lancinatur" [straziato con le torture] limitano questa ipotesi, poiché richiamano invece le sofferenze della Passione, dalla corona di spine alla crocifissione vera e propria. Questa si, dunque, potrebbe potenzialmente essere una traccia dell'analogia che qui si indaga, questa volta tra l'incatenamento e il supplizio che Prometeo dovette subire da parte di Zeus dopo aver consegnato agli uomini quel fuoco che egli aveva ritirato dal mondo come punizione, e le sofferenze invece che Cristo dovette sopportare dopo essere stato consegnato nelle mani dei sui nemici.
Infine non rimane che Lattanzio (250ca - 303/317ca), vissuto in un periodo di grande turbamento per l'impero romano, perché ormai nelle mani dei cosiddetti "imperatori soldato", ma in cui il Cristianesimo sta acquisendo solidità (probabilmente l'autore africano era ancora vivo quando l'imperatore Costantino pose ufficialmente fine alle persecuzioni cristiane con l'Editto di Milano del 313 a.C.). La sua interessante citazione di Prometeo si trova nel Divinae institutiones, ma ancora una volta è piuttosto discutibile. Nel secondo dei sette libri che compongono l'opera, infatti, Lattanzio riporta la leggenda per cui Prometeo plasmò l'uomo dal fango, ritenendo tuttavia che, pur trattandosi di un'origine veritiera, questa dell'uomo, i poeti antichi che hanno riportato tale mito si siano ingannati sul vero nome dell' "artefice", che non è stato il Titano, bensì Dio:
Namque hominem de luto a Prometheo factum esse dixerunt. Res eos non fefellit, sed nomen artificis
Emerge, dunque, un altro parallelismo col Dio creatore nominato dalla Genesi, ma senza alcun accenno alla vicenda di Cristo. Del resto l'autore latino, esattamente come Taziano, neppure riteneva Prometeo un dio se afferma, poco più in basso, che egli fu un uomo, come dimostra il supplizio sul Caucaso (supplizio che, se fosse stato veramente un dio, non avrebbe potuto subire):
[…] de diis autem illum non fuisse, poena eius in Caucaso monte declarat
Inoltre Lattanzio, proiettando lo sguardo poco oltre la vicenda di Prometeo nella storia del mondo, cioè al grande diluvio con cui Zeus distrusse l'umanità lasciando vivo solamente il figlio del Titano, Deucalione, mito che l'autore conosceva tramite le Metamorfosi di Ovidio, non riesce a spiegarsi per quale ragione il Titano abbia creato gli uomini con la creta se era loro destino essere spazzati via:
Si ergo cataclysmus ideo factus est, ut malitia, quae per nimiam multitudinem increverat, perderetur: quomodo fictor hominis Prometheus fuit? Cuius filium Deucalionem iidem ipsi [ poetae scriptoresque] ob iustitiam solam esse dicunt servatum. […] Apparet ergo, falsum esse, quod de opificio Promethei narrant
Rimane però di particolare interesse questa teoria, per cui pure i poeti antichi, anche se non in contatto con le Sacre Scritture, parteciparono alla verità da esse riportata, e così, se era vero che l'uomo era stato creato dal terreno, solo sul nome di colui che aveva portato loro alla vita si erano discostati dalla realtà.
Per il resto, le altre citazioni di Prometeo dell'era Cristiana non suggerisco analogie. Numerosi, come si è detto, sono gli autori che nominano il figlio di Giapeto in qualche asserzione, alcuni dei quali di un'autorità non certo trascurabile (citeranno Prometeo, ad esempio, Sant'Agostino ed Eusebio), ma si tratta soprattutto di tentativi di donare a Prometeo una collocazione storica, dunque di provare come in realtà non sia stato un dio o un semidio. Di parallelismi con la vicenda di Cristo non vi è traccia.






CAPITOLO II E IL LUNGO SILENZIO PRIMA DI SHELLEY

"Calma l'angoscia di quello sguardo acceso; serra quelle labbra smorte; la tua fronte straziata dalle spine non goccioli sangue; esso si mischia con le tue lacrime!" Percy Bysshe Shelley

Durante il periodo medievale continuano ad agire quei meccanismi sorti nel corso della prima era cristiana: la mitologia non viene trascurata dai letterati e dagli uomini di chiesa, ma continua a popolare i discorsi e gli scritti dell'epoca grazie alle teorie evemeristiche, nonché le allegorie, che si perpetuano pure in questo periodo (talvolta con esagerazioni evidenti: non mancano manoscritti o sculture in cui gli dei vestono addirittura con abiti del tempo o assumono pose e attributi ecclesiastici). E così, per imbattersi in vere e proprie differenze con le età precedenti si deve attendere l'avvento Rinascimento; un'epoca, cioè, dove per la prima volta dopo secoli, la mentalità viene a subire un mutamento notevole, e l'interesse diviene quello di riportare in vita gli anni d'oro delle poleis greche e della civitas romana. Teorie evemeristiche ed allegorie persistono, ma evolvendosi: quegli antichi dei, in realtà grandi uomini o sovrani, ora diventano patroni di città e popoli (e la mania di cercarsi un patrono coinvolgerà numerosissimi paesi in questo periodo), mentre le allegorie cominciano ad essere meno subordinate alla religione, poiché lo sforzo dei letterati e degli studiosi si concentra ora nel recuperare i testi originali dei grandi autori del passato classico greco e romano, confrontando tra loro i codici custoditi nei monasteri e nelle biblioteche sopravvissute alla distruzione dei secoli precedenti, alla ricerca del vero messaggio che gli antichi avevano voluto proporre, privo, cioè, delle mediazioni e delle storpiature comparse in età cristiana e medievale. Tutto questo, come è evidente, influisce a fondo sull'interpretazione del mito di Prometeo, che ora, assieme ad altri miti, comincia ad allontanarsi sempre di più dal mondo cristiano, ma anche laddove un collegamento con le Sacre Scritture ancora sussiste (il Titano verrà, ad esempio, paragonato ad Adamo per il loro rapporto col proibito: Prometeo col fuoco, il primo uomo col frutto dell'albero del Bene e del Male, o anche, ma in maniera più elaborata, con Caino) nessuna riguarda la vicenda di Gesù. Il mito, così, nelle sporadiche opere dove appare (esso ancora non vantava un'ampia diffusione a quel tempo) subisce un lento mutamento che porta Prometeo a divenire "da dio a uomo", in perfetta sintonia con l'epoca, che dell'uomo fece il centro del cosmo, continuando tuttavia a rimaner imprigionato all'interno dell'allegoria (si pensi ad esempio a Francesco Bacone che, nel De sapientia veterum, fece di Prometeo l'emblema della scienza o a Calderòn de la Barca che ne fece invece simbolo della ragione contrapposta alla passione, simboleggiata invece dal fratello Epimeteo, ne La estatua del Prometeo), fino ad arrivare al Settecento in cui, in linea coi venti rivoluzionari che attraversano in questo periodo gran parte dell'Europa, si tramuterà nel simbolo del rivoluzionario che si oppone alla tirannia; e tra le opere che "adottano" questo rivoluzionario spicca certamente quella del giovane Goethe: il suo celebre Inno a Prometeo, inizialmente composto per aprire il terzo atto di un dramma incominciato nel 1773 e rimasto poi incompiuto, in cui gli dei vengono aspramente apostrofati da un titano fiero di rimanere sulla terra a plasmare i SUOI uomini a SUA immagine. Ma si tratta di un inno, assieme alla sua opera prometeica successiva, Pandora, di importanza fondamentale poiché reintrodurrà definitivamente Prometeo nell'interesse dei letterati del tempo, con una rinnovata attrazione per il Prometeo Incatenato eschileo, e proprio in un periodo, ormai l'Ottocento, dove la mentalità sta subendo un nuovo mutamento in forte contrasto con l'Illuminismo ed il Neoclassicismo che hanno dominato fino ad ora, dove l'imitazione dell'antico e della razionalità vengono liquidati e sostituiti con le riscoperte dimensioni del sentimento e della religione; in poche parole, in un periodo in cui il Romanticismo ha appena cominciato ad affascinare l'Europa. Tutto questo spiega per quale ragione solamente ora, dopo secoli di silenzio, torna ad emergere l'analogia tra Prometeo e Cristo, in un autore che la presenterà in un'opera considerata come la più grande tra quelle dedicate al mito del Titano dopo la tragedia eschilea ed in una maniera del tutto nuova rispetto a come si era presentata in passato nei trattati degli autori cristiani: l'opera è il Prometheus Unbound [Prometeo Slegato] e l'autore è Percy Bysshe Shelley (1792-1822).
Si è affermato che l'Ottocento, o meglio il Romanticismo, riporta Eschilo ed il Prometeo Incatenato a lui attribuito nuovamente in auge, e ciò non solo per l'influenza di Goethe sul panorama letterario dell'epoca ma anche per quell'arcaico fascino che il primo dei grandi tragici suscita ora nei letterati; tuttavia sarebbe un errore pensare di poter riconoscere nel capolavoro di Shelley la celebre tragedia, o i frammenti dell'altro dramma che, assieme all'Incatenato e al Portatore del fuoco, compone la trilogia, ovvero il Prometeo Liberato, se non in qualche sporadico passaggio, poiché non era nell'intenzione del poeta quella di rifarsi ad esse, come spiega nella prefazione al suo capolavoro. Si tratta, dunque, di "un dramma, con personaggi e struttura di un genere mai tentato prima" ed in cui, sostiene G. Cerulli, non si ha a che fare con solo una storia, bensì con un intreccio di più vicende, mitologiche e non, e non con solo un personaggio, ma numerosi. Se l'opera si apre con Prometeo legato alla sua rupe come vuole la tradizione eschilea, infatti, subito se ne separa presentando un Titano che, come il martire di Goethe, è fiero del suo dolore:
"Tremila anni d'ore sempre insonni,
d'istanti sempre divisi da spasmi acuti tanto,
che paressero anni, tormenti, solitudine,
disprezzo, disperazione –quest'è il mio impero-
che ha gloria di gran lunga superiore a quel che sorvegli
dal tuo trono ch'io non t'invidio affatto, o Dio potente!"

ma, soprattutto, pentito della maledizione scagliata contro Zeus, quando questa gli viene ripetuta da un fantasma del figlio di Crono invocato dalla madre Terra:
"Io me ne pento. Sono brevi e vane
le parole. Il dolore nell'istante
è cieco. E cieco è stato il mio. Io vorrei
che nessuno soffrisse, tra chi è vivo."

Vi sono inoltre personaggi che in Eschilo non appaiono: il secondo atto si apre ad esempio con la sposa di Prometeo, Asia, in visita alla grotta del misterioso ed arcaico Demogorgone, altro personaggio assente nell'Incatenato di Eschilo, e non un coro di pietose Oceanine si reca al cospetto del Titano, bensì una schiera di Furie, giunte per terrorizzarlo, non un Ermes apatico innanzi alla sofferenza di Prometeo, ma pietoso e partecipe. Inoltre costituiscono il costante sfondo del dramma spiriti di diversa natura: Echi, Ore e spiriti della terra, come fonti, venti o montagne. La vicenda stessa è un dramma distante da quello eschileo: mentre il Titano soffre incatenato alla rupe del Caucaso (I atto), Asia, assieme alla sorella Pantea, giunge alla grotta dove dimora Demogorgone, sotto la guida di alcuni Spiriti che, cantando, la invitano a procedere sempre più a fondo nell'antro, che le rivela con elusive parole come esista una forza, l'Amore, che governa sia uomini che dei (II atto). A questo punto, Demogorgone stesso si muove contro Zeus e con la forza di una sola parola, "Eternità", rovescia il figlio di Crono dal trono durante un concilio con gli altri dei nel quale si vantava della sua onnipotenza, trascinandolo con sé nell'abisso e ponendo così fine alla sua tirannia (III atto). Prometeo viene così liberato dalla sua prigionia da Ercole e può infine ricongiungersi con Asia, mentre la Terra esulta di gioia ed il male che alimentava il regno di Zeus si dissolve, decretando l'inizio di una nuova era simile ad un'eterna Primavera e priva di istituzioni, quelle che Prometeo definiva "scettri, tiare, spade, catene e volumi di torto ragionato, commentato dall'ignoranza" e Demogorgone glorifica i due sposi, proclamando la vittoria della Gentilezza, della Virtù, della Sapienza e della Pazienza, liberatesi con la liberazione del Titano (IV atto). In un'opera, così, la cui astrazione raggiunge un livello mai toccato prima ed in cui ogni personaggio e gesto è un simbolo che richiama secoli di allegorie, ma anche opere contemporanee, dove sta, dunque, il parallelismo con Cristo?
Già l'atteggiamento del Titano ad inizio dramma fornisce una prima risposta: elevare la pietà ad un livello tanto sommo non solo da pentirsi della propria maledizione, ma pure da desiderare che più nessuna creatura soffra, è un atteggiamento che si accosta certamente al messaggio evangelico di Gesù, che, del resto, è anch'esso mosso più volte dalla compassione nel compiere i suoi miracoli (in primis la resurrezione di Lazzaro). Ma sono le torture a cui le Furie sottopongono il Titano quelle che rivelano il parallelismo più evidente: esse, infatti, sembrano quasi trasformare la rupe del Caucaso nel Golgota se Pantea, assistendo alla scena, ha un'improvvisa visione di
"Un giovane dallo sguardo paziente inchiodato ad una croce"
Un'affermazione, questa, che è chiaramente una rapida sintesi della condizione di Gesù al culmine della Passione. Inoltre non deve sfuggire che il pilastro fondamentale di tutto il dramma è l'Amore. Questa, infatti, è la vera forza che pone sotto il suo dominio sia gli uomini che gli dei: Zeus è un dio onnipotente, il cui potere si estende su ogni singolo elemento del mondo tranne lo spirito dell'uomo, ma anch'esso in realtà è solamente uno schiavo, afferma Asia, e Demogorgone conferma la sua convinzione:
"Tutti gli spiriti che servono ad esseri cattivi sono schiavi:
Tu sai se Giove lo sia o no"
L'Oceanina sposa di Prometeo vuole allora sapere quale sia il suo padrone, quale divinità, cioè, può estendere il suo potere persino sul tiranno del mondo, e la risposta, che già presagiva in realtà nel suo animo, non tarda ad arrivarle:
"Se l'abisso potesse dar fuori i suoi segreti…ma una voce
manca, la verità assoluta è senza immagine.
Che gioverebbe infatti comandarti di guardare
il mondo roteante? Comandarti di parlare
del Fato, del Tempo, dell'Occasione, del Caso, del Mutamento? A queste
cose, tutto è soggetto, salvo l'Amore eterno."
E quando Zeus viene definitivamente rovesciato dal suo trono è sempre l'Amore che trionfa sul mondo ormai libero dal male, come annuncia Demogorgone, una volta compiuto l'atto:
"L'amore balza dal suo trono solenne di potere paziente
nel cuore del saggio, dall'ultima ora vertiginosa
di tremenda costanza, dal ciglione sdrucciolevole, scosceso,
angusto dell'agonia, simile a una rupe,
e stende sul mondo le sue ali risananti"
Insomma, l'Amore costituisce il costante sfondo di tutto il poema shelleyano, come già il giovane Pavese, affascinato dal poeta inglese, aveva intuito nel tradurlo, e si riconosce in Prometeo come in ogni personaggio del dramma ad esclusione di Zeus, che, difatti, viene spodestato. Ma esso è costante sfondo pure nel messaggio evangelico di Gesù, che impone di manifestarlo non solamente nei confronti dei propri congiunti, poiché nullo sarebbe il guadagno, ma anche, e soprattutto, nei confronti dei propri nemici e del Padre, poiché due sono i veri e grandi comandamenti:
"Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente". Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo è poi simile al quello: "Amerai il prossimo come te stesso". Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti.
Che Gesù ricorda ai propri discepoli anche la sera dell'Ultima Cena, prima della Passione:
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni e gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.
L'analogia è evidente, ma nota il Giorello che, in realtà, non era intenzione di Shelley quella di creare un Prometeo in cui si riconoscesse la figura di Cristo, poiché nella sua paziente resistenza al potere, più che accostarsi a Gesù, il Titano assomiglia piuttosto a Satana, dal quale si discosta solamente perché rifiuta qualsivoglia vendetta o desiderio di potere. Shelley stesso, infatti, come spiega nella prefazione al dramma, era convinto di questo:
La sola creatura immaginabile somigliante in qualcosa a Prometeo, è Satana; e Prometeo, a mio giudizio, è un carattere più poetico che Satana, poiché, oltre al coraggio, alla maestà e alla ferma e paziente opposizione alla forza onnipotente, lo si può descrivere esente dalle macchie dell'ambizione, invidia, vendetta e desiderio d'un ingrandimento personale […]. Ma Prometeo è il tipo della più alta perfezione di natura morale e intellettuale, spinto dai più puri e più veri motivi ai fini migliori e più nobili
Del resto, non solo Prometeo impone a quel giovane di trattenere la sua angoscia e si rifiuta di pronunciare il suo nome nel timore che diventi un preludio alle persecuzione compiute dai suoi fedeli:

"Calma l'angoscia di quello sguardo acceso;
serra quelle labbra smorte; la tua fronte straziata dalle spine
non goccioli sangue; esso si mischia con le tue lacrime!
Chiudi, chiudi in pace e in morte quegli occhi torturati,
sì che i sussulti penosi della tua agonia non scuotano più la croce,
e quelle dita pallide non tentino più i grumi delle tue ferite
Oh, orribile! Io non dirò il tuo nome:
esso è divenuto una maledizione. E vedo, vedo
i saggi i moti i nobili e i giusti,
che i tuoi schiavi odiano perché son simili a te,
scacciati, alcuni, con vili bugie dalla casa del loro cuore,
una casa presto scelta e tardi compianta;
come le lonze incappucciate azzannano la cerva scovata
incatenati, altri, a cadaveri in prigioni insalubri:
altri infine –e non odo sghignazzare la folla?-
impalati su fuochi lenti. E grandi reami
mi fluttuano ai piedi, come isole sradicate dal mare:
i loro figli sono impastati nel sangue comune
dalla luce rossa delle proprie case ardenti"

ma anche Shelley stesso, in una lettera, si dice stanco della oltremodo nota rappresentazione dell'agonia di Cristo:
"Non se ne può più di vedere quella figura monotona e agonizzante, sempre nello stesso, prestabilito momento del suo supplizio"
Il Prometeo shelleyano, in linea col suo autore che, nel costruire la sua opera, afferma di essersi sentito ispirato da "una passione per riformare il mondo", lascia morire il Cristo, e definitivamente, poiché, in realtà, per il suo regno auspica l'assenza di qualsivoglia istituzione, Chiesa compresa, come rivela uno Spirito dell'Ora, interrogato sul futuro del mondo privo della tirannia di Zeus che egli ha previsto:
Ed ecco! I troni erano vuoti e gli uomini andavano
l'uno coll'altro, come fanno gli spiriti:
nessuno adulava più e nessuno calpestava; sulle fronti umane
non stava più inciso odio, sdegno, paura,
egoismo o disprezzo di sé, come sulla porta dell'inferno sta scritto
-Lasciate ogni speranza voi che entrate- […]
troni, altari, seggi di giudici e prigioni –nei quali
e accanto ai quali, da miserabili venivano portati
scettri, tiare, spade, catene e volumi
di torto ragionato, commentato dall'ignoranza
-erano come quei monumenti mostruosi e barbarici
i fantasmi di una gloria dimenticata,
che dai loro obelischi intatti guardano
in trionfo sui palazzi e sulle tombe
di quelli che furono i loro conquistatori e si dissolvono ora d'intorno.
Questi monumenti rappresentavano all'orgoglio dei re e dei sacerdoti
una fedeltà oscura, ma devotissima, una potenza grande
come il mondo che essi devastavano e son ora
soltanto un mezzo di stupore […]
Rivelazione nella quale pure vi è spazio per una citazione diretta dall'inferno dantesco. Se, dunque, anche Shelley riprende la tradizione di vedere in Prometeo una pagana prefigurazione di Cristo, ed effettivamente, così, propone un parallelismo tra i due personaggi, tuttavia questa tradizione la ribalta totalmente, creando un personaggio "in cui la fierezza della pietas […] rappresenta l'antitesi della debolezza del perdono cristiano", un personaggio, cioè, che vuole essere superiore al Figlio di Dio. Ma se anche si assiste a tale rovesciamento, a Shelley deve essere comunque attribuito il merito di fornire una considerevole spinta ad un'analogia che fino ad ora è riuscita a trascinarsi a stento, poiché da questo momento il panorama letterario dell'epoca si arricchirà di autori che ne parlano.












CAPITOLO III E LA GRANDE FIORITURA DELL'ANALOGIA
"Ed ecco, quel Prometeo che nella fatale cecità del nostro giudizio abbiamo tanto perseguitato, se lo avessimo scelto al posto del fratello secondo i suoi alti meriti, ora il regno di Dio sulla terra sarebbe in pieno fiore, e i miei figli sarebbero vivi e il mondo godrebbe il possesso imperituro del prezioso gioiello della figlia di Dio" Carl Spitteler
L'Ottocento è il secolo di Prometeo. Il mito invade letteralmente il panorama letterario del periodo e si moltiplicano gli elogi ora di un Prometeo inventore delle scienze e delle arti (prende questa via, ad esempio, Friedrich Schlegel), ora artista creatore (si veda August Wilhelm Shlegel o Honoré de Balzac), ora genio incompreso (come il Titano di George Byron o Victor Hugo) ora come Napoleone in persona. Si pensi ancora al Prometeo colpevole che emerge dal Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley del 1818 o quello delle Operette Morali del Leopardi (prosecuzione di una corrente che vedeva nel Titano una figura negativa, già presente nel Quattrocento e sottolineata soprattutto da Russeau) e non si tralasci neppure quella corrente della seconda metà del secolo che, stanca ormai del ribelle che porta alla caduta degli dei, propende per un'alleanza tra Prometeo e Zeus.
In questa grande ripresa della vicenda prometeica, non può che trovare spazio pure l'analogia con Cristo e in diversi autori che si pongono sulla scia di Shelley. Quasi contemporaneamente allo Slegato, infatti, è lo scrittore francese Joseph de Maistre che propone un nuovo parallelismo tra i due personaggi nell'opera nota come Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, del 1821. Si tratta di una serie di undici colloqui risalenti al 1809, tra tre personaggi di fantasia (il Conte, il Senatore ed il Cavaliere) che vertono sugli argomenti più disparati: dalla guerra all'Illuminismo, dalle malattie alla fisica, ma soprattutto la religione e tutte le sue sfaccettature in rapporto con gli altri argomenti affrontati, le preghiere, la sofferenza, la teologia nel suo insieme, con evidente tono reazionario e controrivoluzionario (celebre, ad esempio, è l'elogio del boia inserito nel settimo colloquio). Uno di questi argomenti, discusso nel IX colloquio, riguarda la
reversibilità delle sofferenze dell'innocente a favore dei colpevoli
e la fede nella virtù del sacrificio per l'umanità, che necessariamente è stata impressa nell'uomo da Dio stesso poiché
Per quanto la storia ci permette di spingere le nostre ricerche nei tempi più remoti, notiamo che tutte le nazioni […] credono ai sacrifici come mezzi per placare i loro dei offesi, cioè all'offerta delle sofferenze di altri uomini e animali. Mai questa opinione è potuta derivare dalla ragione, poiché la contraddice; né dall'ignoranza che non ha mai potuto inventare un espediente così inesplicabile…né dall'artificio dei re e dei sacerdoti al fine di dominare il popolo […] la troviamo nello spirito dei selvaggi remotissimi che vengono scoperti ai giorni nostri e che non hanno né re né sacerdoti. Essa dunque deve derivare da un istinto naturale o da una rivelazione soprannaturale.
E questo dogma il Cristianesimo lo professò a partire dalla morte di Cristo, tramite la quale
Comprendemmo perché l'uomo avesse sempre creduto che un'anima poteva essere salvata da un'altra, e perché l'uomo avesse cercato sempre la sua rigenerazione dal sangue. Senza il Cristianesimo l'uomo non sa chi egli sia perché si trova isolato nell'universo e non può paragonarsi a nulla: il primo servizio che gli rende la religione è di mostrargli quanto è costato: -Guardatemi, è Dio che fa morire un Dio.-
Proprio la citazione riportata dal Conte nel suo discorso rivela l'analogia, poiché quest'ultima è tratta direttamente dal Prometeo Incatenato eschileo (atto I,v. 92). Il sacrificio del Titano per l'umanità, il dono del fuoco agli uomini nonostante la consapevolezza della pena che ne sarebbe derivata, viene evidentemente considerato come prefigurazione del sacrificio di Gesù per i peccatori, con la sola differenza che mentre nel mito è il sacrificio di un colpevole per uomini innocenti ed indifesi (di fatto Prometeo è un ladro), nella vicenda della Passione è un innocente che si sacrifica per l'umanità peccatrice. Del resto è ferma convinzione dei tre interlocutori che, in realtà
Mai vi furono nel mondo avvenimenti eccezionali che in qualche modo non fossero stati predetti
Resta solo da spiegare l'apparente antitesi che si crea nel momento in cui le parole recuperate dal verso eschileo vengono attribuite a Cristo: come può Gesù, infatti, essere un Dio ucciso da un altro Dio? La risposta è fornita dal Conte stesso:
Dio accetta volentieri le sofferenze del Cristo come un'espiazione del genere umano […] ma per quale motivo Dio accetti queste punizioni o a quale fine esse possano servire è un punto sul quale il Cristianesimo mantiene il silenzio; e questo silenzio è saggio. Mille spiegazioni non ci porrebbero nella condizione di comprendere questi misteri […]
Pochi anni passano ed un'ancor più palese analogia viene proposta da Edgar Quinet (1803-1875) nella trilogia Promethée del 1838, che richiama da vicino quella di Eschilo, essendo composta dal Prometeo inventore del fuoco, il Prometeo Incatenato e il Prometeo Liberato, ma del tutto particolare per la convinzione di Quinet che molti degli enigmi proposti dalla poesia pagana siano stati in seguito risolti "dallo spirito del Cristianesimo" e per il suo desiderio di voler mostrare "l'umanità salvata che entra in Dio sotto la guida del genio religioso". Il dramma infatti ha sapore di parabola poiché Prometeo, dopo aver creato un uomo che, incapace di autonomia, prega il cielo per avere degli dei (I dramma), assillato, questa volta, da un coro, né di oceanine eschilee, né di furie shelleyane, bensì di Sibille, ascolta da esse un vaticinio sull'arrivo di un nuovo Prometeo, "forse un altro Titano schiavo, forse un dio crocifisso", di cui il Titano non sarebbe altro che un profeta, mentre come vuole la tradizione si ritrova inchiodato ad una cima del Caucaso (II dramma), per poi essere, infine, accolto in cielo da schiere festose di angeli (tra cui, soprattutto, Michele e Raffaele, quasi coprotagonisti della trilogia) che salutano il Titano come un loro fratello redento (III dramma). Quella di Quinet, dunque, è una vera e propria opera di sincretismo: sull'esempio degli antichi, nota giustamente il Gaetani Tamburini, e specialmente di Tertulliano, lo scrittore francese fonde la tradizione cristiana e greca, riprendendo il mito greco e "compiendolo", poiché "la tragedia del Caucaso non poteva avere altra soluzione innanzi alla tragedia del Golgota", facendo di Prometeo un vero e proprio profeta della venuta di Cristo o, meglio, facendo del Titano non solo una sua prefigurazione, ma anche prefigurazione della sua Passione, motivo per cui la trilogia di Quinet "è poema senza dubbio altamente cristiano", purché, precisa però il Gaetani, a questo termine si dia il valore di una "religione ideale che niun dogma potrebbe arrestare nel passato, che cammina al di sopra del presente nella direzione dell'avvenire, che riducendo in atto, realizzando sempre e sempre allargando il vangelo eterno" e non "nel senso dei preti della curia di Roma che […] nasconde la faccia del Signore".
Meritano pure di essere citati, poi, i Prometei cristianizzati delle opere di A. Pasquet (Prometeo), contemporaneo della trilogia di Quinet, e di E. Grenier, del 1857, (Prometeo Liberato), per quanto si tratti di lavori nei quali prevale tuttavia il tema dell'avvento di una divinità giusta che "sovverte il Dio della vecchia Legge". E non deve sorprendere il fatto che proprio in questo periodo Moreau dipinga il suo Prometeo citato nell'introduzione.
Infine, è certamente rilevante pure il poema di Carl Spitteler (1845-1924), il Prometheus der Dulder, edito in prosa col titolo di Prometheus ed Epimeteus nel 1881, giacché l'opera si apre con l'arrivo sulla terra di un emissario di Dio:
[…] venne il tempo che l'Angelo del Signore doveva scegliere uno tra la moltitudine degli uomini e farlo re di tutto il paese in sua vece.
L'Angelo vorrebbe scegliere proprio Prometeo per l'alto compito di governare il regno in sua vece, per la forza del suo spirito e la ricchezza della sua natura, ma con l'ordine di rinunciare alla sua anima. Tuttavia, innanzi alle parole orgogliose del Titano
Nobile signore, che ad arbitrario giudizio distribuisci la gloria e l'infamia tra gli uomini, ti ringrazio di cuore, perché benevolo è il senso del tuo discorso,e ben celato dietro le tue parole trovo un sentimento amico. Ma non è in mio potere decidere della mia anima; poiché, vedi, essa è la mia signora, la mia dea nella gioia e nel dolore, e ciò che io sono lo devo tutto a lei. Perciò con lei dividerò la mia gloria e se sarà necessario, saprò anche rinunciarvi
Stabilisce di porre lo scettro nelle mani del fratello Epimeteo, che fa della "coscienza ragionevole" la base del proprio governo, e di mandare in esilio ai confini del mondo Prometeo, che non ha saputo rinunciare alla sua anima. Il Titano non ha timore di dover lasciare la sua dimora ed anche quando l'Angelo del Signore, mosso a compassione, gli offre la possibilità di tornare, oppone un rifiuto:
Io non voglio un ufficio dalle tue mani! E non porrò mai fine a questo conflitto, finché tu non me l'avrai pagato e ti piegherai davanti a me ringraziandomi con le tue stesse labbra e versando cocenti lacrime di pentimento! Perché ecco, tu hai fatto un proverbio su di noi, ed io, io voglio esservi coerente
Ma passati molti anni da questi avvenimenti
[…] in un quieto e solitario campo di aggirava sui monti l'Iddio creatore di ogni vita, a percorrere l'eterno cerchio cui era condannato dalla misteriosa natura del suo strano malefico morbo […] venne a lui fra le ultime ombre notturne e le prime luci dell'alba, Pandora, la figlia più giovane […] –Diletta figlia mia, vergine orfana nelle cupe, desolate sale di Ade, che mi porti? Quale preghiera ti conduce fino a me nelle grigie nebbie del mattino? […] –Io ho udito parlare di un popolo di uomini, carico di dolori e degno di misericordia: e per questo ho pensato di far loro un dono che, forse, se tu me lo consenti, potrà mitigare o confortare le loro molte pene- Così parlando, con gesto timido si trasse dal seno un gioiello […] Il dio osservò la forma e l'aspetto del gioiello, trasalì bruscamente e chiese in fretta con voce eccitata: -Donde viene? E chi te lo ha dato?- […] E' opera delle mie mani […] ed ora, se quest'opera te ne sembra degna, benedicila, che io possa donarla al popolo oppresso […] Così disse e benedisse il tesoro: e alla sua benedizione grosse lacrime caddero sul prezioso oggetto
Pandora, infatti, non capisce quale prezioso oggetto intende recare agli uomini, così come non lo intende Epimeteo e tutti coloro a cui il tesoro viene mostrato: i sacerdoti, i maestri, l'orefice, invece di riconoscere in esso un dono preziosissimo, lo allontanano da sé, come fosse maledetto, poiché, da sole, ragione e coscienza non possono guidare l'uomo. E nulla può fare l'Angelo del Signore per fermarli, il quale infine cade ammalato, cosa che spinge il malvagio Behemoth a volersi impadronire del suo regno:
Miei cari amici, come avete visto coi vostri occhi, e come mi ha confermato una notizia attendibile giuntami dal cielo, l'Angelo di Dio è malato, e fra breve, spero, morirà. Ma questo per noi non è un vantaggio: perché, come sapete, egli lascia una discendenza di tre figli, che vivono al sicuro nella munita fortezza; e non ci potrà allietare la morte del nostro nemico, poiché al posto di una sola peste ne avremo contro tre. Ascoltate dunque il mio giuramento: a chi riuscirà col suo consiglio a darmi in mano quei fanciulli, io darò in moglie Astaroth, la mia direttissima figlia, chiunque egli sia, anche se fosse malato e di miserevole aspetto, anche se per gli anni fosse già presso alla tomba o se la fanciulla stessa rifiutasse, per qualche capriccio della sua giovanile alterigia
Si va allora avanti il fedele servitore Leviathan, il quale riesce a convincere Epimeteo, con l'appoggio anche della sua coscienza, a cercare un'alleanza con Behemoth e a consegnargli, come simbolo di questo nuovo accordo, i figli di Dio, Hiero e Mythos e Messias, a lui affidati dal giorno stesso della sua nomina a sovrano:
Ebbene, esaudirò il desiderio del tuo re; ma solo nel caso mi siano date le più ampie e precise garanzie per quel che concerne la sicurezza e il benessere dei fanciulli. Innanzi tutto egli mi manderà il suo figlio Beelzebub […]
Ma, dei tre, due vengono crudelmente assassinati, e lo stesso destino sta per afferrare pure Messias quando l'Angelo del Signore guarisce e dopo aver saputo di come Epimeteo abbia consegnato i suoi figli di sua volontà, pentito, non può che recarsi, infine, da Prometeo:
Ed ecco, quel Prometeo che nella fatale cecità del nostro giudizio abbiamo tanto perseguitato, se lo avessimo scelto al posto del fratello secondo i suoi alti meriti, ora il regno di Dio sulla terra sarebbe in pieno fiore, e i miei figli sarebbero vivi e il mondo godrebbe il possesso imperituro del prezioso gioiello della figlia di Dio
L'Angelo allora invia un emissario presso l'anima di Prometeo, l'unica che può convincerlo a salvare il figlio dell'Angelo e il mondo degli uomini caduto nelle tenebre, perché lei sola è la donna, l'amata, a cui presta ascolto. Ed ecco infine il Titano tornare e convince gli uomini a non sacrificare il fanciullo, mostrando loro una "rinnovata ricerca delle vie che conducono alla salvezza". Infine allora a Prometeo, salvatore del mondo, viene nuovamente proposto di diventare re:
Ed ora, se tu lo vuoi, sarai re al posto di tuo fratello, perché tu onori il trono ora coperto di infamia e purifichi il popolo degli umani con l'esempio della tua virtù
Ma non è questa la strada che egli sceglie, per la sua natura contemplativa ed introversa che gli impone di non abbandonare la sua anima.
Si tratta di un poema, come si può nuotare, dove non vengono proposti o riproposti parallelismi tra Prometeo e Cristo, ma è certamente singolare notare come la trama si dipana tra Angeli, Demoni ed apparizioni di Dio stesso e come tutta la vicenda ruoti attorno alla dimensione dell'anima e della spiritualità contrapposta alla dimensione della ragione (cosa che non poteva non richiamare l'attenzione di Jung, il quale, difatti, riprenderà questa opposizione tra Prometeo ed Epimeteo, tra il mondo "dell'introversione e dell'estroversione", nei Tipi Psicologici del 1921), motivo per cui pure Spitteler può essere annoverato tra coloro che contribuirono alla fioritura del parallelismo durante l'Ottocento.








CAPITOLO IV E L'ANALOGIA DURANTE IL DECLINO DI PROMETEO NEL NOVECENTO
"La Pentecoste ci dice che lo Spirito Santo è il fuoco e che Cristo è il vero Prometeo che ha preso il fuoco dal cielo" Joseph Ratzinger
Il Novecento non introduce grandi cambiamenti o singolari rivisitazioni nel mito di Prometeo, o, quantomeno, non di tale portata da essere paragonate alle interpretazioni fiorite nei secoli precedenti. Ancora si ha a che fare con un Titano benefattore e simbolo dell'arte (si pensi, ad esempio, alla statua in ottone di Paul Manship che tuttora accoglie i visitatori del Rockfeller Center di New York, la quale rappresenta Prometeo che regge il fuoco sottratto all'Olimpo ed accompagnato dall'iscrizione "Prometeo, maestro d'ogni arte, portò il fuoco che ai mortali si è rivelato un mezzo per intenti possenti. Saggezza e conoscenza saranno la stabilità dei tempi", del 1933-34), e soprattutto, in linea con le grandi innovazioni introdotte dalle due Rivoluzioni Industriali, simbolo della tecnologia e dell'industria (è interessante notare come David Soul Landes abbia deciso di intitolare la sua celebre opera del 1969 sulla storia della Rivoluzione Industriale Prometeo Liberato. La Rivoluzione Industriale dal 1750 a oggi.). Il Titano fa poi ingresso pure nella psicanalisi, se Freud, ne L'acquisizione del fuoco del 1931, interpreterà il mito di Prometeo come trasposizione mitica di un trauma nello sviluppo della libido, ovvero la "rinuncia al piacere uretrale" simboleggiato dalla ferula cava che il dio utilizza per sottrarre il fuoco. Ma acquista, intanto, un vigore sempre maggiore quella "stanchezza" che già nel secolo scorso, come si è detto, era nata nei confronti dell'ormai affermato clichè che imponeva un Prometeo eroe ribelle contro gli dei (per quanto il Titano simbolo della rivolta ancora sopravviva, come nel Prometheus di Bertolt Brecht, del 1920, o ne L'uomo in rivolta di Albert Camus, del 1951) : non a caso il secolo passato si chiude e quello nuovo, al contempo, si apre col Prometeo male incatenato di André Gide, nel quale il Titano si scopre libero dalle sue catene, per poi ritrovarsi in una delle vie della Parigi contemporanea. Ed ancora sintomo di questa stanchezza sono il Prometeo pentito dell'opera di M. Golberg o quello addirittura morto di E. Delebecque, rispettivamente del 1904 e del 1905, o ancora il dio che proclama la "ciclicità" ed il destino le uniche vere leggi dell'Universo ne La rupe di Cesare Pavese, del 1947. Nel Novecento, insomma, e soprattutto nella sua seconda parte, sembra prevalere un sentimento di disillusione e se di qualche novità si può parlare, domina comunque una visione negativa, che lentamente sembra portare il dio verso la sua morte, come già Franz Kafka aveva intuito nei suoi Racconti del 1918. Ma, nonostante sia questo il panorama emergente, l'analogia sopravvive ancora, sebbene non con quella fioritura che l'aveva caratterizzata durante l'Ottocento. Ad inaugurare il parallelismo nel nuovo secolo sarà la scrittrice e filosofa francese Simone Weil (1909-1943).
In stretto rapporto non solo coi miti e le tradizioni, ma anche con la religione cristiana, sebbene si rifiutasse di entrare in Chiesa non solo perché quella, secondo la sua ipotesi, non era la volontà di Dio, ma anche per un certo timore nei suoi confronti, Simone Weil fu una tenace ricercatrice di premonizioni di Cristo nell'antichità, e non solo nella mitologia, ma pure nel folklore. Nel suo lavoro, spiega infatti il Marianelli, è possibile individuare "un itinerario che porta dal cristianesimo al pensiero induista, dalla Grecia all'Egitto, alla ricerca di quell'unica verità che miti, tradizioni religiose e racconti popolari presentano all'uomo in ogni tempo" e cioè che Cristo "può abbracciare le verità delle diverse tradizioni religiose, dei miti e del folklore, senza annullarle. Egli è Logos; è al tempo stesso la Verità e la strada che vi conduce". Nella forte esigenza, infatti, di costruire un cristianesimo "capace di impregnare tutto senza essere totalitario", la Weil era convinta che ciò sarebbe stato possibile solamente se il sacro fosse stato riconosciuto come "unica fonte d'ispirazione del profano"; una tesi che molto si avvicina sia a Lattanzio che a Tertulliano, entrambi convinti, come si è visto, che pure gli antichi parteciparono inconsapevolmente alla verità delle Sacre Scritture, anche se mai entrarono in contatto con esse. Del resto, era un'ulteriore convinzione della scrittrice che già quest'ultime contenessero la prova che di rivelazioni del divino ve ne erano state pure prima della venuta di Cristo. La Weil setacciò dunque miti e leggende frase per frase e le sue ricerche e scoperte vennero poi riunite nell'opera nota come la Grecia e le intuizioni precristiane (un titolo, in realtà, non scelto da lei, bensì dall'amico Padre Perrin, "l'affabile padre domenicano quasi cieco a cui toccò in sorte di incontrare, nell'estate 1941, quella giovane donna rifugiata a Marsiglia"), nella quale si pone come obiettivo quello di dimostrare, appunto, come il pensiero antico sia in realtà "un'anticipazione di tematiche specifiche proprie del cristianesimo", composta a partire dal 1941. La sezione intitolata La discesa di Dio è composta di numerose leggende analizzate con precisione e di diversa natura, dall'Inno omerico a Demetra alla Fiaba del Duca di Norvegia, e tra queste è incluso pure Prometeo, il cui mito è scandagliato dalla Weil a partire dall'Incatenato di Eschilo. Gli aspetti in comune con Cristo sono plurimi, e già in apertura della tragedia:
Eschilo mostra dapprima la crocifissione di Prometeo alla roccia. Durante questa operazione egli tace sempre. Questo silenzio ricorda quello del giusto di Isaia e del Cristo: "Maltrattato, ingiuriato, non apriva la bocca"
E tali aspetti attraversano tutto il dramma finanche all'ultima parola con cui Prometeo "congeda" il pubblico, prima che il fulmine di Zeus lo precipiti negli Inferi:
"vedete quali ingiustizie io patisco ?" Queste sono le ultime parole della tragedia. Essa termina con la parola pasco così vicina a "passione"
Il primo aspetto, dunque, su cui la Weil si concentra nella sua ricerca di un parallelismo tra Prometeo e Cristo è innanzitutto il silenzio con cui i due martiri sopportano uno l'incatenamento e l'altro la crocifissione, per poi notare come il finale della tragedia Eschilea utilizzi un termine che molto si avvicina a quello con cui la tradizione indica gli eventi pasquali, la Passione di Gesù, che accosta, dunque, i due personaggi dal punto di vista della sofferenza. Ma questi non sono gli unici punti che creano un collegamento:
v. 269: petrais pedarsios, "su alte rocce" […] Questa espressione fa pensare a "Bisogna che il Figlio dell'Uomo sia innalzato"
per cui entrambi i personaggi, nella loro comune sofferenza, verranno per questo innalzati. Ma ancor più interessante è quell'aspetto che la Weil individua poche righe più avanti:
Ovunque altrove in Eschilo l'attributo essenziale di Zeus è la saggezza […] E', anzitutto, il Dio saggio. In questa tragedia, manca di saggezza a tal punto che questa carenza minaccia il futuro stesso della sua regalità; è condannato a perdere il regno causa i suoi "disegni privi di saggezza", e non può esserci per lui altro soccorso se non Prometeo liberato dalle sue catene. Una conclusione si impone: proprio Prometeo è la Saggezza. Dopodiché, quando si vede nell'Agamennone che basta volgere il pensiero verso Zeus per ottenere la pienezza della saggezza, e si avvicina questa parola a quelle con cui Prometeo dice come egli è stato l'educatore degli uomini, si deve pensare che Zeus e Prometeo sono un solo e medesimo Dio; […] L'idea di una situazione in cui Dio sarebbe separato dalla sua saggezza è stranissima. Ma essa appare anche, sebbene meno sottolineata, nella storia del Cristo. Il Cristo accusa suo Padre di averlo abbandonato […] Nel supremo momento della Passione, c'è un istante ove appare qualcosa che agli occhi degli uomini somiglia a una separazione, a una opposizione fra Padre e Figlio. Certo non è che un'apparenza. Ma nella tragedia di Eschilo alcune parole […] che senza dubbio avrebbero assai maggior significato per noi se conoscessimo il Prometeo Liberato rivelano che l'ostilità tra Prometeo e Zeus è soltanto apparente.
Dunque non solo Prometeo e Zeus vengono considerati dalla Weil come un'unica entità, esattamente come l'esegesi cristiana ritiene Cristo ed il Padre, ma pure la loro separazione, solamente apparente poiché nel terzo dramma della trilogia si può supporre una riconciliazione tra le due divinità e, dunque, la conseguente liberazione del Titano da parte di Eracle, ricalca in realtà quell'attimo in cui sembra avvenire una frattura tra Gesù ed il Padre al culmine della vicenda della crocifissione. Ma la Weil si spinge ancora oltre, esprimendo quello che forse è il parallelismo più diretto mai proposto sin'ora:
Il sacrificio di Prometeo non appare in alcun momento come un fatto storico, datato, che si sarebbe verificato in un punto del tempo e dello spazio. Esiodo, sebbene parli in un punto della liberazione di Prometeo, in un altro punto parla di Prometeo come per sempre inchiodato alla roccia. La storia di Prometeo è come la rifrazione nell'eternità della passione del Cristo. Prometeo è l'agnello sgozzato fin dalla creazione del mondo.
Dunque la conclusione non può che essere una soltanto: Prometeo e la sua sofferenza non sono una semplice prefigurazione di Cristo e la Passione, Prometeo E' Gesù, l'Agnello sgozzato della visione Apocalittica di San Giovanni. Unito, tutto questo, all'apparente opposizione all'interno del binomio Zeus/Prometeo e Dio/Gesù, all'innalzamento sulla rupe e sulla croce, alla comune sofferenza, addirittura espressa con parole simili, ed al tenace silenzio con cui i due personaggi sopportano la crocifissione, mostra come pure il Titano, senza alcun dubbio da parte della Weil, possa, in conclusione, essere annoverato tra le "immagini del Cristo", cosa per di più confermata in un'altra sezione delle Intuizioni Precristiane, ovvero nel Dio in Platone, in cui la scrittrice arricchisce l'analogia citando pure il dono del fuoco come altro elemento di parallelismo; nei suoi Quaderni, in cui, nota giustamente il Susanetti, Prometeo, "maestro degli uomini", viene descritto come un Titano "torturato e flagellato non per il furto del fuoco, ma per la necessità di elevare il Figlio dell'Uomo con lo scandalo della crocifissione", e ancora nel'Attesa di Dio, in cui si trova inserito in una lista di divinità classiche, le cui vicende mostrano come, in realtà, dietro ad esse si nasconda Cristo stesso.
Per la specifica e minuziosa ricerca all'interno del Prometeo Incatenato eschileo e per l'identificazione tanto ricca di aspetti che la sostengono, fino a riconoscere in Prometeo non solo una prefigurazione di Cristo, ma Cristo stesso, si potrebbe quasi concludere che con Simone Weil, l'analogia abbia raggiunto il suo apogeo, almeno sino ad ora. Ma dagli scritti della ricercatrice verso gli anni successivi, ovvero, come si è detto, quando diviene sempre più preponderante quella corrente che "assassinerà" Prometeo, pure il parallelismo verrà trascinato verso questo oblio, assieme alle ormai innumerevoli allegorie che fecero del Titano simbolo dei più disparati campi del sapere, di uomini o di idee. Ma neppure innanzi alla tendenza del Novecento di distruggere tutto ciò che era nato nei secoli precedenti l'allegoria scomparirà del tutto, rimanendo una "corrente carsica" per diversi decenni, così come lo era rimasta al tramontare dell'era cristiana fino all'Ottocento, per ben più tempo. Ma quando infine riemerge, il panorama entro cui si trova inserita è profondamente mutato: dalla Weil in poi non vi saranno, infatti, più trattati, dipinti o poemi da cui ricavare il parallelismo, diretto o indiretto, ma solo omelie.
Il nome di Prometeo in accostamento a Cristo ricompare, infatti, il 14 maggio 1978, nell'omelia Vieni, spirito creatore pronunciata nel Duomo di Monaco di Baviera dall'allora cardinale Joseph Ratzinger. Il tema, come lo stesso titolo suggerisce, è quello dello Spirito Santo che nel giorno della Pentecoste scese sui discepoli e conferì loro il potere di annunciare la verità del cristianesimo fino ai confini del mondo. L'immagine è il fuoco, che è
Luce, calore, movimento, potere di trasformazione. Ma nello stesso tempo, quando cade fuori controllo, è elemento di distruzione, di rovina. Nel mondo antico era considerato una parte del sole, l'elemento della potenza divina. Che l'uomo possa disporne l'ha portato a considerarsi simile a Dio. Il mondo greco ha creato il mito di Prometeo, che combatte contro gli dei, ruba il fuoco dal cielo, lo porta sulla terra e dà inizio a un nuovo mondo.
Ma l'atto del Titano, che potrebbe apparire tanto eroico, rappresenta, in realtà, quello che è l'errore della contemporaneità: un'umanità che conferisce il potere a sé stessa sul mondo, senza più rispettare Dio o volere qualcosa da Lui. L'uomo è in possesso del fuoco, ma nelle sue mani non può che divenire arma di distruzione senza l'aiuto del divino. Ed è proprio questo il messaggio che la Pentecoste suggerisce:
La Pentecoste ci dice che lo Spirito Santo è il fuoco e che Cristo è il vero Prometeo che ha preso il fuoco dal cielo. Certo, l'uomo deve avere il fuoco, non deve vegetare in un'esistenza oziosa, egli è stato creato per essere simile a Dio; ma questo fuoco che è forza di salvezza non lo porta il Titano che mette Dio da parte, ma il Figlio che si espone al fuoco dell'amore e abbatte il muro dell'ostilità.
Richiamando un'espressione di Tertulliano, dunque, Ratzinger accosta i due personaggi dal punto di vista del dono del fuoco, ma in questo dono è racchiusa una sostanziale differenza, che li rende opposti: se l'atto di Prometeo, infatti, è una sfida agli dei, da cui il Titano si allontana, il dono di Cristo, invece, avvicina l'uomo a Dio, e se vi è da scegliere tra i due fuochi, l'umanità non deve fidarsi di ciò che il Titano è giunto a portare, per non ricadere nell'illusione di aver un potere illimitato su ogni cosa, ma quello di Gesù, che dono di salvezza.
Un discorso simile, in cui emerge cioè un parallelismo nel quale poi Cristo si rivela la figura vincitrice e Prometeo il falso esempio da scartare, viene infine proposto da Monsignor Angelo Scola in un intervento al meeting di Rimini del 25 agosto 1998, il cui argomento verte proprio sul confronto tra i due personaggi: Prometeo o il Risorto? Spiritualismo, tentazioni moderne e cristianesimo,questa è la pungente proposta del Monsignore ai giovani. Ad un rapido esame, infatti, nulla potrebbe escludere l'eroicità di Prometeo, e l'assicurare l'appoggio compassionevole al suo atto:
Afferma il Prometeo di Eschilo: "[…] gli uomini prima non capivano e io li ho resi coscienti e padroni del loro intelletto […] prima guardavano e non vedevano, ascoltavano e non sentivano, simili a forme di sogno, vivevano a caso una vita lunga e confusa". Dunque il figlio del Titano, mosso a compassione per i mortali –simili a forme di sogno che vivevano a caso una vita lunga e confusa- si schiera dalla loro parte contro Zeus. […] Prometeo si fa così salvatore degli uomini, sottraendo agli dei il fuoco, fattore genetico di civiltà. Per punirlo, Zeus decide di infliggergli un supplizio atroce: lo fa incatenare nudo sulla vetta più alta del Caucaso […] Ogni giorno un enorme avvoltoio viene a cibarsi del suo fegato immortale che ogni notte si rigenera. Ma Prometeo […] resiste, indomito nella volontà, contro il sopruso del capriccioso Zeus. Chi di noi non si sente appassionatamente vicino al semidio greco, che paga di persona per il bene degli uomini fragili e bisognosi e, anche nel supplizio eterno, non rinuncia, con volontà titanica e solitaria, ad un atteggiamento di sfida?
Per di più, questo dono del Titano assomiglia, seppur leggermente, alla parabola della crocifissione di Gesù se
Prometeo sfida Zeus per compassione degli uomini; il Risorto obbedisce al Padre per salvarli
Entrambi agiscono per amore, per pietà, per compassione, ma proprio nella sfida che il Titano lancia in direzione di Zeus sancisce la radicale differenza con la Passione. Quello di Prometeo è un fallimento
Perché cerca la salvezza degli uomini lungo la stessa strada della loro infermità: quel volere solitario, appunto, che rende la realtà e l'io incoscienti come un sogno. E', il suo, l'emblema di tutti gli umani tentativi –da quelli eroici dei grandi benefattori dell'umanità a quelli banali di ognuno di noi- di salvarsi da sé (autosoteria)
Motivo per cui la conclusione del Monsignore è la stessa del Papa Emerito: seguire l'esempio di Prometeo vuol dire ignorare la realtà al punto da illudersi di poterla creare (come va predicando la generazione New Age, il cui slogan "ciascuno crea la sua realtà" molto si accosta a questa asserzione), così che Dio diviene allora null'altro che un "tappabuchi". Prometeo è un sogno, così come ciò che insegna la sua compassione
Per il Prometeo che s'affaccia sulla soglia del terzo millennio la compassione è ridotta a volontaristica condiscendenza verso quella che Eschilo chiamava "la fragilità simile a un sogno degli effimeri". In suo nome viene attribuita la palma di eroi e di salvatori a tutte quelle figure che o blandiscono le ferite di cui l'io è ricoperto o esaltano illusorie scorciatoie verso la realtà.
La conclusione, dunque, non può che coronare Cristo, nella sua compassione:
Prometeo è incatenato, come Cristo è crocifisso, per compassione per gli uomini. Ma radicalmente diversa è la loro compassione, perché radicalmente diverso è il gioco della loro libertà in rapporto alla realtà. In Prometeo la libertà è spesa tragicamente come indomabile volere solitario, nella contrapposizione a Zeus. […] In Cristo la libertà è amore perché, in Lui, essa si compie, per il tenace vincolo dello Spirito, come adesione del Figlio al Padre. […] Nonostante lo sforzo generoso del semidio Prometeo la sua persona e la realtà restano immerse in una negatività minacciosa, simboleggiata dalla definitiva perdita della libertà dell'eroe incatenato. E la stirpe degli uomini resta non salvata, impigliata nella doppia inconsistenza, della realtà e dell'io, entrambi fragili come un sogno. Prometeo è, per finire, un velleitario antagonista di Zeus. Il Risorto, invece, è il protagonista. Egli radicalizza il significato della tragedia prometeica; cioè assume, senza edulcorarlo, il drammatico destino di ogni uomo. Come? Nella tragedia della Croce. […] Nell'estrema impotenza del Crocifisso il Padre rivela la sua onnipotenza. Il risorto rivela agli uomini che il Padre li ama e li vuole come figli nel Figlio: perciò travolge ogni negatività
E nell'amore superiore del Cristo, imparagonabile, per il Monsignore, a quello di Prometeo, si chiude il Novecento, e con esso la storia dell'analogia tra i due personaggi poiché, per il resto, di essa, fino ad oggi, non vi sono più tracce.

















CONCLUSIONE
"Quello di Prometeo si direbbe il mito per eccellenza: il più fecondo, il più segreto, forse il più rappresentativo della cultura occidentale" Enzo Mandruzzato
"Quello di Prometeo si direbbe il mito per eccellenza: il più fecondo, il più segreto, forse il più rappresentativo della cultura occidentale" scriveva il Mandruzzato in apertura del Prometeo Incatenato da lui tradotto e la Storia sembra dargli ragione: dall'Antica Grecia ai tempi più recenti il dramma di Prometeo, seppur in numerosissime sfaccettature e pure in maniere davvero differenti rispetto al mito originale, ha attraversato i tempi senza mai essere dimenticato dalla letteratura. Nei secoli è cambiata la mentalità ed è cambiato il mondo, ma il Titano è rimasto, ed assieme ad esso pure l'analogia con Cristo, come si è visto, ha partecipato alla sua fortuna, da quando essa è sorta nella prima era cristiana entro le opere di Taziano. Certo nei primi secoli è sopravvissuta a stento, al punto che, siccome i casi di Tertulliano e di Taziano sono isolati e quasi potrebbero essere considerati nulla più che sussulti, fondata è l'affermazione del Brunel per cui, in realtà, "la cristianizzazione del mito non avrà luogo prima del XVI secolo", ma anche i parallelismi in quest'epoca riscontrabili, se pure chiamano in causa il mondo cristiano (ed il Titano è ora Adamo, ora Caino), evitano il riscontro diretto con Cristo. Il vero avvio dell'analogia risiede, dunque, ancora oltre, nell'Ottocento, come si è visto, ben millecinquecento anni dopo la sua prima comparsa, grazie al capolavoro di Shelley, da cui poi sono nati molti altri "Prometei cristiani", come quelli che animano le opere di Quinet, Pasquet, Grenier e Spitteler o lo stoico Titano che osserva l'orizzonte nel quadro di Moreau. E' poi proseguita fiorente nel Novecento nelle ricerche di Simone Weil ed ancora nelle parole di Joseph Ratzinger ed Angelo Scola verso la fine del secolo, sebbene quest'ultimo abbia abbattuto l'eroicità del mito, esaltata nel secolo precedente dalla mentalità romantica. Si tratta di un'analogia, dunque, al di sopra del tempo, ma anche se essa è rimasta più a lungo una corrente sotterranea che ben manifesta, errato sarebbe credere che essa sia tramontata col Novecento, che sia tramontata alla chiusura dell'omelia del Monsignor Angelo Scola. Poiché se più di un millennio è passato per una sua nuova manifestazione, altrettanto tempo potrebbe trascorrere prima di coglierla nuovamente in uno scritto o anche solo in un discorso. La questione sulla somiglianza con Gesù non è perita, così come non ancora perito il mito "più fecondo" della tradizione greca.
Come numerosi sono stati gli autori che hanno arricchito questa corrente, così sono stati i punti per cui si è riconosciuta una somiglianza tra i due martiri. In Prometeo è stata vista una prefigurazione di Cristo, o Cristo stesso, per il supplizio subito, motivo per cui per entrambe si parla di un incatenamento/crocifissione su un luogo rialzato (Tertulliano, Quinet e Weil), per l'apparente distacco e opposizione con Zeus che richiama quell'attimo della Passione in cui, solo apparentemente, nelle parole di Cristo sembra riconoscersi una frattura del legame col Padre ( Weil ), per il sacrificio nel nome dell'amore per l'uomo, per cui entrambi hanno affrontato il destino della punizione pur conoscendolo (Taziano, de Maistre e Mons. Angelo Scola), per lo stoico silenzio con cui sopporta l'incatenamento, dal momento che neppure Gesù pronuncia qualsivoglia parola non solo durante la salita al Calvario, ma anche durante la procedura della crocifissione (Weil), per il dono del fuoco agli uomini, simile al dono dello Spirito Santo durante la Pentecoste ( Ratzinger e Moreau) e per il sapore di eternità della tortura (Weil). Non è mancato, tuttavia, chi, citando Prometeo in un parallelismo che poteva potenzialmente ricondurre a Gesù, in realtà non si riferiva alla sua figura (Tertulliano e Lattanzio, che invece accostano il Titano al Dio creatore dell'uomo citato nella Genesi), chi, pur accostando i due personaggi, li ha voluti mantenere rigorosamente separati (Shelley, che immaginava il suo Titano liberato come capostipite di una nuova civiltà senza più alcuna istituzione, dallo Stato alla Chiesa, o de Maistre, il cui Prometeo rinuncia alla nomina a re degli uomini offertagli da Dio tramite il suo Angelo) e chi, nel confronto, ha voluto, infine, porre Cristo al di sopra del semidio (Ratzinger, per cui il vero fuoco donato all'umanità è lo Spirito Santo, e Mons. Angelo Scola, che nel mito di Prometeo non vede un trionfo eroico, ma un fallimento).
Dunque non solo un'analogia che ha saputo distendersi lungo la Storia senza mai scemare del tutto, ma pure feconda nel suo sviluppo di secolo in secolo. E forse ancora altri saranno individuati in futuro: che sia un discendente di Moreau, che introdurrà nel suo dipinto un nuovo particolare che simboleggia un nuovo aspetto del parallelismo; che sia un poeta che, sulle orme di Shelley, Quinet o de Maistre comporrà un nuovo poema costruito su aspetti ancora sconosciuti; che sia un giovane ricercatore affascinato dagli studi della Weil su Prometeo, tanto da volerli completare; o che sia un altro ministro della Chiesa desideroso, come il Papa Emerito Ratzinger o Mons. Angelo Scola, di lanciare un nuovo messaggio ai giovani riproponendo il mito da un ulteriore punto di vista. Del resto la ricchezza di questo argomento, col tempo costruita da tutti questi autori in quasi due millenni, mostra che le sue sfaccettature sono plurime. Quale sia la prossima, lo dirà solamente il tempo.








FIG. 1 FIG. 2




FIG. 3 FIG. 4
BIBLIOGRAFIA

Fonti primarie:
- Tertulliano, Adversus Marcionem, traduzione di E. Evans, Oxford: Oxford University Press, 1972
- Tertulliano, Apologeticum, traduzione di A.R. Barrile, Bologna: Zanichelli, 1980
- Carl Spitteler: premio nobel per la letteratura 1919, traduzione di R. Paoli, Milano: Fabbri, 1965
- Taziano, Discorso ai Greci, traduzione di S. di Cristina, Torino: Borla, 1991
- Lattanzio, Divinae Institutiones, traduzione di G. Mazzoni, Siena: Ezio Cantagalli, 1936
- S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, traduzione di M.H. Pieracci e C. Campo, Torino: Borla, 1967
- J. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, traduzione di L. Fenoglio e A.R. Cattabiani, Milano: Rusconi, 1986
- Eschilo, Prometeo Incatenato, traduzione di E. Mandruzzato, Milano: Bur, 2012
- P.B. Shelley, Prometeo Slegato, traduzione di C. Pavese, Torino: Einaudi, 1997
- Esiodo, Teogonia, traduzione di E. Vasta, Milano: Mondadori, 2011
- Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli

Fonti secondarie
- S. Weil, Attesa di Dio, traduzione di M.C. Sala, Milano: Adelphi, 2008
- Apollodoro, Biblioteca, traduzione di M. Cavalli, Milano: Mondadori, 2013
- C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino: Einaudi, 1999
- P. Brunel, Dizionario dei miti letterari, traduzione di G. Gabetta, Milano: Bompiani, 1995
- D. Gaetani Tamburini, Edgar Quinet, Milano: Tipografia internazionale, 1865
- H. Blumenberg, Elaborazione del mito, traduzione di B. Argenton, Bologna: Mulino, 1991
- D. Susanetti, Favole antiche: mito greco e tradizione letteraria europea, Roma: Carocci, 2005
- E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, traduzione di F. Federici, Torino: Bollati Boringhieri, 2001
- J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, traduzione di G. Niccoli, Torino: Bollati Boringhieri, 1990
- Ovidio, Metamorfosi, traduzione di P.B. Marzolla, Torino: Einaudi, 2012
- M. Marianelli, Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Roma: Città Nuova, 2004
- G. Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgames. Figure del mito, Milano: Raffaello Cortina, 2004
- F. Condello, Prometeo. Variazioni sul mito, Venezia: Marsilio, 2011
- Questioni Romantiche, n°6, 1998 (G. Cerulli, Nel nome del figlio. Saggio sul Prometheus Unbound)
- F. Kafka, Racconti, traduzione di G. Schiavoni, Milano: Bur, 1995
- Revue des Etudes Augustiniennes, n°41, 1995 (M.G. de Durand, Prométheé dans la littérature chrétienne antique)
- G. Stainer, Una certa idea di Europa, traduzione di O. Ponte di Pino, Milano: Garzanti, 2010

SITOGRAFIA
-www.zetesis.it
-google scholar



Tagliare il traguardo di un percorso è una conquista personale, ma non così vale per la costruzione della strada che ci porta a completare le grandi tappe, che è invece frutto del lavoro di più forze, di più esempi, di più esperienze. Desidero allora ringraziare tutti coloro che hanno contribuito, forse anche inconsapevolmente, alla costruzione della mia.
Innanzitutto vorrei ringraziare i miei genitori, che da sempre mi hanno concesso ampio spazio, appoggiando le mie scelte e dandomi i giusti incoraggiamenti nei momenti critici. Mio fratello che ha il grande merito di avermi a lungo, per così dire, spianato la strada durante il mio percorso di studi, permettendomi così di sapere in anticipo cosa aspettarmi dalle nuove scuole che ho affrontato. I miei nonni, che sono stati e sono tutt'ora un bellissimo esempio di come l'impegno e la perseveranza conducano sempre ai risultati migliori e di come a nulla serva lasciarsi vincere dallo sconforto nei momenti in cui si affronta una delusione. Quando perdi, non perdere la lezione.
Ringrazio ancora il professore Federico Condello, per la disponibilità e l'interessante argomento proposto, ma anche tutti quei i maestri e professori che mi hanno mostrato nel corso di questi anni il fascino delle scienze e della letteratura, soprattutto di quest'ultima, e stimolato in me il desiderio e la curiosità di conoscere il mondo e ciò che vi può essere oltre certi confini.
Un ringraziamento speciale, infine, ai miei amici di sempre e quelli dell'Università, con cui ho condiviso sicuramente i momenti migliori di questi ultimi tre anni. Il loro appoggio e la loro presenza sono stati fondamentali in questo percorso, sia per lo studio e sia per staccarsi da quest'ultimo quando nessuno più era in grado di concentrarsi. Non poteva accadermi qualcosa di migliore per trovare le energie e le forze per poter proseguire ancora.


Lihat lebih banyak...

Comentarios

Copyright © 2017 DATOSPDF Inc.