SANTIAGO MONTERO, El Emperador y los ríos. Religión, ingeniería y política en el Imperio Romano. Madrid, Universidad Nacional de Educación a Distancia, 2012, pp. 360

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Santiago Montero, El Emperador y los ríos. Religiфn, ingeniería y política en el Imperio Romano. Madrid, Universidad Nacional de Educación a Distancia, 2012, pp. 360. Il volume, che si presenta come prima ricognizione sistematica dell’importanza religiosa e strategica riconosciuta ai fiumi dalla classe dirigente romana e – in particolare – dagli imperatori, rappresenta l’approdo di un iter di ricerca condotto con rigore e coerenza nell’ultimo trentennio da Santiago Montero, apprezzato antichista e studioso di storia delle religioni. La disamina si articola in tre sezioni, la prima delle quali (El sometimiento de las aguas: tecnología y religiфn) costituisce – non formalmente, ma di fatto – una premessa generale all’intero lavoro, come si evince dall’estrema cura dell’A. nell’allestire un prospetto per quanto possibile esaustivo delle diverse valenze assunte dai fiumi nella storia e nella cultura romana. Il primo aspetto affrontato è quello della natura sacra attribuita ai corsi d’acqua in virtù del loro legame con la sfera ctonia e del loro prezioso apporto all’economia, al commercio e all’arte della guerra: i fiumi, dunque, cominciarono ben presto ad essere identificati con numi dalle sembianze tauromorfiche o antropomorfiche oppure ad essere ritenuti beneficiari di una protezione da parte di entità sovrumane nonché provvisti di poteri prodigiosi ed oracolari destinati a stimolare l’insorgenza di pratiche cultuali e l’affinamento di una vera e propria “divinazione potamica”. Come notava già von Scheliha in una monografia del 1931 sui Wassergrenze nell’antichità, a questo significato religioso si aggiunse quello politico-amministrativo di frontiere naturali che delimitavano il dominio romano, garantendo una protezione dagli attacchi nemici (si pensi alla definizione di vetera imperii munimenta coniata da Tacito in hist. 4.26) o una zona neutra deputata alla stipula di trattati ed accordi di pace; in contesti bellici, comunque, emergeva una certa ambivalenza, giacché i corsi d’acqua potevano fungere ora da centro propulsivo dell’espansionismo dei Romani, ora da baluardo dei popoli contro cui essi combattevano. Quest’ultima eventualità, peraltro, si rivelava piuttosto frequente e comportava l’inserimento delle divinità fluviali delle terre sottomesse dall’esercito romano tra i prigionieri effigiati in numerose rappresentazioni letterarie ed iconografiche di cortei trionfali. Un altro significativo snodo culturale è l’evolversi dell’atteggiamento dei Romani dinnanzi al problema della realizzazione di infrastrutture che disciplinassero il corso dei fiumi e lo trasformassero in una risorsa per l’agricoltura nonché per il trasporto di uomini e merci. L’iniziale ritrosia ad intervenire sull’assetto naturale aveva infatti un fondamento religioso che induceva le frange più tradizionaliste della società romana (e, ovviamente, soprattutto gli esponenti della classe sacerdotale) ad osteggiare eventuali iniziative ‘sacrileghe’. Sulla scorta dello spregiudicato attivismo palesato da Cesare anche in un ambito così controverso, però, gli imperatori riuscirono a far prevalere le ragioni della Realpolitk, nella ferma convinzione che il risentimento divino potesse essere placato con sacrifici e offerte o scongiurato con accorgimenti apotropaici e che i vantaggi pratici e propagandistici offerti da ponti, canali, acquedotti ed altre opere idrauliche fossero irrinunciabili. Decisivo fu il perfezionamento della tecnica di realizzazione di ponti stabili (si pensi, ad esempio, a quelli fatti costruire rispettivamente da Cesare sul Reno e da Traiano sul Danubio) che, pur richiedendo tempi di allestimento abbastanza lunghi, si rivelarono più efficaci dei ponti di barche e fornirono una legittimazione tecnologica alle brame romane di supremazia politica. Il secondo capitolo (Flumen transire: el emperador y el paso del río) è incentrato sulle diverse sfaccettature di una prassi delicata come l’attraversamento dei fiumi, che, sia per le implicazioni politiche del valico di quelle che spesso erano vere e proprie frontiere, sia per i rischi connessi al flusso incontrollabile delle acque e all’eventuale presenza di nemici appostati nelle immediate vicinanze, doveva essere affrontata da condottieri, imperatori e soldati soltanto dopo aver verificato l’approvazione dei concittadini ed aver ottenuto il sostegno degli dèi grazie a sacrifici, espiazioni e cerimonie lustrali. Le molteplici declinazioni dell’atto del flumen transire (tramite ponti; a piedi; a cavallo; sulle acque rapprese dal gelo; a nuoto; con agili barchette)

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avevano un comune denominatore non soltanto nella cautela e nell’apprensione con cui venivano affrontate, ma anche nella sensazione della natura potenzialmente numinosa dell’esperienza, in occasione della quale non appariva insolito il verificarsi di prodigi o visioni oniriche a carattere profetico. Nel terzo ed ultimo capitolo (El emperador y el desbordamiento del río: el Tíber y el Nilo) Montero si occupa delle esondazioni del Tevere e del Nilo, che avevano per i Romani un significato diametralmente opposto, se è vero che le prime, stimate in 31 in un arco cronologico che va dal 414 a.C. al 398 d.C. e responsabili di gravi danni a persone, edifici ed infrastrutture talora di notevole rilievo religioso (come, ad esempio, il pons Sublicius), reclamavano apposite misure preventive e complesse opere di restauro, mentre le seconde avevano un effetto benefico sui terreni limitrofi e, dunque, sulla coltivazione del grano destinato agli approvvigionamenti dell’Urbe. Di qui lo spiccato interesse manifestato dagli imperatori per i livelli delle acque dei due fiumi, che peraltro potevano caricarsi di ulteriori valenze: le alluvioni del Tevere si prestavano, infatti, ad essere interpretate in chiave religiosa come segno dello scontento divino per l’operato politico di un singolo individuo tracotante o di un’intera comunità momentaneamente priva di una bussola morale; in modo analogo, le mancate piene del Nilo venivano subito lette come eloquente indizio di un’ira deorum da placare con estrema sollecitudine. Un elemento di particolare originalità della disamina di Montero è lo spoglio di testimonianze epigrafiche che delineano un vero e proprio dissidio all’interno dell’élite senatoria nella gestione del rapporto con il Tevere: all’approccio laico e pragmatico dei curatores alvei Tiberis (che si premuravano di fronteggiare grazie all’ingegneria i problemi posti dal fiume) si contrapponeva la superstiziosità dei quindecemviri sacris faciundis (attenti soltanto alla decifrazione di eventuali segni prodigiosi e alla scelta della procuratio più idonea a compiacere le divinità). Il contrasto tra le due prospettive fu tale che – come dimostra l’A. – soltanto dall’età di Traiano e Adriano si ha notizia di cursus honorum ‘ibridi’ (dai quali, cioè, si desumeva che un medesimo individuo avesse ricoperto cariche sia ‘tecniche’ che religiose). La non comune chiarezza espositiva e la puntuale analisi di un ricco campionario di fonti letterarie, archeologiche, epigrafiche e numismatiche rendono la monografia di Montero uno strumento prezioso per studiosi di vari ambiti disciplinari. Il corredo di illustrazioni a colori e in bianco e nero attesta, peraltro, una certa cura della veste editoriale, a cui si può rimproverare soltanto l’assenza di un prospetto riassuntivo dei numerosi loci analizzati e qualche svista nell’indice generale (dove risultano erronei il titolo del primo capitolo e i numeri di pagina delle Conclusiones e della Bibliografía). Marco Onorato Luciana Preti, I quaderni della didattica. Metodi e strumenti per l’insegnamento e l’apprendimento del latino. Napoli, EdiSES, 2015, pp. 351. A partire dalla fine degli anni Novanta, con impostazioni e prospettive più o meno diverse, numerose e ravvicinate nei tempi di pubblicazione sono state le ricerche dedicate alla didattica del latino1. Il volume di Luciana Preti, destinato a docenti e futuri docenti, rappresenta il bisogno di ulteriori prospettive e la necessità di un aggiornamento continuo su un dibattito che non cono1

Tralasciando i manuali sulla didattica delle lingue antiche e delle discipline classiche, che riguardano anche l’insegnamento del greco antico, per il solo latino si vedano: A. Giordano Rampioni, Manuale per l’insegnamento del latino nella scuola del 2000. Dalla didattica alla didassi, Bologna1998; N. Flocchini, Insegnare latino, Scandicci (Firenze) 1999; O. Tappi, L’insegnamento del latino. I testi latini e la loro lingua nell’educazione moderna, Torino 2000; D. Puliga, Percorsi della cultura latina. Per una didattica sostenibile, Roma 2003; R. Oniga, Il Latino. Breve introduzione linguistica, Milano 2004; M. P. Pieri, La didattica del latino. Perché e come studiare lingua e civiltà dei Romani, Roma 2005; A. Balbo, Insegnare latino. Sentieri di ricerca per una didattica ragionevole, Novara 2007; G. Arrigoni, M. Gioseffi, Tiziana

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