Trabajar con tristeza, in «Lo Straniero»

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Descripción

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Mimmo Borrelli, una forte speranza del teatro italiano, ci ha dato testi che riguardano il teatro e Napoli – e le sue speranze e ambizioni; Maurizio Braucci, ci ha fatto dono di un omaggio napoletano a Roberto Arlt; Vanni Bianconi, ticinese, di scene di viaggio proprio di questi anni; Camillo Robertini, sociologo, ci racconta un processo argentino alla Ford; Sarah Zuhra Lukanic, croata, vincitrice del premio Jerry Masslo per il racconto, parla di lavoro e immigrazione, di sofferenza, di ingiustizia, di morte.

Estratto di “Lo Straniero”, n 174/175 (dicembre 2014/ gennaio ’15), pp. 165-170.

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Trabajar con tristeza di Camillo Robertini

Camillo Robertini (1987) si occupa di storia sociale e storia del lavoro. Laureato a Perugia e Venezia, da alcuni anni studia la storia dei movimenti sociali e del movimento operaio in Argentina. Attualmente sta svolgendo fra Buenos Aires e Córdoba una serie di interviste e ricerche in archivio sul tema della vita quotidiana della classe operaia durante la dittatura militare. In qualità di studioso di storia orale ha curato una ricerca sul movimento bracciantile in Salento, e sempre in l’Argentina una serie di interviste a ex guerriglieri e militanti politici.

È una giornata grigia e piovosa, le strade della città sono ingombrate da flus-

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si infiniti di pedoni e taxi gialli. La elegante calle Lavalle, coi suoi edifici in stile francese e i mille baracchini che emanano un pungente odore di mandorle tostate, è sede di quasi tutti gli studi degli avvocati porteños. Tomás Ojea, che da oltre dieci anni dirige il “juicio de los obreros” mi accoglie informandomi subito sugli ultimi sviluppi. “La causa Ford rappresenta una domanda: che ruolo ebbero i gruppi finanziari – e l’industria tutta – nei confronti della dittatura militare”. Perché il processo che riprenderà, entrando nella fase finale, presso il Tribunal Oral di San Martín, non è “semplicemente” a carico di militari golpisti, ma della direzione generale di Ford Argentina. È in questo senso un “histórico juicio”, laddove le responsabilità dei civili che collaborarono coi militari, se sul terreno della ricerca storica e giornalistica stanno emergendo, su quello della giustizia penale ancora stentano a essere riconosciute. Una sentenza di condanna nei confronti di Ford, continua Ojea, rappresenterebbe una pietra miliare in materia. Dal 2003 in poi si sono susseguiti una serie di processi contro i vertici della giunta militare che aveva insanguinato l’Argentina con oltre trentamila desaparecidos, “ma un processo della classe operaia contro il padrone è ben altra cosa”. Finora il processo di condanna dei vertici militari della giunta è arrivato fino in fondo, e dopo le amnistie concesse dai diversi governi negli anni novanta, oggi è semplice realizzare un processo per reati come la violazione dei diritti umani. Ma veniamo ai fatti: il 24 marzo 1976 la giunta militare guidata da Videla rovescia il governo peronista. Il golpe si riversa subito sulle fabbriche, dove la conflittualità sociale è altissima. Ford Argentina, con la sua massa di operai e tecnici, è una delle industrie più grandi del paese. Da anni si assiste all’avvicendarsi di scioperi bianchi, licenziamenti, diminuzione dei salari, competizioni fra peronisti, socialisti, maoisti e nazionalisti per conquistare la rappresentanza sindacale. È in questo contesto specifico che i vertici di Ford concordano con la giunta militare di porre fine alla protesta in fabbrica con l’eliminazione fisica di sindacalisti e attivisti politici. È Guillermo Gallaraga, responsabile del personale, che consegna ai

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militari le liste, corredate da cartelle personali, coi nomi degli operai da eliminare. Tramite le famigerate Ford Falcon molti operai sono prelevati di notte dalla propria casa e detenuti illegalmente. Molti altri sono catturati direttamente sul posto di lavoro. Il caso Ford è interessante, anche da un punto di vista giuridico, perché siamo in presenza di un raro caso dove “i desaparecidos riappaiono”. Ojea mi spiega che dopo un periodo di detenzione illegale e tortura nei campi della dittatura (di cui l’Escuela de Mecánica è il più famoso) alcuni operai riapparvero. Questo ha fatto sì che il processo non sia solamente intentato dai familiari di desaparecidos ma veda partecipare, e quindi deporre, anche i diretti interessati. È stato grazie a questa particolarità che si è potuto portare a giudizio Gallaraga: la sua voce, udita durante una delle tante sedute di tortura, era stata riconosciuta distintamente da un operaio. Questi aveva avuto modo di identificare l’aguzzino che lo invitava alla delazione nei confronti di altri compagni non ancora finiti nelle morse della repressione. “L’idea originale era solamente quella di spaventare queste persone, instillare la paura in modo da riportare l’ordine in fabbrica”, così chi è sopravvissuto ha potuto dare testimonianza di quanto ha patito. Le tante storie raccolte in questi dieci anni, accompagnate da documenti ufficiali, giornali dell’epoca, comunicazioni fra commissariati di polizia eccetera, rappresentano il nucleo probatorio del processo. Proprio grazie a esso nei prossimi mesi, probabilmente subito dopo febbraio 2015, si avvierà la fase del “Juicio oral publíco”, che corrisponde all’inizio del primo grado di giudizio. L’accusa, che è coadiuvata dall’avvocato Ojea, è costituita da una sessantina fra ex operai e familiari. Gli imputati sono quattro: il presidente di Ford Argentina (morto di recente), il responsabile risorse umane Guillermo Gallaraga, il responsabile sicurezza Juan Manuel Sivila e infine il responsabile generale degli stabilimenti Ford, Pedro Müller. Un processo che rappresenta non solo la causa di operai contro Ford, ma contro persone, come ci tiene a sottolineare Ojea, in quanto il processo non può essere intentato contro un’impresa. E se questo da un lato significa che tecnicamente non è Ford a essere imputata e quindi non è un processo che potrebbe attirare vizi procedurali, magari mossi dalla giustizia statunitense, dall’altro apre alla possibilità, come auspica Ojea, “che alcuni dirigenti possano essere condannati e ritenuti colpevoli di collaborazionismo coi militari nella sparizione e tortura di diversi operai”. Anche se giuridicamente il processo è contro i vertici di Ford, moralmente, ma soprattutto pubblicamente, sul banco degli imputati siede il grande colosso multinazionale. Negli ultimi tempi, e ancor più adesso che le questioni finanziare dell’Argentina pongono il tema della prepotenza statunitense, il processo sta acquistando significato non solo come una causa di “recuperación de la justicia” ma come riaffermazione di indipendenza nei confronti degli Stati Uniti. In questo modo, non tanto strettamente per la questione della violazione dei diritti umani, quanto per la messa sotto accusa di una multinazionale “norteamericana”, i riflettori dei media si stanno accendendo sul caso. A questo processo di accumulazione di prove, di ricostruzione di vite spezzate da una

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repressione cieca, anche nei confronti di quanti “erano orgogliosi e fieri” di lavorare per Ford, non è conseguita nessuna azione o dichiarazione da parte della multinazionale. Proprio Ford si è stretta in un silenzio che, al riemergere di ogni testimonianza o nuova prova, si fa sempre più assordante, non facendo altro che intaccare l’immagine di una grande impresa. Al di là del processo e delle opinioni discordanti sui fatti, questi sono stati riconosciuti già alla fine della prima ricerca sulla violazione dei diritti umani, ed è proprio sul terreno della moralità che si è percepita da parte degli ex operai una grande assenza: Ford non li ha mai contattati, né ha mai tentato di spiegare le “proprie” ragioni. “Quello che gli operai e noi cerchiamo, in ultima istanza, è un’ammissione di colpa del tipo: noi avevamo questi problemi... prendemmo decisioni errate, collaborammo con la dittatura militare... non lo torneremo a fare”. Ovviamente la difficoltà del processo è costituita dal fatto che le prove inchiodano Ford alle proprie responsabilità, ma politicamente esse non sono sufficienti per arrivare a una sentenza di colpevolezza. “Paradossalmente”, continua Ojea, “oggi è più facile processare i militari, politicamente e socialmente poco influenti”, mentre processare una multinazionale con grandi avvocati e interessi e accordi col governo argentino è ben altra cosa. Ma Ojea e il suo gruppo sono risoluti, entro un anno si dovrebbe arrivare a una prima sentenza. A questo caso, che è limitato alla Ford Argentina, sempre per quel processo di ricerca attorno alle complicità delle imprese nei confronti della dittatura, ne segue un altro, curato dall’avvocato Pablo Llonto, riguardante casi di desaparición di lavoratori impegnati nella zona nord della capitale argentina.

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Cronache dal juicio de los obreros È una piccola aula spoglia con quattro file di poltroncine, i banchi per gli avvocati e gli spalti per la giuria, quella che ospita nel distretto di San Martín (provincia di Buenos Aires) il processo degli operai. A un’ora dall’inizio dell’udienza l’aula è già gremita da familiari delle vittime ed ex operai, ognuno con la foto del compagno, del fratello, del figlio scomparso. A dividere la giuria e gli avvocati dal silenzioso pubblico c’è solo una staccionata di legno posticcio. Il clima, nonostante il processo tratti casi di violazione dei diritti umani, è tutto sommato, e paradossalmente, disteso. La tranquillità e l’assenza di conflitto sono solo una parte della verità che si percepisce, è solo la parte più superficiale: non appena arrivano i tre imputati, il clima cambia repentinamente. Questa, come mi conferma María Rufína Gastón, sindacalista che ha perso il compagno per colpa della repressione, “è la rassegnazione di chi ha passato una vita dietro la giustizia”. María continua spiegandomi che “è come quando a vent’anni hai tutta la vita davanti e improvvisamente ti ritrovi ad averla passata in cerca di giustizia”. Proprio adesso gli spazi dell’aula di tribunale appaiono ancora più esigui. La distanza fra i familiari e i carnefici è colmabile in pochi passi. L’udienza del 9 settembre rappresenta un punto fondamentale del maxi processo “Campo de Mayo” poiché viene esposta la lunga relazione dell’accusa. Poco prima che la corte faccia il proprio ingresso arriva Maria Paula Mañueco che rappresenta nella causa, ad appena venticinque anni, la Secretaría derechos humanos. Ad affiancarla sui banchi dell’accusa c’è Ciro Annichiarico, mentre in rappresentanza delle famiglie delle vittime l’avvocato Pablo Llonto.

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Sono le dieci e pochi minuti quando entra la corte e comincia la lunga arringa affidata a Annichiarico e Mañueco. Gli sguardi dei tre imputati, inizialmente distesi e disinteressati cominciano a rivolgersi verso i giudici nel vano tentativo di comprendere se la corte sarà più o meno restia ad accogliere le tesi dell’accusa. Ogni tanto qualcuno dal pubblico lancia un’occhiata ai tre, accusati, come ampiamente dimostrato dalle prove, di aver ucciso e collaborato all’eliminazione di sessanta operai. La tensione è alta, e nonostante i severi sguardi dei familiari, i tre accusati non si scompongono più di tanto. Llonto mi spiega che quando in Argentina un processo arriva alla fase del dibattimento quasi sicuramente si concluderà con una condanna, ma nonostante questo l’accusa ha elaborato un complesso documento di oltre cento pagine che ricostruisce, attraverso il racconto dei sopravvissuti e dei familiari, gli eventi del 1976-77 al centro del processo. Il processo “de los astilleros”, ovvero dei lavoratori dei cantieri navali del Tigre, come nel caso Ford, è un processo che intende ricostruire l’acuta fase di repressione che si scatenò sulla classe operaia allo scoccare del golpe militare. Dalle parole di Annichiarico si comprende distintamente come esso “sia, in ultimo, una richiesta di riconoscimento morale e politico che in Argentina sia stato commesso un genocidio. Lo facciamo per riscattare le vittime del terrorismo di stato, per la verità e la giustizia, per il nostro e per i popoli fratelli che hanno sofferto la repressione”. Non solo quindi un processo diretto ad accertare responsabilità individuali e circoscritte ad alcuni fatti, ma anche un processo a una fase storica, quella definita in maniera altisonante, dagli stessi militari, come Proceso de reorganización nacional. Proprio l’idea di fare il processo a un’intera stagione politica consente agli avvocati della Secretaría derechos humanos di aprire un’ampia retrospettiva su intenti, obiettivi, connivenze e interessi che animarono l’azione repressiva della giunta militare argentina. Ne deriva che, fra i tanti testimoni, abbiano presenziato storici del lavoro e studiosi di storia orale in qualità di esperti e periti, e non di rado alcuni loro lavori sono stati utilizzati quali prove per lo stesso processo. Nello specifico gli imputati – l’ex generale dell’esercito Santiago Omar Riveros e i membri della prefettura navale e della polizia del Tigre Luis Sadi Pepa, Juan Carlos Gerardi, Roberto Julio Rossin, Alejandro Puertas, Héctor Omar Maldonado, Juan Demetrio Luna, Rodolfo Emilio Feroglio, Carlos Daniel Caimi e Eugenio Guañabens Perelló – sono accusati di crimini contro l’umanità. I fatti al centro del dibattimento interessano due stabilimenti industriali diversi: il primo è il Cantiere navale “Astarsa”, il secondo l’industria ceramica degli stabilimenti “Cattaneo” e “Lozadur”, i cui lavoratori furono sistematicamente prelevati, torturati e fatti sparire. Sono sessanta per l’esattezza i lavoratori che a oggi, come il gergo processuale impone, “non sono ancora riapparsi”. Uno dei casi più complessi e paradigmatici dell’intera vicenda è il numero 135, ovvero il caso Mastinú. Nel maggio 1976 Martín Mastinú, chiamato “El tano” per la sua origine italiana, fu vittima di un’imboscata tesagli dalla polizia che intendeva catturarlo per l’azione

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sindacale svolta fino a quel momento nei cantieri navali. In quell’occasione, Mastinú riusciva a scappare, mentre rimase ucciso il genero Mario Marras. Lo stesso 22 maggio, nonostante Mastinú fosse riuscito a darsi alla fuga, sua moglie Emilia Rosa Zatorre veniva catturata, incappucciata, portata al locale commissariato del Tigre e torturata con la corrente elettrica per svelare alla polizia il rifugio del marito. Ma la storia di Mastinú comincia ben prima: operaio specializzato nei cantieri navali, nel 1973, quando in Argentina tornò Perón al potere, aveva guidato la commissione interna attraverso un lungo sciopero. Fino al 1976 Mastinú, col suo sindacalismo combattivo e di base, era riuscito a strappare importanti concessioni all’impresa e al contempo a mettere in minoranza un sindacato, quello ufficiale, troppo spesso legato a interessi lontani da quelli dei lavoratori. Proprio per questo nell’impresa “Astarsa” la sua figura era conosciuta e temuta. Nel 1973 l’ondata di licenziamenti non aveva potuto colpirlo in quanto godeva di un riconoscimento pressoché unanime. Proprio per questi antefatti l’impresa e la polizia avevano aspettato il momento giusto per poter “regolare i conti”. Gli interrogatori con la “picana” elettrica ai danni di Rosa Zatorre continuarono, fra intimidazioni, rilasci e incursioni degli agenti di polizia in casa, fino al luglio 1976. In giugno venne sottoposta a sequestro illegale la sorella di Mastinú, Santina, moglie di Mario Marras, e in quel caso le torture e gli interrogatori durarono tre giorni. Rimessa in libertà il 7 luglio, verso mezzanotte, un gruppo di militari vestiti in abiti civili la prelevarono da casa obbligandola a svelare il nascondiglio del fratello. Fu così che Martín Mastinú fu catturato dagli uomini dell’esercito quello stesso giorno. “A oggi è ancora desaparecido”. Mentre la Mañueco espone i fatti e l’aria dell’aula si fa grave, i dettagli della vicenda contribuiscono a renderla, se possibile, ancora più orribile: Il nome di Mastinú, come provato largamente, non era nelle liste della polizia, ma in quelle dell’impresa. Un dettaglio svela però i legami fra prefettura navale (dove si svolse la detenzione e sparizione illegale) e impresa. Attraverso la ricostruzione di Santina sappiamo che, dopo la sparizione del fratello e le torture di cui fu vittima, per evitare che parlasse con altre persone dell’accaduto, un gruppo di militari della prefettura navale, in abiti civili, la costrinse ad accoglierli in casa e a servirgli il caffè. Fu in una di queste occasioni che Santina seppe da “Porchetto”, un ex operaio dei cantieri che era passato alla prefettura navale, che durante un interrogatorio a Martín Mastinú egli stesso aveva identificato uno dei militari protagonisti della tortura e della sua successiva sparizione. Per questi fatti la Secretaría derechos humanos, dopo l’arringa dei due avvocati, chiosata da un liberatorio battito di mani dei familiari, ha identificato in Riveros, quale responsabile della prefettura, tutti i fatti ascrittigli. Al contempo sono stati identificati Gerardi, Rossin, Puertas e Maldonado quali responsabili di “crimenes de lesa humanidad”. La giornata volge al termine, ma i tanti casi all’ordine del giorno e le tante responsabilità portano l’udienza a protrarsi per oltre undici ore. Alla fine dell’arringa dell’accusa vengono formalizzate le richieste, alla luce di tutti i casi del processo, di ergastolo (prisión perpetua) per Riveros, e di venticinque anni di prigione per gli altri cinque imputati. Una delle richie-

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ste formulate durante l’udienza è, cosa abbastanza usuale in Argentina, che le pene vengano “espiate veramente in galera”. È attesa ora una sentenza chiara da parte dei giudici per poter mettere la parola fine su l’intera vicenda processuale. Ma se sembra che il processo si concluderà con l’accettazione della tesi dell’accusa, come spiega Annichiarico, il prossimo passo sarà quello di porre sul banco degli imputati i vertici dell’impresa Astarsa per collaborazionismo col progetto repressivo dei militari. In questo senso il giudice ha proposto che la prossima causa “de los astilleros” e quella “Ford” possano essere unite in quanto entrambe cercheranno di individuare le responsabilità dei civili nel processo repressivo. Su San Martín scende la sera, gli ordinati reticoli fatti di strade e viali alberati e di case basse dei primi del Novecento, alle quali spesso si intervallano rimesse fatte di lamiera o palazzine anni settanta, si svuotano dal traffico mattutino. I familiari fanno ritorno verso casa, chiassosamente si avvicendano su marciapiedi di erba rada e terra bagnata. Poco prima di riprendere il treno per Buenos Aires, María Rufína mi si avvicina. Le parlo dei miei progetti e delle mie idee, mi sorride, non contempla odio o vendetta nei confronti di chi gli strappò il marito, solo una languida nostalgia per il tempo passato.

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* * * È arrivata anticipatamente la sentenza che condanna sei dei nove imputati del processo di San Martín. Le condanne sono in linea con quanto richiesto dall’accusa. Nonostante questo Llonto ha dichiarato che “le tre assoluzioni sono una vergogna, benché alla fine gli stessi accusati abbiano ammesso le loro colpe, sono stati assolti per un cavillo”. Mañueco è colpita dal fatto che i tre assolti siano i diretti responsabili del caso Mastinú. Anche se le motivazioni saranno depositate fra un mese, tutti concordano che ricorreranno in Cassazione.

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