Un pubblico per la filosofia.pdf

May 19, 2017 | Autor: P. Donatelli | Categoría: Philosophy, Analytic Philosophy, Stanley Cavell
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198 Diego Marconi ben mostrato Michael Frede3, la dossografia, come elenco possibilmente esaustivo delle risposte alternative a problemi filosofici (fondamentalmente di due tipi: «che cos’è x?» oppure «x gode della proprietà y?»), aveva la funzione di addestrare a escogitare argomentazioni pro e contro le singole alternative. Certamente cognizioni dossografiche possono essere utili a un analitico per non scambiare per nuovo ciò che nuovo non è, correndo rischi di dilettantismo, o per escogitare qualcosa di «nuovo», anche se in linea di principio (come ho detto) non è necessario che egli esibisca nello scritto un’analisi di doxai altrui. Ma anche se costruita partendo da testi del passato, la dossografia non è storiografia, la quale a sua volta non si limita a essere, nella sua parte migliore, «un grande serbatoio di ricostruzioni e analisi di tutto ciò» (p. 107), a meno che il termine «ricostruzioni» includa tutto quel corredo di questioni che caratterizza il lavoro storiografico. Ma ciò mi pare escluso da Marconi, quando osserva: «A volte potrebbe essere interessante, per il teorico, confrontarsi con una posizione più ricca e articolata quale è quella del vero Cartesio; ma ha senso per lui farlo solo se lo storico, a sua volta, accetta una certa semplificazione non troppo distorsiva delle posizioni di Cartesio, guarda all’essenziale e rinuncia a far valere le ultime e rivoluzionarie scoperte della ricerca storiografica, “che rendono il quadro ancora più complesso”» (pp. 104-105). Ma lo storico non chiede al teorico di fare rinunce e non capisce perché dovrebbe essere inutile anche per il teorico la messa a disposizione di una documentazione e di una ricostruzione «storica» che certifichi l’assenza o presenza di premesse o conclusioni, eventuali nessi con credenze diffuse, condizionamenti posti da specifici contesti culturali e gli obiettivi perseguiti anche in polemica con filosofie alternative. Perché liquidare ciò come irrilevante per il filosofo teorico? Non potrebbe renderlo più consapevole del tipo di premesse che egli sta maneggiando, evitando di compromettersi in possibili errori o unilateralità o permettendogli di scorgere implicazioni che potrebbero sfuggirgli? Sono ingenuamente convinto, contro molteplici dannazioni contemporanee del desiderio di conoscenza, che ogni acquisizione cognitiva, anche di dati empirici, costituisca un’esperienza positiva. Giuseppe Cambiano, Scuola Normale Superiore, Classe di Scienze Umane, Palazzo della Carovana, Piazza dei Cavalieri 7, 56126 Pisa, [email protected].

Un pubblico per la filosofia? Piergiorgio Donatelli Nel suo volume Il mestiere di pensare4, Diego Marconi esamina lo stato odierno della filosofia e fornisce varie piste di indagine. Ne voglio seguire alcune, cominciando con quella a cui viene data maggiore importanza: la questione dello specialismo. Marconi attribuisce alla crescita torrenziale delle pubblicazioni 3 M. Frede, Doxographie, historiographie philosophique et historiographie historique de la philosophie, in «Revue de métaphysique et de morale», 97 (1992), n. 3, pp. 311-325. 4 D. Marconi, Il mestiere di pensare. La filosofia nell’epoca del professionismo, Torino, Einaudi, 2014.



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scientifiche l’esigenza dello specialismo. Nel caso della filosofia analitica, a cui il libro dedica un’attenzione particolare, vi sono fattori aggiuntivi, come la richiesta di un rigore argomentativo che restringe le aree di competenza, una richiesta che a sua volta è un aspetto del mimetismo di questa corrente filosofica nei confronti delle scienze (p. 13). La filosofia analitica, con il suo peculiare specialismo, è considerata quindi come una risposta al problema della proliferazione delle pubblicazioni, che ha spazzato via la possibilità di pensare alla filosofia come l’opera di geni che padroneggiano l’intero sapere filosofico e che producono opere originali capaci di aprire nuovi scenari. Altre soluzioni a questo problema sono ravvisate nel ritorno ottocentesco a Kant – che seleziona un orizzonte teorico al cui interno è collocato il lavoro filosofico –, la storia della filosofia eventualmente concepita come attività filosofica in senso proprio («storicismo intrinseco» la chiama Marconi seguendo Glock), e l’ermeneutica (pp.  19-22). Si tratta di risposte al problema della proliferazione perché consentono di essere selettivi nella ricerca e di collocarla in ambiti ristretti che possono essere padroneggiati da persone che sono dei professionisti, studiosi che svolgono un onesto mestiere e che non cercano di seguire la via del genio. L’argomentazione che Marconi propone è coerente con una precisa concezione della filosofia, che possiamo esplicitare e discutere. Se la filosofia è un sapere specialistico, essa non ha un pubblico a cui si rivolge. Marconi scrive che un sapere specialistico (come l’analisi superiore, la cristallografia e l’antropologia alpina) non ha un vasto pubblico, ma forse bisognerebbe dire che non ha proprio un pubblico. Queste discipline, o scienze, non hanno un pubblico. Vengono in aiuto qui le considerazioni che faceva Stanley Cavell quasi cinquant’anni fa nella sua premessa a Must We Mean What We Say? dal titolo An Audience for Philosophy5. Solo degli studiosi che producono quel tipo di lavoro intellettuale, o che sarebbero in grado di produrlo, possono comprenderne i risultati pienamente. In questo senso le scienze non hanno un pubblico così come ce l’hanno invece le arti. L’arte ha un pubblico (di cui fanno parte in larghissima parte persone che non sono artisti) che apprezza, ammira, si emoziona, oppure che rimane freddo, la trova cattiva o che rifiuta proprio una produzione come opera d’arte. Che cosa significa avere un pubblico? Significa che il proprio lavoro si lascia interrogare dalla persona comune, che chiaramente è più o meno educata. D’altro canto, se abbiamo bisogno di esperti per sapere se quello che abbiamo di fronte è arte, per sapere cosa dobbiamo provare, siamo in una situazione di crisi dell’arte, una situazione in cui non possiamo nutrire alcuna fiducia nella nostra capacità di risposta e non possiamo quindi apprezzare un’opera ma solo apprendere da altri quale sia il suo valore. In queste condizioni l’arte si separa da noi, perde il suo pubblico, e muore l’esperienza estetica. Diversamente, la scienza non si lascia interrogare dalla persona comune. Neanche la teologia si lascia interrogare dal credente comune (l’esempio è ancora di Cavell), ed è proprio su questa base che i classici della modernità hanno mosso le loro critiche alla teologia – a partire da Hobbes (assieme a 5 S. Cavell, Must We Mean What We Say? A Book of Essays (1969), Cambridge, Cambridge University Press, 1976.

200 Diego Marconi Locke, Spinoza, Rousseau e Kant, a suo modo) – al fine di ricondurre i testi sacri alla comprensione e al sentimento comuni, sottraendoli al sapere dei dotti e ai loro abusi (la scolastica era il bersaglio principale). Lo specialismo di cui parliamo non è legato solo alla settorializzazione di un sapere ma al modo in cui si pone e viene trattato un certo sapere. Un sapere specializzato (come possiamo anche dire) ha ricercatori e non ha un pubblico, non può incontrare la persona comune: i sensi, le emozioni, l’immaginazione e l’intelligenza della persona comune. Poiché Marconi sostiene che la filosofia si è specializzata, in analogia alle scienze, si pone il problema della sua divulgazione. Dal suo punto di vista si tratta della risposta alla necessità di comunicare i risultati utili e interessanti di una ricerca diventata specialistica e quindi impenetrabile ai non esperti (p. 61). Come si diceva, per comprendere questo ragionamento abbiamo bisogno di intendere lo specialismo non solo come settorializzazione bensì come specializzazione dei saperi: abbiamo bisogno di intenderli come attività intellettuali che non hanno un pubblico ma solo ricercatori. Solo un sapere specializzato può essere propriamente divulgato. Le attività intellettuali non specializzate, come le produzioni artistiche, hanno critici (che educano la nostra esperienza, tra le altre cose) ma non propriamente divulgatori. O meglio se hanno solo divulgatori (oltre agli artisti) muoiono, o si trasformano radicalmente. In questa luce Marconi affronta il problema della mediatizzazione della filosofia, e giustamente ricorda che si tratta di un aspetto del più ampio fenomeno dell’intellettuale mediatico che assume anche altre forme, ad esempio quelle dello scienziato mediatico, dell’economista mediatico e del prete mediatico (p. 50). Come scrive Marconi, non è facile tenere il piede in due staffe, quella professionale e quella mediatica. Come ho detto, se si assume che la filosofia sia un’attività specialistica, non nel mero senso che si creano aree di ricerca settoriali, ma nel senso che la filosofia diventa un sapere specializzato come quello delle scienze, ne segue che ci sarà un problema di comunicazione dei suoi risultati che trova nella divulgazione la forma migliore, e che è invece messa in difficoltà dalle modalità mediatiche. Condivido interamente il desiderio di serietà di Marconi ma vorrei contestare la struttura dell’argomentazione che ho ricostruito, e con ciò vorrei suggerire un’altra concezione della filosofia. (Marconi stesso riassume alcuni motivi di insoddisfazione verso la filosofia come attività specializzata, ad esempio alle pp. 96-97). La domanda che ci possiamo fare è se la filosofia sia davvero un sapere specializzato come le scienze moderne e la teologia medioevale, o se opponga resistenza alla specializzazione, nonostante lo specialismo e la professionalizzazione nelle università e nei luoghi dove la filosofia è praticata. Un po’ come l’arte, la quale richiede talento ed educazione (ed è variamente insegnata nelle università) ma vive nell’incontro con persone che non sono artisti (che non sono pittori, romanzieri, poeti, registi e così via). Certo, possiamo ritenere sensatamente che la filosofia non sia assimilabile né alla scienza né all’arte. C’è però un contrasto genuino tra un modo di fare e intendere la filosofia che la avvicina ai saperi specializzati come la scienza e un altro modo che la avvicina alle attività intellettuali non specializzate come le arti.

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Mi sembra che la filosofia, nella sua storia, abbia registrato un bisogno ricorrente di respingere la propria collocazione nell’ambito dei saperi specializzati sottratti all’interrogazione comune. Varie linee filosofiche che cominciano forse con Socrate hanno considerato la filosofia come un’attività che interroga la conoscenza comune e ne è interrogata. I classici tra Seicento e Settecento tornano a valorizzare il punto di vista comune e l’esperienza ordinaria delle persone. Il loro lavoro di reinterpretazione della religione ne è un esempio affascinante, come ho accennato sopra. Ma per fare solo un altro esempio, la stessa immagine del contratto sociale rappresenta in modo evidente l’importanza che è attribuita al giudizio degli individui comuni nello stato di natura, sottratti (liberati) dalle gerarchie delle facoltà umane, sociali, cosmiche, che appartenevano alla tradizione. D’altro canto, Hume, che è il grande autore moderno critico del contratto sociale, recupera il punto di vista comune che egli intende come l’intelaiatura che rende conto della mente nelle condizioni naturali così come in quelle artificiali della vita associata. L’Ottocento ha i suoi ritorni all’esperienza ordinaria (con Emerson e Nietzsche, ad esempio), ma è certamente affascinante tenere presente che è proprio la filosofia analitica ai suoi esordi (perlomeno in uno dei suoi esordi) a proporsi di tornare all’esperienza comune, in particolare contro il sapere specializzato della metafisica e della scienza. Con la filosofia del linguaggio ordinario, con Austin e Wittgenstein in particolare, il filosofo non ha il privilegio di parlare a nome di un sapere specializzato, un sapere di esperti sottratto alla conversazione comune, ma si arroga il diritto di parlare a nome degli altri (un’espressione di Cavell6), di dire cosa dovremmo dire e quando, perché è come gli altri, perché accede alla conoscenza che hanno gli altri e ciò che dice può essere messo in discussione dagli altri. In questa prospettiva la filosofia non produce un sapere autonomo che si separa dalla vita comune delle persone. In questa concezione della filosofia, usi e saperi specializzati sono possibilità del linguaggio ordinario ma non ne esauriscono certo le potenzialità. Così, ad esempio, il contare, che è un concetto matematico ordinario, è anche un concetto matematico specializzato il cui uso richiede una competenza specialistica, quella dei matematici. Ci può essere una filosofia che si occupa dell’uso specializzato del contare, e che a suo modo diventerà essa stessa specializzata. Ma c’è anche una filosofia che si occupa del concetto ordinario di contare, che è un concetto matematico ma che è collegato anche con altri concetti: contiamo ciò che distinguiamo, ciò che fa la differenza, sulla base di interessi, di ciò che ha importanza e che conta per noi. Possiamo vedere ed esplorare questi collegamenti dal punto di vista del linguaggio ordinario, mentre essi scompaiono se ci spostiamo nella regione specializzata dove l’uso delle parole è guidato da criteri che sono stati appositamente definiti e circostanziati in vista di scopi particolari. La filosofia in questa prospettiva ha un suo pubblico che è quello delle persone comuni che possono accettare o rifiutare l’autorità normativa del filosofo linguistico. Egli parla a loro nome quando dice che cosa si dovrebbe dire e quando, ma non occupa una posizione privilegiata: può arrogarsi il diritto di parlare a loro nome perché è uno di loro (è uno di noi). In fondo, la filosofia del linguaggio ordinario riprende a suo modo il tema egualitarista che hanno messo sulla scena i classici della modernità a partire da Hobbes. 6

S. Cavell, A Pitch of Philosophy, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1994.

202 Diego Marconi In questa luce possiamo riconsiderare la questione della comunicazione. Se il diritto del filosofo a parlare gli è dato dalla sua capacità di parlare a nome degli altri con una voce che essi possono riconoscere e accettare (e che possono quindi anche disconoscere), le sue scoperte non consentono di essere divulgate o comunque non nel modo in cui lo sono le scoperte della scienza. Nella scienza si divulgano scoperte che i profani non hanno l’autorità di mettere in discussione, di accettare o di rifiutare. Nella filosofia del linguaggio ordinario l’autorità con cui sono espresse delle convinzioni è la stessa dei suoi uditori (lettori) e quindi essa non ha scoperte da divulgare ma osservazioni che invitano l’apprezzamento del suo uditorio. Certamente, vi è una capacità, una profondità, una risolutezza del pensiero che può creare un’asimmetria tra il filosofo e il suo interlocutore, ma la filosofia invita la critica della persona comune, stabilisce con lei una conversazione. Il modello perciò è quello della conversazione che è stabilita tra un’opera d’arte, ad esempio un romanzo, un film, una serie televisiva, e i suoi lettori o spettatori. La filosofia è un’attività in cui il rigore e l’argomentazione hanno un ruolo speciale, in modalità che non troviamo in un romanzo, ad esempio, e che tuttavia non sostituiscono la qualità della lettura (e della comprensione e della conversazione) propria della scrittura filosofica: anzi vorrei dire che la qualificano. Il rigore e la precisione richiesti dalla filosofia del linguaggio ordinario – nella tradizione che si allunga sino a Cavell e agli autori più recenti – non sono quelli propri di settori specializzati della filosofia o di molte discipline specializzate non filosofiche. La lettura e la comprensione dell’argomentazione che rispondono a questo criterio di rigore e di precisione, che chiamerei umanistico, richiedono qualità particolari: una lettura che ritorna molte volte su un testo e che incontra una scrittura che sostiene questo incontro, una scrittura in cui il lettore possa riconoscere se stesso, i suoi pensieri o le sue possibilità di pensiero che non aveva presenti, che non avrebbe saputo esprimere ma che ora riconosce come suoi o come sue possibilità7. Questa è un’esperienza caratteristica della lettura dei romanzi, del cinema e delle serie televisive di qualità. Ma riguarda anche la filosofia la quale condivide con le opere immaginative lo spessore della lettura, della scrittura, della visione, della voce. In questo senso Bernard Williams (che non è un filosofo del linguaggio ordinario nel senso che ho indicato) ha scritto che la filosofia è una disciplina umanistica. Condivide queste caratteristiche con le discipline umanistiche: le sue argomentazioni devono suonare giuste, richiede un senso di ciò che è vivo e fresco e di ciò che è superficiale e falso, una percezione attenta e la gamma di giudizi critici tipici della letteratura immaginativa8. Se ha senso ancora parlare di filosofia analitica (e credo che lo abbia) dobbiamo vedere come questo orientamento o tradizione filosofica ospiti concezioni della filosofia molto lontane tra loro. Dai neopositivismi (ma ci sono altre origini) è venuta la concezione specializzata della filosofia sul modello 7 Su queste caratteristiche della lettura torna Cavell sotto il titolo di «perfezionismo morale». Si veda S. Cavell, Condizioni ammirevoli e avvilenti. La costituzione del perfezionismo emersoniano, Roma, Armando, 2014. 8 B. Williams, La filosofia come disciplina umanistica, Milano, Feltrinelli, 2013 (in particolare l’ultimo saggio).

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delle scienze che ho trovato alla base dell’argomentazione di Marconi. Dalla filosofia del linguaggio ordinario è venuta la concezione umanistica, la quale fa appello a una conoscenza che la filosofia può arrogarsi di articolare solo in quanto parla a nome degli altri, esponendosi al rischio di essere ripudiata in ogni momento. Un modo differente di svolgere questo tema è quello di domandarsi qual è la motivazione della filosofia. La filosofia può sopravvivere in assenza di motivazione o, come potremmo anche dire, con una motivazione totalmente interna? Secondo l’idea della professionalizzazione come la intende Marconi, la filosofia sembrerebbe poter fare da sé e andare avanti senza incentivi che arrivano dall’esperienza comune. Marconi prende di petto i filosofi tradizionalisti, come li chiama, per i quali «è come se la natura dei concetti filosofici fosse per sempre consegnata a un certo corpus di testi, il canone della filosofia», e sostiene che la filosofia analitica si è creata il suo canone e che «essa si concepisce come, in una certa misura, autosufficiente» (pp. 80-81). Tuttavia di nuovo qui possiamo vedere un contrasto importante con le concezioni della filosofia che pensano invece che essa risponda a motivi che vengono da fuori. Cavell ha scritto in modo molto felice che la filosofia non parla per prima ma risponde: risponde a qualcosa che è stato detto, per strada, in un caffè, in un mercato; e risponde a qualcosa che è stato scritto da altri filosofi9. Wittgenstein, ad esempio, come Austin, trova l’avvio della filosofia nelle parole comuni, ma comincia le Ricerche filosofiche con un brano di Agostino rispondendo così a un testo filosofico. Quindi, in un filosofo tipicamente rivoluzionario come Wittgenstein – per il quale la tradizione filosofica e le sue convenzioni non possono più essere date per scontate e la filosofia diventa il suo stesso tema –, persino per Wittgenstein, il punto di inizio della sua opera centrale è un brano filosofico. Marconi offre molte considerazioni che condivido sul rapporto tra la filosofia teorica e la storia della filosofia. Ma rimane la domanda: perché prendere le parole dei classici come quelle che motivano la nostra risposta filosofica? Oppure: perché prendere le parole della strada come quelle che motivano la nostra risposta filosofica? Porsi il problema della motivazione significa domandarsi che cosa muove la filosofia, non accontentandosi né della presunta autonomia di metodi e rigore argomentativo né della presunta autonomia di un canone di testi. La filosofia analitica in una delle sue origini aveva in effetti messo in discussione metodi e canoni acquisiti, ponendosi di nuovo la domanda di ciò che motiva la filosofia. Questa domanda appartiene a un’attività non specializzata, un’attività che è raggiunta da interrogativi su ciò che ha senso fare, sul fatto che le motivazioni possono venire meno e dobbiamo cercarne di nuove, come accade di sovente nella vita quotidiana, la difficile ricerca di un interesse genuino per le persone e per il mondo. La filosofia che è invulnerabile a questo bisogno di motivazione si separa anche dalle fonti dell’interesse, di ciò che è importante nella vita, di ciò che conta. La filosofia specializzata si separa da tutto ciò. Ho suggerito che ha senso difendere una concezione diversa della filosofia, che si pone precisamente il problema della motivazione e dell’interesse: una 9

S. Cavell, A Pitch of Philosophy, cit., p. 63.

204 Diego Marconi concezione che troviamo alle origini della filosofia analitica e che è sviluppata in direzioni davvero differenti nei vari ritorni al mondo (se così posso dire) di questa tradizione filosofica. Piergiorgio Donatelli, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2, 00161 Roma, [email protected].

La filosofia tra storia e teoria: partire dai problemi dell’etica? Eugenio Lecaldano 1. Una prevalenza di considerazione per la filosofia nelle Università Molte delle impostazioni adottate da Diego Marconi nel suo libro su Il mestiere di pensare10 risultano del tutto sottoscrivibili. Proviamo, dunque, ad integrare quanto sostiene Marconi muovendo da una maggiore apertura della filosofia alle questioni teoriche dell’etica. Marconi fa coincidere la sua ricerca su quale possa essere oggi il mestiere di pensare con il tentativo di identificare quale possa attualmente essere il mestiere di chi fa filosofia. In larga parte la sua risposta è anche una ricostruzione della condizione attuale della filosofia, della sua presenza nella cultura, della sua vitalità, del suo futuro. Un merito del modo di procedere di Marconi è un’attenzione per il contesto specifico italiano, ma senza drammatizzare troppo le sue peculiarità e dunque non lamentandosi troppo del nostro insuperabile provincialismo o in alternativa profetizzando per la filosofia in Italia un improbabile radioso futuro. L’ottica di Marconi è quella giusta. Ciò che si può dire sulla filosofia nel nostro paese ha a che fare con fenomeni e processi largamente convergenti con ciò che accade nel resto del mondo (in definitiva molte tensioni rintracciabili in Italia, come Marconi suggerisce più volte, sono presenti anche in Usa, in Francia o in Germania). Questo equivale a collocare una ricerca sul mestiere del filosofo in un ben inteso contesto universalistico. In questa prospettiva la questione non è se si scrive in italiano o in inglese – meritevole, e quasi obbligatorio oggigiorno, è l’impegno ad articolare il proprio contributo filosofico scrivendo in entrambe le lingue – quanto piuttosto la consapevolezza che interrogandosi sul mestiere del filosofo non avrebbe senso dare una risposta specificamente italiana. Marconi rivolgendosi ad un uditorio sovranazionale può incorporare nel suo libro quello che i teorici dell’etica sono abituati a identificare come il punto di vista imparziale e bene informato sulla questione. Nella sua diagnosi Marconi ricostruisce una situazione caratterizzata da una molteplicità di modi di fare filosofia. Possiamo seguirlo quando distingue tra il metodo professionale e specialistico della filosofia analitica, il metodo egualmente professionale e specialistico della storia della filosofia, il metodo più propriamente ermeneutico o sintetico della cosiddetta filosofia tradizionalista, 10

2014.

D. Marconi, Il mestiere di pensare. La filosofia nell’epoca del professionismo, Torino, Einaudi,

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