Rec. a Enrico Testa, \"Ablativo\" (Soglie, XV, 3, 2013, pp. 71-73)

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Descripción

Soglie

rivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

Nuova serie Anno XV, n. 3 - Dicembre 2013

Testi poetici

Freschi di stampa: Due nuove poesie di Saffo (a cura di   Crescenzio Sangiglio Alison Croggon, Far fronte all’impossibile, con un’intervista   a cura di Marzia Dat Daniela Attanasio, Incapacità di far fruttare il silenzio Mario Graziano Parri, Nell’ora che trema

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Saggi

Marzia Minutelli, “Effimera ghirlanda” di una   poetessa dimenticata: dodici liriche di Rina Pellegri

Recensioni e note

Michela Landi, L’ora presente di Yves Bonnefoy Leandro Piantini, Quando avrò tempo. Poesie 2010-2012   di Anna Maria Carpi Flavio Pettinari, C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007   di Nina Cassian Silvia Morotti, Inizio Fine di Daniele Piccini Damiano Moscatelli, Ablativo di Enrico Testa Giancarlo bachini, Sauro Damiani, Note sui libri ricevuti   (U. De Robertis, A. Ferrini Policardo, L. Frisa, A. Amorelli,   E. Montini)

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Poesie ricevute

Premio di Poesia ‘Antica Badia di S. Savino’, XXXV edizione:   P. Lombardi, A. Taioli, R. Vettorello

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Recensioni e note

Enrico Testa, Ablativo, Torino, Einaudi, 2013. Non è che un continuo movimento di allontanamento da sé la cifra espressiva ricorrente di Ablativo, l’ultima raccolta di Enrico Testa. Ricorrente, ma in molteplici manifestazioni, entro una struttura semantica che, percorrendo le undici sezioni del libro, attraversa immagini, situazioni, spazi e tempi differenti, dominati da un io poetico schivo, introverso, quasi deliberatamente marginalizzato; una riservatezza che certamente non comporta alcuna rinuncia dal punto di vista gnoseologico, ma che implica un reciso rifiuto di ogni tipo di assolutizzazione e di ogni fenomeno di esaltazione egotica. Non a caso dominano gli stati intermedi e di passaggio: dalla dimensione onirica, orizzonte ambiguo per antonomasia, alle immersioni nell’universo mnemonico, in cui l’io incorre in un processo di oggettivizzazione quasi straniante, passando per i frequenti spostamenti da un luogo a un altro, con incursioni anche in ambienti esotici e remoti, venati da una volontà di documentazione che è, sì, descrittiva ma anche e soprattutto identitaria. In questi luoghi si accendono talora, a intermittenza, alcuni barlumi simil-montaliani (“Poi, piano piano, le candele/ si sono accese l’una dall’altra./ Un’allegoria scaltra/ ma anche una breccia/ nel muro della giornata”; “Eppure proprio qui siamo pronti/ a scoprirci unici e soli/ tra i relitti glaciali/ le miniere le cave/ che slabbrano d’ocra/ il verde delle montagne...”), rivelatori di qualche pulviscolare e transitoria verità soggettiva, senza che, tuttavia, vi siano mai un punto fermo, uno sguardo risolutore o una certezza definitiva. Ciò che emerge prepotentemente, in tutte le sue contraddizioni e la sua mutevolezza, è il dato di realtà, che l’io poetico osserva, oscillando al ritmo delle sue tortuosità, ma non aderendovi pienamente e, anzi, interponendovi molte volte un certo grado di distacco ironico. Il mondo descritto, inquadrato in una costellazione toponomastica che va dalla più minuziosa precisione alla massima indeterminatezza e dal contesto del nucleo familiare a quello di ambienti sconosciuti e lontani, rifulge di elementi vegetali, animali e paesaggistici variegati, il cui impiego risulta funzionale alla rappresentazione di una sensibilità che non può fare a meno di partire da una situazione o da un evento concreto per fare versi. Nel mondo in cui viviamo o, più umilmente, nei semplici “quadretti di genere” che ci troviamo dinanzi si affacciano talvolta scintille di commozione nostalgica e partecipazione (“Ma allora perché c’inteneriscono/ sino alle lacrime?/ Forse perché lì brilla/ qualcosa di nostro e di perduto/ volato via veloce tra le ombre?”) o, in altri casi, manifestazioni tautologiche della natura, impermeabili ai segreti reconditi (“non portava notizie di nessuno/ Soglie, anno XV, n. 3

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l’ape che ti punse la mano/ nel camposanto di Dego”), o identificazioni inaspettate con contesti di ambigua imprecisione geografica (“poteva essere Mantova”), o ancora alterazioni prospettiche che ispirano nuovi sguardi sulla realtà (“Non sentite quanta pena/ si nasconde, ritrosa,/ dietro l’idillio?”). Così, pare ricordarci Testa, l’esistenza gioca la sua partita su più tavoli e si mostra cangiante nell’aspetto e percorsa per intero da una contraddittorietà tale da far convivere situazioni e sentimenti apparentemente inconciliabili. Non si escludono a vicenda dunque la freddezza glaciale di richieste di aiuto, formulate nel bel mezzo di un paesaggio spettrale, a un tu assente (“Aspetto, nel gelo, che qualcuno mi chiami”) e le immagini di gioia infantile e plurale di “giocano giochi antichi”, in cui un personaggio non identificato e descritto in terza persona si immedesima partecipe, benché in posizione appartata, con ciò che lo circonda; e coesistono le ricorrenti tinte cromatiche accese, sovente riferite a elementi vegetali o, in senso lato, naturali, e quelle fosche e fredde legate alla morte. Con un uso sapientemente dosato e, a tratti, dissimulato degli strumenti retorici, con frequente, ma mai ostentato, ricorso a rime, allitterazioni e iterazioni varie, l’autore, registrando le percezioni di un io poetico non univocamente identificabile e manifestazioni immanenti colte nella loro irriducibile varietà, trascina il lettore in un universo, soggettivo, certo, ma anche collettivo, di cui non si riesce a rilevare alcuna certezza rassicurante, ma di cui si accetta la regola principale, e cioè che la coscienza individuale non si afferma come un dato precostituito e definibile una volta per tutte ma si costruisce per brandelli di esistenza, il più delle volte incoerenti tra loro, e per accumulo progressivo di esperienza: gli affetti, i sentimenti, le occasioni di vita, i paesaggi naturali, i viaggi, la memoria, il sogno compongono questo mosaico variopinto e inafferrabile. Persino i morti, presenze attive già in Sereni, tradiscono il loro statuto incerto e, sottraendosi a classificazioni riduttive e scartando il ruolo di alterità minacciosa e incombente ad essi assegnato nella percezione comune, recitano la loro parte nel mondo dei vivi, confondendosi spesso con loro (“Qui, dove stiamo/ immobili ad aspettare/ creduli e fiduciosi/ nel chiuso dei nostri forti/ – noi, la parte viva dei morti”). Le figure funeree o comunque di transizione, come quella dell’ombra, pur nella loro ricorsività, non generano mai una prospettiva nichilistica: affiora, infatti, una, ancorché cauta, fiducia nella facoltà linguistica e, nello specifico, nella parola poetica. Se la lingua è descritta esplicitamente come anti-babelica in “elma in turco significa mela”, cioè come una forza in grado di unire piuttosto che dividere (“ci tiene – tra sbreghi impacci e nodi -/ ancora legati insieme”), 72

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specularmente la poesia, in A Edoardo Sanguineti, riveste ancora una funzione, benché non meglio definita (“i versi, se vuoti di ogni albagia/ e ridotti quasi a patiti patemi del pathos,/ servono ancora./ A poco ma servono/ anche se a chi e a cosa non so”). Senza indulgere a una fiducia ingenua e incongrua rispetto ai tempi, Testa recupera l’idea del linguaggio come strumento comunicativo, in grado di legare assieme le multiformi manifestazioni umane e al contempo di rivelare, quasi con automatico percorso di inabissamento (“le concrezioni geologiche della lingua”), significati reconditi e non rintracciabili dietro gli orpelli esornativi di cui sono spesso rivestite le parole. Così scopriamo che “l’io asfodelico”, auto-emarginato e assimilabile alle creature animali celate in anfratti reconditi, menzionate in “la carpa centenaria immobile nel fango”, nasconde in realtà, sotto l’apparenza di un dire compito e insincero, eruzioni incontrollabili e una “corrente impetuosa” e passionale, di cui sospetteremmo se non sapessimo già che nel mondo poetico di Ablativo gli opposti convivono. E se l’ablativo si definisce, certo, come allontanamento da sé, esso comprende anche la funzione strumentale, locativa e comitativa. Come a dire che il mondo è un tessuto di sé differenti, che il dono della parola mette in comunicazione tra loro: e se è vero che custodiamo per i posteri “un vuoto/ una possibilità senza risposte” ed è, perciò, escluso che si possa giungere a una qualche verità, l’eredità che trasmettiamo è “popolata però di storie e voci”, che possiamo condividere con gli altri, consapevoli del fatto che “l’essere è questo qui” e che lo esauriamo tra di noi “senza maiuscole”, ma in una fitta rete di rapporti e legami, spazi e tempi, sentimenti e percezioni che riempiono il nostro bagaglio. Per questo suona come un monito, o forse una regola comportamentale, il distico finale de La falciatrice, traduzione di The Mower di Larkin: “dovremmo essere l’uno dell’altro attento/ e gentili anche, finché c’è un po’ di tempo”. Damiano Moscatelli

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