Un Paradiso terrestre a pagamento

June 9, 2017 | Autor: Giuliana Benvenuti | Categoría: Letteratura italiana moderna e contemporanea, Letteratura Di Viaggio
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materiali e metodi

Un Paradiso terrestre a pagamento I reportage dall’Africa di Alberto Moravia e le contraddizioni del turismo globale di Giuliana Benvenuti 1. Introduzione Fra le cose che abbiamo imparato da Edward Said, Miguel Mellino annovera «il ruolo senz’altro costitutivo dell’espansione coloniale nella genesi del mondo moderno, l’inevitabile faziosità della conoscenza, la capacità dei saperi istituzionalizzati di appropriarsi delle soggettività anche più oneste, la profonda sedimentazione nell’inconscio politico occidentale di stereotipi sull’Oriente in particolare e sull’Altro in generale finalizzati unicamente al dominio, la critica al carattere eurocentrico e storicista di buona parte del marxismo» (Mellino 2009, 34). Tutto questo riguarda la rappresentazione novecentesca dell’Africa nella misura in cui essa può essere esaminata quale esempio di come i saperi istituzionalizzati, in particolare l’antropologia e l’etnografia, ma anche, più in generale, il cosmopolitismo europeo che quei saperi ha contribuito a fondare, improntino il modo di percepire l’alterità di scrittori e intellettuali che pure, come nel caso di Moravia, hanno scritto pagine originali e caratterizzate da una sensibilità e da un’attenzione all’alterità a volte straordinarie. Posta in questi termini la prospettiva qui delineata appare sicuramente schematica e riduttiva. Si tratterà dunque di muovere da questa ipotesi per articolarla e cogliere la complessità e la ricchezza del percorso africano di Moravia attraverso una disamina dei testi necessariamente cursoria che tenga sullo sfondo la consapevolezza che occorre oggi ripensare non solo la nostra storia coloniale nazionale, ma l’intera storia coloniale europea e occidentale come fortemente implicata negli attuali processi di globalizzazione e nelle costruzioni delle immagini dell’Occidente e del «resto del mondo». I reportage di viaggio di Moravia costituiscono un notevole corpus di articoli, pubblicati in gran parte sul «Corriere della Sera», sulla «Gazzetta del Popolo» e su «La Stampa». Essi attestano una precoce quanto costante pratica di viaggio, che ha reso Moravia uno dei maggiori reportagisti del Novecento letterario italiano1. 1 Di una sorta di «curiosità antropologica» di Moravia parla giustamente Enzo Siciliano, rilevandone il debito verso la tradizione esotista (Siciliano 1994, VIII-IX). Dell’ampia produzione di articoli di viaggio solamente una parte esigua venne raccolta dallo stesso Moravia in volume, e precisamente nei seguenti

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2. Il viaggiatore e l’etnografo Al pari della scrittura etnografica, rispetto alla quale gli intrecci sono plurimi e storicamente indagabili, la scrittura di viaggio parla di altri mondi, culture, civiltà, popolazioni, dunque descrive l’alterità a un pubblico che si presuppone condivida la cultura dello scrivente. In questa cornice è essenziale rilevare ­– avendo nella memoria il celebre interrogativo di Spivak Can the Subaltern Speak? (Spivak 1988, 213-322) e dunque ponendo la domanda di chi ha il potere di rappresentare, di chi parla di chi e a chi – che, così come il fine del lavoro sul campo è quello di spiegare al pubblico degli altri antropologi ciò che si è compreso dei nativi durante il «lavoro sul campo» stesso, quello di Moravia reportagista per il «Corriere della Sera» è spiegare al proprio pubblico ciò che succede in Africa, quale ne sia il fascino e quali le contraddizioni: raccontare qui ciò che ha compreso là. Se la scrittura etnografica è autorizzata dalla propria derivazione da una disciplina accademicamente deputata a parlare dell’Altro, per la scrittura di viaggio in epoca contemporanea, dopo la nascita dell’antropologia e dell’etnografia, la questione si pone in termini inediti. Prima il viaggiatore era anche, per così dire, antropologo, svolgeva cioè le funzioni conoscitive, descrittive, informative che poi avrebbero dato luogo a diverse e più specializzate funzioni e scritture. Come allora continuare a scrivere dei propri viaggi, quando la nascita di discipline deputate istituzionalmente a descrivere altre culture sottraggono la propria funzione al viaggiatore/reportagista2? Moravia rivendica per sé uno sguardo che considera superiore sotto il profilo gnoseologico alle «inchieste dei cosiddetti esperti», dimostrandosi tuttavia erede in molte pagine della tradizione illuminista, la stessa dalla quale è nato il museo etnografico, che, insieme al racconto di viaggio, è uno dei dispositivi della costruzione della soggettività occidentale. Dipesh Chakrabarty ha osservato che lo storicismo riunisce storie discrepanti per costruire l’edificio della Weltgeschichte (Chakrabarty 2000): analogamente i musei raccolgono le forme dell’esperienza umana per costruire l’Uomo (Prakash 2004). Moravia si propone come viaggiatore/ osservatore dilettante, sottolinea la propria estraneità agli specialismi, autorizza la

libri: Moravia (1958), frutto di un primo viaggio in Unione Sovietica; Moravia (1962), a seguito del viaggio in India compiuto nel 1961 con Pasolini; Moravia (1968), volume che riunisce le corrispondenze per il «Corriere della Sera» dalla Cina, visitata per la seconda e penultima volta nel 1967 insieme a Dacia Maraini; Moravia (1972), che raccoglie articoli usciti sul «Corriere» fra il 1963 e il 1972 sui viaggi in Africa dello scrittore; Moravia (1981), insieme di corrispondenze africane uscite fra il 1975 e il 1981; Moravia (1987), ultimo diario africano, che raccoglie articoli pubblicati sul «Corriere» fra il 1983 e il 1986, e che narra dell’itinerario moraviano attraverso Tanzania, Burundi, Ruanda, Zaire, Gabon e Zimbabwe. Si veda inoltre la raccolta complessiva postuma Moravia (1994). 2 Ho affrontato le questioni qui brevemente riassunte in modo più approfondito e dettagliato in Benvenuti (2008). Sulla scrittura di viaggio – il primo dedicato all’India, il secondo agli autori italiani – si vedano inoltre Dedola (2006) e De Pascale (2001).

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propria scrittura riferendosi a categorie ampiamente condivise, proprie dell’universalismo europeo e occidentale, a qualcosa che fa parte del senso comune. Questo gioco di rispecchiamenti e differenze tra turista/reportagista ed etnografo è reso esplicito nelle Lettere dal Sahara: Ho seguito passo passo per un mese la troupe di Dacia Maraini impegnata, in Costa d’Avorio, a girare un film sulle donne africane. Così, grazie all’estrema minuziosità e pignoleria del lavoro cinematografico ho finito per fare, senza rendermene conto e senza volerlo, quello che gli studiosi di etnologia attuano di proposito: partecipare alla vita quotidiana di una comunità contadina in Africa (Moravia 1981, 42).

Da questa involontaria esperienza etnografica non scaturirà però un resoconto dal campo, bensì il diario di un autorevole turista. Impegnato nella lettura di Robinson Crusoe, libro che si rivelerà in sintonia con il luogo e la situazione esperiti da Moravia, e contemporaneamente nell’osservazione di quello che gli esperti definiscono «un gruppo etnico tradizionale», Moravia si trova a contemplare «il nulla», ovvero «ciò che avviene o meglio non avviene in un villaggio africano durante quindici giorni qualsiasi» (ivi, 43). Dalla contemplazione del «nulla» si ricava la constatazione «della straordinaria capacità comunitaria degli africani», della loro «disposizione tutta naturale a stare insieme dalla mattina alla sera, non facendo mai nulla di preciso, in modo che alla fine lo stare insieme sembra essere il solo scopo perseguito con coerenza dagli abitanti del villaggio» (ibidem). La quieta contemplazione rende Moravia incline ad attribuire ogni gesto e caratteristica di questa comunità a una naturalità inalterabile e definitiva, immutabile, almeno prima della contaminazione coloniale e di quella che a essa inevitabilmente seguirà. E proprio sul colonialismo e sul razzismo l’autore porta qui la propria riflessione, per esprimere incredulità rispetto ai meccanismi che hanno animato «il sentimento di una diversità irreparabile, giustificatrice di ogni sopraffazione e di ogni violenza» (ivi, 44). Moravia, dinanzi alla totale naturalità dell’esistenza nella tribù dei Lobi, non comprende il meccanismo che ha generato il razzismo e l’imperialismo: Insomma come si fa, dopo una giornata di contemplazione, a non sentire i piattelli nelle labbra come qualche cosa di «necessario» cioè di altrettanto naturale che i fiori delle ninfee nel marigot ? E a servirsene invece come di una pezza d’appoggio per una cervellotica e interessata convinzione di superiorità razziale? (ibidem).

Interamente consegnati alla Natura, fuori dalla Storia, i Lobi non conoscono la nostra idea del lavoro, che per loro è qualcosa di legato al «ritmo biologico» di un’economia di sussistenza che lo vive «senza sforzo e senza intenzione», commisto allo spazio e al tempo del dormire, del mangiare e del giocare. Come gli uccelli di

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Leopardi, i Lobi sono allora animati da un’«allegria naturale che oltrepassa continuamente il limite dell’utilità e trasforma in gioco anche le più esasperanti fatiche» (ibidem), e poco importa che, come pure nota Moravia, i canti improvvisati con i quali accompagnano le loro incombenze esprimano all’opposto il lamento per le fatiche, per la fame, per l’assenza di aiuto. L’importante è che questa autosufficienza non venga intaccata, come purtroppo accadrà inevitabilmente, che «l’immunità dalla rivoluzione industriale» duri il più a lungo possibile. Il terzomondismo di Moravia, quello che gli faceva affermare di considerare i popoli del Terzo Mondo come non ancora abbastanza industrializzati e gli imponeva di cacciare ogni pasoliniana nostalgia verso le comunità tradizionali e contadine (Paris 1994, XXXIII), subisce in Africa un significativo ripensamento. A opporsi all’immagine della comunità dei Lobi, e a tracciarne sinistramente il destino, è l’immagine delle grandi città, nelle quali «la tribù si dissolve e l’individuo non fa più parte di un organismo comunitario come il villaggio ma trascina le sue quattro ossa di qua e di là secondo le più diverse occasioni» (Moravia 1981, 45). Gemeinschaft versus Zivilisation, come nella più classica riflessione antimodernista, questi i termini della serrata critica moraviana agli effetti della globalizzazione imperialista. Tristi assembramenti di baracche di mattoni con il tetto di lamiera ondulata, allineate in uniformi spazi disboscati, sono la testimonianza di un mutamento ormai irreversibile, che cancellerà «la stretta comunione con la natura eterna e materna» priva del «diaframma della moda e della storia», dove non sfuggirà il rinnovato richiamo al Leopardi delle Operette morali e segnatamente al Dialogo della Moda e della Morte. La quieta monotonia della contemplazione della vita comunitaria dei Lobi viene interrotto dal funerale atteso dalla troupe: dopo molte notizie di morti, giunge finalmente l’annunzio del funerale di un anziano. Per potervi assistere occorre una corsa in Land Rover su una pessima pista, che porta però in un luogo incantato, nel quale Moravia, sorpreso dalla bellezza inattesa, ha una sorta di allucinazione uditiva: «Mi pare – scrive – che una musica tenera e malinconica diffonda le sue note su quei prati irreali, da campi Elisi» (ivi, 49). L’illusione è provocata dall’avvicinamento alla dimensione della morte e viene interrotta dalla reazione dei convenuti contro la troupe, dall’aggressione all’operatrice che non si vuole filmi il funerale. Ma l’operatrice filmerà ugualmente, mentre i Lobi, «chiusi nella loro esaltata partecipazione alla cerimonia», sembrano non vedere più gli intrusi. L’atteggiamento dei documentaristi, dichiara Moravia, è ispirato dalla pratica antropologica e ormai dimentico dell’esotismo letterario. «Il documentario – leggiamo – si ispirava più a Levi-Strauss e agli antropologi contemporanei che agli ormai remoti Melville e Stevenson» (ivi, 59). Il fotoreporter, il documentarista, emerge quale erede del viaggiatore nella dimensione di un’Africa resa, potremmo dire, nuovamente esotica, in una forma però tutta novecentesca. È l’esotismo apocalittico dell’epoca della crisi della

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modernità che propone le ultime immagini prima della scomparsa, strappate alle ultime comunità tradizionali della Costa d’Avorio. Se è vero che i resoconti africani sono quelli nei quali, tra i tanti scritti da Moravia, la presa del luogo sull’autore è più forte, l’emotività è più sollecitata, il corpo maggiormente presente sulla scena; se è vero che l’Africa è, in prima istanza e soprattutto nei primi entusiastici resoconti, accesso all’Alterità, all’esplorazione che Conrad aveva narrato, altrettanto indubitabile è che alla trasformazione almeno parziale del viaggiatore in antropologo, pur esprimendo a tratti una forte nostalgia dell’esotismo, Moravia non può opporsi, lettore anch’egli di Levi-Strauss e in qualche modo suo riluttante erede. Ciò dimostra la difficoltà, che non è certo del solo Moravia, nel mantenere salda la distinzione tra scrittura di viaggio e altre forme di narrazione dell’alterità. Ma non si tratta della sola contraddizione che segna le pagine moraviane sull’Africa: molte altre ve ne sono e tutte implicate nel difficile confronto dell’europeo con una modernità sfigurata dal colonialismo e dall’imperialismo. La costruzione di un personaggio-viaggiatore fedele alla propria immagine socialmente costruita, al proprio essere un corrispondente del «Corriere della Sera», un portatore dell’ideologia terzomondista e industrialista, viene messa in discussione in molte pagine, segnate da un’esperienza destinata a destrutturare almeno parzialmente quell’io ordinatore, che è rappresentata dal contatto con «un fascino con un fondo di paura, che è poi paura della preistoria» (Moravia 1972, 17).

3. Viaggio e turismo: la comparsa e la scomparsa di un’utopia capitalista La tradizione della scrittura di viaggio di epoca romantica e prima ancora illuminista trova in Moravia un attento interprete novecentesco, consapevole però delle mutate condizioni storiche del viaggio e del rapporto con lettori per i quali sono cresciute considerevolmente le possibilità di spostamento, come vuole un’epoca che ha visto il consolidarsi di una fiorente industria del turismo3. Le condizioni sono insomma profondamente mutate rispetto a quelle ottocentesche descritte da Debenedetti, il quale notava che:

3 La complessità del racconto di viaggio e della sua stessa definizione nel Novecento dev’essere commisurata alla altrettanto ricca e sfaccettata molteplicità delle scritture etnografiche, con le quali la letteratura di viaggio contemporanea non può non stabilire rapporti di scambio e reciprocità. Un antropologo attento alla costruzione del racconto etnografico e ai suoi protocolli narrativi è Clifford Geertz, che nel suo libro Opere e vite. L’antropologo come autore (1988) ha analizzato alcuni dei più famosi resoconti etnografici utilizzando gli strumenti della retorica e della critica letteraria, mettendo in evidenza le zone di contatto tra letteratura etnografica e di viaggio.

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Lo scrittore di libri di viaggio, per il solo fatto di avere viaggiato, di avere visto genti e cose che i suoi lettori non potevano quasi nemmeno sognarsi di raggiungere, diventava l’eroe di una specie di romanzo autobiografico, in prima persona, nel quale la trama era fornita dal muoversi dell’itinerario, la sorpresa e il romanzesco dalla rarità della meta, dalla varietà e imprevisto degli individui, degli spettacoli, delle occasioni e incidenti (Debenedetti 1971, 325).

Se questo è lo scenario nell’Ottocento, nel Novecento l’autore di reportage di viaggio che si rivolge dalle colonne di importanti quotidiani a un pubblico borghese deve commisurare la propria narrazione con la crescente conoscenza da parte dei suoi lettori di un mondo sempre più vasto e sempre meno esotico, mutando le forme e le modalità di scrittura, i temi, ma soprattutto giustificando i reportage a partire in primo luogo dalla propria autorevolezza e conoscenza, dalla propria capacità di mostrare lati meno evidenti, questioni profonde, immagini nascoste all’occhio dei più, in breve, differenziando la propria posizione, postura e angolo di visuale da quelle del semplice turista4. Anche per questo tra le pagine più interessanti dei resoconti africani di Moravia ci sono quelle dedicate alla riflessione sul turismo che attestano il suo sguardo critico verso nuove forme di consumo, almeno quanto la crescente esigenza di distinzione, che si esplicita nella scelta di ascrivere se stesso a una più nobile pratica del viaggio, quella di ascendenza illuminista, impegnata a rilevare la comune umanità in ogni luogo della terra. La questione dalla quale abbiamo preso le mosse per analizzare la scrittura di viaggio è come l’autore autorizzi il proprio punto di vista sul mondo, ovvero lo renda autorevole, credibile, affidabile, ma anche come lo «autorializzi», ossia lo renda inconfondibilmente suo, gli imprima il marchio d’autore. Al pari di ogni altra scrittura che confina con l’autobiografismo, anche nella scrittura di viaggio è in atto una costruzione dell’autore come personaggio. Senza entrare ora nel merito di un dibattito troppo ampio perché se ne possano qui riassumere i termini, occorre ricordare come la scrittura di reportage dia luogo al filtro dei ricordi personali «al vaglio delle tecniche letterarie e delle risorse persuasive della retorica» che disciplinano l’esperienza irripetibile «entro una cornice sperimentata, autonoma rispetto al vissuto» (Battistini 1990, 165). La trasformazione degli interlocutori e dello stesso autore in «personaggi» (si veda de Man 1979) ha un ruolo essenziale nella tessitura retorica. E l’alternanza di impressioni, ricordi, pagine saggistiche e dialoghi – con gli interpreti, con i compagni di viaggio, con le persone conosciute più fuggevolmente nel corso di visite – è anche una scelta improntata alla ricerca di una varietà che trattenga il lettore. Allo stesso modo è scelta consapevole – sia che si tratti di «appunti» di viaggio, sia che si tratti di false epistole – il differenziarsi dei diversi piani del discorso, che trascorre da descrizioni di paesaggio e 4 Sulla presa di distanza dal turista da parte del «viaggiatore colto» si veda Urbain (1991); Buzard (1993); Enzensberger (1962); Leed (1996); Clifford (1997) e Perussia e Viano (2002).

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di situazioni tipiche a momenti di riflessione personale, che vengono proposti al lettore dalla voce di un autore che scrive sulle colonne di autorevoli quotidiani in virtù della propria ormai consolidata fama di maître à penser. Moravia, come abbiamo accennato, giustifica i propri reportage rivendicando alla propria scrittura una capacità conoscitiva e un’attitudine differente da quella dell’osservazione «scientifica». In tal modo egli si mostra perfettamente consapevole che il suo pubblico si attende da lui, prima e più di ogni altra cosa, che sia uno scrittore. Per questo, all’inizio delle Lettere dal Sahara, afferma: Potrei scrivere di tutto ossia, come si dice oggi nel gergo dell’industria culturale, «a livello» indifferentemente sociologico, politico, culturale, antropologico, religioso ecc. ecc. Ma, dopo riflessione, alla fine, mi dico che non ne farò nulla. Scriverò invece un diario di pure e semplici impressioni (Moravia 1981, 7).

Compie così una scelta di campo, quella di porsi nella prospettiva del turista, richiamandosi però alla tradizione nobile del turismo, quella del Grand Tour (Brilli 1995). Il libro non sarà null’altro che «il diario di un turista», ma non certo di un turista qualsiasi. Il punto dirimente è cosa intenda in questo caso Moravia per turismo. Consapevole del discredito nel quale versano le parole turista e turismo, che richiamano alla mente agenzie di viaggi, pubblicità di crociere, gli autobus di Rome by night, si affretta a precisare che il turismo non è sempre stato consumismo; originariamente era una forma di educazione sentimentale; si partiva per il tour o per il Grand Tour per conoscere il mondo e, attraverso il mondo, se stessi; cioè, per constatare con l’esperienza diretta che, pur sotto diversissime apparenze, il mondo era pur sempre uno solo. Il turismo, insomma, era un modo di vedere la realtà, non di spiegarla; di raccontarla non di smascherarla (Moravia 1981, 7-8).

Di grande interesse sono le considerazioni di Moravia sul turista in Africa, che dimostrano una notevole capacità di analisi degli aspetti socio-antropologici in gioco nell’esperienza dell’europeo in Africa e delle contraddizioni che emergono dalla globalizzazione, che è stata già coloniale ed è ora postcoloniale. Ovviamente ci stiamo qui riferendo al turista «volgare», non al turista che si richiama alla nobile tradizione del Grand Tour, quella che abbiamo visto essere rivendicata dallo stesso Moravia come proprio antecedente diretto. O meglio, a essere in gioco è di nuovo un’oscillazione difficile da bloccare, tra il desiderio di incontrare mondi esotici e la capacità di entrare in una relazione autentica con la Natura e la Preistoria dell’umanità. La ricerca compiuta dall’europeo si orienta in certe zone dell’Africa, come in altri luoghi «remoti» e «selvaggi», verso la fruizione estetico-estatica di paesaggi naturali nei quali la presenza dell’uomo è assente. La Natura è il luogo della Preistoria, in un immaginario nel quale l’autentico corrisponde al non ancora

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contaminato, al naturale, nel senso di non ancora entrato nella Storia. Per questo l’Africa è spesso raffigurata come un Eden, il luogo dell’armonia tra uomo, natura e divinità, benché sia nel contempo paradiso turistico artificiale. Acute le analisi di Moravia sulle contraddizioni alle quali si trova esposto il viaggiatore. Un buon esempio lo troviamo in Nel Paradiso terrestre di Serengheti, dove lo spettacolo di una «libertà sconfinata e tranquilla» si rivela presto illusorio: Torniamo alla «lodge» con la sensazione confusa di avere vissuto quel giorno l’esperienza sconcertante di un Paradiso terrestre, proprio quello descritto nella Genesi, salvato dallo sterminio che già fece scomparire i bisonti americani e preservato apposta per il consumo turistico. Infatti, neppure per un momento abbiamo dimenticato di trovarci in un cosiddetto santuario ovvero parco naturale. Qualche cosa cioè di assolutamente artificioso. Già, perché qui si verifica il paradosso che la natura feroce e inutile adibita a Paradiso terrestre pare artificiosa; mentre le coltivazioni o i pascoli bovini e ovini sembrano naturali. Mentre le Land Rover corrono cerso la «lodge», approfondisco la riflessione sui parchi naturali dell’Africa. Essi sono una contraddizione eloquente: liberi ma controllati, debbono la loro esistenza a un mito; a sua volta il mito è il prodotto di una civiltà utilitaria e consumista che implicitamente minaccia quest’esistenza (Moravia 1987, 15).

Il mito del Paradiso terrestre, occidentale, protestante, capitalista è la Storia, che Moravia riassume attraverso Max Weber e Milton, che narra di un mondo che si offriva intero ed è stato messo a ferro e fuoco dal «lavoro», per poi ripresentarsi come nostalgia dell’Eden prima della cacciata. Così, e non potrebbe essere meglio detto, il Paradiso terrestre di Serengheti e Ngorongoro viene «consumato» ossia diventa merce come tutte le altre, soggetta alle leggi del mercato. Adami ed Eve rientrano, sì, nel Paradiso terrestre, ma pagando (ivi, 16).

Al fondo del mito ecologico troviamo così il mito della cacciata e del ritorno all’Eden, un ritorno però giustificato dal profitto ricavato da un consumo di lusso. Ma, aggiunge Moravia, non sarà forse sempre così, poiché qualcosa di diverso si sta affacciando sulla scena globale, e cioè la «soluzione cinese» del problema del consumo, che consiste nel creare un’industria leggera che «produce oggetti poveri e poco duraturi». In altri termini: «Il socialismo del Terzo Mondo non ha tra i suoi miti quello dell’Eden, e tanto meno quello del rientro nell’Eden attraverso il consumo di lusso», e del resto «il mito capitalista dell’Eden è basato sull’ingiustizia; ma la giustizia non sa che farsene del mito e distrugge l’Eden» (ivi, 18). Pertanto, forse, in un futuro imprecisato, i parchi naturali saranno distrutti da bracconieri e agricoltori e il cratere del Ngorongoro «sarà forse conservato come esempio concreto e istruttivo di utopia capitalista».

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In tempo di turismo, per quanto avventuroso, Moravia non può paragonarsi ai mitici esploratori, Livingstone ad esempio. Il mondo si è rimpicciolito e la tecnologia ha privato di mistero i luoghi dell’ignoto, ha reso «prosaica» l’esperienza del mondo: Allora faccio la riflessione che per vedere, anzi per scoprire questa distesa d’acqua livida, un secolo e mezzo fa sono morti di stenti e di malattie tanti esploratori e missionari, a cominciare dal mitico Livingstone. Provo un sentimento, come dire? Di delusione e di frustrazione. Dunque il mistero dell’Africa era una semplice questione di vie di comunicazione e di veicoli a trazione meccanica! (ivi, 10).

E nuovamente Livingstone riemerge nel capitolo delle Passeggiate africane che porta il titolo Nel cuore dell’Africa un lago di Como, a confermare la fine dell’esotismo nella seguente piana ma ficcante riflessione: Mi viene spiegato che questo fiume fu «scoperto» da Livingstone. Ma perché «scoperto»? Non esisteva forse da sempre? Non lo conoscevano perfettamente gli antenati dei tanti africani che vivono nei villaggi lungo la pista? In questo verbo «scoprire» è condensata tutta la presunzione del colonialismo. E anche dell’esotismo: nel primo Ottocento, non «scoprivano» forse i lord inglesi del Grand Tour paesi già «scoperti» da secoli come l’Italia e la Grecia? (ivi, 40).

Una nota interessante, questa, che dimostra quali nuove acquisizioni critiche Moravia intraprenda mano a mano che approfondisce la propria conoscenza del continente africano e riflette sulle contraddizioni del colonialismo e della globalizzazione postcoloniale. I viaggiatori del Grand Tour sono ora toccati dal sospetto, la loro attitudine alla scoperta di sé e del mondo, quella che Moravia rivendicava come propria, è attraversata dall’ombra del colonialismo e prima ancora dell’esotismo. Dunque Moravia stesso si accorge delle proprie contraddizioni di erede di una tradizione di pensiero portatrice da lungo tempo di quella che Said ha definito una «struttura di atteggiamento e riferimento imperialista» (Said 1993). La dimensione edenica del resto si scontra con l’immagine dell’Africa come Far West, dove il confine della civiltà si sposta, avanza, ingloba e conquista la terra del mistero, della mitica armonia edenico-preistorica, della quale, anche in Africa, alla fine non si può che avere nostalgia, essendo impossibile abbandonarsi al semplice consumo, almeno per un viaggiatore consapevole delle contraddizioni globali del capitalismo avanzato. Il mistero è infranto dai mezzi di comunicazione, dal progresso tecnologico che distrugge l’incontaminato. Il progresso tecnologico e la creazione dei parchi naturali non sono però sempre visti con uguale e decisa prospettiva critica: nello Zaire, ad esempio, Moravia vede una possibile convivenza tra questi aspetti contraddittori della modernizzazione del Terzo Mondo. Il suo futuro lascia prevedere una situazione nella quale

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il massimo della sofisticazione tecnologica della rivoluzione elettronica si accompagnerà inevitabilmente con il massimo di coscienza ecologica. I paesi sottosviluppati del Terzo Mondo non saranno più considerati dei magazzini di materie prime per le industrie delle società affluenti, ma parti indispensabili e integrate di un sistema globale (Moravia 1987, 68).

In ogni caso, ed è questa forse la conclusione ultima alla quale perviene Moravia, «l’avvenire dei paesi sottosviluppati dipende, comunque, piuttosto dal progresso tecnologico che dall’adeguamento a un genere di vita di tipo occidentale».

4. Vecchie e nuove forme di «consumo» dell’alterità Nella raccolta di reportage africani pubblicata da Moravia A quale tribù appartieni? è l’esperienza della «paura» dell’uomo «civile» a contatto con la Preistoria a essere al centro del resoconto. In esso la differenza tra Storia e Preistoria, Europa e Africa tende ad assolutizzarsi e le differenze culturali vengono interpretate secondo un gradualismo fondato sull’opposizione Natura/Storia. In una simile lettura, largamente condivisa all’epoca di Moravia, del cammino di industrializzazione del Terzo Mondo, si produce quella che l’antropologo Johannes Fabian ha definito la «negazione della contemporaneità» (Fabian 1983): i popoli vengono situati in «presenti» diversi postulando un distanziamento non solamente spaziale, ma anche temporale tra l’osservatore, antropologo o viaggiatore, e la popolazione o il soggetto osservato. La colonizzazione, immettendo i popoli colonizzati nello «spazio della storia», li ha destinati a ripercorrere gli «stadi di sviluppo» percorsi dall’Europa, con l’aggravante di accelerazioni e veri e propri «balzi fuori dalla preistoria» gravidi di conseguenze in termini di conflitti e contraddizioni irrisolvibili. L’Africa è il luogo nel quale Moravia entra in contatto con la preistoria individuale e collettiva, con l’origine mitica, il biologico, il naturale, l’incontaminato, l’ignoto. Parzialmente ignoto, parzialmente incontaminato, perché i segni delle precedenti esplorazioni, delle dominazioni, delle violenze, punteggiano quest’avventura novecentesca, così come le pagine degli autori che prima di lui hanno narrato l’Africa, punteggiano le pagine di Moravia. La memoria letteraria si mescola all’esperienza: per quanto disponibile al nuovo e all’inatteso si pretenda lo sguardo, esso resta orientato da un immaginario che viene, volta a volta, rifunzionalizzato o respinto: in ogni caso l’immagine dell’Africa si forma all’intersezione tra letto e vissuto. La consapevolezza dello scrittore del Novecento circa l’impossibilità di tornare a separare ciò che ormai è ibridato apre la strada al primitivismo, un primitivismo a tratti apocalittico però, poiché in ogni caso, anche se finalmente si decidesse di «salvaguardare» il primitivo/preistorico, la distinzione tra «autentico»

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e «autoctono» e consumo di autentico e autoctono resterebbe esiziale. Se in Africa si trovano luoghi che somigliano all’Eden, essi sono abitati da modernissimi Adami europei: Adamo è francese o tedesco o magari milanese; è banchiere, industriale, rentier; e in questi paradisi supersiti ci viene, per il cosiddetto relax, dagli inferni metropolitani (Moravia 1981, 13).

A questa pratica turistica Moravia cerca di restare estraneo, richiamandosi, come abbiamo visto, a una più nobile idea del turismo, quella del Grand Tour, toccata ora dal sospetto di essere complice di uno sguardo che si presuppone acriticamente al centro del mondo, per il quale l’esistente inizia a esistere soltanto nell’attimo nel quale cade nel proprio raggio d’azione. Ciò che resta a Moravia di quella grande tradizione di viaggio è l’idea che viaggiare attraverso lo spazio significhi viaggiare attraverso il tempo (Leed 1991), ripercorrendo il cammino dell’uomo, i diversi, ma alla fine analoghi, «stadi di sviluppo». Una modalità di interpretare la differenza culturale che a ben guardare nel suo approdo novecentesco conduce a una diversa ma pur sempre «consumistica» percezione dell’alterità. Certo, non è il relax a essere cercato, non la riproduzione dei comfort metropolitani nello scenario edenico, ma l’avventura, la differenza, che deve restare tale per consentire all’uomo moderno di conoscere se stesso e il proprio passato, per poter essere, in questo senso però, consumata. Fino a quando non ci saranno più distanze e avventure da percorrere. Moravia non sarà mai uno dei protagonisti di Conrad, l’Africa non è più il cuore di tenebra, è «svelata» e nel contempo «violata» dalla tecnologia, dalla «contaminazione avvenuta», ma non sempre, non tutta l’Africa, il cuore è ancora possibile incontrarlo, come indica il titolo del primo reportage raccolto in Passeggiate africane: In un’aria di Preistoria ritrovo il cuore della mia Africa. Un «cuore» tuttavia non più esperibile in maniera ingenua e sorgiva: l’ingenuità del viaggiatore si rivela presto una finzione letteraria, il rapporto tra primitivismo e consumo, come quello tra arte e natura, fa parte del suo sguardo in modo incancellabile. Non si può fare esperienza dell’Africa senza mediazione culturale, letteraria, artistica, mediatica. Contemplando due amanti che riposano su una spiaggia, Moravia osserva: Il quadro che essi compongono, con le palme inclinate su di loro e l’Oceano che a intervalli regolari si getta e si ritira sulla spiaggia, richiama alla memoria, secondo il ben noto paradosso per cui la natura imita l’arte, le conversazioni contemplative e segrete in riva al mare, dipinte da Gauguin già un secolo fa. Anche questo modo di amare di fronte al mistero melanconico della natura appartiene dunque al «già visto», al «già rappresentato». Ma almeno non fa ancora parte del «già consumato» (Moravia 1981, 16).

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Del «già consumato» fa parte invece la poesia di Baudelaire: i versi del suo sogno esotico, l’Invitation au voyage, si trovano oggi, con poche varianti, nelle pubblicità delle agenzie di viaggio. Dunque, «dopo Gauguin, tramite l’estetismo, l’argine dell’arte ha ceduto, il torrente del consumo ha inondato il mondo» (ivi, 13), o se si preferisce «l’esotismo è diventato consumismo». Impossibile accedere all’esperienza dell’alterità africana senza il tramite della cultura europea, senza il lascito dell’esotismo e dell’estetismo, senza il rischio del consumismo, se è vero che dall’osservazione delle acconciature proposte da una bottega di barbiere è necessario trarre considerazioni sull’avvenuto passaggio dalla «ingenuità» dell’art nègre, attraverso il colonialismo, all’industria del turismo che ripropone stereotipi razzisti: Insomma sul cartellone naïf del barbiere c’era la stessa ingenua e autentica stilizzazione che si nota nell’art nègre; nella pubblicità industriale, invece, una calcolata adulazione somatica di specie razzista (ivi, 11).

I personaggi pubblicitari, africani che bevono, fumano, guidano, «hanno tutti la carnagione chiara quasi rosea e i tratti raddolciti, smussati, quasi caucasici» (ibidem). I resoconti di Moravia ci pongono dinanzi al paradosso del viaggiatore europeo/occidentale che, viaggiando come turista, dunque con i comfort che derivano dalla sicurezza del turismo organizzato (visto con autoironia nelle pagine di Capodanno in Passeggiate africane), cerca tuttavia l’opposto di ciò che il viaggio turistico propone, e cioè la Natura incontaminata, in realtà contaminata dalla sua stessa presenza5. Ma, come abbiamo accennato, distinguersi dal turista alla ricerca di svago e relax è anche un modo per autorizzare i propri resoconti, proponendosi come personaggio-viaggiatore che ci conduce nella «vera» Africa, quella lontana dai club: Ma io non mi fermerò nel club, non scenderò a uno di questi pontili. Il mio programma è diverso. Insieme con un mio amico della Costa d’Avorio, il regista Desiré Ecaré, andrò a Assinie, suo villaggio natale (ivi, 14).

Il noto regista africano diviene, nel primo capitolo delle Lettere dal Sahara, sorta di preambolo esplicativo delle contraddizioni alle quali sarà esposto il viaggiatore, l’intermediario ideale, colui che è in grado di spiegare, essendo a un tempo «dentro e fuori dal campo» per così dire, l’«esperienza fondamentale oggi per un africano: quella del rapporto con la cultura europea» (ibidem). Un rap5 «Il bisogno di fuga – scrive Eric Leed – e di definizione di sé per mezzo di distacchi da ciò che è familiare affonda le radici in una storia che genera una ideologia che esige spazi selvaggi, aree di realtà alternative, in cui il soggetto può postulare la propria unicità e recuperare la libertà nel clima della novità e dell’inatteso; ma questa storia pone anche fine alla realtà stessa di quell’alternativa» (Leed 1991, 70-71).

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porto evidentemente contraddittorio, segnato dal colonialismo, che ha tracciato frontiere, stabilito confini. Un altro modo per distinguersi dal turista a caccia di emozioni forti e avventure preconfezionate è cercare l’isolamento, la solitudine. Una solitudine che Moravia attribuisce letterariamente al personaggio viaggiatore: fornendo notizie relativamente scarse sui compagni di viaggio crea l’illusione di un viaggio quasi solitario. Spesso Moravia esibisce il proprio isolamento dal contesto, ed è significativo che per segnare la propria unicità ricorra all’evocazione di altri scrittori, ovvero si dipinga spesso nell’atto di isolarsi con propri più veri compagni di viaggio, i libri. La maggiore circolazione di immagini dall’Africa e i numerosi soggiorni di Moravia in questo continente (anch’essi consentiti dalla «contaminazione» e dall’industria turistica) lasciano un segno indicativo nella frequenza con la quale compare nei reportage più tardi l’attributo «solito», che confligge con le espressioni di stupore e shock dei primi resoconti. Il paesaggio africano diventa progressivamente più «familiare». La ricerca di luoghi incontaminati e la sua narrazione sono ormai divenuti merce di largo consumo: il lettore di Moravia – e anche di questo Moravia è consapevole – conosce da innumerevoli altre fonti – filmiche, televisive, fotografiche, narrative – l’Africa «incontaminata» e la sua «natura selvaggia», che sono dunque «solite» non soltanto dal punto di vista soggettivo, ma molto più lo sono dal punto di vista del «già visto» dell’europeo di media cultura, al quale si rivolge anche il reportage girato dalla troupe italiana che abbiamo rapidamente commentato, altro «documento» che espone agli europei l’alterità africana. E, se Moravia non esita a ricorrere al ricordo letterario – parla come abbiamo visto di pagine De Foe, Baudelaire, Hemingway etc. ­–, in lui non è tanto il ricorso alla parola altrui a essere posto in atto, quanto l’evocazione di una biblioteca che l’autore ha in comune con il lettore, il richiamo alla propria tradizione come immediato modello di riferimento. Certo, anche questa è una forma di «testualizzazione» dell’alterità (Said 1978), ma l’aspetto più interessante di essa è la conferma che Moravia viaggia pensando a come raccontare ai suoi simili ciò che vede. La sua preoccupazione principale è quella di essere un autore. Un autore però sempre più critico verso la propria stessa tradizione e appartenenza, costretto a metterle in questione in quanto parti di un’idea di uomo e di civiltà che appaiono compromesse con forme di dominio e di potere inaccettabili, volte alla cancellazione della diversità. Del resto, non possiamo dimenticare che Moravia ha esercitato nei propri romanzi e racconti una decisa critica della propria classe di origine, la borghesia. Questa violenta critica viene ora articolata in forme diverse, nel contesto di una riflessione che si sposta sul versante dei rapporti di forza all’interno del sistema-mondo, in una fase storica che apre in Italia al superamento del terzomondismo nella direzione di una nascente critica postcoloniale.

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L’incontro con scenari privi di segni dell’industrializzazione e dei suoi effetti risulta difficile. Natura, Preistoria e Storia sono a stretto contatto: l’esotico è parte dell’immaginario collettivo, a sua volta è qualcosa che può solo essere rimpianto o ricreato letterariamente. Così, allo stupore, allo shock e alla paura che caratterizzano A quale tribù appartieni? si affianca e quasi si sostituisce l’impressione del «già visto» di altri reportage mai raccolti in volume dall’autore. Quello che così scompare dall’esperienza dello stesso Moravia, e che egli già rimpiange con nostalgia, è la possibilità per il viaggiatore di «fare un salto di secoli in situazioni feudali e barbariche». Un salto che promette rigenerazione, e che per questo Moravia, insieme alla sua compagna Dacia Maraini, è spinto a compiere ripetutamente nel corso di numerosi viaggi africani, finendo per «consumare» questa stessa promessa. In questo modo, il rifiuto del consumismo e della ricerca del relax si mostrano come atteggiamenti di distinzione dello scrittore rispetto al turista, dell’intellettuale rispetto al borghese, ma l’Africa, in vesti certo meno banalmente ricreative, resta un luogo al quale si attribuisce senso attraverso una proiezione del desiderio: il desiderio dell’esperienza aurorale e preistorica da parte dell’uomo colto che interpreta il viaggio come elemento decisivo della propria formazione e che nel contempo corrisponde alla propria sofisticata necessità di ricreazione e allargamento della conoscenza di sé. Un desiderio che lo stesso Moravia vede implicato in una rete di contraddizioni che caratterizzano ancora e sempre più il nostro presente.

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