Un approccio junghiano ad Hesse: l\'Autore e la \"Conjunctio Oppositorum\"

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO” CHIETI – PESCARA

DIPARTIMENTO DI LETTERE, ARTI E SCIENZE SOCIALI CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONI LETTERARIE

UN APPROCCIO JUNGHIANO AD HESSE: L’AUTORE E LA “CONJUNCTIO OPPOSITORUM”

RELATORE

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Andrea Gialloreto

Chiar.ma Prof.ssa Antonella Del Gatto

CANDIDATO Riccardo Santarelli

ANNO ACCADEMICO 2014/2015

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Indice. Introduzione. 1. Dov’è l’autore? 2. Il concetto di Archetipo. 3. La Conjunctio oppositorum. 4. Il Distacco. 5. L’esempio di Hermann Hesse. 6. La risalita del Fiume. Conclusione. Bibliografia.

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Introduzione.

Con questa tesi propongo la mia personale prospettiva riguardo l’Autore e la Letteratura in generale. Ritengo che l’Autore non debba essere affatto una macchina che genera un testo soltanto per un lontano orizzonte d’attesa o per l’Industria Culturale, ma debba prima di tutto riconoscersi come Uomo. Così partirò da un discorso in generale sullo stato in cui versa l’Autore nella contemporaneità, per poi cominciare ad analizzare la profondità della sua vocazione. Scomoderò quindi Jung, la sua teoria degli Archetipi e dell’Inconscio collettivo, e mi interrogherò sul come queste figure originarie possano avere una corrispondenza con quello che è scritto in un qualsiasi testo. In seguito il discorso si farà più complicato, perché mi proporrò di analizzare l’Unione degli opposti nella teorizzazione dei primi alchimisti. Prenderò inoltre in considerazione il distacco, cercherò di mostrare gli effetti che esso può produrre, e cercherò di dimostrare inoltre la sua fondamentale importanza per quanto riguarda ogni tentativo di arrivare a se stessi. Poi, come corollario, proporrò l’analisi di tre opere di Hermann Hesse: Narciso e Boccadoro, Demian e Siddhartha. Si vedrà come in queste tre opere tutte queste componenti, che possono apparire poco coese, andranno a incastrarsi alla perfezione. Infine proporrò la mia riflessione sulla risalita del Fiume, che altro non è che una testimonianza di un percorso appena iniziato, ancora incompleto che dovrà arricchirsi nel corso della mia vita. 3

1. Dov’è l’autore?

1.1

Alla domanda: “Chi o cosa è l’autore?”, a volte si ha la tentazione di rispondere con un’altra domanda: “Che importanza ha?”. Per rispondere al primo quesito si potrebbe sbandierare ai quattro venti l’Auctor per eccellenza, cioè Dio, l’autore eterno, che dice di sé nella Bibbia: “ ‘Ehyeh asher ‘ehyeh”, cioè “Sono colui che sono, che è e sarà”. Al livello umano l’autore di certo non può essere né eterno, né onnipotente, non ha quella somma equilateralità, ma comunque condivide un attributo con chi sta in alto: l’essere capace di creare. È davvero una creazione? Per me è piuttosto un recupero, allo scopo di mostrare quello che abbiamo perduto durante il nostro peregrinare attraverso i millenni. Quanto all’importanza dell’autore non credo si debbano spendere più di due parole: è importante. Quello che credo sia più importante capire in questa sede è l’attuale condizione dell’autore, che faccia abbia nella contemporaneità. Non è un compito facile se si considera l’ingente confusione che ha portato alla massificazione e all’indebolimento della società in generale. Ciò a cui stiamo assistendo è una corsa per l’individualità. Sembra quasi che tutti vogliano diventare autori, che tutti vogliano darsi un’aura di immortalità. Il problema sta nel fatto che non c’è più la volontà di raccontare o di insegnare; piuttosto c’è la volontà di mostrarsi capaci, non tanto per la soddisfazione di essere primi o ultimi, ma per entrare a far parte di una classifica, di un canone.

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L’autorialità si confonde con la ricerca di sé. L’arte a tutti i livelli, soprattutto per quanto riguarda la letteratura, sta diventando un binario dove passano centinaia e centinaia di treni; il rumore è sempre più assordante. L’arte è uno sfogo. Se la si indossa esteriormente, come un vestito, diventa più che altro un’altra vittoria dell’apparenza. L’autore, quando è in buona fede, incontra molte difficoltà se vuole esprimere un proprio pensiero. Da un decennio o anche meno a questa parte è in voga l’arte istantanea, quella che gira attraverso le piattaforme sociali virtuali, o social networks che dir si voglia, quali Facebook, Twitter o altri. Più chi scrive, chi dipinge, chi filma, chi compone diventa “istantaneo”, più rischia di consumarsi dopo tre o quattro secondi di scorrimento della rotellina del mouse.

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1.2

Mi chiedo a questo punto dove sia l’autore: c’è un posto in cui abita, in cui al suono del campanello mi risponda lui o lei dicendo: “Sono io”? Naturalmente sarebbe troppo facile e scontato. C’è da interrogarsi su ciò che l’autore può dire in quest’epoca per essere tale. In una società massificata naturalmente ci si aspetterebbe di trovare una più o meno valida autorialità nelle correnti alternative, quelle che rifuggono dall’omologazione e dalla standardizzazione. Purtroppo scavando a fondo si scopre che l’andare contro-corrente di tutti i movimenti giovanili e senili è un passo in più che porta ad appoggiare ciò che si crede di combattere, e quindi a diventarne complici. Uno scrittore di sinistra ad esempio si impegna a denunciare la mancanza di lavoro, si occupa della classe operaia, si veste sempre di rosso, ma alla fine rimane all’interno del sistema. Quello di destra altrettanto, naturalmente comportandosi come il più naturale rovescio della stessa medaglia. Cos’è questo sistema? Il sistema è una sovrastruttura. È l’ordinamento superiore che fa delle nostre vite dei sotto-insiemi, degli ingranaggi che vanno periodicamente oliati per mandare avanti (o indietro) il grande orologio del Tempo. Ci si annoia a vivere come essere umani. Il grande sociologo Zygmunt Bauman definisce la nostra società come liquida e incolore. Questa liquidità, che mi sembra più una viscosità, mi fa pensare all’olio per gli ingranaggi. Come si può ben immaginare quest’olio non è genuino, non viene dalla spremitura delle olive, ma dalla spremitura dei cervelli. Bauman per liquidità intende il continuo cambiamento, o ripetizione, delle nostre priorità o necessità. Ci sono determinate cose che stanno sempre di più divenendo necessarie, come uno smart-phone di ultima generazione o un accessorio inutile ma socialmente cool. Chissà perché poi (anche se è così ovvio) i nomi di tutti

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questi oggetti debbano essere in inglese, almeno per quanto ci riguarda. In ogni caso l’autore che è in ognuno di noi si trova ad essere immischiato in un gioco che non è il suo. Sembra una sorta di gioco delle sedie in cui chi si siede prima può sembrare normale, mentre chi rimane fuori è soltanto qualcuno che ha compiuto una regressione. È una situazione in cui qualsiasi azione è velocizzata, anche quella della scrittura. La fruizione della letteratura non è pacata, le vetrine delle grandi catene cambiano ogni giorno. Il lettore è sempre meno interessato al contenuto, al Messaggio; lo colpisce di più una bella impaginazione, o la copertina da sfoggiare alle cinque di pomeriggio bevendo il the. Mi chiedo ancora una volta: dov’è l’autore? In questa confusione l’autore, non parlo ovviamente dei classici, sembra un camaleonte che si mimetizza e si trasforma in un batter d’occhio: una figura che non si vede a occhio nudo. Sembra proprio che l’autore stia scomparendo, o per dirla con Carla Benedetti1 stia morendo. Secondo me non è tanto una questione di morte, quanto di durata. Siamo così legati al concetto di Tempo che è proprio esso a dominarci. Quello che è certo è che la figura dell’autore oggi dura veramente poco, e la cosa va di pari passo con ciò che ho affermato più su: tutto si sta velocizzando, le necessità mutano ogni giorno. Potremmo fare riferimento al Petrarca, quando dice che ciò che piace al mondo è breve sogno, ma sarebbe una forzatura.

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C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore, indagine su una figura cancellata, Milano, Feltrinelli, 1999.

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L’avvicinarsi ad un autore diventa una corsa contro il Tempo, e quando crediamo di averlo raggiunto ecco che si è già volatilizzato. L’autore è diventato una comparsa, una di quelle comparse che hanno uno sguardo così intenso da far pensare a un ruolo da protagonisti, il quale è affidato a chi si trova al posto giusto al momento giusto. Se togliessimo di mezzo il fattore Tempo e facessimo un fermo immagine avremmo la figura dell’autore che sta immobile, con gli occhi bene aperti per guardarsi intorno; tutti gli altri gli corrono davanti con gli occhi chiusi e vanno a sbandare dappertutto, diventando così intontiti che alla fine arrivano a comprare quel tutto. Ecco, se togliamo di mezzo il fattore Tempo, c’è il fattore Guadagno. Qui entra in gioco l’Industria Culturale, forte di una denominazione ossimorica, in quanto l’Industria presuppone il produrre in serie, la Cultura invece diventa prodotto di un’elezione, di una preferenza e quindi anche dell’originalità e unicità. L’Industria Culturale si fa garante di una varietà di temi e generi letterari che si sono cristallizzati e sono diventati irrinunciabili. Dall’altra parte il sovraffollamento rende la concezione di genere molto labile. L’editore/imprenditore chiede ad un autore un prodotto che risponda ai gusti e alle attese di un pubblico. Naturalmente tutto ciò è per un Guadagno sicuro nel minor tempo possibile. Ecco che Guadagno e Tempo in realtà non possono essere separati tra di loro. Da qui il detto: “Il tempo è denaro”. Posso tranquillamente affermare che l’autore, all’interno dell’Industria Culturale, è diventato un prostituto o prostituta. Non a caso pagine e pagine di “romanzi” odierni vertono sul rapporto sessuale.

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1.4

Si è visto dunque come Tempo e Guadagno siano degli elementi essenziali e interdipendenti, che contribuiscono a far capire ciò che l’autore non può essere e ciò che è autorialismo in apparenza. Il Tempo e il Guadagno portano a una perdita di originalità, a una somiglianza troppo forte con la letteratura passata. Ha ragione la Benedetti quando afferma che al giorno d’oggi un autore è considerato valido se il suo stile somiglia a quello che so io di un Cervantes, oppure di un Pirandello. Naturalmente il critico rinchiude anche l’autore in generi che ormai non hanno più senso, visto che se ne creano spesso di nuovi. Non di meno la letteratura cosiddetta di consumo da una parte è sempre più indistinta, come dovrebbe essere, ma dall’altra alimenta quella confusione che fa dell’autore una sorta di Avatar molto blando e molto poco profondo. L’aspettativa di Guadagno è troppo forte perché si riesca ad avere il Tempo materiale per guadagnare una certa autonomia stilistica. La critica ne risente e innalza i nuovi talenti con l’esclamazione: “Ecco il nuovo [nome di un autore già appartenente al canone]!”. Le poetiche ora servono per differenziarsi dal nulla, nascono da vere e proprie nevrosi collettive; le poetiche non servono più per esprimere quello che si vuole dire, o che si crede di voler dire, ma per allontanarsi dalla verità. Mi chiedo ancora e ancora: dov’è l’autore? La parola autore è divenuta simile alle tante etichette che la contemporaneità appone ai suoi abitanti. Queste etichette a volte sembrano veri

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e propri francobolli da incollare su una busta che una volta aperta risulta vuota o piena zeppa di messaggi pubblicitari. Ecco che un autore si trova anche a dover combattere davvero contro dei mulini a vento, rappresentati dagli -ismi che si sono impossessati della lingua dei grandi oratori della politica e della lingua che batte un fantomatico tamburo nei vari talk shows televisivi. Il terreno si fa molto accidentato: si ha una liquidità generale della società, si ha il Tempo-Guadagno e di conseguenza l’Industria Culturale, si ha la critica deviata, si ha la mancanza del Messaggio, si ha un voler per forza etichettare per non dover dare un nome. Insomma, si tratta davvero di un campo minato, in cui l’esistenza stessa, facendo un passo sbagliato, potrebbe saltare in aria. Mi chiedo per l’ultima volta: dov’è l’autore? Posso ben intuirlo se mi libero delle costruzioni/costrizioni artificiali che hanno circondato la figura in questione, rendendola un ricordo abbozzato di ciò che era e dovrebbe essere. Le cose sono ben più semplici e quindi addirittura più complicate. L’autore si trova in un luogo insondato, che né la scienza né la religione troppo fideistica ha saputo trovare, anche perché servirebbe davvero un “colpo di fortuna”. L’autore racconta se stesso e allo stesso tempo tutti noi. Dietro l’autore c’è l’Uomo e c’è la Donna, o meglio l’Uomo e la Donna combinati insieme, non esteriormente, ma interiormente. L’autore è Androgino, checché se ne voglia dire. La figura dell’Androgino sta al di fuori del tempo e dello spazio. Per capire l’autore non basta considerare l’elemento esteriore, la confusione

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imbecille della società, ma si deve attuare un certo distacco, andando a scomodare domande come: “Da dove proviene la concezione che ho del mondo?”, “Chi siamo?”, “Chi ci fa dire le cose che diciamo?”. L’Androgino fa parte di una sfera conoscitiva che molto difficilmente viene accettata o capita. Dal mito del Simposio fino a Jung ne è passato di tempo, ma la sopravvivenza di questa particolare figura mi fa pensare a qualcosa di irrisolto; c’è stata una divisione provocata da degli dèi di carne che ancora non è stata sanata. L’Androgino è qualcosa che sopravvive a questa baraonda che è la nostra contemporaneità, essendo una delle chiavi di volta per capire che siamo esseri umani. L’Androgino è un Archetipo, un concetto di non facile comprensione, a cui bisogna dedicare un intero capitolo.

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2. Il concetto di Archetipo

2.1

Naturalmente per il concetto di Archetipo farò riferimento al lavoro del grande psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, il quale si avvale di un approccio completo, volto ad abbracciare più livelli di conoscenza. Se dovessi definire l'Archetipo in base a ciò che ho studiato e in base alla mia esperienza diretta, potrei dire molto semplicemente che è una terra a cui si arriva per caso, anche se il caso non esiste (di questo parlerò più avanti). Fa parte del campo delle intuizioni e a livello conscio si presenta sotto forma di vera consapevolezza. Possiamo dire che si tratta del substrato della vita, e che è comune a tutti. Che significa che è comune a tutti? >2. L'uomo primitivo infatti, essendo a stretto contatto con se stesso, avendo intatto il suo istinto e dovendo sopperire a necessità reali, aveva un accesso più facile all'inconscio collettivo. Le espressioni consce dell'uomo primitivo erano vere e proprie rielaborazioni per rendere comprensibili fenomeni “riflessi” dalla natura oggettiva a quella soggettiva di un singolo essere vivente. È ormai arcinoto come in culture diverse i miti che riguardano la creazione, o il sorgere e calare del sole, o la figura di Dio si equivalgano quasi inspiegabilmente. In un'epoca in cui il linguaggio non aveva quella forza data dalla fusione funzionale di significante e significato, si è provveduto a creare dei simboli, vere e proprie immagini “sacre”, che vogliono cercare di riprodurre quegli Archetipi che oggi più che mai sono andati perduti, o meglio celati da un velo quasi impossibile da penetrare.

2

Op. cit. , p. 5.

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2.2

Molto spesso la comprensione necessariamente parziale degli Archetipi si ha attraverso l’impatto con elementi naturali che vengono poi sublimati nella Psiche. Studiando le antiche fonti ed analizzando i sogni dei suoi pazienti Jung, oltre ad aver formulato la sua teoria dei tipi psicologici, ha saputo riconoscere gli elementi tipici che possono essere ricondotti ad un’immagine archetipica. Un primo interessante elemento è quello legato all’acqua. Essa è sicuramente molto significativa a tutti i livelli; sulla sua importanza simbolica si è discusso fin dall’antichità. C’è la superficie dell’acqua, il fondo, l’abisso. Può essere vissuta a diversi livelli ed è presente in parecchi sogni offerti alla psicanalisi. Di solito l’acqua è qualcosa da cui ci si ritira spaventati, perché stando alla riva non si può conoscere né il fondo, né ciò che è dopo l’orizzonte. Per lo gnostico la perla della corona del re padre è all’interno dell’abisso, e il figlio deve compiere un vero e proprio recupero periglioso per poter entrare in contatto poi con la divinità. L’acqua è iniziazione, è il simbolo del battesimo, dei riti purificatorii. 3.

3

Op. cit. , p. 17

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Ecco una cosa importante da sottolineare se si parla di Archetipi o di elementi che li costituiscono: essi sono privi di dualità, gli opposti si combinano e una metà non può prescindere dall’altra metà. Questa è una questione che affronterò più volte nel corso di questo elaborato. L’acqua può e deve essere uno strumento di salvazione, bisogna immergersi completamente e poi risalire per ricevere la vita. Naturalmente ci sono dei pericoli. Il primo di essi si riferisce al rimanere fermi, all’accontentarsi del proprio riflesso, della propria maschera che appare sulla superficie dell’acqua. Si pensi alla figura di Narciso che restò fino al deperimento, alla morte, a guardare la propria immagine riflessa perché ormai schiavo dell’apparenza. Secondo Jung bisogna riconoscere che c’è qualcosa al di sotto della maschera, bisogna affrontare la propria Ombra. Dice Jung: 4. Proprio come la paura e l’ossessione, la si può rendere innocua solamente affrontandola. Ecco che appare molto chiaro come i dogmi, i rituali attuati dagli sciamani e dai preti moderni servono ad erigere un muro, un grande muro che ci protegge dai pericoli dell’inconscio. Più è alto questo muro, più è facile morire di inedia, o peggio di troppa credulità. Nei sogni questo muro viene meno, e una volta che diventano consci si possono avere degli strumenti interessanti per capire come affrontare 4

Op. cit. , p. 19.

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se stessi. L’inconscio nei sogni è molto combattivo e freme per incontrarsi col risveglio. Ho fatto un sogno in cui ero in una radura delimitata dagli alberi, un vero e proprio temenos, un recinto sacro. Ero in armatura, avevo con me degli amici, ma nulla ha potuto contrastare l’arrivo di un branco di elefanti che ci veniva proprio addosso. È interessante notare come questo è un sogno che ho fatto anni e anni fa, e me lo ricordo ancora come se l’avessi fatto stanotte. Il temenos è lo spazio delimitato i cui lati vengono fortificati, diventano le muraglie di una fortezza o tempio che sia. Queste inutili protezioni esistono a livello sociale, politico, religioso e individuale. Jung ha contribuito a smascherare l’insieme di quelle figure che erano dette dèi, a impostare il problema in un modo nuovo. Le cosiddette manifestazioni divine altro non sono che fattori psichici ben determinati al livello inconscio ma incerti e apparentemente pericolosi al livello della mera terrestrialità.

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2.3

Un altro importante elemento archetipico è rappresentato senz’altro dall’Anima. Come l’acqua, anche qui siamo di fronte ad una figura molto presente nell’immaginario, immersa a volte in un mistero così profondo da essere impenetrabile, altre volte data come per scontata. 5. Ricordiamo che nella teorizzazione dell’amor cortese e dello Stil Novo, l’anima era un pneuma che dal cuore andava fino agli occhi; forse è per questo che si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima. Riaffiorano insomma le esigenze inconsce personali, che la più o meno grande empatia di chi osserva il fenomeno cerca di comprendere. Dio soffiando sull’argilla ha dato l’anima ad Adamo, perché non vivesse solo di materia inerte e ritenesse che valeva la pena vivere la sua vita. Nella leggenda del Golem i rabbini cercano di riprodurre l’atto di Dio, quello della creazione dell’uomo, ma privi della sua divinità non sanno riprodurre il suo soffio. Viene fuori dall’argilla una creatura priva di anima, un automa completamente succube ai voleri del suo padrone.

5

Op. cit. , pp. 24, 25.

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Per Jung l’Anima è la “bella sconosciuta” che appare talvolta nei sogni, che chiede di essere presa in considerazione. Di solito ha un volto che non possiamo ricondurre alla quotidianità, se non perché il più delle volte si presenta come una donna, o un uomo. Nella Grecia antica abbiamo degli dèi antropomorfi, frutto di sogni e di “visioni”. 6. L’Anima è il secondo stadio della lotta contro sé stessi (per la donna si parla più frequentemente di Animus): l’Ombra è l’inizio del viaggio, l’Anima è la continuazione. Quest’ultima mette sul cammino dell’uomo una serie di prove; se le supera potrà arrivare a una maggior consapevolezza, altrimenti le sue paure saranno amplificate: non si tratterà più di rimanere in superficie, ma di annegare letteralmente. L’Anima è l’archetipo della vita, domina il regno della fantasia, che viene solitamente messa in opposizione all’Intelletto. È dominatrice se l’uomo la lascia fare. Se invece l’uomo supera le prove che gli mette davanti, ed è capace di dominare la sua fantasia, allora anche l’Intelletto, il raziocinio, deciderà di collaborare. Quando l’Anima prende completamente il sopravvento si ha la follia pura, non direzionata e fonte di dolore, spesso anche di morte; quando diventa complice, insieme all’Intelletto è la migliore alleata della vita. Ecco un altro esempio di come gli archetipi siano unici e indivisibili, proprio come l’uomo. La società crea una dualità, una serie di binarismi difficili da riunire nella forma originaria. 6

Op. cit. , p. 26.

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7. Se manca un senso si pensa al suicidio: quanti artisti nel corso corso dei millenni sono entrati a contatto con l’Anima, l’hanno fraintesa e si sono sparati, sono morti di overdose, o si sono gettati dalla finestra. Siamo di fronte a un terreno molto pericoloso, un nonsenso che però ha un significato: la vita. Quest’ultima è spesso confusa con la morte: si pensa che più si vada a fondo, più si rischia di conoscere le brutture dell’umanità. La mia stessa esperienza mi ha convinto del contrario. Strettamente connesso a quello di Anima, c’è un altro Archetipo che aiuta il processo chiamato “processo di individuazione del Sé”. Per Sé si intende l’individuo nella sua totalità in contatto con tutto il resto8. Questo Archetipo è “il Vecchio saggio”. Penserei subito al famoso saggio della montagna, oppure alla raffigurazione cristiana di Dio, a Mago Merlino e al Re Pescatore della tradizione arturiana. Sembra sia proprio così, trattandosi sicuramente di rielaborazioni in chiave mitica dell’Archetipo stesso. Dopo l’Ombra e l’Anima, il Vecchio o Mago è un passo in più verso la conoscenza del Sé.

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Op. cit. , p. 30. È un concetto che chi ha a che fare con la filosofia orientale comprende appieno: si riferisce in qualche modo alla figura del Tao. In parole povere è una totale comprensione della verità che afferma che tutto è Uno. Un elemento non può prescindere dagli altri. Questo sembra valere anche per gli Archetipi. 8

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9. Una figura affascinante, che ha il suo corrispettivo in tutto il mondo. Non serve neanche andare troppo lontano, perché nella cultura patriarcale/occidentale il padre di famiglia, o il capostipite, ha l’autorità e la saggezza che i suoi congiunti devono onorare e rispettare. Può essere considerato una sorta di riflesso deviato dell’archetipo in questione, anche se la figura del Padre è comunque legata al Vecchio. In particolare in molte attestazioni ci si trova di fronte al Re Padre che viene ferito e deve essere curato dopo una quest portata avanti dal suo stesso figlio o da una figura che simbolicamente o direttamente può compiere materialmente e spiritualmente l’impresa. Affiancato all’Archetipo del Vecchio, o Padre, o Re Padre, c’è quello della Madre, anch’esso diffusissimo nelle rappresentazioni di ogni epoca. Da ricordare il culto della Grande Madre, della Madre Terra. Nella cristianità naturalmente ci si trova di fronte la Madre di Dio, nella religione Indù abbiamo Kali. C’è un’importante considerazione o puntualizzazione da parte di Jung: (p. 123). Ecco che proprio dopo la comprensione incontra Demian. È un breve incontro in cui quest’ultimo dice qualcosa di misterioso a Sinclair, quasi si sbilancia e rischia di mostrare il suo vero volto di Archetipo. (p. 126). La notte egli, oltre a Demian, sognò lo stemma. Dipinse l’uccello araldico e ne venne fuori un uccello rapace che cercava di librarsi al di sopra del mondo. Il mondo stesso sembrava un uovo che si schiudeva. L’uccello che tenta di nascere è un’altra immagine di quelle che Jung chiama “immagini dell’Individuazione”; solamente ora Sinclair comincia ad andare in modo conscio, attivo e consapevole, verso il suo Sé. Comincia a delinearsi la figura del dio Abraxas, di cui Sinclair viene a conoscenza grazie a un bigliettino che gli viene messo in un libro di studio, durante una lezione. Si viene a scoprire che Abraxas è una divinità che unisce in sé il divino e il diabolico. Ecco che si vede come i due mondi che Sinclair vedeva da piccolo cominciano qui a diventare uno solo. Comincia a capire che per entrare in se stesso deve fare a meno

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delle differenze6. Proprio quando è conscio di ciò, fa un sogno particolare. (p. 134). Alla figura di Beatrice, alla sua idealizzazione, si sostituisce l’immagine potente e suggestiva di una Madre, proprio come accade in Narciso e Boccadoro. Qui però assume dei tratti di una vera e propria madre/amante, che comincia a guidarlo. Sinclair comincia a sentire la voce interiore che subito si impadronisce della sua coscienza, anche se cerca di ribellarsi. Ecco che il suo percorso lo porta davanti a una chiesa, dove un ignoto organista sta eseguendo Bach. L’esecuzione è perfetta e quasi nostalgica, interiore, e l’attira in modo particolare. Così, preso da un impulso irresistibile, segue l’uomo fino a un’osteria. Qui apprende che anche lui è al corrente del segreto di Abraxas, e dice appunto che non si viene alla conoscenza di Abraxas per caso. Così, per istruirlo su quello che egli sa di questa strana divinità, Pistorius, così si chiama l’organista, lo porta a casa sua. Piena di libri, disordinata, la casa è oscura e piena di presagi. > (p. 143). Pocar, nell’introduzione, dice giustamente che l’incontro con Pistorius è la trasposizione letteraria dell’incontro di Hesse con uno psicanalista. Infatti Pistorius lo informa sulle religioni misteriche del passato, lo informa di quanto esse siano coincidenti con i sogni di un uomo. Hesse descrive anche l’inconscio collettivo percepito da Jung: > (p. 147). Da Pistorius Sinclair apprende anche che ognuno ha una sua ritualità, che ognuno deve trovare il suo modo di tornare a se stesso. Nel frattempo Sinclair incontra un certo Knauer, e fa su di lui l’effetto di uno studioso di magia, anzi di un mago stesso. Knauer cerca con la meditazione ed altre discipline di allontanarsi dai suoi istinti sessuali, ma non vi riesce; così chiede consiglio a Sinclair. Ma quest’ultimo non sa dargli una spiegazione e viene quindi apostrofato malamente da Knauer. In seguito a questo incontro Demian comincia a riflettere più profondamente su Abraxas, anche sotto l’influsso del Pistorius psicanalista. Così viene fuori un altro dipinto, un altro volto. Egli inizia a dipingere volendo rappresentare il volto > (p. 160). E comincia a rivolgersi al dipinto come se si rivolgesse a una divinità, e di conseguenza a se stesso. (p. 161). Così Sinclair avanza sempre di più sul sentiero dell’Individuazione. Egli brucia quasi in sogno il disegno, tanto che quando la mattina si sveglia a stento se ne ricorda. L’Archetipo era penetrato in lui, aveva gettato i suoi semi dentro di lui e ora lui era pronto a seguire di più la sua più intima voce.

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Istintivamente si reca in un palazzo abbandonato, dove trova Knauer, che gli chiede scusa per averlo insultato dopo l’incontro precedente. Ora Sinclair ha la possibilità di partecipare attivamente alla costruzione di una coscienza altrui. > (pp. 163, 164; corsivo mio). In seguito all’incontro con Knauer, e al suo seguire più profondamente la sua voce interiore, Sinclair torna da Pistorius, questa volta per accomiatarsene. > (p. 167). È un vero e proprio superamento da parte dell’allievo. Sinclair ha capito tutto ciò che Pistorius diceva era giusto, ma era passato, era attinto dalla sua enorme biblioteca e non poteva essere davvero il suo io; gli mette davanti la sua passività, il suo essere legato a religioni antiche, che erano state vive ma ora erano morte; ciò che deve esserci di nuovo deve sgorgare spontaneo, e non essere letto. Dopo aver messo davanti a Pistorius Pistorius, Sinclair sente chiaramente il marchio di Caino sulla propria fronte. Sente anche che ogni 93

uomo ha un compito, ma che questo compito doveva essere vestito di volontà. (p. 171). Ed ecco che la sua volontà lo porta a chiamare con forza, dal profondo, l’amico Demian, perché dopo Pistorius è rimasto senza una guida. E Demian riappare, lo incontra “per caso”, e ora Sinclair viene trovato degno di conoscere la madre di Demian, perché il marchio sulla sua fronte è molto più visibile. Appena arriva nella casa di Demian, Sinclair nota subito il suo dipinto dell’uccello che esce dal mondo, appeso a una parete. Sinclair l’aveva infatti mandato in passato ad un indirizzo che credeva fosse di Max Demian. Naturalmente gli è arrivato. (p. 185). Egli dunque fa la conoscenza della Madre, che si fa chiamare Eva. Eva ha gli stessi lineamenti di Demian, solo emana un’aura più completa, più potente e allo stesso tempo più avvolgente. Dal primo momento Sinclair sente di amarla. La casa di Demian e Eva è frequentata da uomini e donne che cercano o hanno trovato loro stessi. (p. 189). Vi è una nuova consapevolezza: il diventare se stessi porta anche grosse responsabilità, perché si acquisisce il potere di divenire esempi, guide, amanti, fratelli. (p.192). Eva intanto diventa una guida ella stessa. Fa ricordare a Sinclair cose dei suoi sogni che altrimenti avrebbe lasciato nell’inconscio. Egli sente amore per Eva, ma non ancora è capace di farlo diventare vero. Ad un tratto tutto si trasfigura. Sinclair trova Demian nella stessa posizione di stasi, completamente concentrato su se stesso. Anche Eva sente bisogno di solitudine. Sinclair esce e vede presagi nelle nuvole, vede un grande uccello. Demian, Eva e Sinclair arrivano alle stesse conclusioni. Qualcosa si sta muovendo, si sta producendo nell’umanità una nuova trasformazione. Arriva la guerra. Demian partirà per la guerra da sottotenente. (p. 206). La guerra appare come una necessità. Quando l’uomo arriva al punto in cui, concentrandosi troppo su ciò che è al di fuori di lui, e andando troppo contro la propria natura, non riesce più a capire chi è; allora si ha la guerra. Diventa distruzione e poi nascita, l’uomo si libera in modo maldestro, con l’assassinio e la distruzione, di ciò che ha accumulato, di tutto ciò che ha prodotto tramite il fraintendimento di sé. In guerra molti prendono la consapevolezza di quello che sono, ma lo fanno quasi in punto di morte. C’è bisogno quindi di educare gli uomini a non tradire se stessi: la comunità ideale non è né la comunità europea, né gli Stati Uniti, né l’Italia; la comunità ideale è quella in cui tutti sanno chi sono.

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E questa Individuazione si compie molto spesso attraverso degli Archetipi. Demian ed Eva non sono altro che Archetipi. Si scopre altresì che Demian ed Eva sono proiezioni dell’interiorità di Sinclair, che egli andando avanti nel corso della sua Individuazione riesce alla fine ad assorbire, così che, ogni volta che egli vuole tornare in se stesso, ha la chiave pronta. Hesse ha quindi saputo mettere su carta i sommovimenti interni del suo animo, quelli che la psicanalisi ha portato alla luce. Come in Narciso e Boccadoro, le immagini si personificano. Sembra quasi che Hesse voglia così avvicinarsi al mistero del Verbo fattosi Carne del vangelo di Giovanni e della tradizione gnostica in generale. Ora è il momento di occuparci dell’Unità in senso stretto, e del distacco. Per fare ciò è necessario che io analizzi Siddhartha.

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5.4 (Siddhartha)

Siddhartha è stato pubblicato in due puntate. La prima parte, che appare nel 1921 sulla “Neue Rundschau”, è dedicata a Romain Rolland, che condivideva con Hesse l’impegno pacifista. Hesse comincia a scrivere il romanzo di getto, ma a un certo punto il suo personaggio subisce un blocco. Sarà necessario, come egli stesso scrive, vivere ancora e fare nuove esperienze per continuare il romanzo. Nel frattempo conosce i coniugi Ball, e incontra lo stesso Jung a Zurigo, con il quale farà alcune sedute. Nel 1922, finalmente, riesce a completare la seconda parte. Quest’ultima è dedicata al cugino Whilelm Gundert, studioso di cultura giapponese, nonché traduttore. Dalle due dediche si vede come questo romanzo sia stato ispirato sia dal suo bisogno di pace e di conciliazione tra lo spirito occidentale e orientale. Dopo il suo viaggio in India, o meglio in Indonesia, la volontà di ricongiungere i due mondi è diventata ancor più impellente. Siddhartha è pubblicato per la prima volta da Fischer nel 1922. Per l’analisi di Siddhartha farò riferimento all’edizione Adelphi, nella ristampa del 2014; la traduzione è a cura di Massimo Mila7. Hesse fa iniziare il suo romanzo dalla giovinezza inoltrata di Siddhartha, nel momento in cui è il più bello e dotto tra i figli dei brahmani, nel momento in cui sa pronunciare il sacro Om ma non ne è completamente pervaso. Egli ha un conflitto interiore, si chiede se tanto sapere possa portare alla verità. (p. 37). La ricerca di Siddhartha di una risposta si fa in qualche modo ricerca nella ricerca. È uno slancio che può portare tanto all’immobilità quanto al trovare. In ogni caso egli è ben conscio che esiste un Origine, l’Atman, la fonte. Tutti ne sono alla ricerca, ma pochi l’hanno realmente trovata. Siddhartha ha un amico, Govinda, che è praticamente la sua ombra, lo segue dovunque e lo ammira molto. A un certo punto accade qualcosa di strano: (p. 38). Govinda prova lo sgomento di Sinclair, in Demian, quando vede Max Demian in quello stato. Ricordo che Demian è stato scritto successivamente. Siddhartha, dopo la profonda meditazione, comunica a Govinda il suo desiderio di andare a vivere tra i samana del bosco, asceti che disprezzano il mondo e vivono in una sorta di panismo. L’unico ostacolo per l’attuazione del progetto è la figura del padre. Siddhartha gli comunica la sua decisione e il padre dapprima non vuole accettare, ma in suo figlio vi è una forza, di cui ancora non si sa il nome, che egli non può contrastare. (pp. 40-41).

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Così il padre lascia andare Siddhartha, perché sente che ormai la sua volontà non gli appartiene più: egli deve seguire la sua strada8. Appena prende la via per raggiungere i samana, Govinda, la sua ombra, si accoda a lui. La disciplina dei samana stava nello spogliarsi di ogni cosa, nel digiuno e nell’identificazione totale con animali ed elementi naturali. Così si poteva diventare uno sparviero in volo, oppure una carcassa in putrefazione; si poteva essere una potente cascata, come anche una pozzanghera melmosa. In questo modo si cercava di fermare il ciclo delle rinascite, si cercava di carpire il mistero, di arrivare al risveglio al di fuori del proprio Io. Siddhartha comprende benissimo la dottrina, e in poco tempo ne diventa maestro. Ma sente ancora che quella non è la sua strada: > (p. 46). Sembra la situazione che ho descritto nel precedente capitolo, della presa di possesso totale dell’Anima9. Si cerca l’allontanamento, il distacco totale dalla materia, e pochi sono quelli a cui è concesso il ritorno. Molti samana indugiano fino alla vecchiaia e alla morte in questo stato completamente fuori dal mondo, ma soprattutto fuori da se stessi. Siddhartha è uno di quelli che scelgono il ritorno e che acquistano una nuova consapevolezza; riesce a distaccarsi da ciò che ha imparato e costruirsi di nuovo un ponte verso la verità. Siddhartha comincia a capire una cosa fondamentale, e ne fa partecipe Govinda: > (p. 49). In seguito i due amici vengono a conoscenza dell’avvento della dottrina del Buddha, il Sublime, e in Govinda è forte la sete di conoscerla. E Siddhartha comunica al suo amico che anche lui è pronto ad ascoltare la dottrina, ma gli dice anche che il meglio di quella dottrina loro l’hanno già sperimentato. Siddhartha deve però prima congedarsi dall’anziano samana, il suo maestro. Egli lo insulta per questa sua volontà di andarsene, ma Siddhartha ha naturalmente superato il suo maestro, e riesce ad assoggettarne la volontà. (p. 54). Govinda rimane estasiato e dice a Siddhartha che se lui fosse rimasto dai samana avrebbe imparato anche a camminare sulle acque. > (p. 54). Qui c’è una suggestiva immagine, in cui si vedono gli anziani asceti camminare sulle acque e ignorare ciò che sta in profondità; scelgono la via della santità forzata, dell’ignoranza. Ma ora è il tempo che i due conoscano Gotama, il Buddha. Ogni persona sul loro cammino ne ha sentito parlare, così arrivano facilmente a Jetavana, al giardino di Anathapindika, un ricco che aveva abbracciato la dottrina del Sublime. Il Buddha appare loro come un uomo mansueto, con un sorriso interiore quasi infantile. Siddhartha sente che la sua dottrina non sta in quello che dice, ma in ogni suo ge100

sto, in ogni movimento delle dita e degli occhi. Govinda rimane invece affascinato dalle parole, ed esprime all’amico il desiderio di diventare un seguace di Gotama. Così Siddhartha capisce che è arrivato il momento di congedarsi dal suo amico, capisce che egli non è più la sua ombra, ma ha preso una decisione. Alla preghiera di Govinda, di trattenersi anche lui sotto l’ala del Buddha, Siddhartha risponde: > (p. 60). A questo punto, Siddhartha sente il bisogno di parlare con Buddha stesso, e lo trova nel boschetto. Egli si fa forza e spiega al Sublime il suo punto di vista. Non seguirà la sua dottrina, perché vi ha trovato la falla: questa sta nel fatto stesso che il Buddha spiega la liberazione dal dolore, ma essa è un punto dell’Unità, non è l’Unità stessa. Il Buddha accoglie le sue parole e lo mette in guardia dalle dispute verbali. In ogni caso Siddhartha vuole concludere il suo pensiero: > (pp. 63, 64). Indirettamente Buddha, portandogli via l’amico gli ha fatto dono di se stesso. Siddhartha ora si sente ben sveglio e pronto a riconoscere il suo 101

stesso Io. Così vede per la prima volta il mondo, con gli occhi di Siddhartha, e ne rimane affascinato. (p. 69). Comincia il suo pellegrinaggio per capire meglio il mondo. Si ferma alla capanna di un barcaiolo, dove viene accolto per la notte, e qui fa un sogno: sogna di possedere una donna. Successivamente viene traghettato dal barcaiolo che, vedendo il suo stato, nudo, con la barba e i capelli lunghi non gli chiede compenso, anzi gli dice: > (p. 79). Questa è una grande verità, che si può trovare nella vita, come si troverà più avanti nel romanzo. Siddhartha, dopo essersi congedato dal barcaiolo, si avvia senz’altro verso la città. Nel tragitto incontra una giovane donna a cui chiede dell’acqua, e questa gli si avvicina con desiderio. Ma egli la respinge, perché sarà istruito da Kamala, la cortigiana, che è maestra nella sua arte. Egli la incontra davanti le porte della città e ne rimane subito affascinato. Per incontrarla si fa rasare, e si fa un bagno. Siddhartha sa quello che fa, e anche Kamala lo intuisce, così gli dà consigli e istruzioni per fare breccia su di lei. Deve vestirsi bene e avere danaro. Siddhartha si presenta a un ricco mercante, e quando questi gli chiede cosa sa fare egli risponde che sa pensare, aspettare e digiunare. Il mercante dapprima è incredulo, ma quando vede che sa scrivere e sa leggere gli concede di fargli da assistente. Col suo carisma Siddhartha riesce anche ad essere trattato da pari, così in poco tempo comincia ad accumulare ricchezze e favori. 102

Kamala gli chiede: > (p. 89). Poi egli le dice che era sicuro che ella l’avrebbe istruito, e quando Kamala gli chiede come lo sapesse, egli dice: > (p. 90). Così ogni nostra azione genera delle conseguenze. Kamala anche ora ne è consapevole. Kamala è la perfetta cortigiana. Ci sono persone che sanno usare alla perfezione il proprio corpo, e possono insegnare molto. Kamala è una di quelle. Nel mondo contemporaneo spesso la disciplina della prostituzione è messa al bando come tabù. Ma ci sono pur donne e uomini che hanno questa vocazione, e non attenendovi vanno contro se stessi. È una via come un’altra per trovare se stessi: la via più “naturale” è quella che si deve seguire. Così Siddhartha si lascia istruire da chi può davvero farlo. Impara in fretta, e ben presto egli e Kamala diventano perfetti amanti. Allo stesso tempo è immerso negli affari, anche se non ne viene coinvolto in pieno. Kamaswami, il mercante per cui lavora, lo rimprovera dopo che egli è tornato da un viaggio dove non aveva ricavato profitto, e in cui egli aveva indugiato divertendosi e facendo nuove amicizie. Siddhartha non comprende appieno il mondo degli Uomini-Bambini, così presi dalle preoccupazioni e così tristi. Egli però sostava in questo mondo. (p. 121). In questa ultima affermazione c’è il senso del vivere il presente, del non aver preoccupazioni riguardo il passato e il futuro. Solo così si può seguire più agevolmente il proprio sentiero. Da ciò viene anche l’accettazione delle varie deviazioni: anch’esse sono state necessarie per Siddhartha, perché egli si rimettesse sulla via verso se stesso11. Giunge ad una nuova consapevolezza: > (p. 126). Egli ora procede sicuro nella sua via, e si scopre che la sua via è un ritorno. Ripercorre infatti la via a ritroso. Questo è quello che Eckhart voleva insegnare: l’avvicinamento, il distacco, l’aprire un altro occhio per ritrovare la via verso l’Origine. La vita è fatta di eterni ritorni, così gli aveva detto il barcaiolo, e infatti ora Siddhartha è da lui che è diretto.

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Scrive Mauro Ponzi: (Op. cit. , p. 67).

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Il barcaiolo Vasudeva lo accoglie di nuovo sulla sua barca. Siddhartha ha ancora gli abiti da ricco, e quando comunica a Vasudeva che non può pagare il passaggio, egli dapprima rimane incredulo. Ma il suo occhio non è disabituato come quello di Govinda; egli non ignora l’ovvio. Riconosce in lui il samana di vent’anni prima. Siddhartha lo prega di accoglierlo per imparare la sua arte e per capire meglio il fiume. Vasudeva accetta. Siddhartha scopre ben presto che il barcaiolo ha una capacità non comune di ascoltare. Egli gli narra la sua storia e si sente come liberato. Esprime la sua gratitudine a Vasudeva e si mostra volenteroso anch’egli di apprendere ad ascoltare. > (p. 133). Così è. Siddhartha comincia ad imparare dal fiume. Impara innanzitutto che il tempo non esiste, e che c’è solo il presente: > (p. 135). Riconosce inoltre nel fiume tante voci: ha una voce di assassino, di santo, di partoriente, di prostituta. > (p. 136). I due barcaioli rappresentano la comunità perfetta: sono tutti e due amanti del fiume, tutti e due sono allo stesso livello di consapevolezza, tutti e due assaporano l’Unità; Siddhartha deve ancora arrivare pienamente alla comprensione, ma la sua comprensione è già in potenza. 107

(p. 137). Arrivano presso il fiume un giorno innumerevoli seguaci del Buddha. È infatti cosa certa che egli è prossimo a lasciare il mondo, è prossimo a fermare il ciclo di rinascite ed entrare nel Nirvana. Tra le file dei seguaci c’è anche Kamala, che porta con sé il figlio suo è di Siddhartha, che del padre porta il nome. Questi è viziato, e costringe la madre a continue soste. Durante una di queste soste Kamala viene morsa da un serpente, e subito viene portata nella capanna da Vasudeva. Siddhartha riconosce subito lei, e riconosce suo figlio. Kamala è moribonda, ma riesce a vedere che gli occhi di Siddhartha sono mutati, che egli ha trovato la pace. > (p. 141). Così egli prende congedo da Kamala, ma non lo fa con dolore, perché ella le ha lasciato il loro figlio, che ora egli ama più di ogni altra cosa. Ma il dono che gli è stato fatto gli è doloroso. Egli ama profondamente il piccolo Siddhartha, ma egli rifugge dal suo affetto. Rifiuta di lavorare, si ribella perché è costretto a vivere con quei due vecchi in una capanna e a mangiare solo riso e banane. Il padre, Siddhartha, cerca di ingraziarselo con la bontà, dandogli i bocconi migliori, non rimproverandolo mai. Ma il figlio comunque giunge all’esasperazione. Dice a suo padre: > (p. 152).

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Presto il figlio scappa. Vasudeva già lo presentiva, e spesso aveva cercato di spiegare a Siddhartha che egli deve compiere la sua strada. Comunque Siddhartha decide di inseguire suo figlio. Giunge alla città dove aveva amato Kamala e si ferma alla porta del giardino. Lì sente il disgusto per quella vita che aveva passato e meditanto acquista una consapevolezza. (p. 154). Egli comunque sente ancora per un periodo la ferita, finché non scompare del tutto, perché sente il fiume ridere. Il fiume ride perché anch’egli, Siddhartha, aveva abbandonato suo padre per seguire i samana, anche lui l’aveva lasciato lì a morire da solo. E così comprende il dolore di suo padre e riesce a distaccarsi dal dolore di essere padre. Dopo l’ultimo grande distacco, Siddhartha comincia a sentirsi parte dell’Unità, e così impara l’ultima grande arte, quella di ascoltare, l’arte di Vasudeva. (p. 161). Così lui e Vasudeva vanno ad ascoltare il fiume. Ed è l’ultima volta che l’ascoltano insieme. Siddhartha ora sente più chiaramente le voci, > (p. 164).

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Ecco che ciò che si era aperto in lui lo porta verso la comprensione, verso l’Origine di tutte le cose. Vasudeva a questo punto si congeda da lui: egli deve tornare nell’Unità. (p. 165). Come tutto ritorna, torna anche Govinda. Egli sente parlare di un barcaiolo che sembra quasi un santo, e decide di andarlo a trovare. Egli è diventato vecchio, proprio come Siddhartha, ma è sempre e comunque alla ricerca. Govinda chiede consiglio al suo vecchio amico, ovviamente senza riconoscerlo, e questi gli dice: > (p. 168). Ancora una volta Siddhartha chiama per nome il suo amico perché lui lo riconosca. E ancora Govinda si meraviglia della sorte del suo amico. Così Siddhartha gli racconta della sua vita e di ciò che ha imparato. Siddhartha ha imparato che > (p. 170), che > (p. 170). Dice inoltre a Govinda: > (p. 171). Siddhartha ha capito che in ogni sasso, in ogni uomo, è presente la Totalità, l’Unità stessa. Ogni uomo è portatore di tutta la divinità del creato, e ogni cosa è in lui; deve solo trovare la strada per accedervi. Hesse è ben consapevole che è necessaria una ricerca per riconoscere una via

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interiore; essa è presente in tutti i suoi romanzi, e in Siddhartha raggiunge forse la massima espressione12. Così Govinda capisce che Siddhartha è come il Buddha. Siddhartha aveva un sorriso perfetto, il sorriso della pace. (p. 179). Ed ecco che in un attimo solo, chinandosi su Siddhartha e ricevendo un bacio sulla fronte da questi, egli ha trovato, finalmente ha smesso di cercare. Voglio prendere le mosse per il prossimo capitolo sulla “risalita del Fiume” da un tratto della discussione tra Siddhartha e Govinda: > (p. 173). È dunque arrivato il momento di esporre il mio punto di vista che proviene dalla mia stessa esperienza. Potrà risultare folle, ma va bene così.

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È interessante ciò che afferma Ponzi: (Op. cit. , p. 67).

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6. La risalita del Fiume. “Dottrina che giova / parola non trova” (Passacaglia della vita, XVII sec.)

La riflessione sulla risalita del fiume è nata dopo mesi di allenamento alla consapevolezza. Ecco che un giorno mi trovo a camminare, come faccio spesso, senza meta, da solo, e all’improvviso capisco che esiste un mare ed esiste un fiume. Sembra ovvio, ma in qualche modo per me era come se fosse la prima volta che vi ponevo attenzione. Allora hanno cominciato a delinearsi forme, pensieri. Poi c’è stato l’immancabile sgranare gli occhi e il sussurrare qualcosa a mezza voce che rende l’idea palpabile; la rende visibile, fatta della stessa materia con cui è fatta la vita. Così tutto ha avuto più senso per me; ho cominciato davvero a capire chi sono. Quando si nasce, si viene catapultati in un mare sconfinato, sede delle esperienze visibili e vivibili. Ma qual è il luogo di provenienza? Da dove si arriva?

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6.1

Ad ognuno di noi è stato assegnato un Fiume, che naturalmente è al di fuori del mare e con il mare condivide solo la foce. Una volta oltrepassata la foce si entra nel mondo, che può essere considerato come di passaggio, o come inizio e fine di ogni cosa. Il Fiume viene a mano a mano dimenticato. Forse a volte, durante la crescita, ci si passa vicino; ma più si cresce, più diventa difficile il riconoscimento. Dunque ci troveremmo di fronte una situazione simile: c’è il mare, ci sono i Fiumi che sono innumerevoli, infiniti (∞) se li considero dal punto di vista dell’assenza di tempo e di spazio. Nel mare ha sede la Materia, e quindi vi sono gli strumenti essenziali per la sopravvivenza in un luogo ostile; l’adattamento risulta sempre penoso. Quindi ci si comincia a costruire una zattera fatta di prime esperienze e prime illusioni, oppure di istituzioni. Quando nuotare risulta troppo faticoso, allora ci si può aggrappare alla zattera che è la famiglia, lo stato, una setta, un club, e così via. Nell’infanzia questo passaggio non è così immediato, perché il bambino prova a nuotare, prova ad andare a fondo. Ma nel bambino è anche forte il desiderio di imitare i suoi simili, e così comincia ad accettare di salire sui legni altrui, che possono anche essere veri e propri barconi di “salvataggio”. I Fiumi rimangono per ora sempre lontani, siamo al centro di ciò che chiamo mare, ma che alla fine è il mondo stesso. Ora, come ho già scritto, man mano si cresce diventa molto difficile non dipendere dal mondo. Qualsiasi tipo di istruzione, sia essa scolastica o religiosa, irradia dal centro del mare, e una volta arrivata al confine va a sbattere creando un meccanismo di andate e ritorni. Così si crea una sorta di rifrazione, in cui tutti sanno qualcosa, e molti lo sanno per sentito dire.

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Ciò che si insegna, ciò che si crede di imparare, rimbalza dappertutto, non ha mai staticità ed è in continua trasformazione. Il problema è che c’è chi sente una versione, c’è chi sente un’altra. Il mare è sconfinato, e le notizie possono arrivare in un modo da un lato, in un modo dall’altro, proprio perché non si ha una rispondenza omogenea. Ogni punto del mare ha le sue particolari caratteristiche, anche se esse producono solo una minima differenziazione. Per imparare a sopravvivere è comunque necessario captare il più possibile, senza immergersi troppo nei pregiudizi. Così si viene a scoprire che la terra è tonda, che il sole brucia, che l’inverno è freddo e l’estate calda. Si comincia a nuotare in modo blando, aggrappandosi di quando in quando a un corpo, o a una zattera.

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6.2

Naturalmente l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e a un certo punto sente un’urgenza dentro di sé, una tensione verso qualcosa che all’inizio non riesce neanche a immaginare. Si comincia a pensare a cosa ci può essere al di fuori del mare, che cosa tiene ferma e in movimento l’esistenza. I Fiumi, che sono oltre i limiti mondani, ora si possono intravedere. L’uomo sente il bisogno di trovare un senso alla propria vita, si ingrandisce e si rimpicciolisce, vuole andare verso l’ignoto. Così può avere inizio un viaggio. Verso cosa, l’uomo ancora non lo sa. Si comincia a lavorare col pensiero, ci si comincia a fare delle domande: Io da dove vengo? Io dove vado? Perché vado e perché vengo? Raramente ci si trova nella predisposizione per avere il tempo di darsi delle risposte. Il più delle volte queste domande rimangono in sospeso, e si segue una via ben delineata. Questa via si può esemplificare in una linea retta. Ma visto che, quando nasciamo, la foce del fiume è dietro di noi, se si segue una linea retta nella direzione opposta si rischia di allontanarsi troppo. Si seguono le prescrizioni della società, si sta beatamente, finché possibile, sulla grande nave da crociera dell’ignoranza, e si rimane in superficie. Le certezze diventano vere e proprie ancore, che tengono ferme le coscienze secondo coordinate ben calcolate. Così l’uomo viaggia, viaggia e invecchia senza mai vivere o aver saputo qualcosa del mondo. Quando invece ci si allontana dalla “retta via”, si ha il terrore di ciò che è ignoto. E così, su un pezzo di legno di fortuna, in solitudine, si rema con le braccia; la fatica è enorme, il rischio di affondare è grande.

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Ma la solitudine è spesso l’unico modo per poter seguire una certa direzione, la propria direzione. Quest’ultima punta sempre verso l’Origine, verso il Fiume. Ovviamente ci sono dei rischi. C’è chi inizia a seguire se stesso, poi si perde, e va a finire tra quelli che hanno intuito qualcosa, ma fraintendono un elemento fondamentale e vanno a finire alla deriva, e con loro vogliono portare quante più persone possibile. Essi hanno visto i Fiumi, ma li hanno creduti troppo lontani e così hanno creato dei veri e propri fiumi artificiali. I fiumi artificiali, ad esempio il Successo, l’Amore, la Bellezza, sono all’interno del mare, e sono generati dalla volontà di distinguersi, di affermare la propria unicità. In essi si incorre più facilmente, perché sono ben visibili, e su di essi le persone vengono portate con brache, tramite meccanismi ben oliati. C’è bisogno di una puntualizzazione. Il Fiume, quello vero, è senza nome, mentre il fiume artificiale ha un’etichetta che risponde a delle aspettative. C’è chi vede il proprio nome scritto su quest’etichetta e crede davvero che quel fiume sia il suo arrivo. Una volta che si è saliti su questi fiumi artificiali, diventa poi difficile scenderne. Si assiste ad un vero e proprio sovraffollamento, e così si perde ancora di più la consapevolezza di chi si è, e il bisogno di differenziarsi diventa così estremo che alla fine si diventa tutti uguali. Come ho scritto, a ognuno di noi è assegnato un Fiume; se si sta in due sopra di esso si è già in troppi. Un uomo può far conoscere il suo Fiume, ma non può condividerlo pienamente. Dunque, se si scansa il pericolo dei fiumi artificiali, che cosa può succedere?

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Si arriva ad entrare appunto nell’Inconscio, e si comincia provare quella morte che è inizio. Ecco che un’azione prima impensabile, proprio perché si è sempre vissuti su delle grandi zattere o grandi navi, si compie. Ci si tuffa in acqua. Quindi ci si nasconde dal mondo, si muore, si va altrove. Il tuffarsi in acqua va di pari passo con periodi di crisi, che altro non vuol dire che passaggio. Quando si risale si viene a scoprire che il mondo non è più come prima: arriva la disillusione, arriva la malinconia. Così si tenta per la prima volta di dare sul serio delle risposte a delle domande essenziali. Si comincia a cercare. E il mondo può offrire molto, anche se non offre l’essenziale; come si suol dire: tutto fa brodo. In ogni caso, dopo che si muore non ci si rende subito conto che si è tornati in vita. Se ci si sofferma troppo sul senso della morte allora si va incontro al suicidio, ma se si supera questa fase allora si possono iniziare a costruire i propri remi, o il proprio sottomarino. Il mondo ha dei limiti, e quindi è finito. Io non credo nell’infinito, ma credo nelle infinite possibilità. Una volta ho sentito qualcuno dire che oltre l’orizzonte ci sono solo case e persone; questo qualcuno voleva che spuntassero i draghi, gli alieni, qualcosa di nuovo. Io gli ho risposto: “Grazie a Dio che ci sono altre case e altre persone!”. Perché ogni casa è diversa, ogni persona è diversa, unica, e può regalare qualcosa di sé; con una speranza sterile e vuota si ritarda solo la morte che è inizio. Una volta tornati in superficie si ha di fronte il nulla, dove ci si può muovere liberamente. Perché una volta che si è sprofondati, la coscienza tende a rifiutare il mondo e le sue certezze, perché le parole perdono quasi significato. Si tende anche a perdere l’idea consueta di Dio, ci si distacca appunto per stare in solitudine. Allora i veri nomi delle cose si palesano, quello che è il Successo diventa successo, quello che è l’Amore diventa amore, quello che è la Bellez117

za diventa bellezza. Gli stereotipi vengono annullati e si riesce a pensare autonomamente. Ecco che arriva il momento di attuare una non-strategia, che si sintetizza nell’imparare a chiudere gli occhi e ad andare alla cieca. Ciò serve per sbandare il più possibile contro la realtà. Quindi si scivola di nuovo nell’acqua, ci sono altre innumerevoli morti, altre innumerevoli risalite, e a mano a mano si impara a dare il vero nome alle cose. La via può essere molteplice: si può fare qualsiasi cosa, dalle azioni più reprovevoli fino a quelle più sante. Se ci si muove prima o poi da qualche parte si arriva. Però una via molto fruttuosa può essere quella di riconoscere i propri limiti e di esprimersi per quello che si è. Molto spesso ciò spinge l’uomo a scrivere, a dipingere, a comporre; è ciò che si chiama arte. L’arte è una fedele alleata, perché contribuisce a fare spazio: più ci si esprime, più ci si libera dalle incrostazioni. L’arte per me è testimonianza, la testimonianza di ciò che si è vissuto, delle morti che si sono affrontate e delle vite che si sono spente. L’arte permette di urlare, e quello che ci arriva dentro dopo aver urlato è l’eco del Fiume. Naturalmente lo stesso effetto si può raggiungere ad esempio con la preghiera, oppure con qualsiasi mezzo che renda facile la realizzazione della propria Individuazione. L’artista, come si è visto anche in Narciso e Boccadoro, è capace di riunire gli opposti e creare un’opera che dapprima non si riteneva neanche possibile. Ma alla fin fine, l’arte è una sorta di preghiera perché ci porta ad avvicinarci sempre di più al divino che è in noi. E il divino in sé non ha differenze. Quando dunque ci si comincia ad avvicinare il richiamo del Fiume è un’eco stonata e strana. Poi diventa forte come la propria voce.

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6.3

È il momento di guardare più da vicino il Fiume. Come ho già scritto, è senza nome. La lunghezza o la profondità non contano, perché esse sono uguali per tutti. Il Fiume contiene quello che siamo, e quindi quando si risale non è un divenire, ma un ritornare ad essere. Per risalire il Fiume è necessario andare contro la corrente che ci ha spinti nel mondo. Si passa dunque dal dolore, dalla solitudine, dall’insicurezza. Il Fiume all’inizio è pieno di presagi, di simboli di non facile decifrazione; simboli che anche noi creiamo senza neanche rendercene conto. Ed ecco che bisogna tornare nel mondo e applicare i simboli sul visibile. C’è chi vede i simboli, capisce la loro importanza e li usa per il proprio comodo. Un esempio può essere la Croce, un simbolo antichissimo che rappresenta l’unione tra spirito e corpo; essa è stata strumentalizzata dalla chiesa molte volte per potere e ricchezze. Una volta dunque che ci si rende conto dei simboli, ci si rende anche conto che la società non fa altro che dividerli a metà. Allora diventa necessario rammendare, usare la propria esperienza per unire ciò che ai più pare inconciliabile. Solo in questo modo si può continuare la risalita. Il Fiume è pieno di ostacoli, pieno di scelte. Ogni scelta porta naturalmente a una conseguenza; si impara mano a mano ad economizzare le bracciate, ad essere più cauti e più calmi. Continuando la risalita, si vede poi che il fiume diventa famigliare; ci si riconosce nelle onde, nel suo andamento, nella sua limpidezza. Si accetta la fatica, e si va avanti, non tenendo conto degli ostacoli che diventano sempre più irrisori.

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Il mondo intanto si fa sempre più lontano, si è creato un distacco. Tanti sono nel mondo, tanti sulle navi, apparentemente felici, con una maschera orribile che li fa sembrare delle marionette. Per loro il Fiume è invisibile, e si accontentano delle certezze. Durante la risalita, comunque, può anche accadere che si arrivi a un certo punto ma poi non ce la si faccia più. Allora si ritorna nel mondo. Si è acquisita comunque una piccola consapevolezza, ma non è abbastanza. Il mondo ritorna ad avviluppare la coscienza. Avendo iniziato la salita si è in possesso dei simboli, ma non avendone la comprensione totale si confonde l’interno con l’esterno e l’esterno con l’interno. Si cerca la verità in un partito, in un’ideologia, in una setta, nella massoneria; si crede insomma di vedere quegli stessi simboli all’interno del mare, mentre in realtà non sono altro che buchi nell’acqua. Tornando a chi risale il Fiume, ho scritto che gli ostacoli a mano a mano diventano più irrisori, proprio perché il distacco è già grande e si può procedere senza tante interferenze. Quando la Sorgente è visibile, una parte della verità comincia ad essere rivelata, e si entra nel più profondo segreto che esista. Una volta arrivati alla Sorgente, tutto è più chiaro. Si può aprire l’altro occhio, quello di cui Eckhart parla, per guardare in basso e arrivare alla comprensione. Una volta che il Fiume è stato risalito avviene qualcosa di meraviglioso. Si diventa senz’altro Strumenti di Dio, si è tornati per la prima volta all’Origine, ed ora si può andare nel mondo per testimoniare, curare, amare davvero. C’è un’altra cosa da tenere ben presente: il Fiume non va risalito solo una volta, ma innumerevoli volte, proprio per segnare la rotta. Si risale dunque il Fiume, si va nel mondo, ci si allontana sempre di più ma intanto si sa come tornare indietro. A un certo punto l’allontanamento nel mondo e la risalita del Fiume si pongono in parallelo tra di loro. 120

Chi ha trovato la Sorgente da cui sgorga null’altro se non il Sé, allora può sperimentare un rapporto nuovo col mondo e con gli altri. C’è chi si avvia a voler risalire il Fiume, e così si può aiutarlo a trovare la giusta direzione. C’è chi fa fatica a risalire, e così gli si può dare una mano. Visto che nulla è casuale e si diventa Strumenti, gli incontri che si fanno sono sempre dettati da una necessità, da un dare e un avere che non hanno corrispondenza in nessun’altra parte del mondo. Così si creano incontri esclusivi, unici, perché anche ogni uomo e ogni donna sono unici e irripetibili. Un ingrediente fondamentale per vivere al mondo si traduce nell’amore. Amore è comprensione, e dunque vuol dire che l’uno conosce il Fiume dell’altro. Si impara la fiducia: due innamorati possono unirsi e distaccarsi a loro piacimento. Una volta risalita la Sorgente si confluisce di nuovo nell’Unità, si entra nella non appartenenza, nel regno della pace. Bisogna comunque tornare di tanto in tanto, poggiare sulla Sorgente ciò che si è preso nel mondo perché torni al mondo purificato. Ogni uomo che compie più volte la risalita del Fiume è capace di creare una dottrina. Però la sua esperienza non è trasmissibile, è propria di chi la compie, e a parole diventa troppo complicato esprimerla. Ecco perché Gesù non si potrà mai comprendere appieno, così come Buddha o come chiunque altro. Questo è il senso delle parole contenute nella Passacaglia della vita: “dottrina che giova / parola non trova”. Ognuno quindi deve compiere la propria esperienza, deve nuotare, morire, rinascere, comprendere. Solo così potrà arrivare alla Sorgente. Da ogni dottrina l’uomo deve praticare il distacco, da ogni tentativo di spiegare a parole l’inspiegabile deve guardarsi.

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Una volta diventati Strumenti, la morte diventa un ricordo e tutte le energie sono tese verso la vita. Ecco che l’Autore diventa colui che ha trovato se stesso risalendo il proprio Fiume, ed è tornato nel mare con la propria esperienza. Egli crea, si mette in gioco, e non smette mai di essere consapevole, non smette mai di comprendere, perché non si può sapere quante risalite si possano compiere fino alla morte corporale. L’unica cosa che si può fare è dunque essere vigili, e non temere ciò che viene dal profondo del mare, ma accettarlo, accoglierlo, e con esso tentare la risalita del Fiume. Ci si può aiutare con l’arte, con la preghiera, ma prima di tutto bisogna imparare a distaccarsi per conoscere il nulla e quindi per imparare l’Unità, per imparare a riconoscere la propria Origine.

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Conclusioni.

Questa tesi è andata di pari passo con la mia esperienza, ho sentito il bisogno fisiologico di scriverla. Già per la tesi del Triennio avevo questa idea, ma era un abbozzo e non riuscivo a venirne a capo. Vivendo, studiando e viaggiando in me stesso alla fine ho trovato la strada. Certo si tratta di una strada anch’essa abbozzata, non è che un inizio. Quando mi sono avvicinato alle teorie di Jung, o a Eckhart, o a Hesse, non credevo assolutamente che sarebbero andati a finire dentro questa tesi e non so assolutamente dove mi porteranno ancora. E sono rimasto anche sorpreso dal fatto che la mia esperienza universitaria, i libri che ho letto per gli esami, tutto è servito e tutto è confluito in questo lavoro. Sono ben consapevole che la riflessione sulla “Risalita del Fiume” è incompleta; la vita mi insegnerà a completarla, o almeno ad arricchirla. In ogni caso, è ciò a cui io credo profondamente, e chissà se nella stesura di questa tesi io stesso non sia stato uno Strumento per aprire la comprensione a qualcuno. Lo spero, intanto continuo la mia esperienza che è all’interno del presente. Non credo infatti a Jacques Prèvert quando dice che non c’è presente, che il tempo non fa regali. Il tempo è relativo, ognuno ha il suo. Tutto quello che posso fare ora è concludere questa tesi senza indugi, perché sono consapevole che anch’essa, a modo suo, ha fatto il suo tempo.

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Bibliografia.

Sulla problematica che riguarda l’autore e la contemporaneità: C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore, Indagine su una figura cancellata, Milano, Feltrinelli, 1999. M. Foucault, Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 2012. J. P. Sartre, Che cos’è la letteratura, Milano, Il Saggiatore, 2009. Opere di Jung in lingua italiana (edite da Bollati Boringhieri): C. G. Jung, Aion, Torino, Bollati Boringhieri, 1982. C. G. Jung, Civiltà in transizione. Dopo la catastrofe, Torino, Bollati Boringhieri, 1986. C. G. Jung, Civiltà in transizione. Il periodo fra le due guerre, Torino, Bollati Boringhieri, 1985. C. G. Jung, Freud e la psicanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1973. C. G. Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, 1980. C. G. Jung, La dinamica dell’inconscio, Torino, Bollati Boringhieri, 1976. C. G. Jung, La vita simbolica, Torino, Bollati Boringhieri, 1993. C. G. Jung, Lo sviluppo della personalità, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. C. G. Jung, Mysterium coniunctionis, Torino, Bollati Boringhieri, 198990). C. G. Jung, Pratica della psicoterapia, Torino, Bollati Boringhieri, 1981. C. G. Jung, Psicogenesi delle malattie mentali, Torino, Bollati Boringhieri, 1971. 124

C. G. Jung, Psicologia e alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, 1992. C. G. Jung, Psicologia e religione, Torino, Bollati Boringhieri, 1979. C. G. Jung, Simboli della trasformazione, Torino, Bollati Boringhieri, 1970). C. G. Jung, Studi psichiatrici, Torino, Bollati Boringhieri, 1970. C. G. Jung, Studi sull’alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, 1988. C. G. Jung, Tipi psicologici, Torino, Bollati Boringhieri, 1969. Opere sul rapporto tra psicanalisi e letteratura: V. Baldi, Psicoanalisi, critica e letteratura. Problemi, esempi, prospettive, Pisa, Pacini Edotore, 2014. M. David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1990. M. David, Letteratura e psicoanalisi, Milano, Mursia, 1967. S. Freud, Psicanalisi dell’arte e della letteratura, Roma, Newton & Compton, 1997. A. Ginzburg, Il miracolo dell’analogia, Saggi su letteratura e psicanalisi, Pisa, Pacini Editore, 2011. J. Lacan, Scritti, a cura di G. B. Contri, Torino, Einaudi, 2002. M. Lavagetto, Freud la letteratura e altro, Torino, Einaudi, 2001. A. Serpieri, Retorica e immaginario, Parma, Pratiche, 1986. A. Stara, Letteratura e psicoanalisi, Bari, Laterza, 2001. J. Starobinski, Le ragioni del testo, Milano, Mondadori, 2003. Opere di e su Meister Eckhart: A. Beccarisi, Eckhart, Roma, Carocci, 2012. Meister Eckhart, Commento al vangelo di Giovanni, Roma, Città Nuova Editrice, 1992. Meister Echkart, Dell’uomo nobile, Milano, Adelphi, 1999. M. Vannini (a cura di), Meister Eckhart, Il ritorno all’origine, Firenze, Le Lettere, 2006.

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Principali opere di Herman Hesse tradotte (comprese quelle trattate, sottolineate): H. Hesse, Demian, Milano, Mondadori, 1988. H. Hesse, Gertrud, Milano, Mondadori, 1980. H. Hesse, Hermann Lauscher, Milano, SugarCo, 1979. H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, Milano, Mondadori, 1955. H. Hesse, Il lupo della steppa, Milano, Mondadori, 1979. H. Hesse, Narciso e Boccadoro, Milano, Mondadori, 2014. H. Hesse, Peter Camenzind, Milano, Rizzoli, 1962. H. Hesse, Siddhartha, Milano, Adelphi, 2014. H. Hesse, Sotto la ruota, Milano, Rizzoli, 1964.

Materiale critico in lingua italiana riguardo l’opera di Hesse: R. Andreassi Ruggieri, Hermann Hesse. Sull’esperienza dell’io e della storia, L’Aquila, L. U. Japadre, 1976. F. Arzeni, Un’educazione alla felicità. La lezione di Hesse e di Tagore, Milano, Rizzoli, 2008. E. Banchelli, Invito alla lettura di Hermann Hesse, Milano, Mursia, 1988. R. Freedman, Hermann Hesse, Pellegrino della crisi, Torino, Lindau, 2009. C. Magris, Il sorriso dell’unità ovvero Hermann Hesse fra la Vita e la vita, prefazione a H. Hesse, Romanzi, Milano, Mondadori, 1977. M. Ponzi, Hesse, Firenze, “La nuova Italia”, 1981. M. Ponzi, Il mito della giovinezza in Hermann Hesse, Firenze, Vallecchi, 1997. M. Specchio (a cura di), Hesse, Storie di vagabondaggio, Roma, Newton & Compton, 1991. M. Versari, Un percorso iniziatico in Hermann Hesse; dalla caduta alla seconda innocenza, CLUEB, Bologna 1999.

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Altro materiale utilizzato per la trattazione: D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Milano, Mondadori, 2011. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori, 2012. M. Craveri (a cura di), I vangeli apocrifi, Torino, Einaudi, 2005. A. Roob (a cura di), Alchimia & Mistica, Köln, Taschen GmbH, 2014. J. P. Sartre, La nausea, Torino, Einaudi, 2013. A. Tabucchi, Notturno indiano, Palermo, Sellerio, 2009.

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