Strade (supplemento a L\'ora del Salento)

September 2, 2017 | Autor: Laura Fenelli | Categoría: Social and Cultural Anthropology, Saints' Cults, Cults of Saints
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ST ADE

Supplemento al numero odierno de L’Ora del Salento - 17 Gennaio 2015 - Anno XXV n. 2

SPECIALE

NOVOLI

I

INTERVISTA A LAURA FENELLI, ALLA PIÙ AUTOREVOLE ED ESPERTA DELL’ICONOGRAFIA E DEL CULTO DI SANT’ANTONIO ABATE

LA FAMA ETERNA DELL'EREMITA EGIZIO

IL SANTO L E IL FUOCO

aura Fenelli (Parma 1980), laureata in Storia dell’Arte Medievale e dottore di ricerca in Storia Medievale, ha trascorso periodi di studio presso l’Ehess di Parigi, l’Universität der Künste di Berlino ed il Warburg Institute di Londra. Dal 2007 al 2011 è stata borsista post-doc presso il Kunsthistorisches Institut-Max Planck Institut di Firenze ed attualmente collabora con l’Istituto Sangalli pubblicando le sue ricerche su riviste italiane ed internazionali. Raffinata e talentuosa amazzone della cultura, è la più autorevole esperta dell’iconografia e del culto di Sant’Antonio Abate. Nel 2011 ha pubblicato il suo capolavoro, “Dall’eremo alla stalla”, più che un libro un gioiello dedicato al grande eremita egiziano. Ora sbarca sulle colonne de L’Ora del Salento per raccontarcelo… Dott.ssa Fenelli, quella narrata nel suo libro è una storia incredibile: diavoli celati sotto le forme di procaci fanciulle che seducono scoprendosi la caviglia, eremiti pelosi che si aggirano nel deserto con barba e capelli lunghi sino alle ginocchia, maialini che scorrazzano per le città seminando scompiglio, soldati blasfemi che fanno il “gesto delle fighe” e finiscono inceneriti…Ma ci tolga un curiosità, come si è innamorata di Antonio? La figura di Antonio, come santo protettore degli animali, mi era familiare sin da bambina ma il progetto di uno studio approfondito del personaggio nasce in occasione della mia laurea in Storia dell’Arte Medievale. Le immagini sacre mi hanno sempre affascinata. Volevo scoprire le ragioni storiche di determinate iconografie, riportare alla luce il significato dei simboli che rendevano riconoscibile un santo agli occhi dei fedeli. In questo panorama il caso di Antonio è peculiare: gode di un culto ininterrotto dal Medioevo ai giorni nostri in tutto il Mediterraneo, è crocevia di incontro tra culture diverse, è amato nel Cattolicesimo e nell’Ortodossia, tutto ciò ha implicato una fioritura iconografica davvero rigogliosa. Punto di partenza è stato il notevole corpus letterario antoniano: la biografia atanasiana, la Leggenda di Patras, la Vita di Paolo eremita redatta da Girolamo e poi le pagine di Jacopo da Varazze ed altri ancora, insomma, una vera galassia di testi! Ma quale relazione esiste tra queste opere? Certo, le fonti letterarie sono ricchissime. Con ogni probabilità Antonio non fu il primo eremita ma uno dei tanti che intorno al III-IV sec. popolarono il deserto egiziano o altre regioni dell’Oriente. Tuttavia la Vita, scritta in greco da Atanasio all’indomani del transito del santo, gli assicurò una fama eterna, creando il successo della sua figura che assurse a padre e modello del monachesimo. Quello atanasiano è un testo meraviglioso, avvincente, una sorta di best seller: fu tradotto in latino, copto, siriaco, assiro e trasmesso da numerosi manoscritti. In tal modo divenne, nel corso dei secoli, sorgente di molteplici leggende. Qualcosa compare addirittura nei poemetti abruzzesi, in cui Antonio è dipinto come un contadino costretto a misurarsi con le avversità del lavoro nei campi. Ciò che colpisce, pur nelle metamorfosi di cui il santo è stato oggetto, è la persistenza di un racconto agiografico in tempi lunghissimi: l’Antonio tormentato dai demoni delle pagine di Atanasio non è così lontano dall’Antonio campagnolo cui il diavolo fa i dispetti delle ballate popolari. Già, il demonio! Le storie delle tentazioni hanno avuto una gran fortuna nell’iconografia. L’episodio di Antonio bastonato dai demoni è molto noto e compare anche sul portale del santuario di Novoli. Celebre è poi la tentazione della lussuria. Gli ultimi cantastorie salentini la raccontano ancora: il diavolo appare nelle vesti di una fascinosa fanciulla che si scopre una caviglia per sedurre il santo… Facciamo chiarezza! Il motivo della tentazione femminile è accennato appena da Atanasio senza dilungarsi in particolari. Essa viene dunque intesa solo come una tentazione fra le tante. Quello del monaco tentato da una donna è un topos agiografico di matrice francescana. Nei Fioretti si narra di come Francesco seppe resistere alle seduzioni di una bella saracena sdraiandosi in un letto di

IN COLLABORAZIONE CON: IL COMITATO FESTE (PRESIDENTE ERIBERTO MILLI) E LA FONDAZIONE FOCARA (PRESIDENTE OSCAR MARZO VETRUGNO)

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II

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fuoco. La cosa è interessante perché indica come l’antico culto di Antonio nel Tre-Quattrocento, per resistere alla concorrenza di nuovi santi, dovette essere in parte riplasmato sull’immagine di quest’ultimi attraverso un processo di contaminazione agiografica. Fu così che la vicenda della seduttrice finì tra le tentazioni dell’eremita egiziano. Atanasio dichiara di non conoscere dove sia la tomba di Antonio. Ad un certo punto però le sue reliquie compaiono in Francia. Perché il santo ha intrapreso questo lungo cammino che dall’Egitto lo avrebbe condotto in Europa? Partiamo da un dato: nel Duecento era già diffusa la Leggenda di Teofilo che narrava la miracolosa inventio del corpo del santo e la traslazione a Costantinopoli. Dall’XI sec. però le reliquie di Antonio sono custodite in Francia, nel Delfinato. Al fine di rendere ragione di questo fatto, sorgono le leggende del cavaliere francese Jocelino di Guglielmo che, dopo aver combattuto al fianco dei bizantini, porta con sé in patria i venerati resti dell’eremita. Aldilà della verità storica di tali racconti, l’arrivo di Antonio in Europa è da inserire in quel vasto movimento di reliquie importate dall’Oriente nel Medioevo e la provenienza da Costantinopoli era una sorta di garanzia per l’autenticità. Ma il successo del culto è legato alla protezione dalla malattia dell’ignis sacer. Non si trattava dell’herpes zoster, l’attuale “fuoco di Sant’Antonio”, ma dell’ergotismo, una pericolosa intossicazione alimentare causata dal consumo di segale parassitata da un fungo. L’assistenza dei malati implicò la costituzione dell’Ordine Antoniano… Un ordine che non godeva di buona fama se pensiamo al frate Cipolla di Boccaccio, ai versi di Dante o al Trecentonovelle del Sacchetti… Gli Antoniani sono un ordine sui generis: al contrario di Francescani e Domenicani non hanno un santo fondatore ma scelgono Antonio come patrono in un momento in cui è già veneratissimo. Non possono avere il monopolio del culto ma hanno l’esclusiva della cura della malattia per la quale ci si rivolge al santo. Possiedono strutture ospedaliere avanzate, confezionano il saint vinage versando vino nel reliquiario dell’eremita che viene poi somministrato ai malati e, siccome il grasso suino è necessario per lenire le sofferenze di quest’ultimi, allevano mandrie di maiali che vengono lasciati liberi di scorrazzare con delle campanelle per le città, causando non pochi disagi e le lamentele del Petrarca! Sono un ordine ricco e potente e ciò crea loro ostilità. A questo rispondono incutendo il terrore per lo stesso male che sono soliti curare: diffondono l’idea che Antonio sia un santo tremendo che protegge i devoti ma punisce col fuoco chi arreca offesa ai suoi monaci o tenta di rubare un suo maiale! Ecco perché da noi si dice che “Sant’Antoniu se ҆nnàmurau te nù puercu”! Furono dunque gli Antoniani a ridipingere l’iconografia del santo? Assolutamente. La figura di Antonio, sin dall’arrivo in Europa, aveva già intrapreso un processo di occidentalizzazione, distaccandosi sempre più dall’idea di anacoreta della Tebaide per divenire abate di monastero. In questo percorso di riscrittura iconografica, gli Antoniani ebbero un ruolo significativo, diffondendo un’immagine del tutto conforme alle proprie attività devozionali. Antonio divenne così un santo antoniano: vestito con l’abito dell’ordine ed associato ad attributi che richiamassero in maniera inequivocabile la missione della famiglia religiosa come il fuoco, la campanella ed il maiale. Diverso è il caso del tau, detto potentia, probabilmente l’unico simbolo legato in antico all’eremita perché di chiara origine orientale, ma che gli antoniani fecero comunque proprio. La pervasività dei simboli connessi all’ordine divenne talmente naturale che, quando gli antoniani si estinsero, le ragioni dell’iconografia vennero dimenticate. Non essendoci più i suini a vagare per le città, i commentatori del Seicento non sapevano per quale motivo il santo avesse per fido compagno un maiale. Si verificò allora una fioritura di nuove leggende nate da immagini che non si era più in grado di decodificare ed il cerchio si chiuse: partito dal deserto, Antonio divenne il patrono delle stalle e delle campagne da invocare per scongiurare incendi o epidemie del bestiame. Andrea Pino

TUTTI PE

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17 Gennaio 2015 - Anno XXV n. 2

Le schede dell’inserto sono tratte da uno studio realizzato da Anna Laveneziana nella tesi di Laurea in Scienze Religiose presso l’Istituto di Lecce intitolata “I giorni della Purificazione: Il culto a Sant’Antonio Abate a Novoli”

NOVOLI

III

I "PAZZI " ER L'EREMITA LA DEVOZIONE DEI NOVOLESI

La venerazione dei novolesi per “il santo del fuoco” anche se non è un dato certo, è da ritenersi molto antica, risalente probabilmente all’epoca bizantina, atteso che la devozione a S. Antonio Abate è, appunto, bizantina. Testimonianza di questa antica venerazione è certamente “il capitello dell’Hosanna” che si trova vicino al tempio del Santo e su cui sono scolpiti non solo gli stemmi del Comune e dei Mattei (antichi signori di Novoli) ma anche le effigi dei protettori novolesi e cioè la Madonna di Costantinopoli e S. Antonio Abate. Ufficialmente S. Antonio Abate divenne protettore di Novoli nel 1664, cioè due anni dopo la conclusione dei lavori che avevano trasformato completamente in una grande chiesa il tempietto votivo preesistente, “l’olim sacellum” di cui si fa menzione per la prima volta nella I Visita Pastorale di mons. Luigi Pappacoda del 18 maggio 1640. Lo studioso Pietro De Leo ha ricostruito le fasi di tale “ufficialità”, pubblicando nel 1971 tutti gli antichi documenti relativi all’elezione di S. Antonio come Avvocato e Protettore del paese nel 1664, documenti scoperti nell’Archivio della Curia Vescovile di Lecce. Dalla ricerca del prefato studioso, si apprende dunque che il 20 gennaio 1664 in “Sancta Maria De Novis” (così si chiamava allora Novoli) il sindaco Andrea Ricciato, gli uditori, gli ordinati, e gli eletti di reggimento, con il consenso del luogotenente Domenico Saracino, del conte di Novoli Giuseppe Antonio Mattei, elessero a protettore S. Antonio Abate.

PATROCINIO E PROTEZIONE

Il 22 gennaio invece si concluse il Capitolo di Novoli (con a capo l’arciprete don Pietro Perulli) che deliberò la stessa decisione previo assenso del mons. Luigi Pappacoda e nello stesso mese sia l’Università che il clero della terra di Novoli chiesero al vescovo l’assenso perché S. Antonio Abate fosse loro protettore. In poco tempo, il vescovo concesse il permesso che S. Antonio fosse proclamato protettore e che si effettuasse la processione. Non fu chiesto l’assenso della Sacra Congregazione dei Riti. Mons. Pappacoda, pur sapendo che, senza l’assenso di Roma, il titolo di protettore era, come si dice nel diritto canonico, un “titolo colorato”, lasciò perdere, sia perché non aveva tempo, sia perché nessuno gli dava premura. Così passarono anni e nel 1719 durante la Visita Pastorale, il vescovo Fabrizio Pignatelli, impose all’arciprete don Oronzo Mazzotta di regolarizzare la nomina di S. Antonio a patrono del paese, ma poiché il vescovo morì qualche mese dopo, sia l’arciprete, sia il sindaco Lorenzo Ruggio temporeggiarono. Finalmente il 2 giugno 1737, con cui la Sacra Congregazione dei Riti proclamava S. Antonio protettore di Novoli, fu ritirato in Curia dai sacerdoti don Francesco Russo e don Francesco Giampietro dopo aver giurato che Novoli non aveva altro protettore principale; così il 17 gennaio divenne giorno festivo a tutti gli effetti.

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IV

GIUNSE LA RELIQUIA

Se l’ufficializazione del culto, come si è visto, appartiene a tempi remoti, l’acquisizione invece della “reliquia” del Santo che nei giorni di festa viene esposta e venerata, è abbastanza recente. Essa giunse a Novoli da Tricarico, paese in provincia di Matera, precisamente il 27 luglio del 1924, segnando così una pagina fondamentale della storia di Novoli. La tradizione racconta che nell’inverno del 1924 don Carlo Pellegrino si era recato a Tricarico, con altri sacerdoti, per una sacra missione. Dopo qualche giorno, don Carlo scrisse una lettera annuziando che nella cattedrale di Tricarico vi erano due urne ricchissime di argento, dono di un cardinale, contenente una le reliquie di S. Polito martire vescovo di Tricarico, e, l’altra di Sant’Antonio Abate. La notizia fece fremere di gioia i Novolesi e subito fu formulata una supplica per il Vescovo di Tricarico in cui lo si pregava di concedere a Novoli la reliquia di Sant’Antonio Abate. La supplica, avvalorata dalla comendatizia di mons. G. Trama, fu accolta e così alla fine di febbraio, don Carlo Pellegrino e don Giovanni Madaro, rettore del santuario, si recarono a Tricarico per ricevere la reliquia in consegna. Quando la reliquia giunse a Lecce, fu posta nell’attuale e ricchissimo reliquiario d’argento di stile gotico e autenticata dal sigillo di mons. Trama. Il reliquiario rimase nell’oratorio del palazzo vescovile di Lecce fino al 27 luglio, quarta domenica del mese, giorno fissato per la solenne traslazione che fu effettuata con un treno speciale. Sul piazzale della stazione mons. Francesco Greco dette un caloroso saluto a nome di tutto il popolo novolese; quindi si svolse la processione solenne alla quale parteciparono i due Vescovi mons. Trama e mons. Delle Nocche, vescovo di Tricarico. Furono percorse le vie fra i canti e gli applausi del popolo novolese e dei forestieri. La S. Reliquia fu poi esposta sull’altare maggiore e la festa per tre giorni. Dopo queste giornata di preghiera e di festa, la S. Reliquia fu custodita nel cappellone del Santo.

IL PELLEGRINAGGIO

Il culto a S. Antonio Abate è diffuso in molti comuni del Salento come, ad esempio, a Gallipoli, Squinzano, Nardò, Taviano, Matino, Campi SAlentina, Carmiano, Arnesano, Racale, Giagnano, Cutrofiano ecc. Ma “a Novoli assume funzioni e caratteristiche più complete e più strettamente collegate al culto intero in senso cristiano, in quanto ne conserva intatti i simboli”. A Novoli il culto in onore del Santo Patrono ha, come già detto nel capitolo precedente, radici antiche la cui ufficializzazione risale al 28 gennaio 1964, allorquando il vescovo dell’epoca, mons. Luigi Pappacoda, concesse l’assenso canonico alla supplica dell’Università e del clero e dichiarò S. Antonio Abate suo Protettore. I giorni dei festeggiamenti in onore del Santo, ricchi di celebrazioni religiose, iniziano ufficialmente il 6 gennaio con l’intronizzazione e continuano il 7 con l’inizio del novenario per poi culminare il 16, giorno della vigilia, durante il quale si svolgono i momenti più saleitni e sentiti della festa: benedizione degli animali, la processione con la reliquia e il simulacro del taumaturgo, la suggestiva accensione della “focara”. È la pratica del “pellegrinaggio”, o meglio ciò che rimane di una tradizione antichissima e gloriosa tipica della mentalità medievale che si nutriva di smboli e di parabole. Il pellegrinaggio si protrae per lungo tempo dopo la festa, quando non c’è il richiamo dei fuochi e della focara.

LA GRANDE FOCARA

A Novoli l’accensione della focara in onore del Santo è il momento culminante della festa, accensione che avviene la sera della vigilia ovvero il 16 gennaio; una focara, la più caratteristica, di cui i novolesi sono giustamente orgogliosi, famosa ormai anche oltre i confini nazionali. Non è possibile affermare con precisione quando i novolesi hanno iniziato il rito del falò in quanto, sino ad oggi, nonostante lunghe ed incessanti ricerche, non è stato ancora ritrovato un utile documento al riguardo. Al momento si possono solo fare delle ipotesi, delle riflessioni sulla base soprattutto di quanto è stato già scritto e rilevato sull’argomento. Si è costretti quindi a lavorare di intuito e, per quanto è possibile, anche di logica. L’origine della focara, secondo il Franchini, il Guadagno ed altri viene fatta risalire al XV secolo, periodo in cui i veneziani si stabilirono a Novoli per merito dei Prioli per esercitarvi il commercio della produzione locale di vino, olio ecc. La prima testimonianza diretta risale al 1905, e questo lo si ricava da un articolo di O. Madaro, primo rettore del santuario di Sant’Antonio Abate, già citato, allorquando descrivendo “la festa ieri e oggi” scrive testualmente: Una festa rimasta impressa vario tempo nel mio ricordo fu quella del 1905, in cui fu celebrato il centenario della proclamazione di Sant’Antonio a patrono di Novoli e rimase impressa, non solo per le straordinarie solennità che l’accompagnarono, ma per la novità di una abbondante nevicata che imbiancò “la Focara” alla vigilia della festa. Altre fonti quasi coeve o successive a questa data, sono le testimonianze del D’Elia (1912) e del Palumbo (1938). Documenti sino ad oggi non ne sono stati trovati che risalgano a prima del 1905, anche se il D’Elia che scrive nel 1912 parla della focara come di un rito antichissimo. Vero è anche il fatto che nel gennaio del 1664 nel documento in cui l’Università e il Clero della terra di Novoli chiedono al vescovo Pappacoda l’assenso perché S. Antonio Abate diventi loro protettore, allorquando si fa menzine della festa del Santo non vi è in esso alcun riferimento alla Focara mentre invece si menzionano i fuochi d’artificio.

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