Rileggendo Les Vêpres de Tibert (branche 12 del Roman de Renart)

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Descripción

Dai pochi ai molti Studi in onore di Roberto Antonelli

a cura di Paolo Canettieri e Arianna Punzi

tomo i

viella

Copyright © 2014 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: febbraio 2014 ISBN 9788867281367

Il volume è stato realizzato anche con il contributo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza

Redazione Anatole Pierre Fuksas, Annalisa Landolfi, Gioia Paradisi, Roberto Rea, Eugenia Rigano, Giovanna Santini

viella

libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

tomo i

Paolo Canettieri, Arianna Punzi Premessa Alberto Abruzzese Contro l’umanesimo e i suoi dispositivi

XIX 1

Annamaria Annicchiarico La Biblis di Joan Roís de Corella (introduzione, edizione critica, traduzione)

15

Rossend Arqués Dante y Octavio Paz: poética moderna y erotismo

37

Valentina Atturo Languor carnis. Echi di memoria salomonica nella fisiologia emozionale dei trovatori

49

Anna Maria Babbi «Je sui la pucele a la rose»: ancora sul Guillaume de Dole

79

Sonia Maura Barillari La «coppia d’Arimino» fra il Triumphus cupidinis e il Purgatorio di san Patrizio. (Una ballata per Viola Novella dal codice Magliabechiano VII, 1078)

89

Maria Carla Battelli Il karma e la letteratura: insegnare in India

115

Fabrizio Beggiato, Antoni Rossell Ara que·m sui lonhatz d’est mestier brau

133

VI

Indice

Pietro G. Beltrami Il Manfredi di Jean de Meun (esercizio di traduzione dal Roman de la Rose)

135

Vicenç Beltrán, Isabella Tomassetti Refrains ed estribillos: dalla citazione all’imitazione

145

Valentina Berardini «Praedicatio est manifesta et publica instructio morum et fidei…». How did preachers act on the pulpit?

169

Francesca Bernardini Napoletano «Difficoltà di vita» e «ragioni dell’anima». Lettere di Alfonso Gatto a Enrico Falqui

179

Fabio Bertolo Minima filologica: quattro lettere inedite di Bruno Migliorini a Ettore Li Gotti

195

Valeria Bertolucci Pizzorusso «… non so che “Gentucca”»: analisi di Purgatorio XXIV, 37

199

Simonetta Bianchini «Il mio tesoro» (Paradiso XVII, 121)

205

Dominique Billy La Complainte de Geneviève de Brabant ou l’inconstance de la césure

215

Piero Boitani Identità europea e canoni letterari

231

Corrado Bologna Gli «eroi illustri» e il potere “illuminato”

241

Massimo Bonafin Rileggendo Les Vêpres de Tibert (branche 12 del Roman de Renart)

261

Luciana Borghi Cedrini, Walter Meliga La sezione delle tenzoni del canzoniere di Bernart Amoros

273

Mercedes Brea Esquemas rimáticos y cantigas de refrán

289

Margaret Brose Leopardi and the gendering of the sublime. A meditation for Roberto Antonelli, in gratitude for his friendship

299

Indice

VII

Furio Brugnolo Esercizi di commento al Dante lirico: Ballata, i’ vòi che tu ritrovi Amore (Vita nuova, XII [5]) e Tutti li miei penser’ parlan d’Amore (Vita nuova, XIII [6])

307

Giuseppina Brunetti Per un magnifico settenario

331

Rosanna Brusegan Una crux della Passione di Ruggeri Apugliese: «bistartoti»

343

Eugenio Burgio Achbaluch, «nella provincia del Cataio». (Ramusio, I Viaggi di Messer Marco Polo, II 28, 6-7)

359

Rosalba Campra Costumbre de Primavera

375

Paolo Canettieri Politica e gioco alle origini della lirica romanza: il conte di Poitiers, il principe di Blaia e altri cortesi

377

Nadia Cannata, Maddalena Signorini «Per trionfar o Cesare o poeta»: la corona d’alloro e le insegne del poeta moderno

439

Mario Capaldo Eine altrussische sagenhafte Erzählung über Attilas Tod

475

Maria Grazia Capusso Forme di intrattenimento dialogato: la tenzone fittizia di Lanfranco Cigala (BdT 282, 4)

491

Maria Careri Una nuova traccia veneta di Folchetto di Marsiglia e Peire Vidal (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 89)

513

Attilio Castellucci La sovrapposizione semantica di morriña e saudade

521

Simone Celani A empresa fornecedora de mitos. Un inedito di Fernando Pessoa tra ironia e mitopoiesi

535

María Luisa Cerrón Puga ¿Espía o traductor? El oficio de Alfonso de Ulloa en Venecia (1552-1570)

543

VIII

Indice

Paolo Cherchi Il rito della visita omaggio al maestro

563

Claudia Cieri Via Qualche riflessione sull’ekphrasis nell’arte del tardo Quattrocento: da Leon Battista Alberti ad Alfred Gell

581

Fabrizio Cigni Il lai tristaniano Folie n’est pas vasselage e i suoi contesti (con edizione del manoscritto braidense)

587

Mariella Combi Qualche riflessione antropologica: ri-mappare i sensi e le emozioni

597

Anna Maria Compagna Il sentimento tradotto: da Ausiàs March a Baltasar de Romaní

611

Emma Condello Gentil donsella, l’amourousou visou: un nuovo testo poetico in margine alla scuola poetica siciliana?

627

Silvia Conte Il principiare del canto. Per una nuova edizione di Marcabru, Al departir del brau tempier (BdT 293, 3)

637

Fabrizio Costantini Su alcune rubriche del canzoniere Laurenziano: paratesto, struttura, metrica

667

Marco Cursi, Maurizio Fiorilla Un ignoto codice trecentesco della Commedia di Dante

687

Alfonso D’Agostino Gli occhi di Lisabetta (Decameron IV 5)

703

Franco D’Intino Raccontare lo Zibaldone

721

Silvia De Laude «Is Cardinal Roncalli still alive?». Sull’edizione italiana di Mimesis di Erich Auerbach

733

Gabriella De Marco I luoghi del fare arte. L’atelier dell’artista tra valorizzazione museografica, pagine di critica d’arte e letteratura

759

Indice

IX

Tullio De Mauro Dieci neosemie e neologismi d’autore

771

Silvia De Santis La similitudo dantesca nelle illustrazioni di William Blake

775

Giovannella Desideri La guerra ’15-’18 di Cacciaguida (ancora su Fortuna in Dante)

793

Rocco Distilo Sguardi sul vocabolario trobadorico: lessemi e rime (fra ansa, ensa e ilh, ilha)

809

Carlo Donà Marie de France, Alfredo e la scrittura dell’Esope

825

Luciano Formisano «Dantis erat»: notula sul Fiore di Marin Sanudo

837

Anatole Pierre Fuksas La cobla tensonada e la “dama del torto” di Peire Rogier

843

Massimiliano Gaggero L’épée brisée dans le Conte du Graal et ses Continuations

855

Gaia Gubbini Amor de lonh: Jaufre Rudel, Agostino e la tradizione monastica

885

Saverio Guida Tremoleta.l Catalas (BdT 305, 16, v. 49) = Pons d’Ortafa?

893

tomo ii

Marco Infurna Ideali cavallereschi in Valpadana: il Roman d’Hector et Hercule e l’Entrée d’Espagne

931

Annalisa Landolfi La “finta innocenza” di Alberico. Qualche nota sul prologo del Frammento su Alessandro

945

Lino Leonardi Postilla a una postilla inedita (di Gianfranco Contini) su Federico II

967

X

Indice

Monica Longobardi Una traducson per Guiraut Riquier

979

Lorenzo Mainini Rusticus, civis aut philosophus. Epistemi a confronto, modelli intellettuali e una “memoria dantesca” nel de Summo bono di Lorenzo de’ Medici

991

Mario Mancini «Qu’il fet bon de tout essaier» (Roman de la rose, v. 21521)

1015

Paolo Maninchedda Amore e politica: una variante del dualismo europeo

1031

Luigi Marinelli Tra canone e molteplicità: letteratura e minoranze

1041

Sabina Marinetti L’altra interpretazione di «voce» e «vello»

1057

Paolo Matthiae Materia epica preomerica nell’Anatolia hittita. Il Canto della liberazione e la conquista di Ebla

1075

Maria Luisa Meneghetti Sordello, perché… Il nodo attanziale di Purgatorio VI (e VII-VIII)

1091

Roberto Mercuri La morte del poeta

1103

Camilla Miglio, Domenico Ingenito Ḥāfez, Hammer e Goethe. La forma ghazal: Weltliteratur e contemporaneità

1109

Luisa Miglio Ernesto Monaci, Vincenzo Federici, il Gabinetto di Paleografia e la Collezione manoscritta

1127

Laura Minervini Gli altri Siciliani: il poema sul Sacrificio di Isacco in caratteri ebraici

1139

Mira Mocan Un cuore così illuminato. Etica e armonia del canto nella poesia dei trovatori (Bernart de Ventadorn, Marcabru, Raimbaut d’Aurenga)

1155

Sonia Netto Salomão Carlos Drummond de Andrade: a Máquina do Mundo em palimpsesto

1177

Indice

XI

Roberto Nicolai Letteratura, generi letterari e canoni: alcune riflessioni

1197

Teresa Nocita Loci critici della tradizione decameroniana

1205

Sandro Orlando Un sonetto del Trecento su Bonifacio VIII

1211

Mario Pagano Un singolare testimone del Testament di Jean de Meun: ms. Paris, B.N., fr. 12483

1221

Gioia Paradisi Materiali per una ricerca su Petrarca e le emozioni («spes seu cupiditas», «gaudium», «metus» e «dolor»)

1239

Nicolò Pasero L’amor cortese: modello, metafora, progetto

1263

Rienzo Pellegrini Pasolini traduttore di Georg Trakl

1271

Silvano Peloso Letteratura, filologia e complessità: il caso del Brasile

1289

Gianfelice Peron Realtà zoologica e tradizione letteraria: il “gatto padule”

1299

Vanda Perretta Nostalgia di buone maniere

1315

Marco Piccat La novella dei tre pappagalli

1325

Antonio Pioletti Cercando quale Europa. Appunti per un canone euromediterraneo

1335

Mauro Ponzi Goethe e gli “oggetti significativi” del cambiamento epocale

1347

Norbert von Prellwitz Quando il canone dipende dai centimetri

1365

Carlo Pulsoni, Antonio Ciaralli Tra Italia e Spagna: il Petrarca postillato Esp. 38-8º della Biblioteca de Catalunya di Barcellona (primi appunti)

1371

XII

Indice

Arianna Punzi Quando il personaggio esce dal libro: il caso di Galeotto signore delle isole lontane

1395

Giovanni Ragone L’occhio e il simulatore

1423

Roberto Rea «Di paura il cor compunto»: teologia della Paura nel prologo dell’Inferno

1433

Eugenia Rigano Tra arte e scienza, la bellezza si fa meraviglia

1447

Barbara Ronchetti Arte, scienza e tecnica fra immaginazione e realtà. Alcune riflessioni attraverso le pagine di Velimir Chlebnikov

1467

Luciano Rossi Les Contes de Bretaigne entre vanité (charmante) et eternité (précaire)

1491

Giovanna Santini «Or chanterai en plorant». Il pianto di Jehan de Neuville per la morte dell’amata (Linker 145, 6)

1521

Maria Serena Sapegno «L’Italia dee cercar se stessa». La Storia di De Sanctis tra essere e dover essere

1555

Elisabetta Sarmati Metanovela, microficciones e racconti interpolati in El desorden de tu nombre di Juan José Millás

1563

Anna Maria Scaiola La passione triste della vergine. Atala di Chateaubriand

1575

Emma Scoles «que al que mil extremos tiene / lo extremado le conviene»: il codice cortese fra virtuosismo stilistico e rovesciamento parodico in un Juego de mandar cinquecentesco

1587

Luigi Severi La resistenza della poesia: costanti petrarchesche e dantesche in Zanzotto

1597

Indice

XIII

Emanuela Sgambati L’Ars poetica di Feofan Prokopovič fra teoria e prassi

1619

Margherita Spampinato Beretta La violenza verbale nel tardo Medioevo italiano: analisi di corpora documentari

1629

Giorgio Stabile Favourite Poet. Alma-Tadema e una promessa in codice per Roberto Antonelli

1647

Justin Steinberg Dante e le leggi dell’infamia

1651

Carla Subrizi «Cercando l’Europa» nel 1945: dolore e follia nei disegni di Antonin Artaud

1661

Giuseppe Tavani Codici, testi, edizioni

1673

Stefano Tortorella Archi di Costantino a Roma

1703

Luisa Valmarin Una possibile lettura di Năpasta

1721

Gisèle Vanhese Imaginaire du voyage baudelairien et mallarméen dans Asfinţit marin et Ulise de Lucian Blaga

1733

Alberto Varvaro Considerazioni sulla storia della Filologia Romanza in Italia

1747

Sergio Vatteroni «Il mistero del nome». Sull’essenza della poesia nel giovane Pasolini

1751

Riccardo Viel La tenzone tra Re Riccardo e il Delfino d’Alvernia: liriche d’oc e d’oïl a contatto

1761

Claudia Villa Un oracolo e una ragazza: Dante fra Moroello e la gozzuta alpigina

1787

XIV

Indice

Maurizio Virdis Un Medioevo trasposto: il Perceval di Eric Rohmer. Dalla scrittura letteraria alla rappresentazione cinematografica

1799

Hayden White History and Literature

1811

Claudio Zambianchi Marionette o dei: qualche riflessione su un saggio di Kleist

1817

Carmelo Zilli Su un “errore d’autore” nel Poemetto di Lelio Manfredi

1829

Bibliografia degli scritti di Roberto Antonelli

1835

Massimo Bonafin Rileggendo Les Vêpres de Tibert (branche 12 del Roman de Renart)

Nel Roman de Renart la branche 12, secondo la numerazione tuttora ampiamente invalsa, quella che riflette l’ordine della prima edizione critica completa allestita da Ernst Martin,1 si è imposta all’attenzione degli studi per alcune notevoli peculiarità.2 Intanto il protagonista insieme a Renart è il gatto Tibert3 e non il più ovvio lupo Isengrino; poi è l’unica branche che risulti firmata da un autore, Richart de Lison, di cui, certo, non sappiamo nulla all’infuori del testo, ma almeno, a differenza di Pierre de Saint Cloud, presunto autore delle primissime branches, non è stata messa in dubbio la paternità del suo testo, come invece è accaduto alle branches (16 e 25) che ostentano il nome di Pierre; inoltre, la branche 12 è ricca di precise indicazioni onomastiche e toponomastiche, che la legano a uno spazio, un’area della Normandia, e a un tempo, l’ultima decade del XII secolo, e anche a determinati personaggi storicamente accertabili. Il tema per cui la branche è celebre è la festa dei folli,4 a cui si fa esplicito riferimento (v. 469: «il est la feste as fox») e che risuona in tutta la seconda parte, con il gatto e la volpe che rivestono abiti clericali e cantano i vespri nella chiesa di Saint Martin de Blagny finché i paesani, attirati dal fragoroso e protratto scampanio, non irrompono per scacciarli. La vicenda narrata, pur all’interno di un modello a grandi linee ben riconoscibile, quello delle ricerche di cibo,5 delle avventure in cui Renart si confronta con un avversario isolato e non con la corte di re Noble il leone, corrispon1. Si fa qui riferimento all’edizione in tre volumi Le Roman de Renart, a c. di E. Martin, Strasbourg 1882-1887 (ristampa anastatica: Berlin 1973). 2. L’analisi migliore della branche, conosciuta come Les Vêpres de Tibert, è ancora quella di J. Flinn, Le Roman de Renart dans la littérature française et dans les littératures étrangères au Moyen Age, Paris 1963, pp. 78-91. 3. Di questo compagnonnage e della fisionomia autonoma del personaggio del felino si è ben reso conto Jean Dufournet allestendo un interessante Dossier sur le chat, che accompagna la sua traduzione della branche: Le Roman de Renart, branche XI, Les Vêpres de Tibert le Chat, présentation et traduction suivies d’un dossier sur le chat, a c. di J. Dufournet, Paris 1989, pp. 63-148. Su questo volume si leggano le osservazioni di J. Batany, Renardie féline et ambiguïté cléricale: Les Vêpres de Tibert le Chat, in «Cahiers de civilisation médiévale», 39 (1996), pp. 365-371. 4. Il filo rosso della follia che costituisce una vera e propria isotopia della branche e i rapporti con la cultura in senso lato carnevalesca sono stati dettagliatamente studiati da P. Walter, Renart Le Fol. Motifs carnavalesques dans la branche XI du Roman de Renart, in «L’information littéraire», 41 (1989), pp. 3-13. 5. E. Suomela-Härmä, Les structures narratives du Roman de Renart, Helsinki 1981.

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Massimo Bonafin

de davvero alla novità promessa nel piccolo prologo: «Oez une novele estoire / que bien devroit estre en memoire» (vv. 1-2); tant’è che gli echi intertestuali che rinviano alle altre branches (tutt’altro che assenti)6 passano in secondo piano rispetto alla numerose spie della fine cultura del suo autore, a suo agio con il latino (è sicuramente un chierico), con la musica, con la filosofia, con la letteratura e tutt’altro che immune dalla partecipazione a quella che i tempi moderni chiameranno, ambiguamente, cultura popolare. Un’altra particolarità della branche è il rispetto della regola aristotelica dell’unità di tempo; Jean Batany ha osservato come Renart esca al mattino in cerca di cibo, incontri Tibert verso mezzodì e insieme arrivino alla chiesa di Blagny sul far della sera; la loro celebrazione dei vespri prolunga l’avventura nella notte, con l’irruzione dei fedeli, ma al mattino dopo tutto è già finito: «à l’intérieur de cette durée chronométrique, les événements ont pris position avec une rigueur logique qu’on ne trouve pas toujours dans d’autres branches».7 Finalmente, anche le categorie di antropomorfismo e di zoomorfismo, le relazioni fra animali e uomini, l’identità dei personaggi e le loro relazioni reciproche, sono travolte nella loro presunta fissità e rimesse continuamente in discussione in una commedia degli equivoci e in un gioco di maschere che ha la divertita gaiezza di una parata carnevalesca.8 Rileggendo la branche, non si potrà perciò evitare di tenere a mente tutte queste peculiarità: esse con chiarezza testimoniano di un autore, il nostro ignoto Richart de Lison, che cimentandosi con il genere della zooepica, quando esso era in piena fioritura,9 ha saputo mettere a frutto un corredo di competenze e conoscenze tali da far risaltare l’originalità della sua composizione e delle quali il suo testo risulta comprensibilmente intessuto. L’invito all’ascolto di una nuova storia, che è stata tolta dall’oblio da uno scrittore che l’ha tradotta in volgare, riflette un topos conosciuto e caratteristico, fra l’altro, di più di un prologo delle chansons de geste: mi pare però in limine significativa l’autodefinizione professionale un mestres (v. 4), a cui corrisponde la confessione conclusiva «ce vos dit Richart de Lison / qui conmenché a ceste fable / por doner a son connestable» (vv. 1476-1478).10 Parimenti l’esordio primaverile (v. 7: «ce fu en mai au

6. «Un mosaїque d’emprunts, à l’intérieur d’un jeu permanent de reprises, variations et écarts» è apparsa la branche a R. Bellon, Réécriture et lecture intertextuelle: Les Vêpres de Tibert (branche XII), in «Reinardus», 4 (1991), pp. 27-40, p. 39. 7. J. Batany, Rythmes et chronologie dans deux branches du Roman de Renart, in «Si a parlé par moult ruiste vertu». Mélanges de littérature médiévale offerts à Jean Subrenat, sous la directione de Jean Dufournet, Paris 2000, pp. 39-48, p. 42. 8. Lo ha notato con finezza M. de Combarieu du Grès, Le Même e(s)t l’autre: étude sur les Vêpres de Tibert le chat, in «Et c’est la fin pourquoi sommes ensemble». Hommage à Jean Dufournet. Littérature, histoire et langue du Moyen Âge, a c. di J.-C. Aubailly, Paris 1993, I, pp. 361-373. 9. Altrove ho proposto di intendere appunto il Roman de Renart come un vero e proprio genere di letteratura, piuttosto che un ciclo narrativo come si continua a ripetere: cfr. M. Bonafin, Le malizie della volpe. Parola letteraria e motivi etnici nel Roman de Renart, Roma 2006. 10. Agli appassionati di questioni attributive segnalo che nel manoscritto L il nome è invece Dan Robert Grenon.

Rileggendo Les Vêpres de Tibert

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tens novel»), comune a poche altre branches, deriva dalla tradizione lirica,11 anche se è diffuso pure nell’epica e nel romanzo; così al v. 10 la locuzione avverbiale de grant fin ricorda, quasi in identica posizione, il v. 11 della branche 2, laddove è usata per descrivere la guerra di Renart e Isengrino. La motivazione della partenza della volpe alla ricerca di cibo (v. 15: «porcacher a ton cors viande»), il paesaggio della lande (v. 16), dove il predatore si inoltra spiando con continui moti del collo (v. 18: «sovent vet coloiant») – come nella branche 3 («molt coloie de totes parz», v. 16, ancora un parallelismo di posizione), sono elementi che lo scrittore riusa per connotare lo zoomorfismo del protagonista. L’incontro con l’abate Huon e la sua mesniee (v. 31), che si rivela essere subito dopo non un comitatus signorile ma una muta di levrieri (v. 36)12 – in cui si potrebbe cogliere già una certa qual caricatura delle presunzioni cavalleresche di chi invece appartiene all’ordine religioso – esemplifica la scarsa comunicazione13 e l’ostilità pregiudiziale fra Renart e i membri (antropomorfi) del clero. Se già questa ouverture (una sessantina di versi) dispiega le qualità della scrittura di Richart de Lison, l’ingresso in scena del gatto Tibert mette nel vivo della sceneggiatura intertestuale, interdiscorsiva e satirica di questa branche. Renart scopre Tibert14 disteso a crogiolarsi al sole, evidentemente satollo (v. 79) e poco disposto ad ascoltare le sue chiacchiere (vv. 72-73: «n’ai que fere de vostre jangle / ne de vos falordes oїr»): si delinea subito quindi il contrasto fra i due sulla linea del bisogno primario (affamato/sazio) e insieme il motivo dei discorsi vani, o delle parole false e di scherno,15 che nutrirà i passaggi più interessanti della vicenda, i dialoghi con il prestre del Breil e fra i due protagonisti medesimi. Che il gatto sia qui l’antagonista che sostituisce il lupo (Isengrino), nel ruolo di vittima degli inganni della volpe, è alluso anche da una spia lessicale, la locuzione chere lovine (v. 83),16 per descrivere la smorfia che attraversa il volto di Tibert all’udire le parole di Renart. Il gatto, con una mossa verbale altrove tipica del trickster, maschera e rovescia la fame della volpe usando, a scherno, il registro religioso, che diverrà dominante d’ora 11. Il sintagma tens novel è, notoriamente, già in Guglielmo IX (BdT 183, 1), con rinvio al novel chan, che sembra echeggiare – se non è un abbaglio – proprio nella novele estoire del primo verso della branche 12. 12. Come non pensare, proletticamente, ai cani della “caccia infernale” di Nastagio degli Onesti (Decameron, V, 8)? 13. Renart impreca contro chi gli ha attraversato la strada proprio mentre stava per impadronirsi di una preda, ma, come quasi sempre accade nelle branches, non c’è vero dialogo fra animali e uomini, ciascuno di loro “parla” all’interno del suo mondo. 14. Tibert le chat (v. 61) precisamente, in cui l’apposizione della specie animale, pur scontando un tasso di convenzionalità, fa contrasto con l’assenza di un corrispettivo per Renart, di cui non si specifica mai che sia una volpe, fatto evidentemente noto al pubblico della branche 12; accenno però di sfuggita anche a un altro valore che il nome di specie posposto può avere, cioè di indicazione di un insieme di caratteristiche predicate abitualmente di quell’animale, e non quindi di definizione generica. 15. Gaber, infatti, è non a caso verbo ricorrente nel testo (vv. 111, 190, 246, 473, 584, 598, 599, 1074). 16. Se non erro, il sintagma idiomatico si trova solo, oltre che qui, nella branche 17 (v. 442) del Roman de Renart, e non deve essere molto frequente in antico francese, se le sole occorrenze che ho trovato finora sono quella, già registrata dal Godefroy, del Roman d’Alexandre: v. 8869 (versione B del manoscritto Venezia, Museo Correr, 1493; cfr. http://www.rialfri.eu/rialfri/testi/alexandre-B.html), e quella dell’Entrée d’Espagne, v. 8877 (a c. di A. Thomas, Paris 1913).

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Massimo Bonafin

in avanti nel testo: «Renart, doit il donc dire fable, / qui jeüne et feit penitance?» (vv. 100-101) Digiuno e penitenza che si convengono piuttosto a chi va in pellegrinaggio, aggiunge Tibert, con un’allusione multiforme. Nelle branches 1 e 8 compare in effetti un Renart che si fa pellegrino, ma i versi seguenti inducono a sospettare anche un’eco diversa (vv. 109-115): «Avoi, Tybert or est asez. N’estez vos mie encor lassez – Fet sei Renart – de mei gaber? Ja nel vos doüssez penser. Por ce se je sui or frarinz, Asés set Deu quex pelerins Nus somes» Renart li a dit.17

La volpe chiede ironicamente se il gatto non è stanco di gaber, di gabbarlo, di prenderlo in giro e aggiunge una frase minacciosa («non avreste mai dovuto pensarlo»), prima di riprendere, e forse rivendicare, l’allusione al suo statuto di pellegrino. Ora, c’è un testo ben noto e pressoché contemporaneo (o di poco anteriore) alla branche in cui il “pellegrinaggio” dell’eroe (e del suo seguito) e il motivo del gabbo sono intrecciati e definiscono il profilo della vicenda: il Voyage de Charlemagne;18 in particolare, il v. 112 («Ja nel vos doüssez penser») sembra ricalcare due occorrenze significative dell’anonimo poemetto eroicomico: la prima, allorché Carlomagno, infuriato per la mancata conferma del suo vanto da parte della regina, che invece gli contrappone il leggiadro re di Costantinopoli, minaccia di decapitare la consorte per aver dubitato di lui (della sua virtus, ma anche del suo mana imperiale) con le parole «Ne.l dusés ja penser, dame, de ma vertut» (v. 56); la seconda, simmetrica quanto alla dinamica narrativa interna del Voyage de Charlemagne, quando il re Ugo di Costantinopoli interroga aspramente i suoi ospiti francesi (v. 643: «Carles, pur quei gabastes de moi et escarnistes?») rimproverandoli per aver deluso la sua generosità, con l’aver enunciato i loro gabbi a scherno suo, della sua famiglia e del suo regno, e li minaccia della pena capitale se non saranno in grado di realizzare ciò di cui si sono vantati con le parole «Ne.l duséz ja penser par si grant legerie!» (v. 645). Soprattutto questa seconda occorrenza dell’espressione, in un contesto enunciativo quasi identico, per il riferimento esplicito al gaber, mi pare non possa essere una coincidenza verbale fortuita, ma suggerisca che fra le molte e ampie conoscenze (letture?) di Richart de Lison ci potesse essere anche il Voyage de Charlemagne. Tibert però non desiste dallo schernire Renart e lo fa insistendo sul registro religioso e introducendo senza parere quello che sarà il tema della branche, la parodia dell’ufficio liturgico (vv. 117-119, corsivi miei): Renart, di moi ou est l’iglise Ou tu vas oïr le servise. Ja ne ses tu pas messe entendre. 17. Ne approfitto per segnalare che una versione italiana della branche 12 è contenuta nella mia antologia Vita e morte avventurose di Renart la volpe, Alessandria 2012. 18. Debbo rinviare per altre notizie alla mia recente edizione: Viaggio di Carlomagno in Oriente, Alessandria 2007.

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Renart riesce comunque a persuadere il suo interlocutore ad accompagnarlo nella riserva di Guillaume Bacon (v. 131), ricorrendo alle sue migliori blandizie verbali, infarcendo il suo discorso di proverbi (vv. 126, 128) e appelli alla cortesia (vv. 129, 138), false promesse di solidarietà contrappuntate da un a parte in cui minaccia di vendicarsi sfruttando il suo engin (v. 153), quello stesso engin, a un tempo inganno e ingegno, che Tibert giustamente teme in versi premonitori: «Voire mes se tu me fez batre / Par ton engin et fere honte?». L’autore continua a giocare con l’enciclopedia renardiana del suo pubblico (l’a parte del v. 149 «Et puis dist en bas belement» richiama la tipica doppiezza volpina quale si mostra ad esempio nella branche 1, v. 1455) e anticipando, ora di poco ora di molto, gli eventi che seguiranno (la sconfitta finale del gatto, dopo più d’una umiliazione inflitta al suo compagno d’avventure). Così quando fa chiedere da Renart a Tibert che cosa farebbe se all’improvviso comparissero «tuit li chen Guillaume Bacon» (v. 167), il gatto risponde che si arrampicherebbe su un albero per studiare la situazione (vv. 171-173), cosa che si verifica di lì a poco e dà luogo a una scena movimentata ed essenziale per lo sviluppo narrativo, perché introduce la figura del prete del Breuil. Renart, invece, di fronte all’arrivo di un avversario come la muta dei cani da caccia non ha altra scelta che fuggire, non potendo sperare in alcun soccorso (vv. 184-186): «ici ne voi ge nul des miens / (…) / or face chascun de ses arz», un distico che staglia la volpe come eroe dell’individualismo avant la lettre, in un mondo medievale che invece considera l’uomo solo se inserito in un lignaggio, in un gruppo, almeno in una mesnie. A Tibert dice che non è più tempo di gaber (v. 190, prolettico del v. 245), di dire quelle «foles paroles cuisanz», da gradasso a pancia piena, ma di sfuggire in alto prima dai cani e poi dalle armi da lancio dei cacciatori che li accompagnano (v. 202, prolettico del v. 240). Quant uns prestres vint a cheval Qui ses livres ot fet troser Por ce que il deveit chanter A Blaangni por le proveire Qui esteit ales a la feire. Ne saveit d’autres livres rien.

In questi versi (248-253)��������������������������������������������������������� ������������������������������������������������������������������ che segnano l’apparizione del prete��������������������� sono �������������������� anticipati tutti i nuclei tematici successivi: il cavallo, che verrà lasciato accanto all’albero senza legarvelo (v. 269) e sarà quindi sfruttato dal gatto per scappare ai suoi persecutori (vv. 329, 345); i libri, caricati sul cavallo, gli unici che il sacerdote semianalfabeta è in grado di utilizzare per le sue funzioni (vv. 399, 407), che daranno pretesto al sarcasmo di Tibert verso di lui e alla burlesca interrogazione atta a evidenziare il dislivello culturale fra i due personaggi; la chiesa di Blagny, dove il prete era diretto per sostituirne il curato, ma che sarà invece raggiunta dal gatto (sostituto del sostituto!), insieme alla volpe, che vi celebreranno i vespri, nella seconda parte della branche. Il prete del Breuil è la vittima esemplare di Tibert: l’ostilità precostituita fra le due figure, simboli dal punto di vista ecclesiastico della pars Dei e della pars Diaboli,19 si 19. Altrimenti non si spiega perché il prete interrompa il suo itinerario verso Blagny e si metta ad attaccare il gatto sulla quercia (vv. 265, 301).

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esprime da parte di Tibert in una serie di imprecazioni e rimproveri, che gli rinfacciano la sua follia (vv. 290, 429), la sua ignoranza (v. 311) e la sua scarsa inclinazione pastorale (v. 306); l’aver favorito indirettamente la fuga del gatto (sul suo cavallo incustodito) gli costerà di essere battuto sonoramente dai cacciatori (v. 362) e di dover inseguire a piedi il suo avversario; Tibert gli sottopone poi delle domande che sostanziano la satira di questo rappresentante del basso clero di tre motivi molto precisi: l’ignoranza del latino, della lingua della Chiesa (confonde faba con fabula, la fava con la favola, vv. 422-427), la partecipazione mentale a una cultura infima, volgare, imperniata sull’immaginario materiale-corporeo (equivoca in senso scatologico il verbo riferito alla capra, vv. 433-436), il sospetto di immoralità, e specialmente di pederastia (l’unica cosa che sa bene è cosa fanno i preti ai chierichetti, vv. 438-440). L’avvilimento ultimo del prete si realizza allorché Tibert sprona il cavallo lasciandolo indietro tristre et dolans (v. 455) a chiedere a quelli che incontra se han visto passare un gatto a cavallo con i suoi libri (!), facendosi così prendere per pazzo o ubriaco (vv. 464-465); è qui che cade appunto, affidata alle parole di scherno (gabant, v. 473) di queste comparse anonime (dietro cui più facilmente si cela la voce dello scrittore), l’allusione al festum stultorum (vv. 468-472): «Oez – font il – est il dont ivres? Dan prestre, il est la feste as fox. Si fera len demein des chox Et grant departie a Baieus: Alés i, si verrés les jeus».

La scena seguente porta di nuovo Renart e Tibert a incontrarsi, ma è assai curiosa, perché l’autore qui si diverte al gioco delle maschere e dei travestimenti, dei mancati o dissimulati riconoscimenti dell’identità dei due personaggi. Da un lato, Renart (vv. 486-489): Trois feiz se seinne, quant le voit, Molt le regarde apertement, N’osse pas croire fermement Que ce fust Tybert qu’il veit la.

Dall’altro, Tibert (vv. 490-492): Et Tybert qui bien veü l’a, Ne fet pas semblant qu’il le voie, Ainz chevace molt bel sa voie.

A cavallo e con un copricapo fiorito, il gatto sembra alla volpe un cavaliere, o forse un monaco, un abate anzi visto che ha con sé molti libri; nelle parole di smarrimento che Richart de Lison fa pronunciare al suo personaggio mi par di sentire tuttavia un’eco lirica (vv. 500-504, corsivo mio): Et dit Renart «Par la membrance, Par les plaiez, par la mort beu, Ne sai ou sui ne en queil leu,

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Ne sai que c’est que je voi la. Se c’est Tybert, qui l’adoba?

Non è impossibile, attesa la vasta e fine cultura di cui dà prova lungo tutta la branche, che l’autore abbia qui avuto reminiscenza del celebre devinalh del primo trovatore, il conte di Poitiers, Guglielmo IX d’Aquitania;20 nel Vers de dreit nien (BdT, 183, 7),21 infatti, compaiono ravvicinati la figura del cavaliere in sella e la serie anaforica negativa del “non-sapere” (vv. 7-9, 13-14, 25-26): No sai en qual hora.m fui natz, No soi alegres ni iratz, No soi estranhs ni soi privatz, (…) No sai cora.m fui endormitz, Ni cora.m veill, s’om no m’o ditz; (…) Amigu’ai ieu, non sai qui s’es: Qu’anc no la vi, si m’aiut fes;

Ma il gioco delle dissimulazioni e delle finzioni sembra interessare di più al nostro scrittore, perché quando Renart appare finalmente a Tibert quest’ultimo finge di non riconoscerlo e anzi lamenta che, dovendo andare a Blagny a cantar messa, avrebbe bisogno di un chierico che gli rispondesse (v. 569); lo scambio di battute che ha luogo – che ovviamente presuppone un testo recitato, e non letto, perché se ne possa apprezzare la vivacità e l’efficacia comica22 – perviene a una svolta solo allorché la volpe ribalta la situazione, negando che il suo interlocutore sia chi afferma di essere (vv. 599-604): «Gabé? de quoi? oncor i pert, Dont n’estes vos mie Tybert». «Oïl voir». «Et je Renart sui, A cez enseinnes que je hui Vos trovai sor la roche en haut Ou vos vos tostissiez au chaut».

Ristabilite di comune accordo le reciproche identità, Renart chiede a Tibert ragione del suo nuovo equipaggiamento: questo fornisce il destro all’autore per incastonare una rinarrazione interna di trenta versi (vv. 612-642) degli eventi precedenti, secondo una modalità che il Roman de Renart utilizza a più riprese e con diverse sfumature, a riprova di una inclinazione alla sperimentazione di tecniche stricto sen-

20. Si veda del resto quanto notato sopra alla nota 11. 21. Cito dalla classica edizione Guglielmo IX d’Aquitania. Poesie, a c. di N. Pasero, Modena 1973, ma avvertendo che, da parte dello stesso editore, è da tempo in cantiere una nuova edizione critica del trovatore. 22. Addirittura il gatto si rivolge a un pubblico ideale della scena: «Avez oï, par le cuer bé, / Con m’a or cil vileins gabé!» (vv. 597-598, corsivo mio)

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su romanzesche in grado di introdurre nel racconto medievale forme embrionali (ma talvolta anche già sviluppate) di polifonia e pluriprospettivismo.23 Dopo una schermaglia verbale per far salire a cavallo anche Renart – che verrà ricordata, insieme a tutto il resto, nella lunga allocuzione di scherno che la volpe finalmente vittoriosa indirizzerà al gatto legato alle corde delle campane della chiesa – Tibert intreccia con il suo compagno di viaggio una disputa dialettica, in cui la critica ha riconosciuto una divertita parodia delle quaestiones scolastiche, in particolare qui della disputa celeberrima sugli universali con la contrapposizione di realismo e nominalismo, il primo apparentemente difeso da Renart e il secondo da Tibert. La parodia si serve qui tanto della mimesi terminologica (dialectique, quiqueliquique, t’opos, l’argument, prover, provance, j’opos vv. 715 ss.) quanto della Mischung abbassante del registro materiale-corporeo, comico (v. 718: «par derere mon dos»; v. 748: «dont n’est-il qu’un filz a putein», ripreso alla rima del v. 762), delle locuzioni proverbiali (v. 734: «que cil n’abat pas qui ne luite»; v. 770 «et itel gré a qui chien nage»), dei giochi di parole (vv. 766-767: «Avoi! vos aves mangé tence / – Fet Renart – si voles tencer») e del fatto che tutti gli esempi sono tratti dalla sfera umile delle varietà di pane. Superata di poco la metà della branche, incomincia (cfr. v. 799: or comenchez!) la rappresentazione della messa vespertina celebrata dai due eroi zoomorfi nella chiesa di Blagny, in cui risuona l’eco della festa dei folli e di altre simili cerimonie carnevalesche. È chiaro che la comicità e il divertimento di questa sequenza dipendono dalla spontanea familiarità dell’autore e, soprattutto, del pubblico con la ritualità dell’ufficio liturgico, sullo sfondo del quale la interpretatio volpina e gattesca prende vita e forma. I riferimenti, disseminati nel tessuto verbale della branche, all’apparato della messa (vv. 801, 805, 810, 811, 813, 826 ecc.), ai paramenti e agli arredi liturgici (vv. 819, 820, 878), le farciture di citazioni latine (vv. 823, 830, 853, 865, 874 ecc.), non sono che la parte più superficiale di una costruzione parodica che doveva risultare tanto più saporosa per una comunità abituata a praticare periodicamente quei riti, e a deformarli allegramente in determinate occasioni.24 Non è quindi il caso di insistere in questa sede su cose risapute, come la tradizione delle messe parodiche che è un innegabile retroterra di questa rappresentazione. Piuttosto, conviene enfatizzare che anche sotto questo profilo Richart de Lison esibisce delle competenze peculiari, giacché, trattandosi di messa ovviamente cantata, non si limita alla caricatura del canto liturgico affidata ai versi dissonanti e sgraziati dei due animali (come nella branche 14), bensì dedica una dozzina di versi (vv. 883-896) a una dettagliata descrizione delle modalità della liturgia polifonica che il contemporaneo Perotinus aveva portato al suo apice e che, evidentemente, non era apprezzata da tutti; i precisi termini musicali (v. 885: «a orgue, a treble et a deschant») e l’enfasi sulla durata e la tonalità del canto di Renart sostanziano la colta parodia del nostro autore.25 23. Ne ho trattato nel cap. 7 del mio Le malizie della volpe cit. (con riferimenti alle branches 6, 9, 23). 24. Alcune immagini sono però comiche di per sé, come quella della volpe che sfoglia freneticamente il salterio (vv. 814-816): «Et Renart aquelt a ses paumes / Plus menu ces fous a torner / Que vos ne poïssiez conter». 25. Rinvio ancora alle ottime pagine di Flinn, Le Roman de Renart cit., pp. 84-87.

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Tutta la scena dei vespri è anche una ricapitolazione di motivi precedenti: la competizione dei due antagonisti per spartirsi i beni futuri, conseguenti al loro nuovo ruolo ecclesiastico (vv. 935-936: «de morz, de viz et d’aventures, / d’offrandes et de sepultures»), e presenti, il pane e i due formaggi, quello fresco e quello stagionato (v. 950), riprende la disputa per stare entrambi sul cavallo, quella “dialettica” sulle specie del pane,26 nonché la fame costituzionale di Renart, destinata a essere ancora delusa da Tibert, che non cessa di prenderlo in giro (vv. 968-969: «Or va ta voie, fol licherre! / Demein au soir auras cest mol»); la preparazione della vendetta di Renart, rivelata dalle parole dette sottovoce (v. 982); il gaber, tonalità costante dei discorsi dei due personaggi – forse spia di una conoscenza di testi in cui questa modalità enunciativa diventa motivo strutturante o genere verbale indipendente27 – la cui ultima lessicalizzazione cade proprio qui (v. 1074),28 a marcare il rovesciamento della situazione, che vede la volpe finalmente ribaltare sul suo antagonista le canzonature, i sarcasmi e gli scherni subiti in precedenza; il rimprovero dell’orgoglio, della superbia, mosso al gatto fin dalla sua prima apparizione (vv. 80-81: «Ne durra mie la semeine / Cist orgoulz que vos or avez»), diventa assai maligno ora che Tibert è quasi strangolato dalle corde delle campane in cui Renart l’ha fatto restare impigliato (vv. 1130-1131: «Par Deu, trop estes orgellox / Por estre mestre a povre gent»). E ancora (vv. 1150-1155): Vos doüssiez si bien savoir Les set arz, ce deseez ier: Or ne vos savés dezlier. Folie vos fait tant soner, Vos doüssiez laissier ester Le debateïz de cez clochez.

Il riferimento alle sette arti liberali, la conoscenza libresca vantata da Tibert prima dell’arrivo a Blagny, viene ironicamente messo a contrasto con l’incapacità pratica di slegarsi; l’antitesi di sapientia e stultitia viene declinata comicamente e rovesciata nelle parole di Renart, che evocano appunto la folie29 – isotopia di tutta la branche – che fa suonare a distesa le campane; è appena il caso di dire che questo scampanio, o meglio scampanata, allude a una dimensione sonora caratteristica dei rituali carnevaleschi. Il gangler (v. 1213) di Renart s’interrompe quando in chiesa irrompe il primo villico (vv. 1215-1220): Un fort vilein fel et enrievres, Hardiz autresi con un levres. Au coste ot s’espee ceinte Qui tote esteit de roïl teinte, 26. Ma qui il pane sull’altare, indicato da Tibert a Renart, sarà anche una variante sconsacrata dell’ostia. 27. ������������������� Cfr. J.L. �������������� Grigsby, The gab as a latent genre in medieval French literature. Drinking and boasting in the Middle Ages, Cambridge (Mass.) 2000. 28. Ma il sostantivo plurale gaz compare ancora al v. 1464. 29. Cfr. del resto a poca distanza grant folie (v. 1162), fol devé (v. 1172), ce est folie (v. 1211).

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Qu’il ne pooit issir des es, Ne ja par lui n’en istra mes.

Il ritratto attiva la satira antivillanesca, la caricatura del contadino che vuol farsi cavaliere, uno stereotipo che la letteratura medievale conosce bene e che Richart de Lison incrocia con una reminiscenza della branche 1: alla vista del gatto, «meintenant li pristrent fevres / et il s’en fuї con un levres» (vv. 1225-1226, ripresa poi ai vv. 1273-1274), come al ruggito del leone (vv. 359-360: «tel poor ot Coars li levres / que il en ot deus jors les fevres»).30 La scena finale, assai movimentata, fa della chiesa il teatro di una serie di azioni che proseguono la profanazione del luogo iniziata con i vespri di Renart e Tibert. Dapprima il tema che viene svolto è quello del contrasto fra i contadini, su cui si dirige sempre lo sguardo satirico dell’autore, e il gatto-campanaro interpretato – non potrebbe essere diversamente – come un’epifania diabolica (v. 1264: un aversier; v. 1267: un diable; v. 1287: li deables) e fatto oggetto di interrogazioni e scongiuri (vv. 1297, 1302, 1305, 1312, ecc.), volti ad accertarne la natura maligna, prima di attaccarlo direttamente per eliminarlo. Ovviamente, non solo perché Tibert è soffocato dalle corde, non c’è risposta e non ci può essere dialogo fra l’animale e gli uomini, le parole dei quali risultano comiche per la ripetizione delle formule di rito, per la mescolanza di spavalderia e paura che esibiscono, per la loro sostanziale inutilità.31 Successivamente, l’assalto dei villici a Tibert, già ridicolo per la sproporzione delle forze,32 viene tratteggiato come uno scontro epico, un combattimento per il quale lessico e formule delle chansons de geste appaiono i più adeguati (ma s’indovina lo sguardo sornione dell’autore); ecco allora le grida di incitamento, baron hardi (v. 1290), baron cremu (v. 1332), la spada sguainata dal quointe bacheler (v. 1346), «que les mailles de la pelice / li freint et delace et delice» (vv. 1355-1356), con la pelliccia del gatto diventata una cotta di maglia: ma i colpi, vibrati con tanto impeto, non vanno a segno, perché i villani possono solo imitare maldestramente i cavalieri; al giovanotto la spada scivola di mano, a un altro la lancia si spezza ed egli inciampa su una pietra e si rompe una costola (vv. 1371-1374), mentre Tibert schiva il colpo. Richart de Lison, buon conoscitore del Roman de Renart, non si astiene dal riprendere un altro motivo ricorrente in più d’una branche (ad esempio nella branche 3, vv. 487-495), quello che chiamerei del coup détourné, in quanto anziché eliminare colui al quale era destinato ne determina la liberazione (vv. 1380-1391): Ferir le quida sor son haume, Mes a cestui coup a failli, Que Tybert li a bien guenci: 30. Cfr. anche sempre nella branche 1, vv. 451-452. La rima, benché non rara, si incontra solo in queste due branches, in ambedue ripetuta. 31. ������������������������������������������������������������������������������������������ Nessuna autorità o valore invocato (v. 1312: «de totes genz / et de l’apostoile de Rome»; vv. 1319-1323: «De ta foi et de ta creance / Te conjur et del roi de France / Et de trestote la maisnie / Qu’il meine o lui en chevaucie, / Et de par le roi d’Engleterre») riescono ad aver ragione del silenzio di Tibert. 32. E per la partecipazione della mescine au prestre (v. 1334) armata di regolare quenoille (v. 1340)!

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Ne l’a mie a cel coup ateint, L’espee entre ses poins li freint. Et il li passe o le tronçon, Si le feri el chaaingnon Que les las ou il ert laciez A a cel coup outre trenchés. Et Tybert qui molt esteit laz, S’en vait fuiant plus que le pas. Parmi l’uis s’en esteit sailliz.

Tibert sfugge quindi ai suoi inseguitori, col favore dell’oscurità, e alla morte a cui sarebbe andato fatalmente incontro, anzi, come dice il testo, a «l’aventure / qui li estoit a avenir, / qu’il ne deveit mie morir» (vv. 1399-1400), giocando con la figura etimologica e ironizzando sul valore cavalleresco di un termine chiave dell’universo cortese come avventura.33 Ritrovando Tibert con ancora il cappio di corda intorno al collo, Renart non gli risparmia il sarcasmo, del tutto analogo a quello che aveva riservato all’orso Brun nella branche 1 (vv. 698-699: «de quel ordre volés vos estre / que roge caperon portés?»), rivolgendosi a lui come segue (vv. 1413-1420): Et si me contes de vostre estre Que de vostre ordre voudroie estre, Que molt vos siet bien cele estole Qui le vostre bel col acole. Et por Deu, sire, qui l’i mist De grant folie s’entremist, Qu’ele resemble chaagnon A quoi l’en ait pendu laron».

Nell’ultimo scambio dialogico fra i due compagni-antagonisti non manca la diffida a Tibert a entrare in chiesa e a cantar messa, poi i due si separano e Renart fa ancora in tempo a ghermire un grasso papero da portare a casa, per saziare la fame della sua famiglia che lo aveva messo in moto la mattina precedente. Lo scrittore si congeda con una dedica dell’opera al suo conestabile e una excusatio per la presenza di termini dialettali (normanni),34 che non può non ricordare altri esempi simili; piuttosto, mi pare indicativo dello spirito con cui il racconto è stato condotto, un racconto di cui ho cercato di mettere in evidenza la densità letteraria, in una trama originale nel Roman de Renart e connotata da una satira vivace e divertente, il fatto che Richart de Lison assuma infine su di sé la maschera della follia (v. 1482), per chiudere dichiarando di non voler scrivere altri versi. A giudicare dalle testimonianze manoscritte a noi note finora, sembra che abbia mantenuto la promessa. 33. Per una contestualizzazione più ampia, mi permetto di rinviare a M. Bonafin, Demitizzazioni dell’avventura cavalleresca, in Mito e storia nella tradizione cavalleresca, Atti del XLII Convegno storico internazionale (Todi, 9-12 ottobre 2005), Spoleto 2006, pp. 385-404. 34. A dire il vero non tutti i critici sono convinti della presenza di molti normandismi nella branche, ma la questione non concerne direttamente la rilettura del testo condotta in questa circostanza.

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