Un caso paradigmatico di \"fides et ratio\": la concezione del tempo (in A. Porras [ed.], \"Fede e ragione\", Roma 2012)

July 22, 2017 | Autor: Ariberto Acerbi | Categoría: Metaphysics of Time, Christian Philosophy, Doctrine of Creation
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Un caso paradigmatico di fides et ratio: la concezione del tempo Comunicazione presentata al Convegno della Facoltà di Filosofia della P. Univ. S. Croce, “A dieci anni dalla Fides et ratio”, 24 febbraio 2009 Ariberto Acerbi

Com’è noto, Aristotele riteneva che il tempo si potesse distendere all’infinito: «di necessità il tempo esisterà sempre... poiché l’istante è principio e fine, allora necessariamente da una parte e dall’altra vi sarà del tempo»1. Tale posizione fu naturalmente assai controversa tra gli autori cristiani (ad esempio, Filopono). Che il tempo abbia avuto un inizio è, infatti, un dato della Rivelazione. Il racconto del Genesi descrive l’atto creativo con una scansione temporale che corrisponde ai successivi interventi di Dio nell’opera del mondo. Più chiaramente, secondo la fede cattolica, il mondo presente avrà un termine che consisterà nel definitivo compimento dell’intenzione salvifica in vista del quale esso è stato fatto. «La creazione è il fondamento di “tutti i progetti salvifici di Dio”, “l'inizio della storia della salvezza che culmina in Cristo. Inversamente, il Mistero di Cristo è la luce decisiva sul mistero della creazione: rivela il fine in vista del quale, “in principio, Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1): dalle origini, Dio pensava alla gloria della nuova creazione in Cristo»2. San Tommaso intervenne sulla questione riconoscendone l’indecidibilità dal punto di vista puramente razionale, ossia dal punto di vista della filosofia. Il tempo cosmologico non è suscettibile di una delimitazione necessaria: si può distendere continuamente; ma questo non implica che sia, perciò, metafisicamente incausato3. La causalità metafisica in cui l’atto creativo consiste non è il primo elemento della serie temporale ma insiste verticalmente su di ogni suo membro e sullo svolgimento della stessa, posto che, in generale, ciò che diviene non può mai porsi da sé. È dunque possibile pensare ad un tempo infinito e nondimeno creato. Secondo san Tommaso, non c’è dunque contraddizione tra fede e ragione da questo punto di vista. Tale impostazione risulta assai apprezzabile, poiché, oltre al suo valore intrinseco, mostra in un caso particolare l’equilibrio con cui san Tommaso ha delimitato l’ambito 1

ARISTOTELE, Fisica, 521 b 21ss.; tr. it. di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995. CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, nr. 280. 3 SAN TOMMASO D’AQUINO, De aeternitate mundi. 2

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della fede e l’ambito della ragione. Si può, tuttavia, ritenere completamente soddisfacente? In tal caso, la fede sarebbe garantita nei confronti della ragione, ma forse non avrebbe particolari implicazioni per essa; o meglio, non tutto il contenuto della Rivelazione sarebbe interessante per la ragione, ma solo una parte. In sintesi, la temporalità interna alla creazione è, forse, un elemento estrinseco rispetto alla stessa? La storicità dell’opera della salvezza è estrinseca rispetto all’evento e allo stesso significato metafisico della creazione? Riprendiamo il problema nella sua impostazione iniziale per proporre infine una soluzione che consiste nella necessità d’interpretare il tempo in chiave antropologica, perciò alla luce di una forma di razionalità più comprensiva di quella operante sul piano della scienza o della filosofia della natura4. 1. La questione sull’origine e la fine del tempo appare in certo modo partecipare della stessa situazione tragica assegnata da Kant, nella “Dialettica trascendentale”, alle maggiori questioni metafisiche: al loro riguardo si è involti in un’antinomia che non si può sciogliere, ma da cui non si può evadere per il loro supremo interesse. L’origine del tempo suppone un’antecedenza, sicché appare come contraddittoria. Se l’origine significa, infatti, l’istante iniziale della serie, allora l’inizio del tempo risulta determinato come ogni istante, secondo un prima ed un poi. Questa sembra essere in sintesi la posizione aristotelica5. D’altra parte, una distensione indefinita del tempo appare altresì assurda, cioè contrasta con l’intelligibilità che noi normalmente associamo alla successione degli eventi. Il tempo è per noi una funzione di un calcolo che integra la nostra comprensione del mondo e del nostro agire in esso; e solo con ciò esso appare giustificato. Ad esempio, espressioni come “ho seminato, adesso debbo aspettare 2 mesi”; “ma perché ci hai messo tanto?” implicano una determinazione razionale del tempo in relazione alla natura dei processi che accadono in esso. I processi nei quali la misura del tempo assume una certa rilevanza richiedono un inizio, una fine ed un’articolazione tra questi estremi che è compito delle diverse scienze determinare. La domanda sorge qui facilmente se l’intero della natura sia anch’esso un processo unitario e sensato, come il divenire teleologico di un essere vivente. Ma non è forse la

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Su queste questioni e sulla soluzione proposta, ho tratto notevoli indicazioni da: F. H: JACOBI, Ueber die Lehre des Spinoza, Werke 1,1, Hamburg 1998; J. J. SANGUINETI- M. CASTAGNINO, Tempo e universo, Armando, Roma 2003. Ringrazio, inoltre, i professori Sanguineti, Ivaldo e Maspero per le loro preziose osservazioni sui temi qui in esame. 5 Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, 12, 1071 b 6-11.

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stessa natura vivente nel suo complesso ad evolversi e a perpetuarsi in maniera indefinita? 2. Possiamo azzardare un’interpretazione di questa perplessità. La domanda sull’origine e sulla fine di tutto proietta sul tempo della natura, sia fisica sia biologica, un principio d’intelligibilità ad esso non corrispondente. A causa della finitezza di ogni suo membro e della nostra stessa conoscenza al suo riguardo, non si può trovare legittimamente una chiusura per il tempo, come successione degli eventi fisici o come progresso evolutivo dei viventi. Sembra, anzi, appartenere alla stessa essenza della materia e della vita tale elemento d’infinita virtualità, come manifestazione, rispettivamente, di povertà e di ricchezza. L’ordine in cui si sostanzia il tempo a questo livello non implica la finale inserzione in una totalità. Ma si può pensare coerentemente in questi termini la vita umana? Poiché questa è inevitabilmente finita, la domanda diviene: in che modo questo segmento del tempo s’inserisce nel tutto di cui essa fa parte? Si può ripiegare la linearità dell’esistenza personale nella continuità indefinita del tempo cosmico. Ma seppure, per ipotesi, essa acquisterebbe così la sua collocazione, che senso in sé compiuto avrebbe dunque questo tempo cosmico? Il punto appare precisamente questo: la chiusura del tempo è associata ad un criterio di sensatezza, ma questa dipende dalla prospettiva teleologica dell’esistenza umana. 3. A questo punto, sulla base delle considerazioni precedenti, si potrebbe concludere che la fede risponde ad un’esigenza di senso che la ragione metafisica, legata com’è all’universale e al necessario, non può soddisfare; seppure, proprio essa possa in certo modo, negativamente, legittimarla. L’esistenza (del mondo) come trascende l’essenza, così trascende qualunque necessità che si possa descrivere al suo interno; con ciò, non si può dimostrare la necessità del mondo a partire da uno o dalla totalità dei suoi elementi6. Tale spiegazione sembra soddisfacente, poiché l’origine del mondo corrisponde così al modo in cui noi stessi c’inseriamo in esso: attraverso la libertà. Donde deriva l’impossibilità di una fondazione dell’esistenza, qualora ciò implichi una sua necessitazione.

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«[N]ovitas mundi non potest demonstrationem recipere ex parte ipsius mundi. Demonstrationis enim principium est quod quid est. Unumquodque autem, secundum rationem suae speciei, abstrahit ab hic et nunc, propter quod dicitur quod universalia sunt ubique et semper. Unde demonstrari non potest quod homo, aut caelum, aut lapis non semper fuit» (SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 46, art. 2, resp.).

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L’indecidibilità della questione proposta riposa, dunque, sulla libertà di Dio nel suo rapporto col mondo e sulla finitezza e potenzialità inerente all’ente creato. Di qui l’impossibilità di determinare a partire dal mondo un suo stesso inizio ed esito conclusivo. D’altra parte, poiché la molteplicità e l’attività appaiono come aspetti costitutivi dell’essere creato, ci risulta difficile pensare ad un momento in cui tutto questo cessi, senza che ciò significhi un assurdo stato d’immobilità o l’annichilimento. Potremmo nondimeno chiederci, il riferimento di fatto della libertà divina ad una libertà creata, la nostra, non introduce una serie di condizioni in cui questa realtà d’interlocuzione, in fondo la stessa sostanza e il fine della creazione, si possa pensare? Si può pensare la creazione come un atto di libertà senza che implichi per essa una struttura temporale intelligibile; senza concepirla, cioè, come un atto culminante in un fine? Forse non c’è contraddizione a pensarlo in riferimento a ciò che Dio potrebbe fare, alla sua onnipotenza, ma non sembra, comunque, sufficiente a render conto della volontà di Dio come una volontà a cui la nostra possa in certo modo assimilarsi e comunicare. Si potrebbe rispondere che la storia del cosmo potrebbe continuare indefinitivamente, mentre la storia umana sarebbe solo un segmento di questa. L’esistenza umana potrebbe attingere una forma compiuta aldilà della morte, senza che ciò comporti alcunché per la condizione del mondo. Ma ciò sembra introdurre una sorta di dualismo nella concezione del mondo. Come si è detto, l’istanza di chiusura appartiene alla prospettiva dell’esistenza umana, ma non è deducibile immediatamente dalle caratteristiche del mondo in cui tale esistenza si dispiega. Peraltro, che cosa obbliga a pensare che la storia dell’umanità nel suo complesso debba avere un termine? 4. Ora, sembra invece caratteristico del modo in cui l’uomo vive nel mondo, che ciò che lo riguarda più intimamente coinvolga il tutto, non sopportando di essere una semplice parte di esso. L’azione umana, in quanto esige una giustificazione radicale, vorrebbe sempre in certo modo riassumere il senso del mondo in cui essa s’inserisce. Più chiaramente, la libertà umana riposa sul presupposto che l’accadere del mondo, che è come la scena in cui essa è chiamata ad un certo punto, abbia un senso, che descriva, cioè, un movimento intenzionale. Tutto ciò sembra, invece, contrario all’ipotesi di un movimento eterno, dove in senso proprio, non accade nulla. Peraltro, che la libertà che sostanzia la vita umana abbia un termine appare sì come un fatto, ma anche come un’assurdità, posto che la vita in generale, come abbiamo detto, comporti un’espansione infinita. Soltanto, la vita umana e il mondo di cui essa fa parte, se deve corrispondere 4

alla volontà che l’ha creata, esige infine una forma conclusiva, sensata ed in sé valida, in cui esprimersi7. Dev’essere come una parola detta che sia capace di rispondere alla prima interlocuzione manifestata nel dono dell’essere, e che termini con l’unione con l’interlocutore, Dio; o invece, poiché di vera risposta si tratta, di rifiuto e allontanamento. Mentre, una parola ripetuta o un discorso prolungato all’infinito sembra piuttosto un monologo senza senso. La parola eterna pronunciata nel tempo, che è Cristo, sembra invece fornire tale determinazione del senso dell’esistenza temporale. Secondo la fede, è Lui, infatti, la parola detta nell’intera creazione e che è rivolta singolarmente ad ogni uomo perché la riproduca in se stesso. 5. A questo punto si potrebbe chiedere, l’introduzione del criterio della sensatezza e della libertà sono istanze antropologiche o sono istanze metafisiche? Esprimono un’esigenza soggettiva, una sorta di “fede razionale”8, o forniscono una ragione obiettiva? La risposta a questo quesito è la conclusione cui vogliamo qui giungere: la spiegazione della possibilità della libertà è il vertice della spiegazione metafisica, poiché è per mezzo di essa che noi effettivamente tocchiamo l’oggetto della metafisica: l’attualità dell’essere. L’essere creato sembra preservato nel suo carattere attuale solo in relazione all’attualità della libertà che presiede ad essa. La forma più eccellente di essere corrisponde infatti alla forma più eccellente di attività 9. Ma ciò significa, che l’attualità dell’essere creato si comprende come tale solo come manifestazione di un’azione in atto di compiersi10. Che la creazione del mondo sia infine un atto libero che interpella singolarmente e con ciò temporalmente un’altra libertà, la libertà dell’uomo, appare, ad avviso di chi scrive, come l’unico modo in cui la prospettiva del cosmo, 7

Come è contraddittorio indicare l’inizio del tempo nel tempo, così lo è la fine. Di qui l’aberrazione delle ideologie nate dal seno dell’hegelismo, come il marxismo, e ciò a partire dalla stessa comprensione della libertà che è il principio costitutivo del tempo. Per lo stesso motivo, anche un progresso storico indefinito, come sostenuto dal liberalismo, non sembra necessario, almeno in senso assoluto. Nondimeno, come segnala L. Polo, poiché la creazione significa un’avvenimento di libertà indirizzato ad un fine, ciò sembra richiedere, se non un culmine immanente, comunque un termine corrispondente alla trascendenza dell’intervento creativo iniziale. Cfr. L. POLO, Sobre la existencia cristiana, Eunsa, Pamplona 1996, p. 267. 8 Cfr. J. G. FICHTE, Die Bestimmung des Menschen, Gesamtausgabe I/6, Stuttgart-Bad Canstatt 1981. 9 L. Pareyson propone di concepire l’essere come libertà; ciò significa, sostituire la libertà all’essere. Altrimenti, la stessa libertà, come inizio radicale e come possibilità (del male) sarebbe impossibile. Questo sarebbe, secondo il filosofo valdostano, il portato filosofico del cristianesimo, che sopravanza in radicalità la prospettiva non cristiana, anzi “anticristiana” dell’ontologia di Heidegger (cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà, Torino 1995, p. 458ss). A nostro avviso, la libertà (di Dio e dell’uomo) si dovrebbe invece cogliere nella sua inerenza costitutiva all’essere, non già, soltanto, come scelta iniziale ma come principio continuamente operante e creativo. 10 Un’ulteriore questione che qui si apre è se la verità della creazione si possa veramente comprendere come tale, cioè come azione di Dio nel tempo, senza una positiva rivelazione, senza l’Incarnazione, come manifestazione in sé libera e concreta dell’eterno nel tempo: ciò di cui l'autore, personalmente, dubita.

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oggetto della metafisica, può infine coniugarsi con la prospettiva dell’esistenza, oggetto dell’antropologia. Si potrebbe vedere qui una conferma di quanto l’enciclica Fides et ratio afferma circa l’esistenza umana come punto d’incontro della fede e della filosofia, e della necessità perciò di una metafisica che sia metodologicamente connessa all’antropologia11.

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GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, nr. 83.

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