Trading with Enemy Il commercio cinoamericano da Nixon a Trump

May 23, 2017 | Autor: Paolo Balmas | Categoría: International Trade, Us-China Relations, Economic Warfare
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Trading with Enemy Il commercio cinoamericano da Nixon a Trump di Paolo Balmas

L’elezione di Nixon alla Casa Bianca, nel gennaio 1969, mise fine alla politica di non-riconoscimento e contenimento della Cina comunista iniziata nel 1949. Sin dal principio il nuovo presidente si propose di sfruttare l’antagonismo ideologico e geopolitico cino-sovietico, non solo per dividere il campo socialista ma anche allo scopo più immediato di privare Hanoi del supporto economico e militare cinese. In marzo gli scontri cino-sovietici sull’Ussuri, in settembre l’annuncio ufficiale del graduale ritiro americano dal Vietnam mutarono l’assetto geopolitico dell’Estremo Oriente, e consentirono di ufficializzare le relazioni cinoamericane fino ad allora mantenute a livello di incontri informali (136 in 16 anni) tra le rispettive legazioni a Ginevra (1954-58) e poi a Varsavia (1958-1970)1. L’occasione, passata alla storia come «ping-pong diplomacy», si presentò nell’aprile del 1971, durante un torneo di pingpong in Giappone, quando la squadra cinese invitò l’americana in Cina. A giugno, negli stessi giorni in cui Washington si impegnava formalmente a restituire al Giappone la sovranità su Okinawa, gli atleti e i giornalisti statunitensi furono i primi americani a rimettere piede in Cina dopo più di vent’anni. Dalla diplomazia del ping-pong al WTO (1971-2001) In concomitanza col torneo, Nixon sospese l’embargo alla Cina in vigore da vent’anni, liberalizzando l’esportazione di tecnologie e prodotti strategici in precedenza soggetta ad autorizzazione del Tesoro. Le partite di ping-pong, inoltre, permisero di gettare le basi per i successivi incontri diplomatici. Il primo ebbe luogo il 9-11 luglio 1971, quando, sot1

Steven M. Goldstein, «Dialogue of the Deaf?: The Sino-American AmbassadorialLevel Talks, 1955–1970», in Robert S. Ross e Changbin Jiang (Eds), Re-examining the Cold War: U.S.-China Diplomacy 1954–1973, Harvard University Asia Center, 2001, pp. 200–37.

to la copertura di un viaggio in Pakistan, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger fece segretamente scalo a Beijing per discutere le linee guida del riavvicinamento e preparare la visita ufficiale di Nixon2, annunciata ufficialmente in tv il 15 luglio. Come primo passo Washington, pur non votando a favore, non pose il veto al riconoscimento del governo della RPC come unico legittimo rappresentante della Cina da parte dell’Onu, con la conseguente espulsione della Repubblica di Cina (Taiwan) e il trasferimento a Beijing del seggio permanente presso il Consiglio di Sicurezza3. Il 15 agosto, un mese dopo l’apertura alla Cina, ricordata negli annali come «Nixon shock», seguì il «Dollar shock»4, una svalutazione del dollaro dell’8% e un tasso di cambio che svincolava la banconota americana dall’oro, mettendo fine dopo 25 anni al sistema di Bretton Woods. Non essendo ancora integrata, l’economia cinese non risentì gli effetti negativi che questa radicale risposta alla disoccupazione e all’inflazione produsse nelle economie occidentali5. Seguì poi il viaggio di Nixon in Cina, ricordato dal presidente come «la settimana che cambiò il mondo» (21-28 febbraio 1972), conclusa col lo «Shanghai Communiqué» del 27 febbraio sulle questioni da affrontare per normalizzare i rapporti bilaterali, tra cui il commercio. Già nel 1972 l’interscambio commerciale tra i due paesi sfiorò i 100 milioni di dollari. Oltre a prodotti agricoli e a 10 aerei Boeing, gli USA cedettero alla Cina anche il sistema di navigazione aerea a guida inerziale. Necessario per non cede2

Kissinger è passato alla storia come l’architetto della nuova politica statunitense nei confronti della Cina. Il merito va però condiviso con altri personaggi meno noti, come l’allora segretario alla difesa, Melvin Laird, e uno degli assistenti dello stesso Kissinger, Winston Lord, futuro ambasciatore in Cina dal 1985 al 1989 e attuale direttore della Commissione per i Diritti Umani in Corea del Nord. 3 Risoluzione 2758 (XXVI), Restoration of the Lawful Rights of the People’s Republic of China in the United Nations, 25 ottobre 1971. 4 In Giappone (particolarmente preoccupato dall’apertura americana verso un paese che non aveva ancora fatto pace con Tokyo) l’espressione «Nixon shock» include pure quello che in Occidente viene chiamato «Dollar shock». V. Midori Yoshii, «The Creation of the ‘Shock Myth’: Japan’s Reaction to the rapprochement with China, 1971-1972», The Journal of American-East Asian Relations, Vol. 15, Special Volume Cold War Across the Pacific, 2008, pp. 131-146. 5 Dong Wang, «US-China Trade, 1971-2012: Insights into U.S.-China Relationship», The Asia-Pacific Journal, Japan Focus, vol. 11, Issue 24, N. 4, 16 June 2013.

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re spazio alla concorrenza (la Cina aveva acquistato pure 3 Concorde europei) il trasferimento di tecnologia avanzata continuava ad essere sottoposto al regime di controllo nazionale e multinazionale di sicurezza, non solo relativamente alle tecnologie «a doppio uso» civile e militare, ma anche relativamente a quelle che potevano limitare la capacità degli Stati Uniti di controllare il ritmo di crescita della Cina. Ad esempio l’esportazione di tecnologie per il settore energetico, necessarie per permettere lo sviluppo del mercato cinese, rischiava di accelerare troppo la trasformazione della Cina in esportatrice di risorse naturali verso altri paesi asiatici, con conseguenze geo-economiche potenzialmente destabilizzanti. Una vera e propria politica commerciale verso la Cina stentò tuttavia a decollare, non solo per il difficile avvio del coordinamento tra le imprese esportatrici e gli enti di controllo6, ma soprattutto per la fase di incertezza politica attraversata dalla Cina nella prima metà degli anni 70, da cui uscì solo nel 1976 con la morte di Mao, l’arresto della Bande dei Quattro e la leadership del pragmatico Deng Xiaoping (1976-1987), che nel 1978 lanciò una serie di riforme presentate ufficialmente come una nuova «politica delle porte aperte»7. Anche per questo Washington non ebbe interesse a incalzare la Cina sulla questione dei diritti umani e delle aperture democratiche, come invece fece nei confronti dell’URSS a partire dall’emendamento Jackson-Vanik al Trade Act del 1974 e dagli accordi di Helsinki. La ragione principale per non irrigidirsi, era però di non cedere quote di mercato cinese alla crescente e più disinvolta concorrenza giapponese ed europea. Il 31 gennaio 1979 Cina e Stati Uniti firmarono un accordo di cooperazione tecnico-scientifica. Il 24 gennaio 1980 il Congresso riconobbe alla Cina lo stato di nazione più favorita (MFN), che abbatteva le alte barriere tariffarie sulle importazioni stabilite dallo Smoot-Hawley Act del 1930. Dal canto suo la Cina creò nel 1980 le prime Zone economi6

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U.S. Congress, OTA, Energy Technology Transfer to China—A Technical Memorandum, OTA-TM-ISC-30, Washington, DC, U.S. GPO, September 1985. «Open Door policy. Deng Xiaoping set in train the transformation of China’s economy when he announced a new ‘open door’ policy in December 1978», BBC News. L’«Open door policy», proposta nel 1899 alle potenze europee dal segretario di Stato John Hay, consisteva in un’apertura non concorrenziale del mercato cinese.

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che speciali nelle province di Guangdong e Fujian e le riforme previdero ulteriori agevolazioni fiscali agli investimenti. Rimasero i vincoli politici imposti dal Trade Act del 1974, ma i controlli furono alleggeriti e nel complesso i rapporti rimasero soddisfacenti8. Nel 1985 l’interscambio commerciale complessivo della Cina era già tre volte quello del 1978 (da circa 20 a oltre 60 mld $) e quello con gli USA sette (da 1 a 7 mld)9. Nel 1983, l’amministrazione Reagan inserì la Cina nella classifica «V», in cui sono elencati i partner commerciali alleati, facilitando l’acquisizione di tecnologia occidentale da parte della Cina, ma accrescendo il contenzioso cinoamericano, in particolare circa il rispetto dei brevetti. La Cina, ad esempio, inizialmente non riconosceva la proprietà intellettuale del software e dei processi chimici. Inoltre le proprietà intellettuali incluse in prodotti esportati potevano essere acquisite e rielaborate senza che i proprietari ricevessero il giusto riconoscimento economico. Un ulteriore impulso all’interscambio fu dato dall’accordo del Plaza del 22 settembre 1985 che consentì la svalutazione del dollaro facendo uscire gli Stati Uniti dalla recessione10. Le grandi imprese statunitensi cominciarono ad aprire filiali in Cina e a trasferire parte della produzione mediante jointventure con aziende o agenzie governative locali. Già nel 1984 la General Motors aperse una sede a Shanghai. Seguirono Coca-Cola, Pepsi, Gillette, Heinz, General Foods, Eastman Kodak, AT&T. Il trasferimento della produzione occidentale in Cina esaltava il ruolo di Hong Kong, ancora britannica, attraverso la quale passava circa il 30% delle merci in uscita dalla RPC. Il transito per Hong Kong era fonte di controversie con gli USA, principale destinatario della re-importazione, sia perché produceva forti apprezzamenti (dal 40% al 100%11) dei prodotti lavorati in Cina, sia perché complicava il calcolo della bilancia commerciale cinese con USA e Hong Kong. In ogni modo dal 1985 al 8

Così James Bacchus, cit. in Ben Baden, «40 Years of US-China commercial Relations», China Business Review, 1 gennaio 2013, online. 9 Dong Wang, op.cit. 10 Secondo alcuni analisti fu alla radice della Grande bolla dell’economia giapponese della fine degli anni 80. Cfr. «China seeks to learn from mistakes of 1985 Plaza Accord», The Japan Times, 9 settembre 2006, online. 11 Dong Wang, op. cit.

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1988 gli scambi aumentavano del 44% l’anno, malgrado la lista delle tecnologie a doppio uso non esportabili includesse ben 240 prodotti di 10 categorie12. E nel 1986 la Cina chiese l’ammissione nel GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). Peraltro la convivenza tra gatti di diverso colore era difficile. La semi rivolta di Piazza Tienanmen del giugno 1989 sembrò dare ragione all’ala conservatrice del PCC che frenava le riforme. Pur condannando la dura repressione, i governi occidentali non ascoltarono i fondamentalismi democratici e, per un misto di prudenza e cinismo che Machiavelli avrebbe apprezzato, si limitarono a sanzioni di scarso impatto, bloccando i soli scambi intergovernativi, essenzialmente militari. Di fatto il flusso commerciale si ridusse di poco, mentre i rapporti diplomatici, formalmente interrotti, furono segretamente mantenuti con l’invio a Beijing del consigliere per la sicurezza nazionale, Brent Scowcroft, e di Larry Eagleburger, assistente del segretario di Stato. Maggiore effetto ebbe invece la sospensione del riconoscimento dello stato di MFN, che in base all’emendamento Jackson-Vanik era condizionato al rispetto dei diritti umani. Questa abile mossa rafforzò la corrente riformista cinese. Il viaggio di Deng Xiaoping nelle zone economiche speciali del sud della Cina, nel gennaio 1992, aperse la strada ai principi per costruire un’economia socialista di mercato, approvati in ottobre dal XIV Congresso del PCC. Il nuovo presidente Bill Clinton continuò peraltro a incalzare Beijing e, sull’avviso di un Senior Steering Committee presieduto da William Lord, con Ordine Esecutivo del 28 maggio 1993 circostanziò il contenuto dei diritti umani che la Cina doveva rispettare per mantenere lo stato di MFN13. Lo stesso anno, la Cina inserì nella costituzione il principio di economia socialista di mercato e nel 1994 applicò 12

Balancing the National Interest: U.S. National Security Export Controls and Global Economic Competition, Panel on the Impact of National Security Controls on International Technology Transfer, Committee on Science, Engineering, and Public Policy, National Academy Press, Washington D.C. 1987. online. 13 EO 128590. Le sette condizioni erano: 1. Libera emigrazione, 2. Cessazione delle esportazioni di beni prodotti da lavoro forzato; 3. Rispetto della Dichiarazione delle NU sui Diritti Umani; 4. Preservazione della religione e cultura Tibetana; 5. Accesso alle carceri delle organizzazione internazionale dei diritti umani; 6. Libertà di accesso alle trasmissioni radio e TV internazionali; 7. Liberazione delle persone detenute per motivi politici o religiosi. Robert G. Sutter, Historical Dictionary of United States-China Relations, Scarecrow Press, 2005.

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una parziale convertibilità alla propria moneta, il renminbi14. Ciò indusse l’amministrazione Clinton, che pure aveva criticato la morbidezza mostrata da Bush nei confronti della Cina, a riconfermare lo stato di MFN. Il riavvicinamento fu immediato e si concluse con l’adeguamento del valore della moneta, in precedenza imposto dal governo, al reale valore di mercato, con conseguente svalutazione di circa il 40%. In Cina fu istituito il China Foreign Exchange Trading System e si fissò il valore contro il dollaro a 8,70 renminbi15. In conseguenza della crisi finanziaria asiatica del 1997 le bilance commerciali cinesi coi paesi del Pacifico occidentale subirono variazioni importanti, ma quella con gli Stati Uniti rimase pressoché invariata, malgrado la manovra di apprezzamento del renminbi che servì a contenere gli effetti della crisi nella regione16. Nell’ottobre 1997, in visita negli Stati Uniti su invito di Clinton, il presidente cinese Jiang Zemin visitò gli impianti della Hughes Electronics presso Los Angeles. Nel febbraio 1998, Clinton autorizzò la vendita alla Cina di un satellite della Loral Space and Communication e con Direttiva Presidenziale 61 trasferì il controllo della vendita dei satelliti dal Dipartimento di Stato al Dipartimento del Commercio. In aprile, però, queste aperture entrarono nell’occhio del ciclone provocato dalle rivelazioni dei furti cinesi di tecnologia nucleare (testate W-70 e W-88), satellitare (Loran), missilistica e informatica americana scoperti dalla CIA e dal DOE fra il giugno 1995 e il marzo 1996, portando ad un’inchiesta parlamentare. Istituita il 18 giugno 1998 e presieduta dal deputato repubblicano della California Charles Christopher Cox, già noto per il suo impegno antisovietico in Lituania, la Commissione presentò le sue conclusioni il 3 gennaio 1999 e il suo rapporto fu parzialmente declassificato dalla Camera il 25 maggio e pubblicato in 2 volumi per oltre 900 pagine (due terzi dell’originale)17. I capitoli IX e X 14

Scott P. Nolan, Economic Warfare: A Study of U.S. and China Strategy Using the Economic Element of National Power, School of Advanced Military Studies, U. S. Army Command and General Staff College, Fort Leavenworth, Kansas 2006-2007. 15 Chinese Yuan Ascent to Global Reserve Status: A Timeline, Bloomberg News, 30 settembre 2016, www.bloomberg.com. 16 Qiao Liang e Wang Xiangsui, Unrestricted Warfare, PLA Literature and Arts Publishing House, Beijing 1999. 17 Report of the Select Committee on U. S. National Security and Military/Commercial Concerns with the People’s Republic of China, January 3, 1999, submitted by Mr.

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riguardano pure la politica americana sulle esportazioni in Cina e le acquisizioni cinesi di tecnologia industriale. Accreditate dalla CIA ma respinte come «infondate» dal governo cinese (aprile 1999), le accuse di spionaggio non ebbero però riscontri giudiziari, mentre le cinque tesi principali del rapporto furono confutate (dicembre 1999) da un gruppo di fisici di Stanford e Harvard e del Lawrence Livermore National Laboratory18. Jonathan Pollack, presidente del Gruppo Asia Pacifico del Naval War College, ricordò infine che lo stesso governo americano aveva contribuito allo sviluppo delle capacità strategiche cinesi in funzione antisovietica19. Le raccomandazioni del rapporto furono comunque tradotte in leggi, a cominciare dal trasferimento (2000) della sicurezza nucleare dal Dipartimento dell’Energia alla nuova National Nuclear Security Administration (NNSA). Inoltre nel 2002 e 2003 la Loran Space and Communication Corp. e la Hughes Electronic Corp. furono pesantemente multate (14 e 32 mln $) per violazione delle norme sulle esportazioni. Dall’adesione al WTO alla presidenza di Xi Jinping (2001-2013) Malgrado il Rapporto Cox, nel 2000 gli Stati Uniti inclusero la Cina tra gli stati in «normali relazioni commerciali permanenti» e nel 2001 ne promossero l’ingresso nell’Organizzazione del Commercio Mondiale (WTO), concludendo il processo di normalizzazione dell’interscambio cinese iniziato nel 1986 con l’adesione al GATT. L’ingresso della Cina regolava 4.000 prodotti e soprattutto consentiva l’accesso occidentale al mercato cinese dei servizi (bancario, assicurativo e telecomunicazioni). Gli Stati Uniti speravano così di equilibrare il passivo della bilancia Cox of California, Chairman, House of Representatives, 105th Congress, 2nd Session, Report 105-851, U. S. Government Printing Office, Washington, 1999. Cfr. Joseph Cirincione, «The Cox Report and the Threat from China», in Scott Kennedy (Ed.), China Cross Talk: The American Debate over China Policy since Normalization, Rowman & Littlefield, 2002, pp. 231-237 e 313. 18 M. M. May (Ed.), Alastair Johnston, W.K.H. Panofsky, Marco Di Capua, and Lewis Franklin, The Cox Committee Report: An Assessment, Stanford University's Center for International Security and Cooperation (CISAC), December 1999. 19 Jonathan D. Pollack, «The Cox Report’s Dirty Little Secret», Arms Control Today, April/May 1999, pp. 26-35.

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commerciale con la Cina, che nel 2000 aveva già raggiunto gli 89 mld20. Apparentemente, l’apertura accrebbe lo squilibrio, considerato che fra il 2001 e il 2004 l’export cinese in America crebbe del 92%, e quello americano in Cina solo dell’81. Le quote registrano però solo il transito della produzione, e mascherano il reale processo innescato dalla normalizzazione cinese, ossia l’esportazione massiccia in Cina di capitale, lavoro e inquinamento occidentali. L’integrazione e il successivo abbassamento dei dazi cinesi potenziarono il processo di delocalizzazione del sistema produttivo occidentale, che fu possibile trasferire massicciamente in Cina («fabbrica del mondo») grazie allo sviluppo di un sistema di trasporto integrato coi flussi marittimi internazionali (il che comportò, come necessaria ricaduta, lo sviluppo di un inedito – e per gli Stati Uniti inquietante – potere marittimo cinese). Nel 2004 il 60% degli investimenti diretti stranieri in Cina proveniva da paesi asiatici (Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Singapore) e oltre metà delle esportazioni erano costituite da prodotti di imprese straniere operanti in Cina. In realtà, quindi, fu solo grazie a livelli salariali e tassi di inquinamento inconcepibili in Occidente che nel 2005 la Cina apparentemente poté classificarsi come la terza potenza commerciale, dopo USA e Germania. Lo stesso anno, mentre i paesi europei rimuovevano l’embargo militare contro la Cina, il deficit commerciale americano verso la Cina toccò un nuovo record. Ma il dollaro è ancora la moneta di riserva21 e in ultima analisi il surplus commerciale cinese ha finanziato il debito americano. Vexata quaestio, poiché entrambi i paesi si descrivono come dipendenti dall’altro. Detenere ingenti quantità di titoli del tesoro americani può influire su un’economia dipendente dal continuo flusso in entrata di capitali stranieri come quella americana e può attutire le conseguenze di crisi finanziarie come quella asiatica del 199722. Ma le crisi e le svalutazioni americane possono avere invece conseguenze devastanti sui creditori. Il calo delle esportazioni cinesi nel 2009 fu provocato dalla 20

2010 Report to Congress of the U.S.-China Economic and Security Review Commission, U.S. Government Printing Office, Washington 2010, p. 3. 21 Hang-Sheng Cheng, «Comments on Xianquan Xu’s Chapter», in Shuxun Chen e Charles Wolf Jr (cur.), China, The United States, and the Global Economy, Rand Corporation, 2001, p. 253. 22 Dong Wang, op. cit.; Shuxun Chen e Charles Wolf Jr (cur.), op. cit.

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crisi dei subprime americani. A partire dal 2009 crebbero negli Stati Uniti i timori che la crescita economica cinese fosse inevitabilmente foriera di un conflitto, e si cercò perfino un paragone con la teoria di Tucidide sulle cause lontane della guerra del Peloponneso. Pur senza accreditare la costante retorica protezionista sul «declino americano», non sono in effetti irrilevanti i dati sulla costante crescita a due cifre del Pil cinese e la penetrazione economica cinese in Africa e America Latina, che dimostra una capacità di promuovere l’economia reale attraverso investimenti nelle infrastrutture dei paesi più arretrati, a fronte della diminuzione della quota di mercato mondiale detenuta dagli Stati Uniti, sceda dal 40% del 1960 al 25% del 200823. La presidenza Obama mantenne un atteggiamento ondivago verso la Cina, da un lato rinnovando (2011) l’accordo di cooperazione tecnicoscientifica (con 20.371 ricerche congiunte nel 201224), dall’altro formulando (2012) una dottrina di sicurezza asiatica («Pivot to Asia») basata sul contenimento della Cina25 ed escludendola dal progetto di Trans Pacific Partnership (TPP)26, benché un rapporto del Congresso del dicembre 2015 ne auspicasse la futura inclusione27. La risposta cinese fu la tessitura di una rete di accordi bilaterali di libero scambio, che già nel 2012 produssero aumenti clamorosi dell’interscambio (Hong Kong +83%; Taiwan +70; ASEAN +42,9; Sud Africa +98,9)28, compensando in parte le difficoltà di approvvigionamento energetico provocate dalle 23

Sean Starrs, «American Economic Power Hasn’t Declined—It Globalized! Summoning the Data and Taking Globalization Seriously», International Studies Quarterly, vol. 57, No. 4, dicembre 2013, pp. 817-830. 24 Anche in questo caso, però, il dato non tiene conto delle quote americane nei settori globalizzati. Richard P. Suttmeier, Trends in U.S.-China Science and Technology Cooperation: Collaborative Knowledge Production for the Twenty-First Century? Research Report Prepared on Behalf of the U.S.-China Economic and Security Review Commission, 11 settembre 2014, www.uscc.gov. 25 Prevedeva il «rafforzamento delle alleanze bilaterali, l’intensificazione del lavoro comune con le potenze emergenti inclusa la Cina, l’impegno nelle istituzioni multilaterali, l’espansione del commercio e degli investimenti, l’aumento delle basi militari avanzate, e la promozione della democrazia e dei diritti umani». 26 Canada, Messico, Perù, Cile, NZ, Australia, Brunei, Singapore, Malesia e Vietnam. 27 Wayne M. Morrison, China-U.S. Trade Issues, Congressional Research Service, 15 dicembre 2015, www.crs.gov. 28 Dong Wang, op. cit.

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sanzioni occidentali all’Iran29 e dalla controproducente politica di dumping delle terre rare, che è costata alla Cina la censura del WTO e ha incentivato la ricerca di produttori alternativi e surrogati30. Xi Jinping da Obama a Trump (2013-2017) Ma la vera svolta avvenne nel 2013, l’anno in cui il volume del commercio cinese superò quello americano31 e il nuovo presidente Xi Jinping lanciò un progetto geo-economico globale volto a fare della Cina uno dei maggiori protagonisti del XXI secolo. Il programma prevede la creazione di una titanica rete infrastrutturale euro-afro-asiatica da Xi’an (la prima antichissima capitale cinese, la città dei famosi guerrieri di Terracotta) a Rotterdam, composta da due itinerari complementari, uno terrestre attraverso l’Asia Centrale e la Turchia («Cintura economica della Via della Seta») e uno marittimo attraverso Oceano Indiano e accessi medio-orientali al Mediterraneo («Via della Seta marittima»)32. A questi è stata associata la fondazione di due istituzioni finanziarie, l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) e il Silk Road Fund, che hanno come obiettivo il finanziamento della modernizzazione del sistema produttivo cinese (liberato da corruzione e inquinamento) e i progetti infrastrutturali lungo le due Vie. La quasi fulminea creazione dell’AIIB, attivata nel gennaio 2016, ha dato la misura delle capacità acquisite dalla Cina sul piano finanziario, in particolare facendo leva sul convergente interesse della City di Londra (che consentì di isolare l’opposizione americana e di attrarre i mag29

Giri Rajendran, «Financial Blockades: reserve currencies as instruments of coercion», in Alan Wheatley, The Power of Currencies and Currencies of Power, Routledge, 2013, pp. 87-100. 30 La Cina, al tempo, possedeva il 93% del totale di terre rare in circolazione sul pianeta; data la condizione di quasi monopolio ed essendo utilizzate in vari settori strategici dell’industria occidentale, dalle telecomunicazioni all’aerospaziale, le terre rare sono uno dei punti di forza dell’economia cinese. Le quote furono eliminate nel 2015, a seguito a una sentenza del WTO che indicava le politiche cinesi non in linea con l’organizzazione. 31 «China Eclipses U.S. as Biggest Trading Nation», Bloomberg News, 10 febbraio 2013, www.bloomberg.com. 32 Ci si riferisce ai progetti anche come One Belt, One Road (OBOR) o Belt and Road Initiative (BRI).

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giori paesi EU insieme alla Russia di «Londongrad») e dell’industria australiana per gli 8 triliardi di $ di investimenti infrastrutturali previsti dal nuovo Piano quinquennale (2016-2020). Successo confermato il 1° ottobre 2016 con l’ingresso del renminbi nel paniere del FMI come valuta di riserva. D’altra parte il piano di Xi Jinping conferma che Cina e Stati Uniti si muovono su terreni differenti: una sull’economia reale e le infrastrutture continentali, gli altri sul controllo del sistema finanziario e sui partenariati commerciali transoceanici (TTIP e TPP). Ciò dipende soprattutto da fattori geografici. Il 60% del commercio cinese segue rotte fluviali-marittime, in ultima analisi controllate dagli Stati Uniti e dai Lloyds di Londra. Le polemiche sulle portaerei e le isole artificiali sono strumentali, perché l’espansione marittima della Cina è limitata dai grandi arcipelaghi che la fronteggiano, e il massimo cui può aspirare è il «Sea denial» nel suo ‘Mediterraneo’ (a differenza del Giappone che ha una libera proiezione oceanica). Il 40% segue le rotte continentali, ancor meno controllabili e più vulnerabili di quelle marittime, come si vede dalle difficoltà frapposte da Uzbekistan33 e Polonia34 che hanno di fatto rallentato la viabilità o bloccato progetti. Il blocco eurasiatico capace di sfidare l’Occidente è infatti solo retorica, per quanto sarebbe un errore sottovalutare i progressi, anche economico-finanziari, del Patto di Shanghai, favoriti dal controproducente re-enactement del Grande Gioco (1807-1907) inscenato dagli Stati Uniti nel 2001-2016. A ciò si aggiunge la fragilità strutturale del sistema politico, sociale ed economico cinese, tanto che il rallentamento della crescita del Pil ha potuto essere interpretata come foriera di una crisi imminente35. La crescita comunque continua, sia pure a un ritmo più moderato, probabilmente dovuto alle riforme di Xi Jinping, ma anche alle ripercussioni delle sanzioni economico-finanziarie contro Iran e la Russia e del calo 33

Le autorità uzbeke hanno bloccato il primo treno che faceva ritorno in Cina dalla città afghana di Hairatan per ragioni di sicurezza. L’Uzbekistan vuole far transitare le merci sul fiume Amu (che segna il confine con l’Afghanistan), dove sono sottoposte al tradizionale controllo. I tempi di trasporto sono chiaramente più lunghi. 34 Il governo polacco ha imposto il divieto alla costruzione di un interporto ferroviario presso la città di Łodz, secondo quanto riportato da Sputnik News il 19 gennaio 2017. Il progetto metterebbe in dubbio «l’indipendenza» della Polonia. L’interporto sarebbe stato uno snodo logistico del sistema ferroviario della nuova Via della Seta. 35 V. Limes N. 1/2017 Le vie della seta.

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dei prezzi delle materie prime. Il calo riguarda pure i metalli, e la Cina ne ha particolarmente risentito, perché ne è il primo mercato mondiale di quel mercato36 e presto pure la maggior piazza d’affari specializzata37 grazie al mercato dei futures di Shanghai38 e alla profonda relazione con le istituzioni finanziarie londinesi39. Altro ostacolo ai progetti di Xi Jinping è l’atteggiamento dell’Europa. Alle accuse di dumping, specialmente nel settore dell’acciaio40, nel 2016 Bruxelles ha aggiunto dazi sulle importazioni di alcuni prodotti in acciaio, estesi nel 2017 provenienti sia dalla Cina che da Taiwan41. L’Unione si oppone inoltre al riconoscimento dello stato di economia di mercato alla Cina e rinvia ogni possibilità di stabilire un accordo di libero scambio con Beijing. Il cambio di nemico, dalla Russia alla Cina, è stato uno dei temi qualificanti della campagna elettorale di Donald Trump, coerente con la promessa di «riportare in America il lavoro» perduto a seguito della deindustrializzazione e delocalizzazione, e di alzare le barriere tariffarie soprattutto verso la Cina. In effetti nel 2016 l’export americano in Cina è stato di appena 115 mld contro 462 di importazioni, con un vistoso deficit di 34742. In realtà lo squilibrio è inferiore, tenuto conto dei dati relativi ai settori globalizzati e al re-export attraverso Hong Kong; e in ogni modo per l’export americano il mercato potenziale cinese vale 400 mld43. Il 17 gennaio, ospite per la prima volta al 47° forum economico 36

Nel 2015 la Cina trattava il 54% dell’alluminio, il 50% del nickel, il 48% del rame, il 46% dello zinco, il 46% dello stagno, il 45% dell’acciaio e il 40% del piombo. 37 Storicamente il London Metal Exchange è il principale mercato finanziario dei metalli, seguito dal New York Mercantile Exchange. 38 Secondo il Financial Times, la Borsa di Shanghai già influenza il prezzo dei metalli insieme a Londra e New York. Si veda Henry Sanderson, «Commodities Explained: Metals trading in China», Financial Times, 2 aprile 2015, www.ft.com. 39 «HKEx and LME announce completion of transaction», London Metal Exchange, 12 dicembre 2012, www.lme.com. 40 John W. Miller e William Mauldin, «U.S. Imposes 266% Duty on Some Chinese Steel Imports», The Wall Street Journal, 1 marzo 2016, www.wsj.com. 41 European Commission imposes anti-dumping duties on steel products from China and Taiwan, Commissione Europea, 27 gennaio 2017, ec.europa.eu. 42 Dati U. S. Census Bureau, www.census.gov. 43 Wayne M. Morrison, China-U.S. Trade Issues, Congressional Research Service, 9 febbraio 2017, www.crs.gov.

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mondiale di Davos, Xi Jinping ha esaltato i grandi benefici della globalizzazione, confermando l’impegno per il libero scambio e la liberalizzazione degli investimenti, concludendo che «no one will emerge as a winner in a trade war». Tre giorni dopo, nel discorso di insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump ha promesso «protezione» in toni che qualcuno ha giudicato paradossalmente «maoisti»44 e il 23 gennaio ha decretato il ritiro degli Stati Uniti dal TPP, una mossa più propagandistica che sostanziale, che peraltro, almeno all’origine, aveva un’enfasi anticinese. Un po’ poco, in verità, per parlare di «guerra economica».

Nella pagina seguente: «The Chinese Question». Vignetta di Thomas Nast (1840-1902), il padre del fumetto americano. Mostre Columbia in atto di sfidare fieramente una turba di brutali proletari irlandesi cattolici che vorrebbero linciare un inerme «John Chinaman», ladro di posti di lavoro e idolatra, Harper’s Weekly, February 18, 1871, p. 149.

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Così Jean-Pierre Lehmann, «The Donald Trump and Xi Jinping Show», Foreign Affairs, 23 January 2017, il quale sottolinea pure le contraddizioni di Xi Jinping, che tre giorni dopo Davos ha chiuso un think-tank riformista (Unirule Institute of Economics fondato da Mao Yushi), mentre il giudice supremo cinese Zhou Qiang ha denunciato l’indipendenza della magistratura come un «falso ideale occidentale» .

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