Raíces de nuestra justicia

June 14, 2017 | Autor: Giovanna Gasparello | Categoría: Anthropology, Visual Anthropology, Human Rights, Legal Anthropology, Mexico (Anthropology)
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Descripción

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UADERNI

di antropologia e scienze umane

Quadrimestrale del Laboratorio Antropologico del Dipartimento di Scienze umane, filosofiche e della formazione dell’Università di Salerno con la collaborazione de

La Rete

Associazione per l’integrazione dei saperi antropologici, letterari, filosofici e psicologici

INIZIATIVE EDITORIALI

Quaderni Direttore Simona De Luna Direttore responsabile Mirella Armiero Condirettore Domenico Scafoglio

Comitato Scientifico Annamaria Amitrano (Università di Palermo) Giulio Angioni (Università di Cagliari) Claudio Azzara (Università di Salerno) † Rocco Brienza (Università di Trieste) Antonino Buttitta (Università di Palermo) Giovanni Casadio (Università di Salerno) Alicia Castellanos Guerrero (Università Autonoma Metropolitana del Messico) Luigi M. Lombardi Satriani (Università La Sapienza di Roma) Gilberto Lopez y Rivas (Instituto de Antropología e Historia, Messico) Sebastiano Martelli (Università di Salerno) Pablo Palenzuela (Università di Siviglia) Gianfranca Ranisio (Università Federico II di Napoli) Luigi Reina (Università di Salerno) Domenico Scafoglio (Università di Salerno) Enzo Segre (Università Autonoma Metropolitana del Messico)

Laboratorio Antropologico – DISUFF Università degli Studi di Salerno Via Ponte don Melillo, 84084 Fisciano (Sa)

[email protected] La Rete – Associazione per l’integrazione dei Saperi Antropologici, Letterari, Filosofici e Psicologici Piazza Gerolomini n. 103, 80138 Napoli

[email protected] ISSN 2282-2968 Autorizzazione richiesta al Tribunale di Nocera Inferiore (Ruolo Generale n. 2247 del 2015) copyright 2014 Paolo Loffredo - Iniziative Editoriali Srl

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UADERNI DONNE IN ARMI anno

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n u m e ro

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ANTROPOLOGIA E STORIA/1 NOVEMBRE 2014 simona piera de luna

Presentazione del Quaderno, 7 domenico scafoglio

L’altra metà della banda (Italia meridionale1861-1870), 15 simona piera de luna

Donne in guerra: il brigantaggio femminile postunitario, 49 - francisco pinéda gomez Mujeres en armas: la revolución mexicana de 1910, 79

alicia castellanos guerrero claudio azzara

Le amazzoni di Procopio. Variazioni di un mito nella Bisanzio del VI secolo, 107

IN TERV ENT I E CONT R I B U T I S U L T E M A arianna bonnini

Donne e armi nell’alto medioevo. Il caso longobardo, 113 anna maria musilli

Dove porta la storia: soldatesse crudeli, afroamericane e arabe, 116 annalisa di nuzzo

Erano innamorate di Mussolini: le ausiliarie di Salò, 120

ANT ROPOLOG I A E S TO R I A/ 1 domenico scafoglio

“Facta ficta” nella ricerca scientifica e nel romanzo storico-antropologico, 125 giulio angioni

Fare e dire la storia raccontando storie, 141

DISCUS S I ON I stefano semplici

Su alcuni effetti della valutazione all’italiana, 145

A NT ROPOLOGIA E L E T T E R AT U R A luigi reina

Ritorno ad Alvaro. Tra richiamo antropologico e tensione letteraria, 157

S C AF FALE ANT RO POL OG I A/ S TO R I A

G. Botti, Sulle vie della salute. Da speziale a farmacista-imprenditore nel lungo Ottocento a Napoli (D. Verrastro), 163 RA SSEGNA DI ST UDI

Raíices de nuestra justicia (G. Gasparello), 167; F. Cardini, In Terrasanta; fra pellegrini tra medioevo e prima età moderna (O. Paesano), 168.

N OT I ZI AR I O L I B R I / E V E N T I

Un convegno e una iniziativa per la maschera di Pulcinella, 171; Congresso internazionale a Morelia su Poéticas de la oralidad, 171; “Ethnologie française” (ottobre 2014) sull’Etnologie du litteraire, 173.

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Presentazione del “Quaderno” 3 Simona Piera De Luna

Uno sguardo nuovo su brigantesse e zapatiste

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i ritiene che la storia della guerra civile postunitaria denominata brigantaggio sia ormai abbastanza nota, perché studi ulteriori possano riservarci sorprese di un certo interesse. In effetti sappiamo molto di scientificamente provato sugli aspetti politici, militari, economici del brigantaggio del decennio 1860-1870 e sulla sua repressione, a parte alcuni significativi silenzi su fatti per amor di patria taciuti, ma poco o nulla conosciamo della vita dei briganti, di quell’insieme di elementi che impediscono di fare dei briganti soltanto attori, più spesso comparse, o marionette manovrate da un destino inclemente o piuttosto da un groviglio indecifrabile di poteri e contropoteri che li usavano per un gioco più grande di loro: una visione che toglie ai protagonisti di una delle poche guerre contadine che abbia avuto l’Italia spessore e dignità, vanificando il bisogno di conoscere chi erano veramente quei contadini e pastori che per quasi un decennio si confrontarono per con più di metà dell’esercito italiano, di chiedersi se credevano nei valori per i quali combattevano, di indagare il loro mondo morale, l’organizzazione della loro vita alla macchia, le forme di solidarietà che li compattavano, il loro legame col territorio, la montagna, il bosco, il paese, le forme della loro vita quotidiana, i

loro legami familiari e parentali, i loro comportamenti nella guerra e nelle altre forme di violenza istituzionalizzate, il loro rapporto col sacro, la paura, la sofferenza, la morte. In questo affresco che gli storici hanno lasciato dipingere in parte a pittori e scrittori (i quali peraltro, a parte qualche eccezione, non sarebbero andati oltre la costruzione di pasticciate fantasticherie), la scoperta delle brigantesse, di cui la storiografia ufficiale ha ignorato l’esistenza per più di un secolo e mezzo, poteva occupare una centralità indiscussa, o costituire un nuovo punto di osservazione, da cui guardare con occhi nuovi l’intera vicenda del brigantaggio. In questo spirito sono stati concepiti i due saggi presenti in questa rivista, che anticipano l’uscita, ormai imminente, di un’ opera assai più vasta sul medesimo tema degli stessi autori. In essi sono illustrate le ragioni che spinsero le brigantesse alla macchia, è ricostruito per la prima volta il loro rito di iniziazione, sono spiegati i ruoli e le funzioni che ebbero nella banda, la loro partecipazione alle operazioni di guerra, la loro cattura e il processo che subirono, riportando condanne lievi e qualche assoluzione. Intorno alle donne è stato ricostruito, attraverso le connessioni più significative, il contesto nel quale si colloca la loro storia, con la necessaria attenzione – per la prima volta esercitata negli studi sul brigantaggio – ai loro rapporti con gli uomini con i quali condivise7

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ro una quotidianità intensa e difficile, e alla determinazione del peso che le famiglie e le reti parentali ebbero nell’organizzazione delle bande, nei rapporti di forza al loro interno e nella vita dei paesi. Ne viene fuori un quadro inedito della complessità della vita alla macchia, una visione inaspettata del brigantaggio, che fa luce sugli angoli oscuri di una vicenda in parte da riscrivere. La storia collettiva delle brigantesse come gruppo (e come insieme di gruppi) si incrocia continuamente con le singole storie, che restituiscono in maniera più intensa e drammatica i vissuti dei protagonisti, all’interno di trame di guerra e di amori, alcune delle quali di notevole spessore. Sulle brigantesse non esiste bibliografia scientifica (nemmeno se ne fa cenno nell’opera monumentale di Molfese). Si può dire che la storiografia ufficiale ha ignorato totalmente il fenomeno, a parte alcuni contributi parziali di Domenico Scafoglio e di chi scrive, pubblicati a partire dal 2004, e poche raccolte di documenti e di notizie biografiche prodotte da qualche storico locale. Le conclusioni cui si è giunti sono il risultato di ricerche condotte negli archivi di Stato e comunali. In modo particolare sono state esaminate le carte processuali, con la necessaria attenzione alle strategie che hanno orientato le accuse, le difese e le testimonianze, col risultato di conferire alla documentazione rimasta un carattere sibillino, spesso di non facile interpretazione. Si è però evitato di limitare la ricerca, come normalmente fino ad oggi si è fatto, ai documenti di archivio, integrando la documentazione archivistica con una molteplicità di altre fonti, che restituiscono altre dimensioni del fenomeno finora trascurate, quali gli scritti dei militari che conobbero meglio di altri il brigantaggio, per averlo combattuto per anni, o le scritture autobiografiche degli “insorgenti” 8

filoborbonici e dei capi della guerriglia: utilizzati poco e male come fonti di informazioni e di controinformazioni, questi testi consentono di ricostruire, dando la parola ai protagonisti, le opposte visioni del conflitto, che era anche uno scontro di culture prima che politico. Preziosa risulta soprattutto una categoria di scritti finora, a parte qualche eccezione, poco studiati, quali le memorie dei sequestrati, che, per essere vissuti insieme ai briganti a volte per lunghi periodi, costituiscono le testimonianze rare di incontri/scontri ravvicinati di universi culturali diversi, a momenti altamente empatici, e sono state utilizzate dagli autori dei due saggi come fonti preziose per una conoscenza dall’interno della vita delle brigantesse e delle loro bande. Esistono altre fonti, che restituiscono una rappresentazione del brigantaggio, maschile e femminile, molto vicina a una autorappresentazione, per la loro straordinaria vicinanza, che a volte è sintonia e immedesimazione, al mondo della guerriglia contadina. Uno dei più gravi limiti degli studi storici del brigantaggio è l’avere pressoché disdegnato l’uso delle fonti folkloriche. Indubbiamente la persistenza all’interno degli studi etnografici della tendenza a leggere le tradizioni popolari con lo sguardo rivolto al passato può avere incoraggiato gli storici ad assumere atteggiamenti di diffidenza e di rifiuto, ma questo non li giustifica interamente, perché quelle fonti potevano essere utilizzate in modo nuovo, per esempio trasformando, sulla scia di Thompson, “le informazioni che erano soltanto antiquarie ed inerti in un ingrediente attivo della storia sociale”. Il problema è esattamente questo: restituire vita a materiali inerti, mobilitando le risorse e le opportunità delle scienze sociali. L’epos brigantesco popolare disdegnato

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dagli storici, ad esempio, è una delle pochissime fonti che ci consentono di addentrarci nell’ordine emotivo della vita brigantesca. Circa un quarantennio separa l’esperienza delle donne coinvolte nel brigantaggio da quella delle messicane che parteciparono alle rivoluzioni di Emiliano Zapata e Pancho Villa, studiati per i nostri “Quaderni”da Alicia Castellanos Guerrero e Francisco Pinéda Gomez. Un’altra guerra civile, anch’essa decennale, che afferisce alla storia delle rivoluzioni moderne, laddove il brigantaggio, secondo le categorie dominanti, pur nelle sue ambivalenze si colloca nella storia dei movimenti popolari di resistenza alle rivoluzioni giacobine imposte dall’alto e dall’esterno a popolazioni rimaste ad esse estranee. Una delle differenze di fondo è il coinvolgimento nella rivoluzione messicana degli operai e di fasce di ceti medi e intellettuali, mentre il brigantaggio ebbe come unici protagonisti i contadini, i pastori e una minoranza di artigiani, dal momento che i capi del legittimismo borbonico si limitarono a finanziare e, al più, cercare di dirigere a distanza e segretamente le masse degli insorgenti. Questo rende ragione del fatto che le brigantesse erano contadine, filatrici, carbonaie e inservienti, quasi sempre analfabete, mentre negli eserciti rivoluzionari messicani solo nelle campagne le contadine costituivano una presenza maggioritaria, perché nelle città il movimento rivoluzionario contava sulla partecipazione degli operai, delle insegnanti, delle non poche donne patriottiche dei ceti medi colti e delle prime organizzazioni socialiste, che nelle armate rivoluzionarie portavano una diversa coscienza di classe e una consapevolezza più moderna degli obiettivi da perseguire e associavano alle rivendicazioni sociali il sentimento patriottico e la

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difesa della patria dalle ingerenze straniere, soprattutto statunitensi. Infine, sul brigantaggio italiano ha pesato una damnatio memoriae che ha escluso l’esperienza della guerriglia contadina dalla costruzione dei miti di fondazione della nazione italiana, come un incidente di percorso da rimuovere dalla memoria collettiva; al contrario il decennio rivoluzionario messicano ha lasciato in eredità alle generazioni successive domande di liberazione e di giustizia, in cui si ritrovano le istanze delle donne zapatiste, oggi giunte a maturazione e codificate in dieci diritti della Legge Rivoluzionaria delle Donne del movimento zapatista dei nostri giorni: “1. Le donne, indipendentemente dalla razza, dalla religione, dal colore e dall’affiliazione politica, hanno il diritto di partecipare alla lotta rivoluzionaria nel luogo e grado determinati dalla loro volontà e capacità. 2. Le donne hanno il diritto di lavorare e ricevere un salario giusto. 3. Le donne hanno il diritto di decidere il numero dei figli che possono tenere e accudire. 4. Le donne hanno il diritto di prender parte agli affari della comunità e gestirli, se sono elette liberamente e democraticamente. 5. Le donne e i loro figli hanno il diritto all’attenzione primaria alla loro salute e alimentazione. 6. Le donne hanno diritto all’educazione. 7. Le donne hanno diritto a scegliere il loro partner e a non essere obbligate con la forza a contrarre matrimonio. 8. Nessuna donna potrà essere picchiata o maltrattata fisicamente né dai familiari né dagli estranei. I delitti di tentato stupro saranno puniti severamente. 9. La donne potranno occupare carichi di direzione nell’organizzazione e tenere gradi militari nelle forze armate rivoluzionarie. 10. Le donne terranno tutti i diritti e gli obblighi indicati dalle leggi e dai regolamenti rivoluzionari”. 9

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Donne in guerra oggi. Dove porta la storia? Tra i casi di donne che collettivamente sono presenti e militarmente attive in gruppi armati, le zapatiste messicane e le brigantesse della guerriglia antiunitaria, evocate in questa rivista, occupano un posto privilegiato, ma gli interventi di Musilli e Di Nuzzo richiamano l’attenzione su altre esperienze analoghe, quelli delle soldatesse americane della guerra del Golfo e dell’Afganistan, delle miliziane fondamentaliste islamiche, del fenomeno delle bambine guerriere di molti stati africani lacerati da conflitti interni. L’elenco è cresciuto, ma risulta ancora incompleto, se si pensa, per esempio, al caso delle soldatesse israliane. Sono, per il momento, aperture di discorsi, che avranno l’approfondimento che meritano nei prossimi numeri dei nostri “Quaderni”. Intanto si intravedono problematiche complesse che li attraversano e sollevano domande a volte inquietanti. Ci cominciamo a chiedere, ad esempio, se il successo dei regimi autoritari e fondamentalisti tra le donne, e la loro trasformazione in guerriere, a volte temerarie e spietate, sia il prodotto di motivazioni quali la difesa della patria dall’annientamento, realisticamente temuto soprattutto dalle donne curde peshmerga, o il rifiuto radicale della modernità, con cui i gruppi fondamentalisti difendono il proprio stile di vita minacciato dall’invasione di modelli esterni; o se anche, in alcuni casi, come quello fascista, abbia giocato un ruolo il fascino del capo, incarnazione della virilità e della forza, plasmata da una forte tensione erotica. Tra le motivazioni più forti, che attraversano tutta la storia delle donne guerriere, sembra esserci il bisogno materno di difendere i propri figli, ma non si possono sottovalutare l’attrazione dell’avventura e la 10

liberazione dai ruoli familiari. Ci troviamo comunque davanti a una situazione di una insospettata e sorprendente complessità, che obbliga a ripensare criticamente l’idea che l’emancipazione radicale della donna dal potere maschile possa liberare il mondo da tutte le forme di oppressione, dalla violenza e dalla guerra. Ma, rovesciando in parte la fortunata massima di Lévi-Strauss, come si legge in altre pagine di questa rivista la storia porta a tutto, purché vi si entri. E il fascismo fornì l’apparato ideologico e i percorsi formativi per fare entrare le donne nella storia, trasformando il loro bisogno di emancipazione in desiderio e passione patriottica.

Miti classici e storie medioevali Le donne guerriere hanno anche una storia, che affonda le sue radici in miti oscuri, di non facile decifrazione. Il saggio di Claudio Azzara sulle Amazzoni raccontate da Procopio pone il problema con cui si raccordano le riflessioni di Scafoglio e Angioni sul rapporto tra mito e storia. Problema già presente nell’antichità classica, e poi lasciato in eredità all’antichistica europea a partire dal Rinascimento e riproposto in termini nuovi in tempi più recenti, grazie anche ai contributi teorici maturati in sede antropologica. Azzara conclude il suo lavoro sulle notizie e le idee di Procopio, confrontate con le narrazioni di diverso impianto di Strabone e Jordanes, apprezzando “lo scrupolo storiografico di Procopio, così dichiaratamente attento a discernere il vero storico dalla tradizione mitografica e letteraria e a fornire una spiegazione logica e verosimile dell’esistenza delle Amazzoni”, presentandole come donne rimaste sole dopo la strage degli uomini del loro

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villaggio e perciò costrette a imparare l’uso delle armi per difendersi. In questo modo le Amazzoni venivano sottratte alla leggenda che le aveva da sempre avvolte. La metodologia di cercare i fatti attraverso l’interpretazione del mito, propria delle spiegazioni razionalistiche dell’antichità, potrebbe essere anche invertita, quando le fonti lo permettono, rispetto a quella di partire dal mito, capovolgendolo, per arrivare ai fatti: è quello che ci consente la preziosa fonte individuata da Adriana Bonnin, che racconta come nell’età di mezzo le donne almeno in qualche caso venissero utilizzate dagli uomini anche come guerriere per assaltare e razziare i villaggi vicini: fatti come questi potrebbero essere all’origine del mito delle Amazzoni. Queste donne longobarde nei loro assalti si mostravano più temerarie e spietate dei loro uomini, ma il loro ruolo di guerriere non era apprezzato da tutti, erano anzi contrastate, considerate inferiori ai guerrieri maschi e non avevano i loro diritti: una situazione che a volte si ritrova, mutatis mutandis, anche in altri casi di donne guerriere presenti nelle bande o negli eserciti di altre epoche.

Storia e romanzo Giulio Angioni e Domenico Scafoglio riflettono successivamente sui rapporti tra l’antropologia e la storia partendo da una serie di riflessioni sulla finzione nella ricerca scientifica e nel romanzo storico-antropologico, conferendo centralità a un tema su cui si fa addensare gran parte dei nodi teorici della questione. Sono le prime uscite, che avranno un seguito nei numeri successivi dei “Quaderni”, in cui si individuano affinità e differenze, si inizia a fare un bilancio degli

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incontri tra le due discipline finora avvenuti e si prospettano possibilità di nuove convergenze, nel rispetto delle specificità disciplinari e tenendo conto delle difficoltà a trasformare queste convergenze in una nuova disciplina, come l’antropologia storica. Le analisi procedono con un itinerario segnato da audacie e orientato da cautele, nella consapevolezza di muoversi in un mare in cui vanno evitati gli scogli pericolosi di Scilla e Cariddi: da un lato la pretesa di una storiografia scientifica, che indaga e ritrova con metodi oggettivi le leggi della storia; da un altro una concezione che risolve e dissolve la storia nella mitologia, portatrice di contenuti che sono valori, assimilabili a quelli del mito, più che fatti. Due ci sono sembrate le preoccupazioni dominanti: la prima è la difesa dell’identità della ricerca storica e storico-antropologica, tradizionale o “nuova” che sia, purché privata di ogni valore assoluto, relativizzata, col necessario riconoscimento dei condizionamenti su di essa operato dalle mitologie individuali e collettive. La seconda è il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto dell’uomo occidentale con la storia, non mediato dagli storici di professione e dalla storiografia scientifica. La natura di questo rapporto è quella che emerge da altri generi scritturali, quali, soprattutto, l’epos, il romanzo storico e, in genere i testi letterari di ispirazione storica, in cui il mito non si limita a operare un inevitabile condizionamento, ma diventa la loro sostanza. In queste scritture si ripropone ciò di cui gli storici non riescono del tutto a liberarsi quando scrivono di storia, che diventa a volte la tentazione e seduzione che li spinge a trasformarsi in scrittori di romanzi. Il bisogno che li sollecita a scrivere testi narrativi è lo stesso che 11

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induce la gente a leggerli: cogliere la vita nella sua essenza. In questa avventura, il travestimento storico aspira a dare la certezza che ciò che si racconta è veramente accaduto.

Antropologia e letteratura Nello “Scaffale” il saggio-recensione di Luigi Reina ripropone una visione d’insieme di Corrado Alvaro sospeso, per così dire, tra letteratura e antropologia. Lo scrittore calabrese è noto agli antropologi come autore di acuta sensibilità antropologica, soprattutto nel suo campo d’osservazione privilegiato, costituito dalla nativa Calabria, che gli ha ispirato pagine di consistente spessore etnografico, come il volumetto La Calabria e Un treno nel Sud. Queste opere, unitamente ai romanzi di ambientazione calabrese, che per certi versi potrebbero essere letti come una etnoantropologia romanzata, hanno a volte costruito l’immagine di un Alvaro nostalgicamente proiettato verso la rappresentazione di una Calabria “arcaica”, anteriore agli sconvolgimenti prodotti dalla modernizzazione. Che nell’opera e nella biografia dello scrittore si ritrovino e riconoscano le sue radici etniche è del tutto legittimo, ma non è lo stesso che riconoscere in lui l’incarnazione di un modello ideale di “calabresità”, correndo il rischio di provincializzarlo: è quello che Reina, da fine italianista, sostiene con valide argomentazioni. La ricognizione critica che egli fa dell’insieme delle opere alvariane (molte delle quali notoriamente non sono né calabresi né arcaicizzanti), insieme alla considerazione della ricchezza dell’esperienza di Alvaro uomo, viaggiatore e giornalista, gli consente di restituire allo scrittore calabrese varietà e modernità, ricomponendo l’unità della sua 12

figura intellettuale e del suo immaginario, pur nella sua a volte contraddittoria complessità: nel mondo di Alvaro si incontrano l’ “umanità paesana fissata in assolute figurazioni antropologiche” e “il prototipo del meridionale inurbato, costretto a vivere l’avventura come sradicato o come pedina alienata con una controstoria da costruire, come altra memoria, sulla storia che non può essere ormai altro che metropolitana ed europea”.

Riforma universitaria e valutazione Stefano Semplici nella rubrica “Discussioni” ritorna sulla riforma universitaria, cui a fine aprile 2014 ha dedicato insieme a G. Salmeri considerazioni importanti, con argomentazioni approfondite, che sarebbe riduttivo ridurre a semplici provocazioni. Questa volta la sua riflessione è Su alcuni effetti della valutazione all’italiana, e tiene conto degli ultimi documenti dell’ANVUR. Lo scopo ultimo non è lo sfogo amaro per la sconfitta annunciata dell’Università italiana, ma l’invito, che facciamo nostro, di “aprire e mantenere un serio confronto pubblico” sui temi centrali della riforma. Ridotto all’osso, il pensiero dell’ANVUR è quello del “valutare e punire” le università e i centri di ricerca attraverso modalità comparative, che si esplicitano in un progetto omologante di controllo in termini di qualità, eccellenza, efficienza, merito, per approdare al risultato di “tagliare, chiudere, diminuire”, instaurando un darwinismo accademico che legittima l’eliminazione dei più deboli per il bene della società e il progresso dell’Università. Ad essere messi in discussione sono i criteri di valutazione, di cui è criticata con fondate ragioni la presunzione di neutralità,

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presunzione che si vanifica appena si prendono in considerazione “gli obiettivi che si propongono, i comportamenti che incentivano o sanzionano, i rapporti di potere che disegnano”: la presunzione di oggettività conflige con la giusta considerazione che “i criteri di valutazione comparativa non si limitano a fotografare una realtà”, ma “in qualche modo la creano”. Se la comparazione comporta il confronto di aree scientifiche differenti, senza tenere conto della diversità della loro storia culturale e dei loro territori, si lede gravemente il principio dell’autonomia accademica, e la possibilità di salire nelle graduatorie determina l’adeguamento opportunistico a criteri ministeriali che “non sempre corrispondono a quelli che davvero promuovono lo sviluppo del sapere”; per esempio, ottenere risultati in breve termine fa a pugni con “lo sforzo di pensare lungo, dal quale sono nate molte delle più importanti rivoluzioni scientifiche e culturali”. Lo scopo della valutazione è dunque premiare le università e gli studiosi che hanno ottenuto i migliori risultati, abbandonando intere aree del paese alla “desertificazione universitaria”. Anche se, in realtà, data la scarsità delle risorse, si tratta più di tagliare le poche esistenti che di acquisirne di nuove: “quella della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza non può essere una soluzione, e l’esercizio della valutazione deve necessariamente avere un orizzonte e obiettivi più vasti”. La più aperta delle questioni ci sembra quella della distinzione, interna alla “terza missione”, tra il vettore della produzione della conoscenza a fini produttivi (il cosiddetto “sapere utile”) e il vettore della produzione di beni che possono avere contenuto culturale, educativo o di consapevolezza civile. Su di essa ritorneremo nel corso del dibattito che contiamo di avviare nelle prossime uscite.

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Particolarmente attente e pertinenti risultano le considerazioni sull’emarginazione della didattica: non conta ai fini della carriera accademica, che è determinata esclusivamente dalla qualità e originalità della produzione scientifica, sia prima che dopo la presa di servizio, e conta pochissimo (10 per cento della “quota premiale”) nelle classifiche della qualità della ricerca ai fini degli interventi premiali. Opportunamente si osserva che “una università senza didattica o comunque con una didattica senza qualità è una contraddizione in termini”, considerato soprattutto che la mission to educate “è stata la prima missione delle università europee sin dal medioevo”. È soprattutto nella parte conclusiva del saggio che la navigazione attenta tra le carte prodotte dall’Agenzia e dal Ministero consente di farci toccare con mano l’ “ipertrofia burocratica”, che costituisce forse l’aspetto più sconcertante di un sistema di calcoli e conti fatti passare per verità oggettive, soprattutto nella formulazione dei requisiti che dovrebbero assicurare la qualità dei corsi di studio e degli insegnamenti. Veramente “la fredda oggettività degli algoritmi elaborati dagli ‘esperti’ è diventata la scialuppa di salvataggio degli zelatori della qualità”. È una sorta di terrorismo delle cifre (e perfino delle sigle), che ha raggiunto lo scopo di fare a meno del potere politico, troppo disattento o troppo incapace e disinformato o indifferente, di ottenere l’assenso passivo del Ministero e ignorare il punto di vista della docenza: tutto sulla base della “presunzione della naturale purezza delle regole e la loro dilagante, soffocante, inutile ipertrofia, pendant patologico della convinzione che non ci si possa fidare dei professori universitari più che di un noto borseggiatore su un autobus affollato”. 13

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L’altra metà della banda (Italia meridionale 1861-1870) Domenico Scafoglio

Come i briganti vedevano le brigantesse

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n particolare significativo della storia delle brigantesse dell’Italia postunitaria è costituito dal fatto che le presenze femminili stabili nella banda erano quasi sempre le donne dei capi e dei luogotenenti o dei briganti importanti, mentre le donne dei briganti comuni, mogli, fidanzate, amanti, di solito rimanevano nel paese, con tutti i rischi ed inconvenienti che questo comportava. Il gruppo delle donne variava da banda a banda, ma era sempre minoritario e a volte assente. Perché non ci fu una partecipazione militare femminile di massa al brigantaggio, paragonabile a quella degli uomini, pur essendo le donne delle classi popolari ad esso generalmente favorevoli? Si trattò, in realtà, di una concomitanza di cause. Ogni banda aveva bisogno di un legame forte con il suo paese, che poteva essere assicurato dai propri familiari e dai parenti, in particolare dalle donne della famiglia, madri, sorelle, mogli. Erano le manutengole, che con la loro fedele collaborazione rendevano possibile ai loro uomini la vita alla macchia e da essi erano gratificate con doni

consistenti, che le rendevano potenti e invidiate agli occhi del paese. Le manutengole erano più utili delle brigantesse, perché di queste ultime si poteva anche fare a meno, ma delle fiancheggiatrici del paese no. D’altra parte, se un numero consistente di uomini prendeva il bosco, era inevitabile che non tutte le donne potessero farlo, perché questo avrebbe comportato il rischio di mandare in rovina l’economia delle famiglie e dei villaggi. In teoria potremmo credere che le donne avrebbero voluto seguire i loro mariti o fidanzati, ma sapevano di dover restare nel paese per produrre. Le brigantesse furono notevolmente minoritarie all’interno delle bande anche perché la loro scelta richiedeva doti particolari di temperamento (coraggio, spirito di avventura, resistenza fisica) o era determinata da situazioni per così dire eccezionali: delitti passionali, fughe dalla famiglia, esperienza del carcere, sete di vendetta per l’uccisione di familiari, passioni intense. In altri termini, se la loro scelta poteva essere non solo largamente condivisa, ma anche invidiata e sognata da molte altre donne, non tutte avevano abbastanza forza e coraggio o sufficiente spirito di avventura per scegliere la vita alla macchia. 15

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La presenza di alcune donne in bande di maschi non abituati a forme strette e spesso intense di promiscuità avrebbe inoltre potuto suscitare gli appetiti dei compagni, e trasformarli in un branco sessualmente aggressivo, o comunque innescare tensioni pericolose e conflitti. Era forse inevitabile allora che le poche donne della banda fossero soltanto le donne dei capi e dei briganti più capaci, in condizione di offrire ad esse una protezione più certa, soprattutto nei confronti dei desideri dei compagni, e che gli altri dovessero accontentarsi dei liberi amori nei campi, del sesso mercenario o di stupri occasionali di donne nemiche da punire o indifese. Per un altro verso in una situazione di guerra, in contesti per alcuni versi arcaici, le brigantesse in quanto donne non potevano non apparire il premio dei migliori, e questo poteva anche rendere accettabile la loro appartenenza esclusiva ai capi della banda, in comitive in cui lo spirito egalitario si sposava con il riconoscimento del merito e con l’oculata considerazione dei rapporti di forza, anche se poteva al tempo stesso scatenare invidie e gelosie, non sempre controllate o represse. Infine, quello che minacciava la coesione del gruppo e la stessa prosecuzione della guerriglia era “l’acuto desiderio di tornare a casa dalle donne, a letto”1. E nella banda, quello che dà la sicurezza se non della vittoria, almeno della sopravvivenza è il capobanda. Soprattutto quando erano molto legati a un capo carismatico, i briganti facevano di tutto per non perderlo, non solo accettando il suo privilegio di avere la donna o le donne, 3 1 2

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Murr in Bork; 295. Bourk: 294. Murr in Bourk: 294.

ma spesso collaborando con i suoi desideri, a volte arrivando a preparargli l’alcova. Ma a fondamento della diseguaglianza sessuale poteva anche esserci una motivazione profonda, più o meno inconscia: i gregari accettarono che solo i capi avessero le loro donne, perché in questo modo limitavano le presenze femminili nella banda, e la paura della castrazione psicologica che questo comportava: i briganti non pensavano diversamente dal soldato inglese, che nel maggio del 1940 rifletteva sulla presenza delle donne negli eserciti della seconda guerra mondiale: “Alcuni milioni di donne armate di fucili era la visione più terrificante che un uomo potesse avere”2. Vale perciò per le brigantesse, entro certi limiti, quanto è stato pensato per le soldatesse dei moderni eserciti regolari dell’ultima guerra mondiale: i militari maschi temevano soprattutto che “l’armamento delle donne avrebbe rimesso in discussione i rapporti fra i sessi. Accogliendole su base paritaria, sarebbe stata minacciata l’identità maschile. Dal punto di vista sociale, la loro presenza al fronte avrebbe demoralizzato gli uomini, spezzando i vincoli di coscienza creati dalla ‘virile’ etica guerriera. La lotta era il segno supremo della virilità: le donne avrebbero simbolicamente castrato le forze armate. (…) Ammettere le donne nei corpi combattenti significava minare alla base l’accesso maschile privilegiato alla guerra, con tutto quello che ne conseguiva”3. Per questo complesso di ragioni, la presenza minoritaria delle brigantesse finiva per essere accettata e perfino apprezzata; tuttavia questo non impedì che ci fosse una certa resistenza, non solo iniziale, ad approvarla sen-

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za riserve. Alcuni indizi tradiscono una certa preoccupazione, se non diffidenza, soprattutto tra i gregari: in alcuni casi, per esempio, si faceva passare del tempo, prima di consegnare alle donne le armi e la “divisa” maschile: il capobrigante Pace fece vestire da brigantessa Giocondina Marino solo venti giorni dopo il rapimento e Santaniello, quando accettò Maddalena De Lellis nella banda, la fece attendere quattro mesi prima di consegnarle il fucile, che fece di lei una brigantessa. Dalle testimonianze processuali risulta che a volte i briganti facevano sorvegliare le donne da due uomini, quando riposavano alla macchia, ma anche nel corso delle razzie e dei combattimenti, oppure da altre donne, quando dormivano o erano affidate a manutengoli. Questi comportamenti potevano anche essere misure protettive, ma venivano astutamente addotti dalle brigantesse durante i processi per dimostrare che i loro compagni diffidavano di esse. Le donne inoltre erano tendenzialmente dispensate dal cucinare, e tra le ragioni di questa scelta c’era, non ultima, la paura, tutt’altro che infondata, che più frequentemente attraversava la mente dei briganti, quella di morire avvelenati. Nel dramma che un commediografo calabrese, Luigi Stocchi, dedicò alla brigantessa Maria Oliverio alcuni briganti sono contrari all’accettazione della donna nella banda; ma probabilmente in questo caso il rifiuto nasceva dalla repulsione che gli uomini della banda potevano avvertire per una donna che per gelosia aveva massacrato in maniera efferata la sorella incestuosa. Questa diffidenza poteva tradursi in qualche caso nella volontà di escludere le



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donne dalle bande. Lo si voleva soltanto per i gregari, ma in alcune comitive il divieto poteva eccezionalmente estendersi anche ai capi: molto però dipendeva dalla forza e dalla personalità di questi ultimi. Sappiamo, per esempio, che la banda di Gennaro Petrucci contestava al loro capo il diritto di tenere nella banda la sua compagna, la brigantessa Carolina Di Ruocco; un brigante testimoniò al processo: “Gennaro Petrucci, Chiuppetiello, era mio nemico, perché dispiaciuto delle insinuazioni che io gli facea di non rimanere sulla montagna la innamorata, non dovendo la comitiva tenere donne”4. A volte i timori dei briganti sono quelli che gli uomini hanno nutrito da sempre nei confronti delle donne. Per esempio, la paura che le brigantesse convincessero i loro compagni a ritornare a una vita normale. Quando Crocco manca all’appuntamento con Borjés, lo spagnolo annota: “Egli è andato a dormire con una sua concubina, che tiene in uno dei boschi vicini, con grande scandalo di alcuni”. L’impressione di scandalo è legata al timore che Crocco possa costituirsi, perché ha ricevuto un’offerta di amnistia, e Borjés teme che, “vinto dalla sua concubina che egli conduce con noi, non commetta qualche viltà”5. In effetti conosciamo casi di briganti che decidevano di costituirsi quando si sposavano o pensavano di sposarsi. Anche la nascita di un figlio poteva a volte dar vita al desiderio di una vita normale. Nell’epos popolare è sempre presente tra i briganti comuni il timore che il loro capo sia troppo preso dalla sua donna e che questo costituisca un rischio per tutti. E poiché la

Baro: 127. Borj: 71.

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maggior parte dei gregari non aveva con sé né la moglie né l’amante, questo era un motivo in più per non approvare del tutto il privilegio del capobanda. Come accade all’interno della mafia, “quello che appare pericoloso è il cedimento, sul piano sentimentale, che rischia seriamente l’organizzazione (…) La sessualità, anche quella più mercificata e alienata, comporta una regressione, un temporaneo ritorno a se stessi, un cedimento al principio del piacere, che indebolisce il principio di realtà. Abbassare la guardia, per un uomo d’onore, è comunque pericoloso, sia sul piano intimo, sia su quello materiale”6. Per queste ragioni un capobanda noto per il suo coraggio e la sua efferatezza, Pietro Bianco, prima di andare a trovare la sua Generosa, tiene una sorta di consiglio, nel quale egli chiede l’approvazione dei gregari in nome della loro fedeltà, e questi ultimi fanno al capo il solito avvertimento: Duoppu mangiatu, disse: – Amici cari, vuogliu jire a trovare Generosa, vuie siti tutti fidili cumpari, e criiu m’ammattiti chista cosa –. Li cumpagni respundu tutti pari: – Te tira amure de la tua amorosa! Ma sappi, ca la donna è nu peccatu: Quandu menu ti cridi, si’ ligatu –7.



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La risposta della banda, più che un divieto, è un consiglio, che il capobanda prende come un’approvazione. “Sei legato”, dicono i briganti, nel duplice significato, dai lacci d’amore e dalle catene del carcere. Non avevano torto: Pietro Bianco si reca a un paese, Castagna, dove si sente al sicuro; qui fa venire, complice una manutengola, la sua amante, Generosa Cardamone, una filatrice, nata nel 1845, aggregata alla banda nel 1863. Dimorava nel paese, evidentemente perché non ancora identificata come brigantessa, ma periodicamente, vestita da uomo e armata di fucile, partecipava alle azioni della banda. I due si incontrano, e Generosa convince il brigante a stare con lei per qualche tempo; vanno a nascondersi nella località Colla, con l’aiuto della cognata di Pietro. La polizia viene informata, e costringe la cognata a svelare il nascondiglio. Per Pietro è finita. Anche Generosa sarà arrestata e subirà una dura condanna8. Il rischio maggiormente paventato era dunque quello della cattura a causa della donna: i briganti andavano spesso a trovare la loro moglie o amante nei paesi o nelle masserie, e una semplice spiata poteva esporli all’arresto. Gli stessi militari, artefici di trappole e inganni, ci hanno lasciato non poche notizie di questi fatti9. Maria Madda-

Sieb: 87. “Dopo che ebbe mangiato disse: – Cari amici, / voglio andare a far visita a Generosa. / Voi siete tutti fedeli compari, / credo che approviate questa mia scelta. / I compari risposero tutti allo stesso modo: / – Ti attira l’amore della tua amante! / Ma sappi, che la donna è un peccato, / quando meno te lo credi, sei legato” (Sca1: 119; Sca2: 159. I versi appartengono al poemetto di ispirazione brigantesca di tradizione mista scritta/orale, Pietru Biancu, composto da un poeta contadino, Michele Rizzuto, molto vicino ai briganti della Sila, subito dopo che Pietro Bianco era stato giustiziato. Si noti come il capobrigante si appelli al comparaggio, grazie al quale si diventa parenti spirituali. Il tema dell’evitazione delle donne nell’epos brigantesco risente anche dell’influsso di analoghi atteggiamenti presenti nella letteratura cavalleresca, dove gli amori vengono normalmente evitati e gli eroi trascurano spesso le loro donne per le imprese guerresche. Il ciclo carolingio con tutte le sue derivazioni medioevali e moderne esercitò una influenza profonda sulla tradizione popolare soprattutto attraverso la letteratura di colportage e il teatro di figura. AUSSME, b. 80, fasc. 7, c. 5. Generosa fu condannata a 20 anni. Un brigante “era in groppa del suo cavallo, e di notte tempo si accostava al paese di San Giuliano per poter riab-

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lena De Lellis fu catturata con quanto restava della banda dopo che il capo Santaniello permise che il brigante De Cesare andasse a vedere la moglie, seguito da tutti gli altri10. A tutto questo si aggiunge il timore che la donna, moglie, amante o fidanzata potesse anche essere usata come esca: quando un brigante aveva l’“amorosa” nel paese, militari e galantuomini filounitari potevano corromperla, inducendola a dare un appuntamento al brigante in un posto dove si facevano trovare soldati o Guardie Nazionali o carabinieri11. È accaduto più di una volta. Si temeva ancora che l’amore, con le sue complesse implicazioni psicologiche, potesse indebolire il capo e mettere a rischio la compattezza della banda, per le gelosie che poteva suscitare tra i briganti più importanti: al processo alla banda di Gennaro Petrucci, Carolina Di Ruocco testimoniò: “Petrucci, per gelosia di me, si disgustò coi suoi compagni in modo che lo percossero, e perciò egli si divise dalla banda”. In effetti Petrucci fu privato del comando e fece parte a sé: rimasto solo, fu catturato, processato e fucilato; ma “dopo la sua fucilazione, i compagni lo compiansero”12. Diversamente tragica la storia di Domenica Rosa Martinelli, di Ceglie Messapica (BR): contadina famosa per la sua bellezza, fu l’amante del brigante Francesco Monaco, che fu ucciso dai compagni per gelosia.

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I briganti erano convinti – e i fatti davano ad essi ragione – che le donne potevano essere fatte facilmente prigioniere, perché, per partorire, dovevano necessariamente ritornare nel paese, ed era difficile che la loro presenza passasse inosservata. Inoltre i militari di solito non uccidevano le brigantesse, quando le riconoscevano come donne sotto il travestimento maschile, e, risparmiandole, potevano disporre di un numero consistente di potenziali informatrici. E i briganti temevano che le donne avrebbero potuto fornire alle autorità informazioni sulla composizione delle bande e sulla rete vastissima dei manutengoli che rendeva possibile l’esistenza delle bande. I maschi della banda inoltre pensavano che le donne non fossero del tutto adatte alla vita dura del brigante alla macchia, senza tetto e perennemente braccato, e per questo avrebbero creato dei problemi. Il caso della brigantessa Maddalena De Lellis, lasciata da Santaniello in paese per qualche tempo come manutengola, è significativo. A volte l’accettazione delle donne nella banda era una necessità, ma in qualche raro caso, dopo averle accettate, furono gli stessi briganti a rispedirle a casa: Carolina Grieco l’11 maggio 1864 nelle compagne di Castronuovo in Lucania viene rapita da Egidio Florio e da cinque briganti, ma dopo tre giorni la rila-



bracciare di nascosto Carmela sua, quando fu fatto segno a quel colpo di fucile che lo gettò a terra, dove fu raggiunto da più militi cittadini, e catturato” per essere successivamente fucilato (DeWi: 308). Altri episodi in DeWi: 313. 10 Boja: 52-53. 11 In questo modo fu distrutta in Terra di lavoro nel 1865 la banda Valente, fatta cadere in una trappola ordita dal sindaco di Cervaro con la complicità della ragazza di cui il capobanda era innamorato (Croc: 23; ASSME, b. 83, fasc. 17, cc. 145-150; b. 96, fasc. 10, c. 18; b. 97, faSC. 4, CC. 198-200, 2126, 231). Nel 1866 tre briganti sono invitati a un festino da due ragazze in una masseria presso Corleto Perticara nel potentino: è un agguato. Mentre ballano sono attaccati e uccisi, ma riescono a uccidere una delle ragazze prima di morire (ASSME, b. 116, fasc. 2, cc. 7087). Nel 1865 nella zona di Caserta i militari falliscono nel tentativo di catturare i briganti Santaniello e De Cesare utilizzando donne (ASSME, b. 92, fasc. 1, c. 103). 12 Baro: 127.

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sciano perché “incommoda” (scomoda, inadeguata) ad andare nei boschi13. I briganti si spostavano continuamente, a volte non restando nello stesso posto neppure un solo giorno, per motivi di sicurezza14. Le donne, specie se incinte, avevano qualche difficoltà a seguirli. La maternità costituiva forse il problema più grosso, anche perché occorreva trovare per la partoriente un rifugio sicuro presso persone fidate. Era una soluzione costosissima ed esposta a incertezze e rischi. Per tutte queste ragioni la sfera di azione delle brigantesse nelle operazioni militari poteva essere limitata. Queste limitazioni riguardavano alcuni casi e potevano dipendere anche da opposte ragioni, quali il timore che in circostanze particolari alcune delle donne potessero fuggire, oppure la preoccupazione di non esporre al pericolo le donne particolarmente amate: si disse, per esempio, che Michele Caruso non voleva che la sua presunta amante, Filomena (Filomena Pennacchio, che in realtà era la donna di Schiavone), prendesse parte alle imprese più arrischiate, affinché non corresse pericolo15, ma la donna amava combattere come un demone16. Lucia Di Nella era nota anche come combattente, anche se risulta che per volontà del suo uomo, Francescantonio Summa, “allorché dovevasi fare un grosso colpo e bisognava andare molto lontano, veniva nascosta in casa di questo o di quell’altro contadino”, che poi vennero arrestati e condannati17. Anche la narrativa di tradizione orale 15 16 17 18 19 13 14

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insiste su questo argomento. Era una sorta di privilegio della donna del capo. Anche Barone, il capobanda dei monti Lattari, quando faceva incursioni nei paesi lasciava nel covo la sua donna, Luisa Mollo, insieme a un brigante, per “farle compagnia”18. Anche se i briganti potevano essere non del tutto favorevoli, in linea di principio, alla presenza delle donne nella banda, di fatto finirono quasi sempre per accettarla. Dopotutto le brigantesse erano un numero esiguo rispetto ai maschi, e il rispetto che i gregari portavano al capo si riverberava inevitabilmente sulla sua donna, che veniva spesso fatta oggetto di particolari attenzioni: a Luisa Mollo, compagna del capobanda Barone, i briganti “avevano sul punto più bello della montagna costruito un pagliaio con un soffice giaciglio di muschio”19. Ma le presenze femminili nelle bande erano accettate anche perché queste presenze si rivelarono quasi sempre indispensabili e spesso perfino preziose. Da qui la necessità di capire quale era il posto e la condizione della donna tra i briganti.

I ruoli familiari A contenere o neutralizzare le tensioni tra le componenti maschile e femminile della banda contribuivano l’approfondimento della conoscenza reciproca in una situazione in cui la preoccupazione dominante e comune a tutti era la sopravvivenza, il nuo-

ASP, Atti e Processi di Valore. Storico, cartella n. 387/13; cfr. Varu: 82. ASC, Pref. della Provincia di Terra di Lavoro, Circondario di Caserta, interrogatorio. di G. Marino. Gell: 116. DeWi: 320. Bian: 151. DeBl: 19. DeBl: 21.

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vo senso di appartenenza alla comunità dei guerriglieri, l’autorità del capo, garante assoluto della convivenza solidale e delle regole, a cominciare dalla regola dell’onore. Insieme alla forza dell’organizzazione, la religione costituiva un elemento di coesione delle bande, ma né l’una né l’altra avevano la forza coesiva delle appartenenze familiari, parentali e territoriali. La religione ha sempre costituito per le genti delle campagne un forte elemento di identificazione collettiva e di aggregazione, ma non è mai bastata a far superare a contadini e pastori il loro individualismo in nome delle credenze e dei valori comuni. L’idea della “guerra santa” nella cultura popolare meridionale non ha acquisito, neppure nella controrivoluzione del 1799, la forza tragica che alimenta i fondamentalismi nelle vittorie come nelle sconfitte. In una cultura, come quella meridionale, in cui “i sentimenti forti dell’individuo scaturiscono in rapporto ad associazioni basate sulla parentela e sul luogo di residenza”20, i sistemi familiari e di parentela non potevano non giocare un ruolo importante nella formazione e nelle vita delle bande. Famiglia e parentela contavano soprattutto nelle comitive piccole e medie, in cui occupavano uno spazio consistente. I rapporti familiari mediavano l’integrazione dei briganti nella banda, rafforzando sicurezza, influenza e potere, specialmente quando si trattava di fratelli, e questo valeva soprattutto per le donne. Le dinamiche della banda sotto questo aspetto rispecchiavano quelle della condizione e del lavoro femminile, in cui l’integrazione della donna nei mestieri avveniva attraver-

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so la mediazione dei mariti, fratelli, genitori. Maggiore autonomia avevano le vedove, che più facilmente potevano navigare sole. Una parte della famiglia dei briganti più importanti era alla macchia. Vincenzo Padula, il prete antropologo che fu anche uno dei più acuti cronisti del brigantaggio in Calabria negli anni 1864-1865, osservò che il brigante, quando prendeva il bosco, rompeva con la moglie e che “Pietro Monaco solo si portava la sua d’appresso, perché quel donnone era più brigante di lui; ma gli altri hanno sempre una o più drude, o volontarie, o rapite”21. Queste rotture non erano generalizzate, e vanno spiegate nel modo giusto. Rompere con la moglie era necessario, innanzitutto per evitarle di essere carcerata e perseguitata dalle forze dell’ordine, allo scopo di ricattare il suo uomo alla macchia. Questa rottura poteva essere perciò strumentale e conseguentemente più formale che sostanziale, e valeva soprattutto per i briganti comuni; le mogli dei capibanda entravano spesso nella comitiva, in cui il loro numero sembra essere consistente, anche se non in grado di competere con quello delle amanti. Da qualche militare che aveva la passione della scrittura apprendiamo, però, che negli anni del grande brigantaggio “ogni capo banda aveva generalmente con sé la moglie o una amante”22, e le informazioni fornite dai documenti di archivio lo confermano ampiamente, consentendoci di aggiungere che non solo il capobanda, ma anche i suoi luogotenenti avevano le compagne. Maria Oliverio, moglie di Monaco, non costituiva dunque

Chap: 98. ASSME, b. 55, fasc. 9, cc. 31-38. 22 Cesa: 152. 20 21

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un’eccezione: nelle bande c’erano altre mogli, come Angela Cotugno, che si diede alla macchia quando era già sposata col capobanda Rocco Chirichigno (“Coppolone”); Rosa Tudisco, lucana, moglie di Giuseppe Caschetta, ufficiale di Crocco23; Angela Consiglio, contadina, moglie del capobanda Tardugno, aggregata anch’essa alla banda Crocco; Agnese Percuoco, venticinquenne di Campagna, catturata con la banda Ciardullo insieme al marito ventiquattrenne24; la moglie di “Cedrone”, alla quale il capobanda consegnava il danaro da nascondere25. I briganti rompevano con le mogli quando il rapporto coniugale era già compromesso o consunto e in questo caso la moglie veniva sostituita dall’amante; altre volte essi lasciavano le mogli a casa, perché non le ritenevano in grado di affrontare la vita dura e pericolosa dei briganti: decisione dolorosa, perché non potevano non sapere che le mogli e le fidanzate rimaste in paese erano esposte al rischio della carcerazione come complici o manutengole e venivano spesso arrestate senza alcuna prova e perseguitate per costringere i mariti a costituirsi o fatte oggetto di violenza. Quando il rischio – come vedremo – diventava reale, era giocoforza che la moglie o la fidanzata seguisse o raggiungesse il proprio uomo alla macchia. Maria Oliverio si fece brigantessa non perché – come suggerisce Padula – era un donnone più brigante del marito, ma perché aveva ucciso sua sorella e sarebbe stata per questo delitto arrestata.

Non era neppure infrequente il caso che il brigante sposasse la donna della banda che era la sua amante, quando voleva dare al rapporto una forma di regolarità agli occhi non tanto della comunità, quanto delle autorità istituzionali: non a caso questo accadeva, per esempio, quando nasceva un figlio o quando il brigante si preparava a costituirsi con la speranza di avere sconti di pena se non di essere lasciato libero. La brigantessa Agnese Alanza, amante di “Tinna”, fu sposata dal capobrigante quando a costui vennero accordati gli otto giorni di tempo per la sua presentazione26. È comunque certo che buona parte delle brigantesse era costituita da amanti (nel linguaggio del tribunale spregiativamente “drude”, meno frequentemente “concubine” e più eufemisticamente “donne di confidenza”, che può anche alludere a rapporti non sessuali, ma ambiguamente li suggerisce) e non pare che esse si vergognassero eccessivamente di essere e apparire tali. Maria Parente, per esempio, dichiarò con disinvoltura al processo di essere stata la “donna di confidenza”, di Federico Aliano, brigante della banda di Giuseppe Padovano (ma era anche l’amante di Angelo Di Giacomo)27. Le brigantesse dunque introiettano il linguaggio del tribunale col suo implicito disprezzo. Può darsi che lo facessero inconsapevolmente, almeno in qualche caso, per carenze linguistiche, ma altri indizi fanno pensare a un’accorta strategia di sopravvivenza: la condizione di drude o amanti lasciava in ombra lo statuto di brigantesse: il commercio carnale non era pu-

ACS, Roma, Tribunale Militare per la Repressione del Brigantaggio nelle Province Meridionali, cartella n. 178/46; cfr. Varu: 45,137. 24 Cesa: 103. 25 “Po”: 14/5/1866. 26 ACS, Roma, Tribunali. Militari. per la Repressione del Brigantaggio nelle Province Meridionali., cartella n. 178/54. 27 Ibidem. 23

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nibile dalle leggi di guerra, o non lo era nella stessa misura in cui lo era la partecipazione attiva a bande armate. Anche nelle deposizioni dei briganti maschi catturati trascritte in italiano dai cancellieri dei tribunali e nelle testimonianze della gente, anch’esse quasi sempre “tradotte” nelle trascrizioni, viene adoperato a volte il termine “concubine” e, più frequentemente, “drude”, ma è difficile dire se per essi questi termini (ammesso che li usassero) avevano lo stesso significato che ad essi attribuivano gli uomini del tribunale. A volte i briganti, uomini e donne, usano altre parole: Michelina De Cesare è detta “moglie” di Francesco Guerra, mentre era la sua amante28; Domenica Ianni chiama “sposa” la donna di Fuoco29; Francesca Cerniello, amante di Tranchella, nei verbali ufficiali è chiamata “concubina” o “druda”, ma lei stessa si definisce “sposa”. Tutto questo sta a indicare che alla macchia i rapporti tra amanti, quando erano intensi e duraturi, erano considerati alla stregua dei rapporti coniugali. Non a caso le unioni considerate serie a volte venivano celebrate solennemente, come delle “nozze rustiche”. Tutto questo in omaggio allo stile di pensiero contadino, per il quale solo la donna sposata “è messa all’onore del mondo”. E nel mondo contadino non solo erano frequenti i casi di concubinaggio vissuti come normali, ma spesso si rimaneva concubini per evitare le spese delle nozze, nel qual caso il concubinaggio era pressoché l’equivalente del matrimonio. I briganti conferivano molta importanza a queste unioni, e spesso celebravano

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l’evento in maniera, a modo loro, ritualmente fastosa. Sembra una favola la storia del fratello di Ninco Nanco che va a chiedere in sposa Lucia, con un corteo di cinquanta armati, come facevano i grandi capi nell’epica più antica delle genti europee. La novità più significativa della famiglia del brigante rispetto al costume contadino va cercata altrove. Nelle campagne e nei villaggi dell’Italia postunitaria le unioni avvenivano su una base contrattualistica, gestita dai genitori, che “combinavano” i matrimoni, mentre i rapporti tra le brigantesse, mogli o drude che fossero, e i loro uomini nascevano o comunque erano governati dalla passione, e tendevano ad essere esclusivi, soprattutto nei desideri della la donna, e duraturi. Erano al tempo stesso rapporti che esponevano la coppia al rischio della precarietà, minacciati dalle difficoltà della vita nel bosco e dai pericoli della guerra; ma esistevano spinte di senso opposto, che rafforzavano le unioni, come la consapevolezza delle difficoltà e delle insidie della vita alla macchia e del bisogno di affrontarle insieme, con condivisione e reciprocità. I rapporti liberi, pure presenti nelle comitive, potevano invece scatenare la gelosia, che diventava a volte la porta del tradimento: Giuseppe Schiavone si innamora di Filomena Pennacchio e lascia Rosa Giuliani; quest’ultima lo tradisce, indicando il suo nascondiglio ai soldati, e innescando una catena rovinosa di vendette che porterà alla distruzione della banda più forte del beneventano. Evitando le generalizzazioni assolute, che ci indurrebbero a trascurare casi atipi-

ACS, Roma, Tribunali Militari Straordinari, b. 170, processi 1971, fasc. 66, interrogatorio di Domenico Compagnone dell’11 maggio 1865. 29 ASI, Sottoprefettura d’Isernia, Atti di Polizia, Brigantaggio 1867, gennaio-dicembre, b. 6, fasc. Brigantaggio del mese di Aprile 1867, Deposizione di D. Ianni. 28

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ci di tutt’altro tenore, possiamo dire che la “famiglia del brigante” non era solo un tema pittorico diffusissimo nelle rappresentazioni artistiche del secondo Ottocento, in cui la donna è collaboratrice fedele e affettuosa del brigante, ma costituiva una istituzione molto presente nelle bande, ispirata da un sogno di avventura e al tempo stesso influenzata dal modello familiare della normale vita contadina. Come nei matrimoni regolari, valeva anche alla macchia il principio della territorialità nella scelta del partner: le compagne dei briganti erano di solito dello stesso paese del compagno, in omaggio al principio popolare “donne e buoi dei paesi tuoi”: come tutti i contadini e pastori, il brigante sceglieva una donna che conosceva bene e legava a sé in qualche modo il suo parentato. In assenza di un criterio tradizionale fondamentale per la definizione della coppia, quale è la coabitazione, in situazioni in costante movimento, non sempre stabili o durature, tra i briganti la procreazione diventa il mezzo identitario fondamentale. Nonostante i rischi della guerra per bande, le coppie ebbero dei figli alla macchia, che non sarebbero stati concepiti, se i genitori non avessero avuto qualche speranza nel loro futuro familiare e sociale. Molte brigantesse durante la guerriglia diedero ai compagni dei figli, che spesso partorivano in carcere. Rimasero incinte, tra le tante, Giocondina Marino, Chiara di Nardo, Generosa Cardamone. Poiché in quasi tutti i casi che conosciamo l’evento trovò molto attenti e affettuosi i mariti o gli amanti, dobbiamo pensare che la procreazione era pienamente accettata dai genitori, rafforzava il legame di Cesa: 103. Bian:153.

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coppia e assicurava alle donne un maggiore riconoscimento in quanto “spose”. Le donne, mogli o amanti, erano nel futuro dei loro compagni, che, pur fidando religiosamente nella guerra vittoriosa, con sano realismo si andavano preparando anche alla peggiore eventualità. E il pensiero dei figli occupava un posto centrale, nella buona come nella cattiva sorte. Spesso facevano custodire dalle compagne i piccoli tesori che riuscivano ad accumulare, o per lo meno le tenevano informate della loro esistenza e del luogo in cui li tenevano nascosti. Questi tesoretti dovevano servire ad assicurare al brigante una buona difesa in caso di carcerazione, ma soprattutto a garantire in qualche modo il futuro ai figli e alla compagna. Alla sua amante Olimpia Chiavone consegnò i ducati che Francesco II gli aveva donato per le spese militari, a vantaggio del figlio quattordicenne30. Francescantonio Summa, fratello di Ninco Nanco, affidò a un manutengolo 8.000 ducati, perché li consegnasse alla sua compagna Lucia Di Nella, nel caso fosse stato ucciso dalle forze dell’ordine31. Sono solo alcuni esempi. Le bande costituivano una microsocietà meritocratica, in cui si diventava capi solo se capaci di direzione e di comando, di assicurare la sopravvivenza della banda, di essere utili ai compagni e guidarli con successo. Questo valeva per entrambi i sessi, ma al tempo stesso la condizione di compagne dei briganti che contavano contribuiva a conferire alla donne importanza e potere. L’essere le compagne dei capi fu indubbiamente di grande aiuto alle donne, non perché assicurò ad esse dei privilegi, ma perché contribuì a renderle sicure di sé per dare il meglio di se stesse.

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Le reti parentali Oltre ad essere mogli o amanti dei capi, le brigantesse avevano di solito nella banda fratelli, sorelle, cognati, cognate, zii e in qualche caso genitori. Una donna completamente sola, ossia senza legami familiari o parentali, sarebbe stata in una condizione di debolezza, a meno che non fosse la compagna di un brigante importante e influente. Il fatto che proprio alcune delle poche donne che non avevano il supporto della parentela emergessero sulle altre conferma che l’elemento decisivo del successo femminile nella banda era il valore personale. Filomena Pennacchio era una di queste. Dominanti erano i rapporti parentali nelle bande del salernitano: nel settembre 1869 Ferdinando Pica, dopo la morte del suo ex socio Ferrigno, si alleò con Carbone, ricostituendo una banda molto affiatata, grazie soprattutto ai legami familiari che stringevano i briganti: il capobanda Pica, oltre ad avere le sue amanti, era accompagnato da due fratelli, un cognato e una sorella, Carmela Pica; l’altro capobanda, Alfonso Carbone, poteva contare sul padre e sulla madre, Angela Di Genova, oltre che su tre fratelli; il brigante Francesco Saolino aveva con sé la moglie, Maria Carfagna, la madre, Rosa Di Giacomo, e la figlia, Anna Solino; ma nella banda c’era ancora parte della famiglia Pizza, la madre Matilde con Camilla e due parenti maschi; parenti erano ancora Camilla ed Elisabetta Volpe, Vienna e Generoso Cianci, 34 35 36 37 32 33

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cinque membri della famiglia Gambone con Irene Gambone, e così via: tra i pochi a non avere parenti nella banda c’era una sola donna, Agnese Capone32. Situazioni identiche in Terra di Lavoro. L’amante di Francesco Guerra, Michelina Di Cesare, abruzzese, era nella banda insieme a suo fratello Domenico33. Nell’area del Pollino Serafina Ciminelli era nella banda di Giuseppe Antonio Franco, di cui era amante, con tutta la sua famiglia, la sorella Mariateresa, il padre, la madre, e il fratello più giovane, da lei stessa convinto a farsi brigante. In Calabria Caterina Talarico era la compagna di Serafino Bianchi, fratello del capobanda Pietro Bianchi; Maria Oliverio poteva contare non solo su suo marito capobanda, Pietro Monaco, ma anche su Antonio Monaco, suo cognato fratello di Pietro, e sul proprio fratello, Raffaele Oliverio. Le bande del territorio di San Marco in Lamis erano in gran parte clan di consanguinei: i Ciavarella, i Giuliani, i Gravina, i Nardella, i Polignone, i Rendina, i Tancredi e così via34. Nel Cilento la madre del capobanda Tranchella, Luigia Cannalonga, faceva parte della banda del figlio e partecipava alle sue scorrerie35. Nel napoletano Giuseppa Paradiso, di Carbonara di Nola, era sorella uterina del capobanda Crescenzo Gravina36. Luisa Mollo era nella banda Barone con suo padre Sabato e suo fratello Antonio: valevano poco, ed erano perciò malvisti dagli altri gregari, che non apprezzavano il favore di cui godevano presso il capo37.

DBia: 125-26. Tor1: 58. Cfr. Clem: 49n. ASS, Gabinetto. di Prefettura, Affari Speciali, b. 46, fasc. 5; cfr. Melc: 41. ASCO, Gabinetto di Prefettura, b.4, anno 1863. Cimm: 68.

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I legami più forti erano quelli che formavano la famiglia in senso stretto, e tra essi era importante il rapporto tra le sorelle e i fratelli, tradizionali difensori dell’onore delle sorelle, che anche nella banda costituivano un baluardo contro le eventuali aggressioni sessuali dei maschi. Il rafforzamento dei rapporti tra gli altri consanguinei, ascendenti e discendenti collaterali, che formano la parentela, è un fatto tipico del brigantaggio. La famiglia estesa nel mondo contadino è risultata un mito più che una realtà. La famiglia contadina normale era nucleare, perché la limitatezza delle risorse ostacolava l’ampliamento della rete parentale attraverso la costruzione di rapporti di reciprocità. Il brigante però ha bisogno di una rete di persone fidate, senza la quale gli riesce impossibile sopravvivere alla macchia, ed ha a disposizione consistenti somme di denaro e altre forme di potere, che gli consentono di crearsela: il danaro dei comitati borbonici e soprattutto il frutto dei ricatti, delle razzie e delle estorsioni finanziano le bande contadine, e i briganti, una volta contadini poveri, ora mettono a disposizione dei parenti risorse economiche, oltre un riflesso di potere, di cui essi approfittano per arricchirsi ulteriormente a spese dei paesani. Come ebbero a scrivere già allora alcuni osservatori, “in due modi lucrano i parenti dei briganti: lucrano coi regali, coi doni che portano loro tutti i cittadini per non avere molestie e aggraziarseli. (…) Tutti, ricchi e poveri, liberali e borbonici, onesti e cattivi cittadini mandano alla madre, alla moglie, alla sorella del brigante donativi d’ogni genere, e raccomandano alla bontà di sì onorata famiglia il Bour: 87. Bour: 87-88. 40 Binc: 86. 38 39

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proprio grano, la masseria, il gregge, il bestiame”. Ma non basta: il parente del brigante “va nelle famiglie e chiede denaro ed oggetti, e nessuno glieli nega”38. Il potere delle famiglie cresceva all’ombra del potere dei briganti, ingrandendo e rafforzando la parte filobrigantesca e filoborbonica del paese, che costituiva una sorta di “esercito interno”, che rendeva possibile con la sua connivenza la vita alla macchia dei fuorusciti. Il parente del brigante “chiama l’amico, il vicino, il primo che trova, lo obbliga a portare al parente brigante viveri, vestiti, notizie, e nessuno si ricusa. Se per caso non acconsente, lo minaccia di morte, di rovine, onde, non v’è a che dire, ubbidisce. (…) I parenti sono i primi che aiutano i briganti, che esagerano il loro numero, le loro azioni e anche i loro delitti, per tenere timorosi e soggetti gli animi”39. La situazione sopra descritta si riferisce direttamente alla Lucania, ma identiche condizioni si ritrovano nelle altre regioni, come la frontiera pontificia, in cui – è stato scritto – “le famiglie dei briganti sono ora le famiglie più comode e quelle che comandano nei paesi”40. All’interno dei paesi il gruppo dei consanguinei si ricompatta e rafforza dunque intorno all’immagine dei parenti diventati briganti; per un altro verso il favore e l’aiuto dei parenti si rivela risolutivo per la vita delle bande, e proprio per questo scatena le reazioni più violente delle forze dell’ordine contro le loro famiglie, con persecuzioni e deportazioni. Grazie alla rete parentale, il brigantaggio controlla la vita dei paesi meridionali; la rete assicura ad essi il control-

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lo vicario del paese e di tutto il territorio, guadagnando il favore popolare alle bande mediante favori e servizi, soprattutto illeciti, ma anche ricorrendo alle intimidazioni e minacce. Parenti ed amici dei parenti fanno crescere la banda con nuove aggregazioni di consanguinei, che a loro volta rafforzano il clan al suo interno; forniscono ai fuorusciti appoggio logistico, li nascondono e gli assicurano la possibilità di disporre di un tetto dove possono eventualmente svernare, essere accolti ed essere accuditi e curati; gli garantiscono un sistema di informazioni, concernente i movimenti della truppa, i tempi, i luoghi e la consistenza numerica; ma anche notizie sulle tendenze delle altre famiglie, su amici e nemici, e, infine, sui possidenti da sequestrare. Sono i parenti soprattutto che provvedono al vettovagliamento, fornendo tutto quello che ai briganti occorre in termini di vitto, biancheria, munizioni, medicine, direttamente o inducendo altri con le minacce a farlo; oltre a tutelarli dal rischio di venire uccisi o denunciati dai cacciatori di taglie, per la certezza diffusa che essi non sfuggirebbero alla vendetta dei familiari ed amici del brigante ucciso o fatto arrestare: “il timore di rappresaglie da parte dei parenti e proseliti del brigante posto a taglia impedisce ai paesani di azzardarsi a togliere dal mondo un individuo nocivo alla società”. Quando qualcuno decide di farlo, perché troppo temerario o perché il brigante si trova isolato, la prima cosa che chiede alle autorità è che “la faccenda non sia resa prima e poi di pubblica ragione”41. Tutto questo si configurava ideologicamente come effetto esclusivo del “debito del sangue”. Ma non era soltanto efficacia

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simbolica: il brigantaggio offrì ai sistemi parentali nuove opportunità e vantaggi, nuove forme di reciprocità, che rafforzarono i tradizionali legami tra parenti: i parenti rimasti nel paese potevano disporre di una sorta di esercito esterno che incombeva sul villaggio come una rassicurazione e insieme come una minaccia41. Lo spirito meritocratico che dominava nelle bande si conciliava con i fondamenti familistici della società popolare meridionale, alla quale i briganti appartenevano. I rapporti di parentela avevano importanza anche nella vita sociale e affettiva della banda: i vincoli di sangue umanizzavano i rapporti gerarchici, materiandoli di affetto e fiducia e rendendoli più stabili. Le brigantesse potevano guadagnare posizioni preminenti grazie anche ai loro rapporti parentali. Non fu difficile per Maria Oliverio farsi obbedire dalla banda, dopo che suo marito, il capobanda Pietro Monaco, fu ucciso da due traditori, anche se difficilmente la brigantessa sarebbe diventata leader della comitiva, se non le fossero state riconosciute le qualità per esserlo. Se è errato immaginare che il potere delle donne fosse solo il riflesso del potere dei loro uomini e, più in generale, della forza dei legami familiari, è altrettanto erroneo fingere l’inesistenza del problema.

Il paese e il bosco Il paese tradizionale all’epoca del brigantaggio postunitario è una costruzione sociale ricca di ambivalenze: il fatto che esso garantiva la vita sociale e promuoveva una “esuberanza di rapporti umani” conviveva con i ran-

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cori e le insidie del vicinato, la paura costante dell’invidia nelle forme istituzionalizzate del “malocchio”, la pressione del controllo sociale capillare e quotidiano. Il paese era per il contadino o pastore il luogo in cui maggiormente si misurava l’oppressione dei ruoli sociali, la disuguaglianza delle risorse, la maldicenza e la miseria del conformismo dei luoghi piccoli e degli orizzonti chiusi. L’ equilibrio che aveva per secoli governato le contraddizioni della vita paesana era saltato nell’impatto con i disastri prodotti dall’unificazione e dalla guerra civile, con la lotta feroce tra le fazioni, le persecuzioni politiche, la distruzione di interi paesi, l’abbattimento o incendio delle case dei fuorusciti, la carcerazione delle famiglie dei briganti, le offese recate alle proprie donne. Secondo uno schema classico si diventa briganti dopo che si è subito un torto, e la scena dell’ingiustizia è soprattutto il paese. Egidione fugge da S. Giorgio Lucano, suo paese natale, col pensiero di tornarvi per uccidere il sindaco Giuseppe Lauria42. I grandi capi delle bande brigantesche – si pensi a Ninco Nanco e a Crocco – vengono fuori da analoghe storie di violenze paesane e sopraffazioni che hanno colpito le loro famiglie e hanno segnato la loro esistenza. Ma più che degli uomini la miseria del paese doveva segnare le anime e i corpi delle donne, oppressi entrambi dalla doppia servitù domestica e sociale: “Nulla posseggo – dichiarò ai giudici Teresa Ciminelli – sono stati anche i miei malevoli paesani a farmi seguire Antonio Franco”43: perché, come è stato efficacemente scritto, “quando la sua appartenenza al genere umano, quando la sua dignità Ri-L: 222. Ri-L: 354. 44 Hadd: 18. 42 43

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gli pare minacciata, l’uomo ‘prende’ o ‘fa’ la strada, ritrova nel cammino un ricorso, una nuova risorsa contro questa minaccia”44. Filomena Pennacchio, quando si dà alla macchia, vende la sua povera casa, perché sa che sarà abbattuta o incendiata dalle forze dell’ordine. Al di là di ogni calcolo, si fuggiva facendo terra bruciata, perché il nemico che restava o veniva non potesse ulteriormente infierire. Ma non c’è solo una storia di insofferenze e di rancori in queste fughe dal paese. Quale che ne sia stata l’origine e la causa, c’è in esse il ritrovamento di nuove risorse contro la minaccia della disappartenenza e della dignità offesa. In primo luogo, il richiamo del viaggio, il riaffiorare della natura vagabonda dell’uomo. In un certo senso, l’uscita alla macchia dei briganti è una fuga dal paese e dalla campagna, che precede l’abbandono contadino dei campi, che si intensificherà nei decenni successivi e durerà fino ai nostri giorni, e ne presenta alcune caratteristiche importanti. D’altra parte, la vita dei paesi era tutt’altro che dominata dalla stanzialità: la ricerca del lavoro spingeva gli uomini a una costante migrazione all’interno della provincia e della regione e uomini e donne avevano una relativa dimestichezza con le prove e la fascinazione del viaggio, grazie anche ai pellegrinaggi, ai lavori stagionali, alle fiere, ai mercati: una mobilità di piccolo raggio, presente come l’“ulterioris ripae amor” delle anime morte virgiliane, la riva ulteriore del desiderio, presenza costante nell’immaginario tradizionale. La coltivazione dei campi era troppo dura, perché l’agricoltore non fosse tentato di cambiare la propria esisten-

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za, tutte le volte che gliene fosse stata offerta la possibilità. Il brigante non aveva una dimora fissa, la sua casa-rifugio erano il bosco e la montagna, dove la vita era diversamente dura e difficile, ma aveva tutti i vantaggi della liberazione da vincoli e pesi che rendevano l’esistenza nel paese quasi invivibile. I contadini coltivavano la terra, ma non è detto che amassero fare questo lavoro durissimo, poco redditizio e poco gratificante (la gente tende infatti da sempre a lasciare la campagna per la città). La convinzione che la ruralità faccia parte del corredo genetico della specie umana potrebbe risultare non del tutto fondata, dal momento che gli uomini trovano tutt’altro che piacevole coltivare la terra, anche se riesce difficile condividere l’idea che l’agricoltura abbia costituito “il più grave errore nella storia dell’umanità”, rispetto alle attività più intense della caccia e raccolta. Sotto alcuni aspetti lo stile del brigante ripropone i modi e i ritmi (con le emozioni e i piaceri) del nomadismo e della predazione originari45. Il bosco non è semplicemente l’habitat naturale del brigante: il brigante e il bosco sono una cosa sola, lo sapeva la gente delle campagne, e lo aveva intuito Alessandro Dumas, quando scriveva che “l’Italia meridionale produce naturalmente frumento nelle pianure, olio nelle valli e briganti sui monti”. La fuga dal paese riattiva le energie addormentate nella interminabile e monotona reiterazione dei gesti di una quotidianità poco gratificante. Una volta lasciata la vita grama del paese, il fuoruscito, pur tra le ristrettezze e i pericoli

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di ogni genere, percepisce, forse per la prima volta, l’espandersi della sua personalità al cospetto di situazioni nuove, che deve affrontare facendo un uso nuovo e creativo delle risorse mentali e materiali che ha accumulato nella sua giovane esistenza di contadino, pastore, artigiano: il pericolo si muta in opportunità, la mancanza sollecita l’invenzione, la paura indurisce il coraggio, il diverso e libero scorrere delle ore apre le ali al gioco, alla contemplazione della bellezza e alla liberazione dei sensi, il corpo in movimento si abbandona alla gioia della corsa, mentre si cercano o riscoprono altre relazioni e appartenenze all’umanità e al mondo naturale. Come è stato felicemente rilevato, “la preoccupazione estetica compare sin dai primi passi dell’uomo, intimamente connessa con il richiamo del viaggio”, del camminare e del correre46, e con essa la piacevolezza, “motivata dai profumi, dal paesaggio, dalla spaziosità dell’ambiente primordiale”. Si consuma così “un tentativo di tenere a distanza i dolori paesani circondandosi di piaceri rurali”, che sono piaceri del corpo, della psiche e dell’anima, come la carezza dell’aria profumata, il senso di uno spazio immenso, l’idea di una immacolata sanità naturale: cantava il brigante: Ssi pini su ppe mie parienti e frati, ssa nive ianca è lu tisouru mio; aduru s’acquicelle ‘mbarsamate, sse funtanielle cuomo grande Diu: chistu vuoscu de arvuli arramati è la casella e lu pagliaru mio; nun ce venite ppemmu me tentati nullu, ccà la pagati, ppellu Diu47.

Tiger: 216. Hadd: 24. 47 “Questi pini sono per me parenti e fratelli, / questa neve bianca è il mio tesoro; / adoro queste acquicelle imbalsamate, / queste fontanelle come grande Dio: / questo bosco di alberi ramosi / è la casetta e il mio pagliaio; / non 45 46

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Bellezza e affettività, familiarità. La natura, il bosco sono la nuova casa e famiglia del brigante, che da essi si sente protetto e guardato. Perché, come ha compreso Lacan, dopo Cezanne, non siamo noi che guardiamo gli alberi. Sono gli alberi che guardano noi48. Il brigante in fuga dai suoi familiari e dalla sua gente dispone di molto poco, poco gli è rimasto di tutto quello che come essere sociale ha costruito intorno a sé nell’arco della sua giovane vita. Egli ritorna alla natura nudo, come mai non è stato. Familiarizza con le ombre del bosco che hanno sempre inquietato il contadino, cogli alberi diventati la sua nuova casa e famiglia silente. Si inoltra in un nuovo mondo sensoriale, in cui la più elementare delle bevande, l’acqua, diventa il suo balsamo e la neve il suo tesoro: affascinante nel suo biancore e inconsistente, come il denaro e l’oro delle predazioni, che passa per le sue mani, rapidamente dissolvendosi nei giochi d’azzardo e nei doni alle sue donne. Se il paese si ricorda pensando al ritorno, perché ciò avvenga occorre prima fuggirne, cambiare aria, dimenticare. Si aspettava l’occasione giusta, e la grande occasione venne col brigantaggio, che dal punto di vista dei destini individuali produsse l’impulso liberatorio verso un altrove, in cui la “resurrezione dei poverelli” (quella cantata la prima volta, al suono della grancassa, dai sanfedisti nel 1799) era ancora possibile e la propria vita poteva ancora essere riscritta. La fuga dal paese, gli errabondaggi nella macchia hanno generato una nuova umanità, con cui

è possibile costruire nuove appartenenze: le autorappresentazioni del brigantaggio non sono quelle di banditi solitari, “lupi solarini”, ma di capi e gregari uniti nelle bande da un comune sogno di cambiamento, quello promesso dal canto del capobanda mitico Nino Martino: Chi si vo’ fari surdatu riali jisse ’ncampagna cu Ninu Martinu; a vivari u’ li porta alle funtane, ca’ appriessu li va l’ utru cu lu vinu. Nu li fa jire vestuti di lana, ma i vesti tutti di dommaschiu finu; lu pani jancu nu lu fa mancari, lu cumparaggiu nu li veni menu49.

Nell’epos brigantesco popolare l’addio ai luoghi più cari costituisce un momento lirico per eccellenza. Proprio perché la leggenda del bandito sociale rispecchia in certa misura la realtà profonda, è assente nell’epos brigantesco il legame con la terra lavorata, che è il luogo della natura domesticata, del duro lavoro e della vita normale. Il brigante non ha nostalgia dei campi coltivati, perché, fuggito di solito giovanissimo dal villaggio, ha cessato di coltivarli o non li ha mai coltivati. Il suo ultimo saluto, intenso e struggente, quando è catturato o sta per essere giustiziato, è rivolto al bosco dei pini e all’altopiano (che nell’immaginario collettivo sono i luoghi dell’“omo selvatico”), da cui è stato accolto e protetto e dove è vissuto libero e dominatore: Nun ce tuornu cchiù a chillu pinitu, chille belle chianure e chillu pratu.

venite a tentarmi / perché la pagate, per Dio”. Si tratta di un canto brigantesco, pubblicato la prima volta in Bilo e successivamente in Sca1: 137. 48 Hadd: 48. 49 “Chi vuole farsi soldato reale / deve andare in campagna con Nino Martino; / a bere non lo porta alle fontane, / ché dietro gli va l’otre pieno di vino. / Non li fa andare vestiti di lana, / ma li veste tutti di fine damasco; / non gli fa mancare il pane bianco, / e non manca mai il companatico”. Il pane bianco era quello dei signori: in Sca1: 127.

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La ruina, ch’è stata stamatina, non minde lassa cchiù corda e catina. (ott. XLI)50.

Il bosco dei briganti deve essere fitto di vegetazione, in modo da risultare pressoché impervio a chi non lo ha mai attraversato, ricco di grotte e possibilmente collocato su un’altura. Come le dimore delle bande pugliesi, “le impervie foreste delle Grotte, presso il Fortore, le selve degli Umbri, Dragonara, Incoronata, S. Agata e Maresca, a nord, i boschi di Acquaviva, Gioia, Noci e S. Basile, al centro, la cupa foresta di Pianella, i boschi di Arneo e le Macchie di S. Marzano, a sud”51. Nel territorio di Ginosa Antonio Locaso (“Capraro”) costruì la base principale della sua banda nel bosco Rita, fitto di piante di alaterno, olivastri e citiso spinoso: vi si accedeva attraverso un sentiero che terminava in uno spianato circolare e poi in altri spianati, usati come dormitorio per gli uomini e stalle per i cavalli52. I periodi di stagnazione delle operazioni di guerriglia potevano essere lunghi e altrettanto, a volte, le soste. E il bosco era il luogo per eccellenza del loro riposo e degli interminabili giochi d’azzardo che riempivano il loro tempo libero. Ma era anche il luogo dei loro spostamenti tattici e strategici e di molte delle loro imprese. Quando dovevano combattere, le bande sceglievano la pianura ai margini del bosco, in modo da potersi rifugiare e nascondersi nella vegetazione.

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Il bosco per le comitive è elemento onnipresente di sicurezza. Se i briganti devono scegliere tra due case dove devono andare a gozzovigliare, preferiscono quella che consente una fuga facile, per la vicinanza del bosco e la lontananza dal centro abitato53. Una volta che sono usciti dal paese, solo i briganti più temerari, più capaci e sicuri di sé vi rientravano con una certa frequenza. Soltanto per pochi il paese era la loro dimora fissa, da dove, indisturbati, comandavano i gregari alla macchia. Si direbbe che il brigante si fosse assuefatto all’idea che ormai il suo universo era quello delle masserie, dei pagliai, dei boschi, ma tutto questo è solo in parte vero: egli vive emotivamente in due dimensioni, e frequenta poco il paese, solo perché le forze dell’ordine glielo impediscono. I briganti di Manzo spesso lasciavano il gruppo impegnato nell’odissea dei sequestri e raggiungevano il loro villaggio, dove rimanevano alcuni giorni, col permesso del capo54: una sorta di vacanza-premio, con la famiglia o l’amante. Non a caso, i briganti operavano di preferenza in un’area che aveva come epicentro proprio il loro paese. Non ne potevano fare a meno, perché, oltre a fare nuove reclute con maggiore facilità e trovare favoreggiatori e manutengoli, si assicuravano il controllo del territorio grazie alla conoscenza perfetta dei luoghi (strade, sentieri, boschi, nascondigli, case di campagna). Il pae­se di appartenenza era la cassa di risonanza delle imprese

“Non ci tornerò più a quella pineta, / quelle belle pianure e quel prato. / La rovina, che c’è stata questa mattina, / non me ne lascia più di corda e catena” (= sono caduto nel pozzo, senza possibilità di risalirne: Pietru Biancu, in Sca1: 162, ott. XLI. 51 Luc2: 45. 52 Mian: 31. 53 Fonte in Mosc: 134. 54 Fri2: 163, 166. 50

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brigantesche, e il brigante viveva anche del proprio mito; nel paese i briganti avevano lasciato la loro famiglia o le loro amanti, con le quali si incontravano di nascosto tutte le volte che potevano; nel paese i feriti potevano essere visitati facilmente dai medici ed avere medicine dal farmacista; nel paese c’erano i barbieri che li radevano, i sarti che cucivano per loro. Un legame intenso, rafforzato dal principio della reciprocità, perché i briganti distribuivano denaro, aiutavano i bisognosi, offrivano servigi ai potenti, operavano vendette, che a volte erano atti di riparazione e di giustizia. Nel fuoruscito l’immagine del paese permaneva come ancoraggio sociale, spaziale e temporale: è proprio vivendo alla macchia l’esperienza sofferta della perdita che il brigante scopre l’importanza del borgo natio. Non a caso la dispersione dei fuorusciti nelle campagne produce una forma originale di incistamento etnico, per l’aggregazione alla stessa banda di briganti dello stesso paese. Anche nelle bande di più complessa formazione sono distinguibili nuclei compattati dalla medesima appartenenza territoriale. Questa modalità di aggregazione ha qualche affinità con l’incistamento etnico dei migranti e dei profughi e con l’associazionismo su base regionale delle migrazioni interne, che salvano dai turbamenti dell’isolamento e dello sradicamento, che fanno del fuoruscito un vagante senza scopo e senza meta, diventato “altro” per la comunità di appartenenza: la dipartenza del brigante non è del tutto “spartenza”, non spezza il circuito della reciprocità, della pubblica solidarietà, del vicendevole riconoscimento e delle intime

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complicità. In un certo senso, anche la storia di una comitiva brigantesca è la storia di un paese fuori del paese stesso. Sul piano simbolico e psicologico non c’è un distacco totale dei fuorusciti dalla piccola patria. C’è anzi un intenso rapporto di odio e di amore per il proprio paese: nella loro fuga c’era già il loro ritorno. Ma vorrebbero tornarvi da vincitori, come oggi gli emigranti di successo, e al tempo stesso occuparlo e devastarlo, ricongiungersi, vestiti di una nuova vita, coi parenti e gli amici, ed esemplarmente punire, annientare i propri nemici e coloro che hanno causato la loro rovina. Era il sogno incattivito di Ninco Nanco e di Antonio Franco. In fondo, il viaggio, la fuga, l’errabondaggio sono vita sospesa, servono a esperire l’ampiezza dell’esistenza e superare la prova. Solo il ritorno è fondante. Tutti i miti dei viaggi trovano nel ritorno il momento fondante. Il sequestro degli abitanti del proprio paese a scopo di ricatto poteva costituire un sostituto simbolico della riconquista del paese natio e della vendetta sui propri nemici. È un altalenare a volte convulso, che dà vita a una circolarità paese/ campagna a volte ossessiva. Le piccole bande (le bande medie e grandi ampliavano il loro raggio d’azione) sconfinavano nei territori adiacenti solo per l’approvvigionamento di viveri, per operare sequestri e per vanificare le disposizioni eccezionali anti-brigantaggio emanate dai prefetti: poiché esse variavano da luogo a luogo, le bande tendevano a lasciare una provincia in cui il prefetto rendeva loro difficile la vita, per riparare in altre province in cui la repressione era meno pesante55. A volte era necessario sconfinare, per

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potere più facilmente indurre in errore il nemico, quando, rimanendo nella propria regione, non si riesce a ingannare l’avversario. In fondo – a parte la novità e le ovvie differenze – la banda è il prolungamento del villaggio. Insieme alla famiglia, è il villaggio, il paese, il territorio a generare nei briganti i sentimenti più intensi e le emozioni più forti. Il villaggio e la famiglia costituiscono le uniche aggregazioni reali; gli altri gruppi, associazioni, partiti, burocrazia statale, sono “gruppi irreali”, perché non producono rapporti di intimità, solidarietà e coesione. La bande costituiscono aggregazioni forti, proprio nella misura in cui trasferiscono nella loro organizzazione i valori della famiglia e del villaggio. Le relazioni parentali plasmano le altre relazioni e contribuiscono a modellare i ruoli. Il capobanda è una figura paterna, terribile e rassicurante, i gregari sono i suoi figli obbedienti che però partecipano alle sue decisioni. Si appartiene alla banda, ma la nuova appartenenza non comporta l’assunzione di comportamenti totalmente o radicalmente diversi da quelli abituali, che produrrebbero sensi di estraneità e lontananza. La novità costituita dalle bande (e, in epoca successiva, dalle organizzazioni mafiose) risiede proprio nel loro essere una associazione autoctona, non trapiantata dall’esterno, che riscuote un notevole successo tra la gente: il contrario di quello che succede nel Sud alle associazioni nuove e calate dall’alto. Il modello della famiglia e del villaggio in parte trapiantato nella banda produce al tempo stesso fatti nuovi: per la prima volta una organizzazione che non è la famiglia si fonda sul principio che il bene di tutti coincide con il proprio bene; che, al di sopra del proprio interesse particolare, sottoporsi a regole condivise, creare un fronte

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comune, è l’unica possibilità di realizzazione del singolo, e l’unica via del successo; che si ha il diritto di partecipare alle decisioni, e al tempo stesso occorre sottoporsi a delle regole comuni; che il principio dell’uguaglianza non conflige necessariamente col potere dei capi che meritano di essere tali. L’organizzazione della banda è a metà strada tra l’autoritarismo paternalista e la democrazia, l’egalitarismo e la meritocrazia. La territorialità è propria degli abitanti dei paesi meridionali: essi hanno un forte senso di appartenenza al paese nativo, dove vivono in una rete di parentele e legami amicali, mentre sono estranei e perfino ostili agli altri territori vicini, in cui di rado si avventurano, a parte i lavori stagionali e le migrazioni temporanee alla ricerca di lavoro. Povertà di spostamenti, dovuta alla mancanza di vie e di mezzi di comunicazione, all’assenza di scambi, all’insicurezza che regnava nelle campagne e rendeva pericolosi i viaggi. Ma c’erano anche le ragioni culturali, la paura dell’Altro, che ha lasciato segni forti nei “balasoni popolari”, rappresentazioni deformate che ciascun paese faceva del paese vicino, per stigmatizzare la diversità degli altri paesi e difendere la propria “normalità”. Come abbiamo anticipato, i paesi erano di fatto silenziosamente presidiati dai briganti stessi. Oltre alle reti familiari e ai manutengoli, in essi conducevano una vita apparentemente normale i briganti temporanei o stagionali. Anche se questo fenomeno è rimasto quasi interamente sepolto nei misteri dei paesi meridionali, alcune testimonianze dell’esistenza di queste doppie vite nelle comunità dei paesi del sud ci sono state conservate: nello Stato pontificio, sui monti di Roccaguglielmina gli abitanti dei paesi “non solo erano prodighi di aiuti, di indizi e di consigli ai briganti, ma 33

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spesso di loro proprie persone sussidiavano la banda per commettere notturne aggressioni, ritornando poi allo spuntar del giorno nei loro abituri, o a lavorare precisamente i campi, o a guidare al pascolo le greggi” (Binc: 150). Anche alcune brigantesse avevano questa doppia vita, trovandosi ad essere all’apparenza persone normali, di fatto manutengole e insieme brigantesse, con tutti i vantaggi che questo comportava per le bande.

L’amore e gli amori In un accampamento frequentato dalle donne dei capi in veste di brigantesse, ma anche dalle amanti che venivano di tanto in tanto dal paese e dalle donne di piacere mercenarie, poteva capitare che le feste prendessero le forme di una licenza che agli osservatori esterni poteva sembrare una non precisata “orgia”. Potevano sembrare più verosimilmente orge le libertà, comuni a tutti gli eserciti e a tutte le guerre che hanno conosciuto le conquiste e i saccheggi, che esplodevano in occasioni particolari, come la messa a sacco di un centro abitato, i festeggiamenti per una vittoria. Erano un modo di “misurare la vittoria, che faceva parte della dimostrazione del successo e della virilità del soldato, una ricompensa tangibile per i servizi che questi aveva reso”55, ed anche un modo di far pesare ai vinti l’angoscia della sconfitta. Ad esse partecipavano indistintamente tutti i briganti. Ecco la descrizione, in parte forse immaginaria, fatta dal giovane ufficiale De Witt, dell’assalto della truppa guidata dal colonnello Balsani

DeWi: 280; n.72.

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al villaggio Mezzane, dove si era accampata di notte una banda per festeggiare cogli abitanti: “Quando fu a circa 2 miglia di distanza da quel luogo, vide che il villaggio era tutto in fiamme: i briganti colà giunti avevano acceso dei fuochi di gioia e si erano dati in braccio a notturna orgia, divisa fra loro e le più impudiche donne di quella campagna. Nella via di mezzo del villaggio, intere botti di vino offrivano gustose libazioni ai festanti masnadieri ed intorno a quelle i più giovani di essoloro si consacravano ad ogni atto di lascivia, ed alle più voluttuose ridde, intantoché nel vicino proto i cavalli briganteschi si satollavano di strame e di erbe”56. La pubblicistica postunitaria, sia per assecondare le curiosità erotiche dei lettori, sia per demonizzare la guerra delle bande, insistette più del giusto sulle perversioni sessuali dei meridionali alla macchia. Nella loro asciutta castigatezza i documenti di archivio fanno invece scarsi riferimenti all’eros nelle bande, a differenza delle cronache del tempo, che indulgevano sulle presunte scelleratezze sessuali e orge promiscue dei briganti. In effetti gli elementi erotici non hanno avuto nella storia dei rapporti tra briganti e brigantesse un rilievo eccessivo, probabilmente perché i componenti delle bande erano briganti prima di essere uomini e donne e in quanto tali, almeno in pubblico, subordinavano sentimenti e impulsi alle esigenze della vita ordinata della banda e alle sue regole. A questo scopo contribuiva, come abbiamo visto, il controllo esercitato dalla rete parentale all’interno delle bande. Di norma ogni brigantessa era legata a un solo uomo, anche se questo rapporto

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poteva assumere forma e valore diversi da coppia a coppia. Non sono del tutto credibili i riconoscimenti che le brigantesse meritarono nelle pagine dei giornali e nella narrativa del tempo come donne capaci di “dedizione totale di sé al proprio uomo”, tenaci nella fedeltà “fino al sacrificio”, perché gli scrittori cercavano nel presunto primitivismo delle genti del Sud le forme incontaminate dei loro valori, che la civilizzazione aveva corroso. Si evocavano i casi dell’amante del brigante Michele Carpentieri, che “si lasciò uccidere con lui, difendendolo fino all’ultima agonia”57; di Maria Tulino, che per salvare il suo uomo, Crescenzio Gravina, denunciò un componente della banda, Curcio, che poi la uccise58; di Serafina Ciminelli, piccola di età e di corpo, che seguì per amore oltre che per legittimismo politico il capobanda Antonio Franco: quando il fotografo dell’esercito li ritrasse, prima che l’uomo fosse fucilato e la donna condannata, i due amanti si tenevano teneramente per mano, come, in una circostanza analoga, i giovani briganti Agnese Percuoco e Vincenzo Letteriello della banda Ciardullo. Oscar De Poli, che conobbe direttamente i briganti, in una banda lucana trovò “tre donne, spose fedeli e coraggiose, che dividevano fino alla morte ogni rischio con i loro mariti”59. Era però un legittimista, portato ad enfatizzare la purezza e la normalità delle bande. L’opzione prevalente per il rapporto di coppia era comunque dettata dal bisogno di avere un compagno fisso, per affrontare insieme le enormi difficoltà della

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vita alla macchia e per sottrarsi ai desideri destabilizzanti dei più. Questo aiuta a capire perché nelle bande, a parte qualche eccezione, non militassero donne sole. Le brigantesse erano, come sappiamo, quasi sempre le donne dei capi o dei briganti più influenti; perfino quelle di più liberi costumi, come la Bonnet, riservavano i loro favori soltanto ai capibanda. Quanto più la compagna del capo era tenuta in considerazione dal suo uomo, e quanto più costui era forte e temuto dalla banda, tanto più cresceva verso la donna la considerazione e l’affetto dei gregari: come abbiamo anticipato, alla favorita di Vincenzo Barone, che combatteva al suo fianco, Luisa Mollo, i briganti costrui­ rono un giaciglio di muschio in un pagliaio “sul punto più bello della montagna”60. Quando una relazione si esauriva, sia l’uomo che la donna costruivano facilmente un nuovo rapporto con un altro partner. Non pare che fosse sempre l’uomo a porre fine alla storia, almeno a giudicare dal caso del capobanda Cerino, che, perduta la direzione della sua comitiva, perdette anche l’amore della sua donna, “Doniella”61, che lo abbandonò. In caso di morte, il capo-amante veniva sostituito da un altro amante. A seconda dei casi, era la donna che sceglieva di stare con il capobanda successivo o era quest’ultimo che la ereditava, la sceglieva o la prendeva. Maria Domenica Piturro, indicata nei documenti come prostituta (tali erano agli occhi di alcuni le brigantesse, per il fatto di vivere nella clandestinità, appartenere a un mondo

Casc: 151. Gell: 151. DePo in Del: 150. DeBl: 20-21. Moe: 212.

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considerato deviante, avere rapporti fuori del matrimonio), quando entrò nella banda diventò la compagna di Paolo Serravalle e, dopo la sua uccisione, del nuovo capobanda, Pasquale Serravalle, nipote del precedente62. Siamo certi che Filomena Di Poto, amante di Gaetanio Tranchella (ma pare che abbia avuto una storia per qualche tempo o in qualche occasione con Schiavone), diventò la donna di Vitantonio D’Errico (“Scarapecchia”), quando quest’ultimo ereditò dal precedente la funzione di capobanda. Non sempre la documentazione offre gli elementi utili per una giusta interpretazione di queste situazioni. Pare che la spinta all’eliminazione del capo, considerata imperdonabile se dettata dalla sete di potere, in qualche raro caso fosse determinata anche dalla gelosia. Il modello familiare all’interno della banda rimase quello contadino, con le modificazioni prodotte dalle diverse condizioni di vita e dall’alterazione del modello culturale complessivo della vita nelle campagne. I rapporti monogamici furono parecchi e di notevole intensità, anche se non comportavano sempre, se non in linea di principio, la fedeltà assoluta: accanto alla brigantessa fedele fino alla morte c’era quella che apprezzava la corte di altri capi, con i quali poteva civettare e ai quali in qualche caso e occasione forse concedersi. Michelina Di Cesare era l’amante del capobrigante Francesco Guerra, ma si chiacchierava che avesse qualche legame segreto col pastore abruzzese Curcia, secondo una testimonianza resa al processo del 22 maggio 186963; Mariannina

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Corfù o Algieri era l’amante di Ninco Nanco, ma sul retro della sua fotografia è indicata come “Marianna Algiera o Algieri, amante di Michele Caruso”64; Maria Giovanna Tito fu prima l’amante di Crocco, poi, quando il capobanda la abbandonò, di Agostino Sacchetiello. Sono solo esempi. Le relazioni, dunque, tendevano ad essere monogamiche, ma il nuovo potere e le relative ‘parità’ guadagnati dalle donne, il clima di libertà e di trasgressione che si respirava nelle bande, la difficoltà di conferire normalità a rapporti che non potevano oggettivamente avere le caratteristiche dei normali rapporti familiari, la possibilità, per la donna, di avere una molteplicità e varietà di contatti maschili cui non era abituata, potevano a volte conferire una certa elasticità al tradizionale rapporto di coppia contadino. La documentazione tuttavia non ci consente di approfondire adeguatamente buona parte delle diverse situazioni. È difficile, per esempio, accertare se questi rapporti multipli si siano sempre succeduti regolarmente nel tempo o siano stati contemporanei e compresenti. Contro quest’ultima ipotesi militerebbe la regola che le donna di un brigante non doveva essere insidiata da altri, pena la morte. Era una regola non scritta, che, anche se non sempre osservata nella realtà, funzionava come orientamento e deterrenza. A volte, soprattutto quando le bande cominciavano a disgregarsi, anche i rapporti esclusivi di coppia si indebolivano, aprendo la possibilità di relazioni erotiche estranee ai codici prevalenti. Mariateresa Ciminelli,

Varu: 137. ASC, Processi. Politici e di Brigantaggio, Camera di Consiglio. del Tribunale. Correzionale di Cassino, …… Gell: 226. ASP, Prefettura di Potenza, Gabinetto, Cat. VIII Brigantaggio, b, 43, f. 455; b. 55, f. 88; b. 31, f. 15; cfr. Roma: 80.

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già sposata a un giovane contadino, in una dichiarazione fatta durante il processo si disse “druda” del capobanda Antonio Franco65, che era l’amante ufficiale di sua sorella Serafina; Elisabetta Blasucci fu soprannominata “Pignatara”, forse per la facilità con cui si concedeva (il “pignato” nei dialetti meridionali è metafora dell’organo sessuale femminile), anche se aveva un compagno ufficiale66; Maria Parente era l’amante di Federico Aliano, ma fu posseduta dal brigante Cappuccino67. L’idea un tempo dominante del mondo popolare tradizionale governato da un patriarcato assoluto e intollerante si va rivelando in parte infondata, perché non considerava quanto nella strutturazione dei rapporti familiari e nell’economia della sessualità pesassero il condizionamento dei rapporti di forza e la generale debolezza del modello patriarcale, aprendo contraddizioni tra l’ideologia e il vissuto quotidiano68. Ad uno sguardo d’insieme sembra che le brigantesse oscillassero tra una relativa soggezione al potere maschile, che poteva giocare a favore del rapporto monogamico, e la tentazione di cedere alla forza incontrollabile e destabilizzante dell’eros, che rappresentava la sua eterna minaccia. La diversità delle situazioni e la povertà delle informazioni rende difficile operare generalizzazioni, ma molto probabilmente, se, da un lato, la precarietà delle condizioni di vita alla macchia e le difficoltà quotidiane spingevano in favore dei rapporti di coppia stabili, per un

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altro verso l’eros si poneva come una forma possente di recupero, esaltato dalle forme di vita tendenzialmente anarcoidi proprie del brigantaggio. Per quanto briganti e brigantesse cercassero di dare alla loro esistenza alla macchia la normalità del modello familiare tradizionale, la vita sessuale si svolgeva spesso nella dimensione dello straordinario e dell’avventura. Nella sua banda Vincenzo Barone aveva come sua amante ufficiale, o, comunque, stabile, Luisa Mollo, che era anche la sua collaboratrice, la quale non solo tollerava che il capobanda amoreggiasse con la ventunenne donna Matilde, figlia del possidente Luigi Di Marzo, che si era invaghita del brigante, ma in una circostanza fu proprio lei ad accompagnare la rivale a un incontro col suo uomo69. Il capobanda fu amato anche da una monaca più avanti negli anni, De L., che gli mandava rosolio e tabacco70. Questi comportamenti rimangono in parte un mistero, che le scarse informazioni fornite dalla fonti non aiutano a dipanare del tutto. Amori promiscui, non segnati dall’appartenenza ad un unico maschio, poterono esserci in qualche caso, che comunque riesce difficile individuare con precisione, perché nell’ottica di molti informatori tutte le brigantesse potevano apparire le prostitute dei briganti più importanti o del gruppo: Antonia Abate è detta nelle cronache “druda” di Domenico Calabrese e Giuseppe Di Marzio71. Nelle cronache Rinalda Chianti (o Chianni) è detta “druda” di Pasquale Io-

ACS, Roma, Tribunali Militari di Guerra per la Repressione. del Brigantaggio nelle Province Meridionali, b. 179 (Potenza), fasc. 2117/72; cfr. Varu: 71. 67 ASP, Prefettura di Potenza, Gabinetto, Cat. X Brigantaggio, cartella n. 28; cfr. Varu: 94-95. 68 Sca4: 31-37. 69 Gimm: 82. 70 DeBl: 20-21; DeBi: 21. 71 “Pu”: 24/12/1863. 66

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rio e di Francesco Salerno72. Maria Giovanna Bonnet era legata a Michele Larotonda, ma si diceva avesse rapporti con i capi della banda. I canti popolari ci hanno lasciato testimonianze preziose degli amori dei maschi delle bande. I briganti comuni lasciavano la loro donna al paese, e questa situazione era oggetto di canti struggenti: Catàba mi nde jia ppe ssi piniti e jia guiardandu li luntani prati; càpitu nu truppuni de rusiti, unu se distinguìa d’amminezu l’atri; haldelluti venianu ‘mbardansiti, e lu rusitu lassai stare ‘n pace. Lu rusitu si tu del la mia vita, gioiuzza mia, chi me si custata; ma dassu ncunu juornu sti piniti, e viegnu a ttie mu restamu mbiati73.

La tentazione di tornare dalla donna amata era, come sappiamo, a rischio della vita. I maschi erano generalmente legati alle loro donne, alle quali non negavano attenzioni, che si traducevano vistosamente in regali di gioielli, acquistati o frutto di rapine e di razzie, o in attestati di fiducia, con l’affidamento del proprio gruzzolo o tesoretto, o in altri segni di interesse e di affetto: Nunziante D’Agostino, visto che le calzature della sua compagna Chiara Di Nardo erano rotte, fece togliere le scarpe a un prigioniero e gliele fece calzare74. La prova d’amore più gran-

de che l’uomo potesse dare era l’accettazione della gravidanza e poi la nascita del figlio, che apriva le porte della speranza nel futuro. Gli amori dei maschi erano decisamente più liberi di quelli delle donne e non mancavano altri modi e progetti di vita. Carmine Crocco, carcerato da molti anni e ormai vecchio, rilasciò un’intervista in cui, tra l’altro, spiegò il suo rapporto con le donne: “– Facevate vita libertina, vi piacevano le donne? – Sì, quando le trovavo non le lasciavo, ma non amavo molto né le donne né il vino. – Avevate con voi nella vostra banda qualche donna? – No, quando si trovavano si faceva come il beccafico: si beccava e via”75. Sono mezze verità, mescolate a menzogne tattiche, che non rispecchiano la media dei comportamenti, ma in cui si riverbera comunque la componente leggermente misogina dei briganti maschi, di cui all’inizio di questo saggio abbiamo cercato di comprendere le ragioni. In particolare, l’intervista rispecchia la storia erotica di Crocco, che ebbe molte amanti che gli furono accanto anche nelle battaglie e di cui subì il fascino e forse l’influenza, suscitando, come sappiamo, le preoccupazioni del generale Borjés. Certo è che anche i maschi che avevano una compagna la tradivano a volte e spesso mantenevano in piedi più rapporti collaterali. Andrea Ferrigno aveva come amante Concetta Solimene, ma questo legame non gli impedì di duellare a colpi di pistola per la brigantessa Antonia

“Gio”: 24/4/1867; “Om”: 24/4/1867. “Pian piano me ne andavo per queste pinete / e andavo guardando i lontani prati; / mi imbatto in un cespuglio di roseti, / uno si distingueva in mezzo agli altri. / Carabinieri venivano inbaldanziti, / e lasciai stare in pace il roseto, / Tu sei il roseto della mia vita, / gioia cara, che mi sei costata (= che mi è costato lasciare); / ma qualche giorno lascio queste pinete, / e vengo da te, per restare beati” (canto brigantesco, in Bilo e in Sca1: 138). I carabineri sono detti “haldelluti” per la lunga falda della divisa. 74 ASS, Reati politici e brigantaggio, b. 67, fesc. 963. 75 Crocco in DeBl: pp. 90-91. 72 73

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Scarano, ponendo fine all’alleanza tra le loro bande76. Quello che collezionò più amori, avendo, a quanto pare, i titoli per farlo, fu forse Antonio Franco, il capobanda del Pollino. Vestiva, come la maggior parte dei capi, in maniera più raffinata dei suoi gregari, con una lunga e densa barba che ingrandiva la sua figura; aitante e coraggioso, era anche tra i pochi briganti che sapessero scrivere, componeva canzoni che egli stesso eseguiva: non c’è da stupirsi se anche per tutto questo aveva un grande ascendente sulle donne, a molte delle quali non rimase insensibile. Era però il compagno ufficiale di Serafina Ciminelli, che peraltro amava teneramente, senza che questo gli impedisse di avere commercio sessuale con sua cognata, Mariateresa, alla quale questa sorta d’incesto dovette sembrare pressoché normale77. Per voce popolare furono “drude” di Franco, oltre che sue manutengole (per averlo ospitato nelle loro masseria, avergli lavato la biancheria e fornito informazioni), altre donne sposate, una delle quali si faceva ammirare e invidiare in paese per le vesti lussuose, che comprava con i soldi di Franco78. Due furono le donne che contarono nella vita breve di Schiavone, ma poco sappiamo di Rosa Giuliani, donna giovane e bella, abbandonata dopo qualche tempo per Filomena Pennacchio, certamente il suo amore più grande, che però non gli impedì, secondo

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il gossip costruito o avallato dai militari, di avere altre due donne, Filomena Di Poto, nota come la sua “amante titolare” e Rosa Tardugno, presunta “amante supplementare”79. Antonio Cozzolino detto Pilone, capobanda del napoletano, ebbe rapporti amorosi con Carolina Esposito, amante di Luigi Carillo, con Chiara, moglie di uno sconosciuto Paolo, e con una donna di Ottaviano, che pare gli abbia dato un figlio80. Molte donne ebbe Ninco-Nanco come amanti, tra cui Filomena De Vito di Grassano e Filomena Di Pecora81, ma sarebbe stato l’amante anche di Marianna Corfù o Algieri, di cui è incerta la fisionomia e perfino l’esistenza82. L’8 dicembre 1863 convinse a seguirlo nei boschi e ne fece la sua amante Filomena Nardozza, nata ad Avigliano nel 1843. Francescantonio Summa, fratello di Ninco Nanco, aveva un legame forte con Lucia Di Nella, ma forse attentò, nella disperazione di trovarsi, alla fine, sconfitto e ferito, all’onore della moglie del contadino che lo curava83. Alessandro Pace era il compagno di Giocondina Marino, ma mise incinta una donna della stessa banda, Maddalena Cioffi, per esplicita confessione della donna. Nella confessione della stessa Maddalena Cioffi, Brigida Marino era l’amante di Giacomo Ciccone, ma è detto anche che “è stata e si sta possedendo da un altro capobanda”, che era Domenico Fuoco84. Del gioco dei tradimenti

ASA, Br., b. 8, fasc. 421. ASP, b. 368, Deposizioni di Teresa Ciminelli, 1865; cfr. Ri-l: 235. Ri-L: 235-36. Gell: 246. Nella fotografia la Di Pote è in piedi, la Tardugno è seduta. Rosa Tardagno potrebbe essere Rosa Giuliani. DeBl: 64. Bi.Q: 150. Gell: 226. Bi.Q: 150. ACS, Roma, Tribunali Militari Straordinari, b. 160, fasc. 1807, interrogatorio del 1 luglio 1864.

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è rimasta notizia, molto nota per il suo tragico ed efferato epilogo, di Cappuccino, che, tradito da sua moglie, possedette Maria Parente, compagna di Angelo Di Giacomo, ma amante anche di Federico Aliano85. Come in tutti gli eserciti, intorno alle bande giravano donne di piacere a vario titolo, ma erano, sostanzialmente, mercenarie del sesso. I rapporti non erano sempre pacifici, dal momento che i briganti, sempre generosi con le brigantesse, litigavano spesso con le meretrici per problemi di retribuzione. C’erano anche procacciatori di donne, che pare abbiano realizzato guadagni notevoli con questa attività86. I militari dell’esercito italiano tendevano a considerare prostitute anche le brigantesse87. Sulle donne combattenti semmai pendeva il rischio di finire nel lupanare o nel carcere, solo se la guerra delle bande si fosse conclusa tragicamente, ma i casi di brigantesse risucchiate dalla prostituzione risultano molto rari, transitori e dovuti a esigenze di sopravvivenza. Domenica Ianni, una delle ultime compagne di Domenico Valerio (“Cannone”), quando lascia la banda, ormai in fase di disfacimento, accetta prima un menage à trois con un giovane che l’accoglie in casa sua con sua moglie, poi se ne allontana, e va a esercitare la prostituzione con i militari. Per una brigantessa allo sbando dichiararsi meretrice aveva almeno il vantaggio dell’impunità, rispetto alle donne associate alle bande armate che venivano combattute e condannate. Certamente la relativa libertà che governava le relazioni amorose era generalmente

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tollerata, forse in qualche caso intimamente subita, perché la guerriglia creava tra gli uomini un compattamento che compensava o faceva passare in secondo ordine i contrasti personali. Ma questo non valeva in assoluto. Anche se non erano generalizzati, al punto da influire pesantemente, a parte qualche eccezione, sull’andamento delle operazioni militari, gelosie e conflitti erano presenti nelle relazioni amorose dei briganti e furono, in qualche caso, rovinosi. Storie più o meno leggendarie circolavano sulla gelosia che Filomena (verosimilmente Pennacchio), suscitava in Giuseppe Caruso: Crocco e Caruso si sarebbero per lei sfidati a duello, ma la sapienza della donna avrebbe evitato la catastrofe88. L’episodio si ritrovava nei repertori dei cantastorie popolari, perché gli amori dei briganti erano già diventati leggenda, mentre la realtà andava forse da un’altra parte. Pare che anche tra i briganti il duello per amore tra capi tendesse ad evitare che si arrivasse all’uccisione del rivale. Ancora la gelosia determinò la fine dell’alleanza di altri due capibanda, Pica e Ferrigno. Pica aveva litigato con il socio per amore di Antonietta Scarano e i due si erano sfidati a colpi di pistola; successivamente le due bande si disaggregarono pacificamente, impegnandosi a limitare il proprio controllo del territorio, quella di Ferrigno nell’avellinese, l’altra di Pica nel salernitano, e la donna seguì Pica89. Come sappiamo, Carolina Di Ruocco fu l’amante di “Chiuppetiello”, il capobanda dagli “occhi cerulei e colorito rubicondo”, che per

ASP, Prefettura. di Potenza, Gabinetto, Cat. XXVI, cart, n. 502; cfr. Varu: 94, 97. Varu: 133. Mele: 69. Si tratta di narrazioni raccolte e manipolate da DeWi: 294-300. ASA, Brigantaggio, b. 8, fasc. 421; DeBi: 123.

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lei litigò con i compagni per motivi di gelosia90, senza tragiche conseguenze. Le donne invece si vendicavano a volte degli uomini con la denuncia e la delazione, e in qualche raro caso determinarono la rovina delle coppie e perfino delle bande. Rosa Giuliani non perdonò a Schiavone di averle preferito Filomena Pennacchio, e denunciò il suo nascondiglio alle forze dell’ordine, che lo arrestarono e fucilarono insieme ad altri capi, gregari e brigantesse91. Maria De Martino, amante del capobanda Ferrigno, sin da quando costui era aggregato alla bande associate di Cerino e Cicco Cianci, diventò l’amante di Ferdinando Pica, quando entrò nella banda di quest’ultimo, ma fu dopo non molto tempo ripudiata e sostituita con Antonietta da un anno madre di un bambino, ventunenne: la donna per vendicarsi il 19 settembre 1868 andò a presentasi al Delegato di Montella, raccontando i fatti e le connivenze occulte della banda92. Per quanto il demone della gelosia fosse tenuto a bada dalla regole di comportamento della banda e dal buon senso, il tradimento e il delitto rimanevano sempre dietro l’angolo e qualche volta colpivano tragicamente. Non sappiamo con certezza quanto la gelosia fosse determinante nella storia di Maria Giuseppa Gizzi: fidanzata di Parra già quando ancora non era brigante, pare fosse desiderata anche dal capobanda Matteo Stiusi, che ironizzava, a volte, interessa-

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to, sulla sua corpulenza: (“Sceppa, Sceppa, come sei fatta grassa!”)93. Il Parra diventò suo gregario, ma poi lo uccise, diventando il nuovo capobanda; Maria Giuseppa continuò ad essere la sua amante, ma secondo alcuni amoreggiava anche col brigante Meola, determinando tra i due tensioni mal sopite, che alla fine indussero Meola a lasciare la banda94. Rosa Martinelli, amante di Francesco Monaco, scatenò gelosie furiose negli altri briganti, e il suo uomo il primo febbraio 1863 trovò la morte in un’imboscata ad opera dei briganti Elia e De Martini95. Il brigante lucano Genuario Lagrosa uccise il compagno Genuario Lapolla che gli aveva insidiato la moglie96, in ossequio alla legge della banda, che ordinava di rispettare le donne dei compagni. Assurdamente tragica la vicenda di Teresa Raimondi. Nata a Centola, nel Cilento, nel novembre del 1868, a diciotto anni, si allontana dalla casa paterna per raggiungere Pietro Ierardi (o Ierardo) nella banda Greco. Ha col brigante una relazione, ma è anche corteggiata vanamente dai fratelli Nicola e Apollonio Marino, anch’essi di Centola. Secondo alcuni testimoni il 20 ottobre la Raimondi si reca al mulino di Pisciotta con un sacco di grano, i due la fermano, impongono al fratellino che l’accompagna di ritornare a Palinuro, e, dopo averla condotta in un burrone, le rinfacciano di essere la “druda” di Ierardi e la uccidono a pugnalate per poi

“Gio”: 25/11/1964; Baro: 109. Bour: 262; DeZi: 74. 92 DeBi: 111; ASA, Brigantaggio, b. 6, fasc, 358, Salerno, 20 ottobre 1868 e fasc. 370, Campagna, 26 ottobre 1868 e Montella, 12 novembre 1868. 93 ASSa, Tribunale Civile e Correzionale e Corte d’Assise, b. 55, fasc. 783-83. 94 DiG3: 122-23. 95 Arch. Prov. Bari; Torr: 96. 96 Varu: 68. 90 91

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seppellirla nello stesso posto97. Il più efferato dei delitti passionali fu compiuto da Pietro Bianco. Avvenne perché il capobanda sospettava che Angelantonio Aiello avesse tentato di sedurre la sua compagna. La reazione fu di una crudeltà indescrivibile, che fece emettere un grido di orrore al pubblico che assisteva al suo processo: il rivale, dopo essere stato ucciso, fu straziato e ridotto a brandelli98. Era il più alto grado di pena che ritualmente si infliggeva ai traditori. Non fu il solo delitto di gelosia di Pietro Bianchi: quando si convinse che la madre di un tale Francesco Scalise “avesse condotta Generosa Cardamone, sua druda, a far le voglie del signor Bernardo Moraca”, freddò con due colpi di fucile il figlio della presunta mezzana99.

Guerriere in maternità Le brigantesse avevano intensi rapporti sessuali con i loro uomini e rimanevano molto spesso incinte. Nella maggior parte dei casi dovette trattarsi di maternità involontarie, da addebitare alla mancanza di contraccettivi, perché le donne sapevano benissimo che lo stato di incinte crea problemi a donne che fanno la guerra e anche ai loro compagni e all’intera banda. Tuttavia i compagni delle brigantesse accettavano l’evento ed erano emotivamente coinvolti sia nella fase della gravidanza che alla nascita del figlio. Le brigantesse più forti e più coraggiose

partorivano frequentemente nei rifugi dei briganti e i bambini nascevano nelle grotte, come Gesù. Nella seconda metà di febbraio 1865 Michelina De Cesare, compagna del capobanda Guerra, portò a termine la gravidanza nella grotta di una montagna presso Collepardo. Lo racconta un contadino, che stette due mesi sequestrato tra i briganti100. A fine maggio 1867 fu la volta di Giocondina Marino, amante del capobanda Pace, che ebbe un maschietto su una montagna del Matese, dove si era rifugiata per partorire101. Di solito però i compagni in attesa del parto affidavano le brigantesse a manutengoli, levatrici e sorveglianti, che, lautamente compensati, garantivano alle donne sicurezza e assistenza. Filomena Cianciarulo, incinta di Nicola Masini, al suo primo parto, dopo un anno di brigantaggio, si rifugiò con Maria Rosa Marinelli, compagna del capobanda Angelantonio Masini, presso la famiglia del proprietario amico a Sala Consilina, dove partorì una bambina che un prete battezzò. Il possidente e il prete furono poi arestati, perché manutengoli, e condannati a pene detentive102. Il capobanda Franco mandava spesso Serafina Ciminelli presso amici, non badando a spese. Quando la fece ospitare in Latronico dal prete Pelagano gli costò, per pochi giorni, 3.000 lire di allora: un patrimonio. Serafina doveva partorire, ma il bambino morì, lasciando una grande pena nei genitori103. Situazioni come queste non erano soltanto prova dell’affetto per le bri-

ASS, Tribunale Civile e Correzionale, b. 20, fasc. 164; ASS, Prefettura, Gab., b. 56, fasc. 462. An: 978. 99 Sca2: 108. 100 Nico: 111-112. 101 ASC, Deposizione di G. Marino alla Delegazione di P.S. in Mugnano, 1865. 102 AUSSME, b. 81, fasc. 6, cc. 55, 62. 103 Pa-R: 619; Rizz: 36. 97 98

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gantesse dei loro uomini, ma attestano come anche i briganti maschi fossero interessati ad avere figli. A volte questi affidamenti duravano tutta la stagione fredda, in cui le azioni brigantesche si fermavano o quasi. Anche Maria Giovanna Tito, incinta, fu affidata al manutengolo di Bisaccia. Nel giugno del 1864 – racconta lei stessa in tribunale – “Crocco pensò di ricoverarmi presso don Michele Rago in Bisaccia. Difatti verso un’ora di notte venne un uomo a cavallo a prendermi, e fui dallo stesso condotta in detta casa, ove stetti in permanenza fino al giorno in cui venni arrestata”104. Giuseppina Vitale fu portata nel gennaio 1863 nella massaria di un manutengolo, dove dopo due mesi partorì una bambina105. La condizione di ricoverate in città o nelle masserie in case amiche era comunque pericolosa non solo per la banda, ma per le stesse brigantesse, perché potevano essere individuate e arrestate in seguito a delazioni. Filomena Pennacchio, amante riamata di Schiavone, fu fatta accogliere per oltre due mesi da un manutengolo e poi, in previsione del parto, fu affidata a una levatrice di Melfi, che la tenne nascosta in casa sua106. Sarà arrestata in seguito alle incaute rivelazioni di Schiavone. Rosaria Rotunno, amante del capobanda Ciardullo, che operava nella piana di Battipaglia e sulle montagne contigue, rimasta incinta, al settimo mese fu affidata a un manutengolo, ma una spiata la consegnò alla squadriglia di Campagna. Non tutte accettavano però che, quando

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non erano più in grado di seguire la banda, il loro compagno le affidasse a persone estranee, comunque prezzolate: alcune, come Maria Giuseppa De Meo, compagna di Fuoco, si rifiutavano, preferendo tornare alla casa paterna: un ritorno che quasi inevitabilmente diventava oggetto di delazioni e implicava l’arresto, il processo e il carcere. In questo caso non restava che sperare nella clemenza dei giudici. Si poteva, in alternativa, precedere le mosse della giustizia, consegnandosi spontaneamente alle autorità. È il caso, non unico, di Maddalena Cioffi, che si consegnò, fingendo di essere fuggita dalla banda107. Un’altra soluzione era quella di tenere nascosta la donna e poi anche il bambino in casolari sperduti. Francesca Cerniello, compagna di Tranchella, per partorire fu nascosta in una casa isolata di montagna, che il brigante fece sapere a una persona amica prima di morire. Solo in qualche caso estremo i briganti, quando non erano più in grado di occuparsi delle donne in gravidanza, potevano essere costretti anche ad abbandonarle. Perché nel loro mondo non serve sfidare le decisioni del destino avverso: “Necessità nun abita (= habet) lege”. Non abbiamo notizie di aborti, che nella società tradizionale erano molto frequenti, mentre ci risulta attestata la volontà delle donne di condurre fino in fondo la maternità, anche per più di una volta nel giro di pochi anni, il che implica che esse avessero una qualche fiducia nel futuro. Un comportamento analogo dovettero avere gli uomini.

ACS, Roma, TMS, b. 19, fasc. 320. ACS, Roma, Trib. Mil. di Guerra per la Repr. del Brig. nelle Prov. Merid., b. 14 (Avellino), fasc. 168…. 106 ACS, Roma, Trib. Mil. di Guerra per la Repr. del Brig. nelle Prov. Merid., b. 19, interrogatorio di F. Pennacchio, 28 novembre 1864. 107 ACS, Roma, Tribunali Militari Straordinari, b. 160, fasc. 1807, 232. 104 105

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Ma il parto faceva crescere il prestigio della donna nella banda, in quanto madre del figlio o dei figli del capo. Per molte brigantesse la maternità rappresentava solo una sospensione momentanea delle loro attività brigantesche. Dopo il parto, quelle che non erano state scoperte e arrestate quasi sempre ritornavano alla macchia. Chiara Di Nardo, rimasta incinta, continuò a partecipare alle operazioni della banda Scarapecchia108; Giocondina Marino dopo il parto affidò il bambino a persone amiche; quindi riprese la sua attività brigantesca, durante la quale rimase nuovamente incinta: era al quarto mese quando fu catturata109. Filomena Cianciarulo non poté partecipare allo scontro a fuoco, sul finire del 1864, in cui il suo compagno fu ucciso, perché nuovamente incinta110. Filomena Luongo, della banda Boffa, sparisce improvvisamente dalla comitiva perché incinta, ma vi fa ritorno subito dopo. La condizione di incinta era una carta a favore delle donne, perché diventava più facile per loro salvare la vita al momento della cattura e ottenere poi un alleggerimento della pena durante il processo; ma è difficile pensare nella maggior parte dei casi a una programmazione mirata a questo scopo. Maddalena Cioffi, quando si consegnò, dichiarò di essere incinta del capobanda Pace. Secondo il commediografo calabrese Stocchi, che attingeva a fonti orali, Maria Oliverio avrebbe simulato maternità per evitare la condanna a morte.

Il bambino che nasceva veniva battezzato col nome di un capobrigante amico o con quello del padre, se questi era morto: Francesca Cerniello chiamò Gaetana la figlia nata dopo la morte del capobanda Gaetano Tranchella, suo “sposo”. Per l’occasione si faceva una grande festa, cui partecipava tutta la banda. Il figlio della brigantessa veniva poi affidato a persone amiche o mandato in luoghi protetti. Il bambino di Francesco Guerra e di Michelina Di Casare fu battezzato in pompa magna nella chiesa locale, essendo padrino l’altro capobanda, Domenico Fuoco, ed ebbe il nome Michelangelo Guerra. L’evento fu festeggiato fino a sera da tutta la banda. Guerra poi dispose la partenza di Michelina Di Cesare per il suo paese, travestita da uomo, e accompagnata da un pescivendolo, dopo che il prete le aveva restituito il denaro che conservava presso di sé. Poi Guerra si ammalò e la partenza fu sospesa. Il bambino fu mandato in S. Spirito di Roma111. ll figlio di Giocondina Marino per volontà dei genitori fu portato a Piedimonte d’Alife da due carbonari, che poi furono arrestati112. Delle brigantesse più note erano incinte al momento della cattura anche altre due amanti di Schiavone, Filomena Pote e Rosa Tardugno, oltre Chiara Di Nardo, amante di Nunziante D’Agostino, e Carolina Casale, compagna del brigante Lippiello. Poiché molte donne furono condannate al carcere, i bambini nascevano in cattività, venivano battezzati e affidati alla “cura della carità

ASSa, Tribunale Civile Correz. e Corte d’Assise, b. 67, fasc. 964. ACS, Roma, Provincia. di Molise, Sottoprefettura. del Cincondario. d’Isernia, relazione sul fatto brigantesco di Presenzano, 14 marzo 1868, f. 93. 110 Cfr.: Rest: 72. 111 “Po”: 15 marzo 1866; Duba: 276. 112 ASC, Deposizione di G. Marino alla Delegazione di P.S. in Mignano, 1865. 108 109

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pubblica”113. I padri erano morti in combattimento o erano stati fucilati, ma la loro ombra aleggiava in mezzo a loro: Filomena Cianciarulo partorì in carcere il suo secondo bambino, che battezzò chiamandolo Angelantonio, come il capobanda Masini114. Il primo bambino, partorito nel grottone di Val d’Inferno, era stato messo al sicuro, mandandolo in S. Spirito di Roma115. La letteratura popolare, di norma vicina al modo di sentire delle bande, ha interpretato secondo il proprio sistema di valori l’investimento che le donne meridionali facevano sui loro figli. Esemplare questa Ninna nonna calabrese: Lu sangu chi t’abbivara lu cori è di cui si criscìu dintra la Sila; tu fatti guappu, nsonduvè si mori,

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spezza a cui avanti a tia stendi la fila. Oh! oh! oh! Briganteiu, ninna no’. Si a patrita mu agguali no nsi griju, si timisci di voscura o sordatu, jieu di mo ti jestimu, o picciriju: – Vipara mu ti ntossica lu hijatu. Oh! oh! oh! Briganteiu, ninna no’116.

Le madri del Sud erano depositarie dei valori e dei miti collettivi alla luce dei quali conferivano alla discendenza una plasmazione forte e violenta. Condividevano la violenza dei maschi e dell’intera società, ma, poiché alla maggior parte di loro era negata l’esperienza del combattimento, “esse reagirono offrendo e sacrificando i corpi dei loro figli, fidanzati e mariti, sui campi di batta-

Gell: 234. Pa-R: 619; Rizz: 36; Comune di Potenza, Indici dello Stato Civile, Atto di nascita n. 125 del 6 marzo 1865; ved. Rest: 72. “Po”: 15/3(1866. “Il sangue che ti abbevera il cuore / è di chi è cresciuto nella Sila; / tu fatti guappo, dovunque si muore, / spezza (la vita) a chi ti contrasta. / Oh! oh! oh! / Brigantello, ninna nonna. // Se non sei in grado di uguagliare tuo padre, / se hai paura dei boschi o dei soldati, / sin da adesso io ti bestemmio, piccolino: / Una vipera ti possa attossicare il fiato (l’anima)”. Il testo fu donato da Vincenzo Ammirà, poeta dialettale calabrese, a T. Papandrea, che lo pubblicò come canto del circondario di Nicastro (Papa), insieme alla seguente ninna nonna: “Veni addurmentati / subbra a stu sinu / la hiocca è mammata / tu puricinu / chi sutt’a l’ala / si ngrugna e sta. / O brigantuzzu / la ninna fa. // S’occhiuzzi chiudili, / quantu sì caru! / Tutti guardatilu / già ci mbilaru, / pari lu suli / chi si ndi va. / O brigantuzzu / la ninna fa. // Dormi: si orfanu, / lu patri amatu / a tradimentu / t’hannu ammazzatu, / di ccà squatrigghi / sbirri di jià. / O brigantuzzu / la ninna fà. // Vint’anni, cridimi, / no ntoccau tila; / dormia nta l’erbi / ch’avi la Sila, / pe di chiù stessu / senza pietà. / O brigantuzzu / la ninna fà. // Crisci, vindìcalu / cà nci si figghiu / nommu si timitu / comu conigghiu, / sperditi, dassa, / casa e città. / O brigantuzzu, la ninna fà. // Crisci: t’aspettanu / brava scupetta, / cervuni e zainu, / nova giacchetta, / cu lazzi d’oru, / comu si sa. / O brigantuzzu / la ninna fà. // Jiieu vorria vìvari, / palumbu meu, / e mu fai quantu / ti cantu jieu, / e poi mu moru, / filicità! / O brigantuzzu / la ninna fà”: ossia: Vieni, addormentati/ su questo seno, / tua mamma è la chioccia, / tu (sei) pulcino / che sotto l’ala / si ingrugna e sta. / O brigantuzzo / fà la nonna. // Chiudi questi occhiuzzi / – quanto sei caro! – / guardatelo tutti, / già gli si sono velati, / pare il sole / che se ne va (tramonta. // Dormi: sei orfano, / l’amato padre / a tradimento ti hanno ammazzato / di qua squadriglie, / sbirri di là. // Per venti anni, credimi, / non toccò lenzuola, / dormiva nell’erba / che ha la Sila, / per di più, / senza pietà. // Cresci, vendicalo, / perché sei suo figlio, / non esser timido / come un coniglio, / datti alla macchia, lascia / casa e città. // Cresci: ti apettano / un valente schioppo, / il cervone e lo zaino, / una giacca nuova / con lacci d’oro, / come si sa. // Io vorrei vivere, / o mio colombo, / finché farai quello / che io ti canto, / e poi (vorrei) morire, felicità!”. I due testi sono stati riproposti in Sca1: 134-36). Soprattutto il secondo testo deve essere stato fortemente rimaggiato da Ammirà, se non è proprio una sua creazione. Entrambi i testi tuttavia, come quasi tutta la produzione poetica di Ammirà, rispecchiano un modo di sentire diffuso, se non propriamente brigantesco (su Ammirà e il mondo popolare cfr. Sca6). Entrambi i testi sono stati ripubblicati in Sca1: 134-36.

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glia. Grazie a tale violenza, esse si sono guadagnate il diritto al dolore”117. Le brigantesse appartenevano a quella minoranza alla quale non era interdetta la partecipazione diretta alla guerra e la condivisione operativa della violenza, ma con esse era in larga sintonia il mondo morale femminile delle campagne. Anche le contadine, le braccianti, le carbonaie, le serve di casa sognavano di fare dei figli rampolli forti e temerari, capaci di abbattere i nemici, resistere alle intemperie, reggere la dura vita del bosco e affrontare i soldati: sostituti dei genitori estinti o caduti, essi dovevano garantire la continuità di uno stile di vita, contiguo a quello del brigantaggio, di cui esse erano intensamente partecipi e testimoni. Come è stato detto delle donne della mafia, “la nascita del figlio maschio concede alla donna, seppur come riverbero, una partecipazione allo splendore del principio maschile – principio dominante nella sfera pubblica – e, contemporaneamente, le dà la possibilità di modellarlo, di legarlo, di renderlo dipendente e di farlo suo per interposta persona – nel privato”118. Dei figli dei briganti nati nel carcere o alla macchia, generati da brigantesse o da altre donne, si sono perse quasi interamente le tracce, fin nei documenti scritti, che sono andati perduti o sono stati distrutti. Il capobanda Pietro Monaco aveva un rifugio nel territorio di Cotronei, alle pendici della Sila, nelle grotte di Rivioti, scavate in un dirupo roccioso, pressoché inaccessibile. Qui si in contrava con una amante, Rosa Fabiano, proprietaria dello stesso bosco. Ancora oggi i proprietari, discendenti di Rosa, portano come sopran Bouj: 299. Sieb: 96. 119 Cal2: 384, 387. 117 118

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nome “i Petramonaca”, a ricordo di Pietro Monaco. In Cotronei risulta bruciato il registro dei nati del 1860, e la gente narra che il libro di tale data fu bruciato perché vi erano annotati due gemelli dichiarati nati da Rosa Fabiano, invece i bambini erano uno, Michele, di Maria Oliverio, moglie del capobanda, e l’altro, Pietro, di Rosa Fabiano119. Il paragrafo I ruoli familiari è stato scritto in collaborazione con Simona Piera De Luna.

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antropologia e storia

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Donne in guerra: il brigantaggio femminile postunitario Simona Piera De Luna

Combattenti e fiancheggiatrici

I

l fenomeno del brigantaggio femminile postunitario rimane ancora poco indagato, riassorbito nell’epopea del Grande brigantaggio. Di frequente le brigantesse vengono confuse con le manutengole, che erano legate ai briganti da rapporti di complicità: li rifornivano di vettovaglie, armi e munizioni, li ospitavano e nascondevano in casa propria, li tenevano informati dei movimenti delle forze dell’ordine e di tutto ciò che poteva risultare utile nella preparazione dei sequestri. Pur nella coincidenza di alcune funzioni che spesso ne confondevano i ruoli, le differenze sono, sotto molti aspetti, radicali: le brigante vivevano nella clandestinità, (tra)vestite da uomini, nel tentativo di mimetizzarsi per non essere identificate, mentre le manutengole dimoravano nei paesi, di norma rispettate, perché in grado di intercedere presso i briganti, ma anche temute, perché capaci di compiere vendette e rappresaglie con il loro aiuto. Nel mosaico delle motivazioni che indussero giovani contadine indigenti ad abbandonare il paese e la vita normale per darsi alla macchia, non sempre è possibile

trovare una spiegazione univoca e che dia conto, esaustivamente, del come e del perché si diventasse guerrigliere. Pur nella cautela metodologica che una corretta analisi del fenomeno suggerisce, è necessario restituire alla riflessione antropologica lo spessore culturale della scelta delle donne del Sud che, con livelli diversi di consapevolezza, produssero una profonda lacerazione nel tessuto apparentemente compatto di un mondo semplicisticamente definito arcaico che, invece, magmaticamente, conteneva al suo interno i segnali del cambiamento. Le brigantesse se ne rendono interpreti: dopo aver “saltato il fosso” della normalità, nell’altrove interdetto dei boschi – luogo per eccellenza di insidie, ma anche di trasformazioni prodigiose, come la narrativa popolare di tradizione orale aveva codificato – tentano la riscrittura del proprio destino, operando un passaggio di status, simbolicamente sancito da un rito di iniziazione e dalla consegna delle armi, che segna una differenza decisiva rispetto alle manutengole. Significativamente diverso anche l’esito processuale della loro avventura: una volta scoperte e inquisite, le manutengole subivano condanne durissime, come la fucilazione, perché l’aiuto prestato 49

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ai briganti era interpretato come frutto di scelte consapevoli, mentre le brigantesse, come vedremo, pur essendosi macchiate di azioni ritenute delittuose, che prevedevano la morte o il carcere a vita, ebbero pene molto più lievi, perché agli occhi dei giudici esse avevano agito in regime di costrizione. Non sempre tuttavia le manutengole si limitavano a rifornire, informare, ospitare i briganti; a volte, quelle dotate di più forte personalità e intraprendenza raggiungevano segretamente le truppe brigantesche e prendevano parte alle loro azioni di guerra e di rappresaglia, vestite da maschi. Vivevano così un doppio ruolo: informatrici mansuete in paese ed erinni furiose alla macchia. Una volta accolte nella banda, le brigantesse, invece, non rientravano più nel paese, a parte qualche eccezione, dovuta al fatto di non essere ancora state individuate come fuorilegge, o, più raramente, in seguito a un temporaneo ripensamento, se non a un definitivo pentimento. Era, comunque, una scelta rischiosa: Rosa De Reo di Corano si era aggregata alla banda Marco per seguire il proprio amante; il 3 agosto 1865 fece ritorno in paese, ma la Guardia Nazionale ne fu informata e la arrestò1. Il tentativo di negare la specificità della partecipazione delle donne al brigantaggio meridionale, all’indomani dell’unità, ha determinato, di fatto, l’assimilazione delle brigantesse alle “donne di piacere mercenarie”. Anche se i confini in qualche caso sembrano labili, la differenza è sostanziale: le brigantesse erano membri effettivi e stabili della banda, pressoché cogli stessi diritti e doveri dei maschi, mentre le donne di piacere erano

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“Gio”: 1/9/1865. Lich: 41. Moe3: 83, 94-95, 103, 107, 214.

per lo più avventizie; la briganta, di norma, apparteneva soltanto al proprio uomo, mentre le altre erano “a disposizione” di tutti i maschi della banda; queste ultime erano remunerate per le loro prestazioni sessuali, mentre le brigantesse non percepivano denaro, se non quello derivante dalla spartizione del bottino. L’equiparazione delle brigantesse alle meretrici, che troviamo in qualche documento, era il frutto di una confusione, che nasceva dalla incapacità di inquadrare un fenomeno del tutto nuovo e per molti versi destabilizzante. Per il sequestrato svizzero Lichtensteiger le brigantesse “per lo più sono rozze prostitute di campagna, che per libera scelta danno via il loro onore per amore del denaro che sperano di guadagnare, e perciò molte di esse sfuggono anche alla giustizia. Solo poche sono spinte nei boschi dall’amore per un brigante”2. Quelle conosciute dallo svizzero nel maggio 1865 sono le stesse incontrate dall’inglese William Moens, sequestrato qualche mese dopo dalla stessa banda: nelle pagine di quest’ultimo ogni brigantessa ha il suo uomo e tutte, anche se con diverse modalità, esprimono valori e sentimenti di una serena normalità3.

Come si diventa brigantesse Anche se in molti casi le donne diventarono brigantesse per stare accanto al loro uomo, spesso esse aggiunsero alla motivazione affettiva l’attrazione per la vita brigantesca, trasformando l’avventura dell’amore nell’amore dell’avventura. Intensi rapporti

antropologia e storia

sentimentali segnarono la vita di Giuseppina Vitale, Maria Domenica Piturro, Maria Capitanio, Filomena Pennacchio, Maddalena De Lellis, Rosa Todisco, Filomena Di Pecora, per citarne solo alcune. Maria Maddalena De Lellis nacque l’8 agosto 1835 a San Gregorio Matese, in Terra di Lavoro, in una famiglia di estrema indigenza; sposò un contadino di un paese vicino, Montorfano, dove si trasferì. Fu un matrimonio infelice. Suo marito fu arrestato con l’accusa di brigantaggio; la donna, rimasta sola con un figlio di sette anni e la madre semicieca, dovette provvedere alle necessità della famiglia, con i magri guadagni provenienti da qualche piccolo lavoro agricolo e dalla raccolta della legna nei boschi vicini4. Nell’opinione comune era una bella giovane dal temperamento ribelle, e i fatti dimostrarono quanto fosse vero. Nell’autunno del 1864, incontrò nei campi il capobrigante Andrea Santaniello, in divisa di ufficiale borbonico, e ne rimase affascinata: “Di fisico alto, ma con naso molto schiacciato, tanto da renderlo non proprio bello, era un uomo di 33 anni che portava i distintivi alla borbonica (…). Indossava la divisa, ed al gilet portava attaccata una piastra di 12 carlini d’argento come medaglia”5. Santaniello era nato a Bracigliano, un piccolo paese del salernitano, il 28 maggio 1832. Fu soldato borbonico e con il grado di caporale combatté al Volturno; dopo la caduta di Gaeta seguì il re in esilio a Roma, rimanendo legato alle organizzazioni di resistenza legittimiste. Nel marzo 1863 partì da Civitavecchia con 25 uomini e guadagnò le montagne del Matese, per aggregarsi al gruppo di Cosimo Giordano,

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diventandone il luogotenente. Non condivideva i metodi del capo, per cui si allontanò, per aggregarsi alla banda di Libero Albanese, ma nell’estate del 1864 ne formò una propria, cui diede una organizzazione militare che, accanto all’abilità mostrata nel condurla felicemente negli scontri, contribuì a fare di lui un personaggio mitico, invulnerabile – si affabulava – ai colpi di fucile. Maria Maddalena si mise prima al servizio del brigante come manutengola, rifornendo la banda di viveri e biancheria. Ma era diventata anche la sua amante, lo raggiungeva di giorno, sui monti, mentre la sera rientrava al villaggio. Nel novembre del 1864, tornando da un incontro con Santaniello, fu avvisata dai vicini di casa che i soldati la cercavano per arrestarla; Maddalena tornò indietro e si unì alla banda. Aveva ventinove anni. Quattro mesi dopo, nel marzo 1865, la comitiva tese una imboscata a cinque guardie nazionali, sequestrò ad esse i fucili e Santaniello ne consegnò uno a Maria Maddalena, che da allora partecipò attivamente alle azioni della banda. L’amore per il brigante aveva fatto di lei una manutengola, la paura della carcerazione fece della manutengola una brigantessa. Nel febbraio del 1865 il duro regime di detenzione aveva stroncato la vita di suo marito, e Maria Maddalena si votò completamente alla lotta armata. Il 16 aprile dello stesso anno l’esercito circondò San Gregorio e arrestò tutti i parenti della brigantessa, con l’obiettivo di costringerla a costituirsi, ciò che tuttavia non fece, ben consapevole che, costituendosi, avrebbe potuto rischiare persino la fucilazione, senza risolvere peraltro il problema del figlio che sarebbe rimasto,

Ferr: nov. 208, 25. Palu: 229.

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ancora piccolo, senza famiglia, abbandonato a se stesso6. Rimarrà alla macchia fino a che Santaniello non sarà ucciso a tradimento. L’idea che le brigantesse evadessero da situazioni familiari insostenibili era molto diffusa tra la gente. Lo dimostra in maniera esemplare la storia, in larga misura inventata, ma popolarmente nota, anche per merito dei cantastorie, del passaggio alla macchia di Filomena Pennacchio, che sarebbe diventata brigantessa dopo aver assassinato il marito ossessivamente geloso. In effetti non furono pochi i casi di donne che scelsero la fuga sui monti per spezzare rapporti coniugali assopiti nell’indifferenza o irreversibilmente segnati dall’odio. Nel 1862 la Guardia Nazionale di Rapolla fucilò una donna che aveva fatto uccidere suo marito da un brigante per seguire quest’ultimo7. Come vedremo, solo raramente le forze dell’ordine passavano per le armi le brigantesse; evidentemente, alla luce dei casi qui brevemente esaminati, il tradimento coniugale che disonorava il marito, specie se associato al delitto, era considerato un’aggravante che giustificava un intervento di giustizia sommaria, sulla base dell’indignazione del momento: nel 1869, nell’area di Vasto e Lanciano, viene colpita una brigantessa, Vittoria Di Giovanni, sposata Polidori, che era diventata amante di un brigante, fucilato accanto a lei. La donna, “abbenché ferita mortalmente nel viso e nel corpo, non volle svincolarsi dal suo amato in quella mezz’ora che ancora gli restò di vita”8. 8 9

Analoga dovette essere la storia di Maria Carmina Valente, di Cusano, brigantessa del Matese, che, sposata a Pasquale Pecoraro, fu l’amante del brigante Gerardo Autunnale, disertore dell’esercito italiano9. Nell’ottobre 1861, a Pagani, Lucia Pepe lasciò il marito Salvatore D’Avino per fuggire col brigante Agostino Visconti10. Non è del tutto fondata l’idea secondo cui le motivazioni di ordine sociale e politico furono estranee alla scelta di diventare brigantesse. Angela Maria Consiglio, giovane donna, nata a Rionero in Vulture nel 1834, aveva sposato un bracciante, Francesco Tardugno, detto Bomba, ed entrambi, dopo avere vanamente sperato dalla rivoluzione liberale il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, si aggregarono alla banda Crocco nell’aprile 1861 e poi ad altre bande a lui collegate11. Da Ruvo del Monte proveniva Elisabetta Blasucci, nata nel 1834, madre di quattro figli, bracciante, con piccoli reati alle spalle. Suo marito, dopo la delusione dei primi anni sessanta, si diede alla macchia, ma fu presto preso e fucilato. Fu allora che Elisabetta, per vendicarlo, ne sposò la causa e si aggregò alla banda di Pio Masiello. La più politicizzata delle brigantesse fu forse Cherubina Di Pierro (o Pierro): nata a Ferrandina nel 1826, dopo l’unificazione organizzò la banda dei Ferrandinesi, aggregandosi alle bande di Stancone, Egidione, Cappuccino, ma conservando una sua autonomia. La si vedeva cavalcare sola, per le campagne, a

Ferr: genn. 209, p. 21. Ved. Sca-Del: 10. AUSSME, b. 134, fasc. 5, c. 80. ACS, Roma, c. 37, processo n. 27 contro Maria Valente e altri, deposizione del Settembrini del 10 maggio 1864 al Trib. Mil. di Guerra di Caserta. 10 Tra: 111-12. 11 Sca-Del: 12-13; Varu: 206-07. 6 7

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fare proseliti, inneggiando a Francesco II12. Non sappiamo quanto pesasse la fede legittimista nella scelta di non poche donne di prendere parte alla guerriglia brigantesca, dopo aver partecipato alle rivolte contadine degli anni 1860-1861. Questi casi sottolineano la continuità, che spesso ci fu, tra le insurrezioni popolari e il brigantaggio. Beatrice Martinelli fu tra gli “insorgenti” dei fatti di Melfi nell’aprile del 1860, prima di aggregarsi alla banda Coppa. Carmela Di Genova, nata a Ripacandida nel 1833, partecipò ai moti legittimisti del 1861, poi raggiunse alla macchia il marito Michele Di Biase. Era madre di due figli. In uno scontro a fuoco del 9 gennaio 1862 i soldati, dopo aver ucciso il marito, fucilarono anche lei, mentre la conducevano prigioniera in paese13.

Il carcere, pozzo senza fondo Non mancarono, dunque, le motivazioni politiche, sia pure mescolate ad altre ragioni. In Francavilla Sinnica viveva la famiglia Ciminelli, piccoli massari che godevano di un minimo di benessere, filoborbonici, rimasti tali anche dopo il 1860 e per questo invisi in paese. Ma fu l’unificazione nazionale a sconvolgere la loro vita: il cugino Antonio Franco si dà alla macchia, diventando in breve il più celebre capobanda del territorio, e i Ciminelli diventano i suoi manutengoli; il capofamiglia è arrestato il 9 giugno 1862, perché trovato nel luogo in cui era stato sequestrato e ucciso un possidente; il 15 settembre 1863 è arrestata e condannata a 10 anni anche la

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moglie dopo che, su indicazione di un delatore, in un’aia vicina alla sua masseria viene dissotterrata una cassa contenente gioielli, stoffe e una carabina, un “tesoretto” consegnatole da Franco; la donna dopo l’arresto fu processata ed assolta, perché, secondo i giudici, “miserabile sventurata”, aveva subito la “pressione morale” della famiglia, ma in seconda istanza viene condannata ai lavori forzati a vita, successivamente ridotti a 10 anni. Dopo questi fatti era diventato difficile per la famiglia Ciminelli vivere in paese. Ne soffre la figlia Mariateresa, nata il 14 agosto 1841, sposata al contadino Vincenzo Mainieri: una giovane donna “di statura giusta, fronte alta, occhi cervini, bocca giusta, capelli neri, sopracciglia nere, viso tondo, colorito naturale”, che lavorava nei campi e d’inverno faceva la filatrice. Più piccola e delicata, quasi una bambina, Serafina, nata il 5 febbraio 1844, è innamorata, riamata, di Franco. Le due sorelle diventano latitanti, abbandonando il paese dove la già precaria esistenza era diventata insopportabile, avvelenata da pettegolezzi ingiuriosi per lo più alimentati da gelosie e rancori pregressi. Nella banda le due donne indossano i pantaloni, come tutte le brigantesse, e “persino” (così si disse) gli stivali che, nell’immaginario collettivo, rappresentavano un tipo di calzatura prettamente maschile, al punto che il particolare che a farne uso fossero anche le donne venne ritenuto dai cronisti degno di menzione14. Le segue il fratello diciassettenne Fiore, mentre l’altro fratello, Lattanzio, è arrestato perché sospettato di connivenza con i briganti. È dato per certo che Serafi-

Roma: 108. DiCu: 68, 187. 14 In Ri-L: 373, 409. 12 13

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na abbia aderito al brigantaggio soprattutto per amore, ma la gente è convinta che anche Mariateresa sia la druda del brigante15. Dirà in tribunale che è stata colpa dei paesani a farla associare a Franco”16. Giuseppe Antonio Franco era nato l’8 ottobre 1832 a Francavilla in Sinni (PZ), un paesino di scarse risorse, popolato di braccianti disperati e di contadini poveri. Ancora piccolo, va a lavorare nei paesi vicini come forese e come pastore, al servizio di possidenti locali. Tra il 1855 e il 1857 va sotto le armi e diventa caporale. Sciolto l’esercito borbonico a metà del 1860, torna al suo paese, in una “casa povera e vuota di tutto”: è un ex soldato sbandato di un esercito sconfitto e non amato dai vincitori; chiede di essere arruolato nelle file sabaude, ma, per motivi non chiari, non ci riesce. Lo troviamo, subito dopo, “forbandito”, insieme ai primi briganti, anch’essi, per lo più, soldati sbandati, che lo designano capo. In parecchi casi, anche in presenza di una concomitanza di motivazioni, per le donne era la paura di essere arrestate come complici la spinta decisiva a fuggire dal paese. In virtù della legge Pica, quelle che avevano o erano sospettate di avere qualche legame con le bande potevano essere imprigionate senza un’accusa specifica, allo scopo di isolare i briganti, costringendoli a costituirsi. Ma nel Meridione postunitario era opinione comune che “uno, una volta in carcere, è perduto”17. I manutengoli, individuati come tali, temevano “come tutti i rozzi napoletani, di

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finire in carcere, dal quale pensava[no] che una volta entrat[i] non sarebbe[ro] più uscit[i]”18. A Napoli, durante un’irruzione della polizia nella casa di un prete, in cui si arruolavano legittimisti, si scoprì una ragazza nascosta sotto il letto, la quale fu costretta a raccontare tutto, “per non essere gettata nelle carceri delle prostitute”19. In molti casi fu questa la ragione, finora rimasta incomprensibile, per cui le donne, “se dapprima parteciparono alla lotta come favoreggiatrici, diventarono esse stesse in seguito – tra il 1863 ed il 1864 – brigantesse accanto ai loro mariti, amanti, fratelli, figli”20. Ed è questa la storia, per esempio, di Angela Cotugno, Michelina Di Cesare, Carolina Casale, Giuseppina Vitale, Filomena Miraglia, Maria Folino. L’orrore e la vergogna della detenzione motivarono l’adesione alla lotta armata di altre giovani donne che, macchiatesi di colpe anche non gravi, credettero di scegliere il male minore, per evitarne uno devastante. La prospettiva della carcerazione le terrorizzava non tanto per la misura restrittiva cui sarebbero state sottoposte, quanto per le molestie sessuali – fino al limite estremo dello stupro – che, impunemente, durante la reclusione venivano esercitate su di esse. Non di rado le donne delinquevano per motivi passionali o di onore: Filomena Soprano uccise per amore Giuseppe Desiderio; pur di non essere arrestata, abbandonò il paese per rifugiarsi nei boschi del chietino dove, ormai briganta, divenne la compagna del

ASP, Proc. di Val. Stor., cart. 328, 2; ACS, Roma, Trib. Mil. Str., b. 178, fasc. 2083-84. In Ri-L: 354. Frie: 133. Frie: 172. Monn: 54. DiTe: 209.

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capobanda D’Alena21. Il carcere non era solo prospettiva terrorizzante di diritti negati, ma anche ricordo lacerante della prevaricazione innalzata a sistema, la ferita non rimarginata di abusi reiterati, che segnavano irreversibilmente tanto gli uomini quanto le donne22, al punto che, usciti di prigione, essi prendevano la via del brigantaggio. Se non poche brigantesse diventarono tali per l’effetto devastante della carcerazione subita, lo stesso accadeva normalmente per gli uomini: Hue carceratu ch’ammazzai nu cane; giustizia de lu celu, quandu vene? Sett’anni mi ci stetti senza pane, vattutu e rruinatu ntra le pene. Ma nun cce caiu cchiù, no, ppe demane, ccà duve signu mi truovu bene; vuogliu morire ccà cuomu nu cane, handu giustizia ad autru ed a mie bene23.

Lo stupro, è inoltre oscuramente percepito dalle donne come la colpa infamante di chi lo subisce, al punto che esse da sempre, vergognandosene, non lo denunciano, rendendosi complici dei loro violentatori. Lo stigma sociale ostracizzante le marchiava come disonorate, facendone “donne perdute” si delinea così l’itinerario obbligato che portava alla scelta riparatrice della fuga nei boschi e l’assunzione dell’identità di briganta tra i briganti. Meglio briganta che donna violata: trova così spiegazione la storia di Teresa, una giovane della Valle del Liri: il suo fidanzato

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si era fatto brigante sulle montagne di Sora; una sera fu sorpresa da una pattuglia mentre si recava a portargli cibo e biancheria; il comandante le promise di ignorare il fatto, in cambio di favori sessuali, lei lo colpì a morte con una falce e scappò; i soldati spararono, spezzandole il braccio sinistro, ma Teresa raggiunse il suo uomo e rimase con lui24. Un dato interessante, emerso dai documenti di archivio, consente di aggiungere l’ultima tessera al mosaico delle motivazioni che spinsero le donne ad aggregarsi alle comitive. Non mancano i casi in cui l’ingiusta restrizione della libertà favorisce un processo di maturazione, che al sentimento della vergogna sostituisce un più consapevole rifiuto del sistema del ricatto istituzionalizzato. È una generosa testimonianza di disobbedienza la scelta di quante, nel rifiuto di protezioni e favori che sarebbero stati loro accordati in cambio di delazioni, seppero non prestarsi all’iniquo patteggiamento: una spia, assoldata dalle forze dell’ordine per ottenere le confidenze delle detenute, riferì che tale Maria, amante del brigante Ricco, detenuta “senza colpa alcuna”, a onta dell’ingiustizia subita, aveva manifestato la ferma intenzione di farsi brigantessa appena tornata libera25. Il rito di iniziazione. Rivestirsi e travestirsi Al loro ingresso nella banda le donne abbandonano i vestiti di contadine, vestono gli

Tor: 150. Vedine alcune impressionanti testimonianze in Padu: 146. 23 “Sono stato carcerato perché ho ammazzato un cane, / quando verrà la giustizia del cielo? / Sette anni sono stato in carcere senza pane, / battuto e rovinato in mezzo alle pene. / Ma non ci cascherò più in futuro, / ché dove sono mi trovo bene; / voglio morire qui come un cane, / facendo giustizia ad altri e a me bene” (canto brigantesco, pubblicato in Sca: 137). 24 Zimm: 70-71. 25 ASS, Prefettura, Gab., b. 54, f. 405, telegramma, 1868. 21 22

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abiti dei maschi e si tagliano i capelli, prima di ricevere le armi e il cavallo, come i briganti maschi. Abbiamo anche qualche traccia di rituali di giuramento. Questi comportamenti si registrano, a parte qualche variabile individuale o locale, in quasi tutte le aggregazioni femminili alle bande, il che induce a pensare che essi fossero previsti e prescritti. Il rito segna il passaggio da donna comune a brigantessa, consegna all’iniziata un bagaglio di conoscenze, regole e certezze attraverso un linguaggio di gesti ed azioni dotati di grande valore emozionale. La donna viene integrata nel gruppo con un conseguente acquisto di rispetto, protezione e sicurezza, ma al tempo stesso il rito definisce l’appartenenza alla banda in maniera definiva e irreversibile. Soprattutto nelle bande meno piccole, in cui non basta la parentela, l’amicizia e la conoscenza reciproca a cementare il gruppo, l’efficacia simbolica del rito si rivela decisiva per il compattamento delle comitive, assicurando l’assimilazione dell’elemento maschile e di quello femminile. Il rito è segreto, nel senso che si svolge all’interno della comitiva brigantesca e non è reso noto agli estranei. È, come vedremo, un travestimento, che assicura la “scomparsa” della donna all’esterno della banda e, all’interno, la sua identificazione (che è in parte confusione) con il gruppo dei briganti maschi. La documentazione esistente non ci consente di generalizzare l’uso, presente in molte bande, di cambiare o modificare i nomi delle brigantesse al momento dell’iniziazione: a Mariuccia Andreoli i compagni, dopo averla vestita da ragazzo, imposero il nome Coluccio; Maria Oliverio ebbe come soprannome

Ciccilla e Maria Domenica Piturro era nota come Cicillo, maschile. Questa rinominazione conferma che le intenzioni dei briganti non erano quelle di semplicemente vestire, ma travestire le donne da maschi. I nomi però venivano cambiati o modificati anche per motivi di sicurezza e per confondere le forze dell’ordine. Non a caso il più delle volte è il cognome ad essere alterato: Piturro veniva trascritta nei documenti ufficiali come “Veturra”, “Vitorre”, “Petulli”, e non si trattava semplicemente di errori di trascrizione, come talvolta accadeva26. Non abbiamo prove dirette che le brigantesse facessero il giuramento durante il rito di iniziazione, ma è legittimo ipotizzare che, come membri della banda a pieno diritto, anch’esse dovessero farlo, come i maschi, almeno nelle bande in cui il giuramento era previsto: a chi si associava alla sua piccola banda, Giacomo Parra ordinava: “Prima di avere la nomina effettiva di brigante, dovete profferire il giuramento di fedeltà ai vostri soci, sottoporvi a tutti i servizi necessari a dimostrare l’attitudine e il coraggio che si richiedono ad un bandito”. Chi aderiva alla banda del Sergente Romano, che contava oltre 200 uomini, doveva giurare fedeltà alla monarchia borbonica e alla religione cattolica. È difficile pensare che le donne fossero esentate da questo rito, che sacralizzava la loro appartenenza alla banda27. Il vestito delle brigantesse del periodo postunitario è pressoché identico a quello degli uomini. Portano l’abito maschile: camicia, giacca, cappello per lo più “alla calabrese” o foulard (più raramente, berretto), scialle, stivali o scarpe. Tutto solitamente di

Per queste notizie ved. spec. ASP, Tribunale di Guerra di Bari, Atto d’Accusa, fasc. 4; Rest: 161, n. 6. Per il rito del giuramento ved. DiBi in Chie: 192; per il Sergente Romano ved. Luc1: 118 e passim.

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buona fattura e di qualità, ad imitazione dei vestiti dei signori. Una fonte preziosa per la ricostruzione dell’abbigliamento delle brigantesse potevano essere i ritratti eseguiti dai fotografi dopo il loro arresto. Risultano, invece, largamente inaffidabili. Per ragioni diverse i militari e/o i fotografi assicurarono alle brigantesse catturate, in attesa di essere fotografate, un abbigliamento convenzionale e sfarzoso: le donne portano “una veste lunga fino ai piedi (di tela o di pannetto), col sovrastante sinàle o vantesìno fin sopra le ginocchia, la giacca corta detta juppone, la camicia bianca col giracollo merlettato che cade sul petto, le calze bianche e le scarpette di cuoio. Sul capo portano un fazzoletto, una specie di sciarpa rovesciata sul collo, nella Calabria cosentina detta u mende. Sarà necessario, pertanto, servirsi di altre fonti, documentali, artistiche e letterarie, tenendo conto della specificità dei loro linguaggi. L’elemento assolutamente nuovo per una donna contadina sono i pantaloni, gli stessi dei compagni maschi. L’uso rispondeva a una esigenza di ordine pratico, dal momento che per andare a cavallo era più comodo se non necessario per una donna portare i calzoni, in modo da cavalcare meglio e coperta. Dei pochi particolari che differenziano il vestito femminile da quello maschile i più notevoli sono il corsetto e uno strano

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gonnellino, per di più di seta, o una semplice gonna per lo più corta, che si portano sopra i pantaloni: un elemento minimo per distinguere agli occhi dei briganti stessi le donne dagli uomini. Filomena Pennacchio cavalcava portando sopra i pantaloni una gonna bianca. La documentazione fotografica conferma questo significativo dettaglio, che si ritrova in altre donne delle bande28. Le brigantesse, lasciate le calzature contadine, si abituavano presto a portare quelle dei signori. La loro aspirazione più grande era calzare buoni stivali. Con eleganti stivaletti che chiudono i pantaloni è rappresentata Maria Oliverio nelle fotografie pubblicate sui giornali dell’epoca, e per gli stivali alti era notata un’altra importante brigantessa, Maria Domenica Piturro29. Portare in ogni circostanza gli stivali non si addiceva alla condizione della donna, né tanto meno al suo stato di contadina, ed era perciò una scelta doppiamente trasgressiva, che rappresentava un segno distintivo di appartenenza alle bande, utilizzato dalla gente come un elemento per identificare le brigantesse: Mariateresa Ciminelli in occasione di un sequestro fu riconosciuta come brigantessa da un testimone perché “era stata vista con gli stivali, quindi faceva parte della banda”30. Per i briganti e le brigantesse gli stivali erano uno dei massimi titoli di nobiltà che si potes-



L’inglese Moens, che fu prigioniero del capobrigante Manzo per 102 giorni, ha lasciato informazioni preziose sulla vita quotidiana della banda: le brigantesse vestivano come i briganti, “l’unica differenza nel loro abbigliamento era costituita da certi piccoli indumenti senza stecche d’osso, che, credo, le signore chiamino corsetti” (Moe: 76). Per il gonnellino di seta, ved. Bour: 258, che ricorda Antonietta Laratro, quindicenne che Tortora rapì, fece vestire di un gonnellino di seta nera sui pantaloni e ornò di gioielli. Filomena Pennacchio incitava i suoi briganti alla battaglia, “in gonnella bianca e sopra un cavallo” (DiTe: 192). Delle donne fotografate Maria Lucia Di Nella porta una gonna sopra i pantaloni. 29 “Pou”: 5/3/1886. Una briganta lucana, forse la Piturro, fu vista nella banda di Egidione con stivali lunghi, vestita da uomo, cappello alla calabrese; gli uomini portano vestiti di velluto” (ASP, Atti e Proc. di Val. Stor., cartella n. 363/3; cfr. Varu: 64). 30 Ri-L: 231, 337. 28

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se conquistare, in quanto segni di appartenenza oltre che di sfida ai ceti superiori: “Io dovevo la mia ‘nobiltà’ ai miei stivali”, racconta il sequestrato Lichtensteiger31, sapendo quanto fossero apprezzati e concupiti dai briganti suoi carcerieri. Il vestito dei briganti maschi e femmine nella sua concezione di base è il vestito contadino locale, impreziosito, quando i mezzi finanziari delle bande lo consentivano, da elementi del costume borghese e signorile, con l’aggiunta stravaganze folkloriche e di elementi delle divise militari. La relativa uniformità, insieme a questi ultimi elementi, facevano dell’abbigliamento brigantesco qualcosa che somigliava a una divisa. Ma l’abbigliamento delle brigantesse presentava una maggiore complessità di quello dei maschi, essendo divisa e mascheramento al tempo stesso. Le brigantesse dovevano recidersi i capelli e in qualche caso li legavano e nascondevano dentro il cappello. I capelli lunghi costituivano un problema per chi doveva muoversi tra alberi e sterpi, attraversare siepi, cavalcare, fuggire per i boschi, usare le armi, ed andavano necessariamente accorciati. Ma il taglio dei capelli delle donne all’interno del rito dell’iniziazione acquistava una efficacia simbolica che andava probabilmente anche al di là delle intenzioni

dei briganti: nella società tradizionale esso è vissuto come una limitazione delle forze istintive che nella testa hanno la loro sede privilegiata: si tagliavano i capelli nelle prigioni, nei monasteri, negli eserciti, come segno di sottomissione volontaria o coatta; nel nostro caso può avere avuto il significato più o meno consapevole di accettazione delle regole comuni, nel momento in cui si entrava nell’esercito dei briganti. Ma la pratica era quasi certamente legata al bisogno di esorcizzare l’idea (o il rischio) della provocazione sessuale, quella che emana dalla suggestione della capigliatura abbondante, scomposta e fluente, la stessa idea che si ritrova nell’obbligo per le donne di coprire la testa all’ingresso nella chiesa o nei luoghi sacri. Il taglio dei capelli è il primo degli atti miranti alla deminutio della femminilità (nel caso specifico, nella sfera sessuale) a vantaggio della mascolinizzazione della donna. Nelle società che non si reggevano su regolamenti scritti, questi gesti simbolici acquistavano una rilevanza notevole e conferivano all’iniziazione gli elementi fondamentali dei riti di passaggio32. In aggiunta brigantesse e briganti portavano un “abitino” apotropaico, di solito regalato ad essi dai preti filoborbonici o preparato in famiglia33. Sul bavero o sui polsi

Lich: 59. Sul taglio dei capelli tutte le fonti concordano, non solo quelle archivistiche (per esempio, Luc1: 92). Rosa Martinelli si tagliò i capelli, vestì indumenti maschili e si pose in testa un berretto (Luc1: 96; Bour: 88). Moens tra i suoi sequestratori riconobbe cinque brigantesse “con i capelli molto corti” (Moe3: 76). Maria Lucia Di Nella (o Dinella), quando entrò nella banda si tagliò le trecce e vestì da brigantessa; Maria Giantommaso, rapita dalla banda di Nunzio Di Paolo, fu costretta a tagliarsi i capelli e a vestire un abito maschile (DeBl 28). 33 Padu: 26. Sull’“abitino” o “sacchetto” ved. Sc-De: 87: era “di stoffa rosa (per il sesso femminile) o rossa, spesso a forma di cuore. Quando la stoffa è nera, simboleggia l’abito della Madonna. Questi contenitori vengono riempiti da alcune anziane o dai preti o dai monaci del paese di ingredienti antifascino, che possono essere: sale (spesso solo tre acini o tre pizzichi); sabbia del mare; spilli; incenso; santini a cui si è devoti; triangoli di velluto nero o rosso; foglie di palma benedetta; tre pezzettini di foglie di ulivo benedette il venerdì santo; paglia delle sedie intrecciata in forma di croce; foglie o semi di piante anti-fascino; l’erba di muro; pietruzze di crocevia; tre pietre, una per ogni 31 32

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della giacca venivano invece cucite le figurine dei santi, che di solito erano quelli del proprio paese. Si portavano addosso anche amuleti benedetti dal papa o dal re. Talismani, immagini e oggetti sacri proteggevano dai proiettili e dalle sciabolate, e davano la speranza se non la certezza dell’invulnerabilità o almeno della protezione divina. Tutte le bande dell’Italia meridionale si consideravano sotto la protezione della Madonna. Anche se questo elemento magico-religioso nel brigantaggio meridionale non fu importante e incisivo come in quello dei banditi del Nordeste brasiliano o dell’Indonesia34, esso era costantemente presente, e conferiva forza alle bande, convincendole di stare dalla parte di Dio. Dalle dichiarazioni rilasciate dalle brigantesse dopo la cattura e da altri loro racconti risulta che sia il vestito maschile che il taglio dei capelli era imposto dai maschi, o per lo meno era nelle regole non scritte delle bande: “fui vestita da uomo – racconta Sceppella, come tante altre – e mi si tagliarono i capelli”35. Generalmente le brigantesse prigioniere tendevano ad alleggerire le loro responsabilità, il che non implica che fossero sempre del tutto menzognere. La donne che sceglievano o erano costrette a scegliere la vita brigantesca non erano donne qualsiasi, oggetto di semplice predazione: erano donne amate o molto desiderate, ed i briganti curavano molto il loro

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abbigliamento, sia quando esse dismettevano il vestito brigantesco, nelle più tranquille dimore dei manutengoli, lontane dalle bande e dai combattimenti, sia nei rifugi dei boschi e delle grotte, a cominciare dal momento in cui esse si spogliavano per indossare l’abito maschile. Perché “la vera sensibilità erotica, evocando l’immagine della donna, non manca mai di abbigliarla: vestirsi e spogliarsi, ecco il vero fulcro dell’amore”36. Tuttavia un singolare senso del pudore, radicato nelle consuetudini familiari dello stile di vita contadino, impone ai briganti maschi il rispetto della privacy femminile: essi di solito non assistono alla svestizione/vestizione delle donne, e, quando è possibile, affidano alle altre donne della banda il compito di accudire nell’operazione la nuova venuta o si fanno aiutare da esse nel vestirla: come nei rituali di nozze. Isabella Caramuta, dopo che viene posseduta da Francesco Franzese, è fatta spogliare dei suoi abiti dalla brigantessa Porzia Montanaro, che le dà un vestito da uomo37. Analoga, ma non identica, la vestizione Maria Giuseppa De Meo: dopo averla portata via, consenziente, da casa, durante una sosta, “Fuoco mi fece spogliare – racconta – dell’abito donnesco, facendomi vestire da uomo, che egli stesso mi somministrò, aiutandomi all’uopo e facendomi coraggio la druda di Cannone”38. Il nuovo abbigliamento attestava visivamente la promozione sociale garantita dal

strada, se si tratta di un trivio; pietruzze di mulino, di solito tre; pezzi di corda di campana, di norma tre; cuoricini rossi che si vendono a Natale; i capelli di qualcuno nato a gennaio, contro cui, notoriamente, nulla può il fascino; soldini, ec. Tutto in varie combinazioni, e secondo gli usi e le risorse locali e personali”. Hob2: 46. DiBi in Chie: 188. Mach: 81. ASP, Atti e Processi di Valore Storico, cartella n. 282/18. ASI, Atti di Polizia, Brigantaffio 1867, gennaio-dicembre, b. 6, fasc. Brigantaggio del mese di aprile.

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brigantaggio, e non poteva non produrre un notevole effetto sulla mentalità e l’immaginario delle genti delle campagne, a giudicare dall’attenzione che ad esso tutti gli osservatori del tempo dedicavano. I vestiti delle brigantesse dovevano risultare fastosi al confronto con i miseri panni di cui si erano liberate. Mariuccia Andreoli, contadina ventenne poverissima, prima di diventare brigantessa portava “una veste di lanetta bianca con fiori, due sottanini, un fazzoletto bianco per la testa, ed un grembiale”39. Nella foto di gruppo della banda Ciardullo in cui compare Agnese Percuoco col marito Vincenzo Letteriello, la donna non è vestita da brigantessa (la sua è una delle pochissime foto delle brigantesse senza il mascheramento e la messa in posa teatrale voluta dai fotografi e dai militari) e porta il vestito povero e il copricapo delle contadine dell’area di Campagna. Le brigantesse erano le compagne dei capi, i quali portavano abiti con maggiori pretese rispetto a quelli dei gregari, ed erano perciò vestite in maniera più accurata dei briganti comuni, amavano le stoffe pregiate e portavano gioielli. Il nuovo vestito diceva non solo l’affrancamento dalla povertà e dal bisogno, ma anche il nuovo ruolo sociale, la condizione privilegiata all’interno della banda. Per i briganti i vestiti di lusso, insieme ai non infrequenti pranzi da signori, erano i fondamentali beni ostentatori, che segnalavano il cambiamento delle condizioni di vita e del ruolo sociale, e non urtavano la sensibilità della gente comune, che leggeva in essi

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i segni del potere e della forza della banda. D’altra parte la banda è una piccola società meritocratica, portata a premiare i capi, di cui si riconoscono capacità e valore, e da cui dipende la vita di tutti. Alcune descrizioni conservate nelle carte processuali attestano ampiamente la qualità del vestiario e della biancheria delle brigantesse: Maria Giovanna Tito consegnò alla famiglia del manutengolo Raho “una vesta (sic) di seta di colore d’arancio, e un paio di scarpe di seta, ed un altro paio di vitello inverniciate, una gonnella di castoro e lo specero (?) pure di castoro nero, quattro camicie di muscolina da donna, tre paia calzate, due di lana, e l’altro di filo, e un grembiale di cotone, quattro fazzoletti, e due salviette”40. Nel vestito delle brigantesse si possono anche registrare differenze locali, che rappresentano una sottolineatura del carattere territoriale delle bande: Rosa Cedrone, che operava nell’area di Sonnino (LT), quando fu uccisa in combattimento il 7 febbraio 1866 era “vestita da uomo, con ciocie e stringhe alla regnicola, calzoni di mezza lana color tabacco, fascia rossa alla cinta, gilé con ventriera per cariche, giacchetto di mezza lana, camicia da donna, maglia di lana, cappello alla come ci pare, due anelli d’oro”41. Meno etnicamente connotato il vestito della brigantessa della Sila, Maria Oliverio, che portava “gilé di panno a colore, giacca e pantaloni lunghi di panno nero e il capo avvolto in un fazzoletto”42. Cherubina Di Pierro indossava pantaloni bianchi, cappello

DeLu: 31. Sang: 179-80. ASFr, Direzione di Polizia, Malviventi e briganti, miscellanea b. 301, f. 713. Roma: 142. Maria Oliverio nelle fotografie porta il cappello conico dei briganti, ma le brigantesse prigioniere di solito venivano fatte rivestire e mettere in posa dai militari e dai fotografi.

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con fettucce di velluto nero e braccialetti di ferro43. Maria Domenica Piturro portava il solito cappello “calabrese”44. Una misteriosa e avvenente Caterina, che combattè l’8 aprile 1862 a Lucera (FG), “vestiva una giubba di velluto nero, calzoni bleu con fascia bianca, e un turbante in testa”45. La vestizione/travestimento delle donne era una regola normalmente seguita, ma non drasticamente applicata. Maria Rosa Marinelli pare abbia ottenuto di non indossare abiti maschili, metteva sempre un fazzoletto sul capo e portava armi solo quando non poteva farne a meno46: lo faceva per non sacrificare la sua avvenente femminilità, che affascinava i briganti, i quali in non pochi casi mostrarono di assecondare i capricci e la vanità delle loro donne. Per questo motivo alcune brigantesse non si tagliarono i capelli, e curarono la loro capigliatura abbondante e folta, che però potevano nascondere sotto il cappello brigantesco. Non è provata l’ipotesi che questo servisse a “far passare attraverso le perquisizioni messaggi compromettenti chiusi in rotolini di carta nascosti fra i riccioli”. C’era poi chi, come Maria Domenica Piturro, alternava vestiti femminili a maschili, o come Carolina Casale, che – dichiarò in tribunale – quando era vestita da uomo, non portava armi, anche se riesce difficile crederle. Mariuccia Andreoli, appena

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ventenne, considerata non troppo affidabile, fu fatta vestire da uomo giovane con “maglia di flanella a guisa di casacca, calzoni di cotone grigio, scarpe piuttosto sottili e cappello basso alla contadina”47.

La consegna delle armi e del cavallo Come si dimostra in un altro studio di questa rivista, la presenza nelle bande di donne combattenti era in parte vissuta come una minaccia per l’identità maschile e per l’idea che la sorreggeva, del combattimento come prerogativa del maschio e dimostrazione radicale della sua virilità. “Lo spettro delle donne combattenti ossessionava molti uomini e minacciava dal punto di vista fisico e militare la loro idea di virilità. Se vederle in uniforme era teoricamente castrante, si può immaginare che effetto provocassero le donne con le armi”48. Le donne che entravano a far parte della banda venivano armate di fucile con bandoliera, pistola e pugnale, come i maschi. Anche a proposito delle armi le descrizioni degli scrittori militari sono le più attendibili, insieme ai verbali degli arresti o del bottino: l’arma principale dei briganti è costituita dal fucile, che di solito è una schioppetta a due canne o una carabina a percussione, spesso

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Roma: 108. ASP, Atti e Processi di Valore Storico, cartella n. 363/3. “Pu”: 12/4/1862 Poli: 15-16; ASP, Corte di Ass. di Potenza, Proc. 1861- 1902, cartella n. 432/72, interrog. di M.R. Marinelli. Le notizie concernenti la Marinelli fornite durante il processo dall’avvocato difensore e da testimoni compiacenti non sono del tutto affidabili; che la Marinelli portasse armi è attestato inequivocabilmente da altri testimoni. 47 Per queste notizie ved. ACS, Roma, Trib. Mil. di Guerra per la Repr. del Brig., b. 17 (Chieti), fasc. 1326 (1864); ASP, Tribunale di Guerra di Bari, Atto d’accusa, fasc. 1; ASC, Tribunale civile e correzionale di Napoli, Verbale di querela o denuncia orale, Mignano, 12, marzo 1868, fasc. 14. 48 Bourk: 295. 43 44

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egregiamente intarsiate, che portano a tracolla o tengono appesa al fianco destro del cavallo; la cartucciera, contenente da 32 a 64 colpi, stretta alla cintola “ad uso di giberna”, assicura un pugnale lungo, somigliante a un coltellaccio, e una pistola. Tuttavia, se alcuni hanno fucili eccellenti, un numero inferiore dispone soltanto di “pessimi fucili ad una canna di corta portata”49. Michelina Di Cesare seguiva il capobanda Guerra “armata di un due colpi mozzato”, oltre che di pistola. Alcune brigantesse compaiono in alcune occasioni armate di armi improprie o bianche: Chiara Di Nardo fu vista una volta armata di una “grossa scure”, ma non sappiamo perché; Giuseppina Gizzi teneva stretta un’ascia accanto a sé quando dormiva. Abbiamo notizie di brigantesse che stavano nella banda disarmate, ma queste informazioni vengono dagli stessi briganti o dalle loro compagne e sono largamente inattendibili, perché mirano a discolpare le donne: Maria Giuseppa Di Meo, compagna di Fuoco, dichiarò alla polizia durante l’interrogatorio che le due donne della banda, Gioconda Marino e la non ben nota Peppina l’Abbruzzese, erano “vestite da uomo, però disarmate”. I briganti non dovevano avere molta fiducia nelle qualità di Mariuccia Andreoli, forse anche per la giovane età, se non

le furono mai date armi da fuoco, ma solo, qualche volta, una scure. La consegna delle armi da fuoco alle donne significava conferimento di potere, e rappresentava un fatto sconvolgente nel sistema ideologico della società tradizionale. Per di più, le armi erano (anche se non sempre) le stesse che portavano i capibanda, e conseguentemente armando le donne alla loro maniera, le si innalzava al rango dei capi: delle due donne che militavano nella banda di Francesco Guerra e di Domenico Fuoco, “quella di Guerra” (ossia Michelina Di Cesare) “è anch’essa armata di fucili a due colpi e di pistola. I capi della banda sono armati di fucili a due colpi e di pistole”; Luisa Mollo, amante di Barone, portava due pistole alla cintola50. L’amore delle armi è forte e intenso tra i briganti. “Ognuno sa che qualsiasi cacciatore considera e definisce il proprio fucile come il migliore nel raggio di cento miglia. Questo rapporto fra l’arma e il suo portatore lo si trova anche tra i briganti”. Il brigante non ha una cura eccessiva del proprio corpo, per ragioni che si possono capire, ma “la sua arma la mantiene immacolata” e le dedica un notevole lavoro per pulirla e metterla a punto durante i periodi di inattività51. Le brigantesse vengono dotate di cavalli, come tutti i membri delle bande non appie-

Lich: 48, 60;ASP, Atti e Proc. di Val. Stor., cartella n. 282/18; cfr. Varu: 60. Tra i briganti “alla cintura ogni uomo, ed anche ogni donna, portava il pugnale e una bandoliera ben fornita di cartucce” (Cesa: 132; confermato dalla quasi totalità delle fonti). Delle brigantesse conosciute da Moe3 due portavano fucili, le altre tre i revolvers (Moe3: 76). Michelina Di Cesare entrando nella banda si tolse il corpetto ed il grembiule, indossò i pantaloni e il farzetto e si armò del fucile. ACS, Tribunale Militare Straordinario, interrog. di F. Pennacchio, 28 novembre 1864; ACS, Roma, Trib. Mil. di Guerra per la Repr. del Brig. nelle Prov. Merid., b. 117, fasc. 1326. 50 Notizie sulle armi delle brigantesse si trovano ancora in Bour: 92; DeWi: 293; ASFr, Direzione di polizia, b. 412, Registro briganti e squadriglieri della provincia di Frosinone; ACS, Tribunale Militare Straordinario, Processi 1871, interrogatorio di D. Compagnone, 11 maggio 1865; ASS, Tribunale Civile e Correzionale, Corte d’Assise, b. 67, fasc. 964; DiBi in Chie: 195; ASI, Prefettura d’Isernia, Atti di polizia, Brigantaggio 1967, gennaio-dicembre, b. 6, fasc. Brigantaggio del mese di aprile 1867; Dip2: 268; Lich: 60. 51 Lich: 60. 49

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date; li bardano, come gli uomini, “con una coperta di lana doppiata e una sella con lo scheletro di legno, ma leggero; sopra questo dispongono una pelle di capretto o altro; li tengono sempre insellati e li nutrono di ottima avena. Quando devono partire, empiono una bisaccia di avena ed una di viveri per loro”. Per non appesantire la cavalcatura portano il minimo indispensabile, che varia a seconda dei bisogni individuali, che a volte differiscono da quelli degli uomini: dal cavallo di Filomena Pennacchio durante una fuga caddero “un ombrellino bianco, una morbida pelle per sella, una coperta e un cappotto”. Il cavallo era utile ai briganti per l’attacco come per la fuga, e le brigantesse diventarono ottime cavallerizze. Ma svolgeva anche una importante funzione simbolica. Il possesso e l’uso di una cavalcatura “nobile”, di norma estranea alla condizione della donna contadina, “innalzava al piedistallo della grandezza e della maestà”, enfatizzava vistosamente il cambiamento di status, da contadina a soldatessa52. Di queste cavallerizze è rimasta famosa la misteriosa Caterina della banda Coppa, sopra ricordata: guidava insieme al capobanda una comitiva di circa 200 uomini che, nei pressi di Lucera, l’8 aprile 1862, ebbero un epico scontro con un centinaio di cavalleggeri: l’avvenente amazzone stava per soccombere, quando fu salvata dal suo cavallo, che “saltò una fossata di 12 palmi di larghezza”. “Vuolsi sia una nobile dell’alta Italia”, riportarono i giornali53.

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Strategia e trasgressione L’abbigliamento delle brigantesse presentava connotazioni fortemente trasgressive: armate fino ai denti, queste amazzoni contadine oltre che per la naturale avvenenza e l’eleganza del vestire, meravigliavano e inquietavano la gente per i segni di promiscuità, che vedevano inscritti nel loro stesso abbigliamento, per l’uso dei pantaloni e il taglio dei capelli, l’uno e l’altro interdetti alle donne nella vita normale dei paesi meridionali. Il loro vestito collaborava col loro comportamento nel farle individuare come figure diaboliche e streghe – quello che era toccato a Giovanna d’Arco, la contadina che s’era tagliata i capelli e aveva indossato l’abito maschile per fare la guerra –, tanto più che nelle tradizioni religiose popolari di tutta l’Europa il taglio dei capelli era riservato alle possedute dagli spiriti o dal demonio. Ma il rito aveva una sua interna ambivalenza: si tagliano i capelli anche alle monache, in segno di umiltà e sottomissione; la Pulcella d’Orleans, vestita da uomo con i capelli a scodella, se per alcuni è strega, per altri è la “guerriera di Dio”. Come le brigantesse. Il loro abbigliamento, assolutamente non convenzionale, né “civile” né contadino, maschile con segni femminili, era motivo di meraviglia e di scandalo anche per i soldati che combattevano i briganti. A loro giudizio quelle donne si vestivano “deturpando con abiti strani l’indole e la grazia femminile, e lasciando tristi ricordi di sfacciata libidine e di atti eroici”54.

Bour: 92, 90; “Pu”: 1/12/1862; I briganti avevano la passione dei cavalli. Il caso estremo è rappresentato da Nicola Morra di Cerignola: “avere una buona cavalcatura era per lui non solo una necessità, ma quasi un segno di riconoscimento, un segno di nobiltà” (Ma-Fa: 215). 53 “Pu”: 1/12/1862. 54 ASP, Requisitoria dell’Avv, fiscale mIitare Mel, Tribunale Militare di Guerra, Potenza, 8 Aprile 1863; Cro-Delz; 34; cfr. Casc: 151. 52

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In realtà il cambio dell’abbigliamento, al di là delle sue valenze simboliche e ai suoi scopi militari, era anche un travestimento maschile, che serviva alle donne a non farsi riconoscere dal nemico, e poter spiare, in veste di contadini maschi, i movimenti dei soldati senza essere individuate, svolgere funzioni di staffetta, vedetta e sentinella. Negli atti del processo a Mariuccia Andreoli è detto che alla brigantessa furono dati “abiti da uomo per non essere riconosciuta”, in modo da servire ai briganti “da sentinella”. Quando una contadina la riconobbe “alla taglia, agli atteggiamenti, alla voce, al volto, a tutto insomma” e glielo fece sapere, la brigantessa “si fece rossa, e piena di rabbia rispose: – Come sai tu che io son donna? e col dir ciò hai forse guadagnato qualcosa?” e la minacciò duramente. Analoga la testimonianza di un contadino: “Io osservai ch’egli mi sembrava di esser donna, ed egli quasi corrucciato mi diede un pugno nel petto, sostenendo esser uomo, ed entrandosene dentro il mio pagliaio”. I giudici concluderanno che la donna “coll’aggirarsi in abito maschile non aveva altro scopo di eludere la sorveglianza della forza e poterne più facilmente spiare i movimenti, onde tenere informati i briganti”55. Per i briganti e le brigantesse ingannare le forze dell’ordine riuscendo a passare inosservate sotto i loro occhi era una prova meritoria, Crocco era fiero di questa sua capacità, e raccontava con soddisfazione di poter passare davanti a un distaccamento di soldati per poi poter dire ai compagni: “Vedi, per la Madonna, come si passa innanzi ai soldati senza farsi conoscere?”56. Per

questo, comunemente i giudici consideravano il travestimento indizio di colpa se non colpa tout court. Vestirsi da contadine era invece più rischioso per le brigantesse, perché le donne del popolo, specie se trovate in contesti inconsueti, destavano sempre sospetti nelle forze dell’ordine: Filomena Pennacchio fu rivestita dei panni di contadina, quando fu portata in una casa di manutengoli, per evitare di essere individuata come brigantessa; ma la padrona di casa non fu dello stesso avviso, perché temeva che proprio in quei panni avrebbe destato sospetti; perciò, “appena giunta in casa – racconta al tribunale – fui dalla medesima immantinente spogliata dei miei abiti alla contadinesca, e vestita coi suoi propri, dicendomi che così non sarei stata da alcuno conosciuta”57. In parecchi casi il nascondimento della propria identità consentiva alle donne di rientrare indisturbate nei paesi sotto le spoglie abituali, come gli eroi mascherati popolari, sia temporaneamente, per poi ritornare alla macchia al momento giusto, portando nuove informazioni e vettovaglie, sia permanentemente, nel caso che il brigantaggio fosse finito e la banda distrutta. Per i briganti abituati a concepire la vita militare, la guerra e i combattimenti come prerogativa maschile, vedere delle donne con la loro stessa “divisa” poteva essere castrante, perché metteva in crisi la propria identità. Per attenuare questo effetto, senza aspirare a cancellare interamente l’identità femminile dell’iniziata, occorreva “diminui­ re” nel nuovo look delle contadine transfu-

ACS, Roma, Tribunale Militare di Guerra, b. 17 (Chieti), fase 1326 (1864) Crocco in DeJa: 91. 57 ACS, Tribunale Militare Straordinario, interrogatorio di Filomena Pennacchio, 28/11/1864. 55 56

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ghe dai campi i segni e i simboli della femminilità, dal taglio dei capelli all’armamento: grazie ai processi di trasposizione emotiva, anche il vestito maschile assimilava le poche donne al gruppo dei maschi ed era segno di una mascolinizzazione percepibile da altri particolari del rito di iniziazione, come la rinominazione maschile delle donne, sopra ricordata. Anche se inconfessata, l’immagine virile della donna non dispiaceva alle brigantesse, perché esaltava la loro capacità di essere al livello degli uomini e di saper fare quello che essi facevano, a cominciare dal combattimento. Il travestimento delle donne era di comprovata efficacia. I soldati che le catturarono e i sequestrati che vissero per diverse settimane insieme ad esse si accorgevano sempre con ritardo di avere a che fare con delle donne. Questo dipese anche dalla capacità delle donne di sintonizzarsi sui comportamenti e sul linguaggio espressivo, corporeo e verbale, dei briganti maschi. Per questo qualche contemporaneo riconobbe ad esse “una forte capacità mimetica”. Moens, che visse per un certo tempo, sequestrato, nella banda Manzo, non riconobbe subito tra i suoi rapitori le donne: “Giunti che fummo (alla forra), mi accorsi che cinque membri della banda in realtà erano delle brigantesse”. Un altro sequestrato, Michele Falcone, per parecchio tempo scambiò la brigantessa Maria Oliverio per un giovanotto. Chiara Nardi, amante del capobanda Nunziante D’Agostino, al momento della cattura fu scambiata per un maschio, prima che lei stessa si facesse rico-

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noscere come una donna incinta. Giocondina Marino, fatta prigioniera, fu schernita dai soldati che la scambiarono per un piccolo maschio goffamente panciuto, e solo con il suo aiuto i soldati capirono che si trattava del ventre prominente di una donna incinta. La moglie del capobanda Cedrone fu scambiata per un uomo dal granatiere che poi lei cercò di uccidere, ma fu uccisa da un altro soldato. Furono scambiate per briganti maschi anche Carminella Telese, Giuseppina Gizzi58 ed altre. Di certo le brigantesse vivevano un processo di mascolinizzazione, che cominciava proprio col rito di iniziazione. Farsi simili agli uomini significava integrarsi più facilmente nella banda e partecipare del potere, nelle forme che ad esso avevano dato i maschi. Le valenze maschili del travestimento erano tanto più accentuate, quanto più forte era l’ambizione delle donne e più nativamente pronunciata la loro “parte maschile”. Tale caratteristica nella terribile Maria Oliverio assume una dimensione paradossale: quando per il riscatto del sequestrato acrese Angelo Feraudo furono inviati denaro e gioielli alla banda Monaco, la brigantessa irritata ammaccò con una pietra gli orecchini, perché non erano rotondi, come li portavano gli uomini59. Non sappiamo con precisione tutti i significati che le forze dell’ordine attribuivano a questo abbigliamento, che esse stesse indicavano come “travestimento”, oltre la funzione, ampiamente certificata, di spiare il nemico. Certo è che ogni volta che nei documenti ufficiali fa la sua apparizione una

Che le brigantesse venissero scambiate spessissimo per briganti è provato da numerose attestazioni. Le citazioni sopra riportate si trovano, ad esempio, in Dip2: 268; Moe3: 76; Falc: 8; Gell: 240; Gell: 218-19; Bart: 39; Lich: 40-41; DiBi in Chie: 185. 59 Fera: 51. 58

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brigantessa, il riferimento primo è al fatto che è vestita da uomo. A parte le suggestioni inconsce l’abbigliamento maschile era per le forze dell’ordine un segno inequivocabile di appartenenza alle bande e un indizio di colpa. Quando il sottotenente Polistina sosterrà in tribunale l’innocenza di Maria Rosa Marinelli, la sua preoccupazione prima sarà quella di dimostrare che la sua assistita non indossava l’abito maschile e non portava armi: “Armi non cinse mai; non dismise le vesti muliebri”60.

Ruoli e funzioni delle donne alla macchia Se alla storia negata si vuole opporre la storia ritrovata delle donne briganti, è necessario integrare il senso e lo spessore di quell’esperienza nel contesto più generale in cui essa si inscrive. Al di là della registrazione del semplice dato di fatto, d’altra parte innegabile, della cospicua presenza femminile nelle bande, si è deliberatamente creato un vuoto storiografico in cui sono precipitate le protagoniste di una vicenda storica ed esistenziale che, dopo il suo epilogo tragico, è stata ignorata o rimossa. Le brigantesse, confusamente ammassate nel buco nero dell’oblio, hanno trascinato e seppellito con sé i propri percorsi biografici, i vissuti quotidiani, i tracciati culturali, gli affetti, i desideri, i progetti, le scelte coraggiose; benevolmente assolte in giudizio, senza alcuna indulgenza esse furono poi condannate ad una sopravvivenza puramente cartacea, affidata alla ritrattistica manipolata61, cui va riconosciuto il merito di una testimonianza Poli: 60. Cfr. DeLu1: 18-19, 39-51.

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indiretta e vicaria, e alla prosa gelidamente impersonale dei documenti di archivio e delle carte processuali. Nei rari casi di verdetti non favorevoli, il rilievo politico della ribellione andava appiattito e riportato nell’alveo più rassicurante della devianza femminile comune (“delinquenti nate”, sentenzieranno gli storici lombrosiani nella necessità di ridimensionare la rilevanza del fenomeno). Solo ora le donne, espulse dalla scena del brigantaggio postunitario di cui i maschi, anche se in negativo, furono ritenuti i protagonisti assoluti, sono da noi riammesse alla riflessione storico-antropologica che ritrova le ragioni della loro avventura e ridisegna i percorsi della loro storia. Per legittimare uno studio scientifico sulle brigantesse è indispensabile non cedere alla tentazione di un lavoro compensativamente agiografico, che finirebbe col nascondere, più che rivelare, il carattere estremamente composito di questa storia. Rimane, invece, l’impegno intellettuale ed etico di disseppellire il sepolto e ritrovare le tracce di un’esperienza che si rivelò una più o meno consapevole migrazione da sé, che le donne seppero vivere in una prospettiva, sia pure confusa, di rinnovamento. La vita alla macchia (di cui abbiamo cercato di indagare e ricostruire rigorosamente lo spaccato etnografico) favorì l’affiorare di potenzialità sommerse, la dilatazione dei ruoli tradizionali, una repentina acquisizione, guadagnata sul campo, di insospettate capacità e competenze. Un dato che emerge è che la condizione delle donne all’interno di ciascuna banda poteva mutare a seconda dei legami familiari, dell’appartenenza territoriale e del loro rapporto col capobanda e con i suoi luo-

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gotenenti, con una forte variabile rappresentata dal diverso spessore individuale. Questa complessità di situazioni rende in parte ragione di alcune contraddizioni presenti nelle fonti su ruoli e funzioni delle donne; a volte esse risultano essere membri autonomi della comitiva, in condizione di assoluta parità cogli uomini: di questo parere era lo svizzero Lichtensteiger, sopra ricordato; altre volte “venivano considerate da tutti come le ultime compagne della banda, non prendevano parte alla divisione dei riscatti e spesso venivano picchiate e trattate male dai loro uomini”, come ebbe a scrivere un altro illustre testimone oculare, sequestrato dagli uomini di Cerino, aggregatisi in parte alla banda Manzo, responsabile del rapimento di Lichtensteiger62. I due sequestrati descrivono dunque in maniera diversa, in certo senso opposta, la condizione delle donne alla macchia. Perché? Secondo le regole non scritte del codice brigantesco, prendevano parte alla spartizione del denaro dei riscatti solo i briganti che avevano partecipato al sequestro, e quasi certamente le brigantesse, citate e compatite da Moens, vennero escluse non in quanto donne, ma in quanto assenti al momento della cattura degli ostaggi. Ma se anche l’esclusione dal bottino fosse avvenuta sulla base di un criterio di discriminazione, si tratterebbe di un caso particolare, non generalizzabile, dal momento che sono prevalenti le testimonianze di segno contrario. Per esempio, in tribunale risultò che una protagonista indiscussa del brigantaggio femminile postunitario come Giocondina Marino “prendeva parte alle spoglie dei depredati” e un’altra, come Maria Oliverio, protestava

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perché nel bottino non trovava gioielli di suo gradimento63. Non pare, inoltre, che le brigantesse della banda Manzo-Cerino brillassero per doti particolari, a differenza, per esempio, delle donne della banda Caruso o Schiavone, ed era proprio questo, più che la condizione femminile, a collocarle in fondo alla scala gerarchica del gruppo. Più attendibile risulta il dato, su cui le fonti concordano, del maltrattamento delle donne che non erano capaci di adeguarsi ai ritmi serrati delle marce. Il problema riguardava, in verità, sia le donne che gli uomini e anche gli stessi sequestrati quando non reggevano al passo dei briganti. Negli spostamenti e soprattutto nelle fughe, non si aveva il diritto di essere stanchi o di rallentare. Era una regola ineludibile, da cui dipendeva l’esistenza e la sicurezza della banda. Anche qualche fonte processuale sembra dar ragione alla tesi della marginalità delle donne all’interno delle bande. Dagli atti del processo contro Maria Rosa Marinelli emerge che le brigantesse erano insultate e picchiate quando non si adeguavano alle regole imposte dai maschi ed erano escluse dalla spartizione del bottino e dei proventi delle grassazioni; non prendevano parte alle imprese più arrischiate ed erano sottoposte a stretta sorveglianza anche quando venivano affidate ai manutengoli64. Queste testimonianze vanno lette nel modo giusto, perché la difesa, per ottenere sconti di pena, grazie a testimoni compiacenti, tendeva a presentare le donne come vittime impotenti dei briganti e strumento passivo della loro violenza. In gruppi armati formati nella stragrande maggioranza da uomini, provenienti da ceti

Moe: 94. Ferau: 151. 64 Sca-Del: 56. 62 63

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sociali in cui, almeno sul piano formale, prevaleva il principio della subalternità delle donne, è probabile che i briganti avessero dei vantaggi sulle loro compagne, del tutto compatibili, però, con altre opportunità e risorse che il brigantaggio, come vedremo, ad esse offriva. Dopotutto i briganti maschi prevalevano,ma non sempre, nelle decisioni per il semplice fatto che erano più numerosi delle donne e facevano valere il peso della maggiore consistenza numerica. Ma la storia di ogni brigantessa ha qualcosa di sorprendente nella sua irripetibilità: sappiamo della lucana Luisa Ruscitti (o Roscitti) che, rapita poco più che adolescente dal capobanda Caruso, diventò, secondo un percorso che possiamo soltanto immaginare, allieva attenta e fedele del suo rapitore, dal quale imparò l’arte della guerra, ma andò al di là delle sue aspettative, diventando una sorta di eroina-bambina, interamente votata alla causa che credeva giusta. Questa vergine guerriera “dagli illibati costumi”, per la fierezza e la determinazione dimostrate, fu capace di far sentire in soggezione lo stesso feroce colonnello, che ebbe per lei un affettuoso e tenero rispetto65. Alla luce dei fatti accertati, senza timore di sfiorare l’azzardo, si può sostenere che la scelta del brigantaggio cambiò la vita delle donne: diventate briganti, esse guadagnarono un’insperata parità cogli uomini, soprattutto quando alle attitudini militari associavano predisposizione al comando e durezza di temperamento, ai limiti della crudeltà, doti particolarmente apprezzate che, in alcuni casi, faranno di loro i capi acclamati e temuti dalle bande. Lo statuto di guerrigliere

Su Roscitti ved. Sang: 213, 179-81; DeBl: 50.

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dilatava i confini delle rigide distinzioni di genere, consentendo attraversamenti culturali e riconfigurazioni identitarie di soglia, di cui, più dei maschi, le donne dimostrarono di essere capaci. Spavaldamente anfibie, si adattarono, non senza insofferenze, all’inospitalità dei boschi: l’approvvigionamento e la preparazione, condivisa con i maschi, del cibo, la predisposizione dei piani di attacco e la spartizione del bottino, la cura dei malati e l’accudimento dei sequestrati, le marce estenuanti e le fughe improvvise scandivano la loro dura esistenza sui monti e nei boschi, instabili dimore solo in parte domesticizzate. Quelle che non erano identificate come brigantesse dalle forze dell’ordine, indossati i vestiti consueti o mimetizzate in abiti maschili, studiavano i movimenti delle truppe e riferivano ai compagni, trasmettevano informazioni sbagliate ai soldati, depistandoli o attirandoli nelle imboscate; rifornivano la banda di munizioni che nascondevano sotto le gonne che tornavano a indossare quando, in alcune situazioni, poteva risultare utile “travestirsi” da semplici contadine; quelle, pochissime, che sapevano scrivere svolgevano compiti di segretarie e non di rado assumevano funzioni “diplomatiche”, prestandosi come intermediarie tra i briganti e le famiglie dei rapiti. Anche la bellezza e il fascino che esercitavano sugli uomini della banda contribuirono al mito delle amazzoni bellicose, esperte nell’arte della guerra come in quella dell’amore. Pre-condizioni soggettive favorevoli, che si saldavano a situazioni oggettive di vantaggio, quali, come già detto, lo status di compagne dei leader e il peso dei rapporti parentali, consentirono la meta-

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morfosi delle contadine in brigantesse e delle brigantesse in protagoniste: è questa soprattutto la storia di Maria Oliverio, Michelina De Cesare, Filomena Pennacchio, Filomena Piccaglione, Maria Capitanio, Giocondina Marino66. Non sappiamo chi fosse a capo della banda di circa 50 briganti che il 30 settembre 1863 nelle campagne di Gioia del Colle misero in fuga guardie nazionali e carabinieri, dileguandosi subito dopo all’arrivo dei rinforzi, ma sedicenti testimoni oculari affermarono che inequivocabilmente fosse una donna.

Processi e strategie di difesa Durante i dibattimenti i briganti rimanevano silenziosi di solito perché reticente: ignoravano o non ricordavano i luoghi e i nomi dei manutengoli, non riconoscevano gli altri imputati e davano la colpa di questa smemoratezza più simulata che reale alle violenze che li avevano sconvolti. Quando decidevano di parlare, sorvolavano sui particolari che potevano aggravare la loro posizione processuale. Essi contavano sul fatto che la corte giudicante non poteva avvalersi di molte testimonianze avverse: i convenuti non rilasciavano dichiarazioni esaurienti perché temevano le rappresaglie dei briganti ancora alla macchia o quelle dei parenti nel paese, e inoltre era convinzione diffusa l’estraneità delle leggi e dello Stato al proprio mondo, per cui le stesse vittime del brigantaggio ritenevano che le questioni andassero regolate all’interno della comunità. Le donne sotto processo ricalcano i comportamenti

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maschili. Tacciono o mettono in atto strategie, ora più o meno istintive ora subdole, che miravano ad ottenere attenuanti in vista di una riduzione della pena, se non addirittura dell’assoluzione. Intuito l’orientamento dei giudici, le brigantesse riscrissero la loro storia, assecondando le aspettative degli inquirenti che conducevano gli interrogatori in modo che prevalesse la tesi innocentista, col proscioglimento delle imputate. Nelle domande era spesso implicitamente contenuta anche la risposta e le inquisite seppero cogliere quella opportunità: esse sostennero, in una stereotipia che non poteva non essere preordinata, che i capi non le tenevano informate delle loro decisioni e intenzioni, al punto che qualcuna, come Francesca Cerniello, dichiarò di non essere a conoscenza di nulla, se non di qualche indiscrezione orecchiata dai compagni. Quanto allo spinoso problema di rivelare il nome dei complici, esse rivendicavano l’assoluta estraneità ai fatti ascritti, affermando, contro ogni smentita, che quando tra i briganti arrivavano i manutengoli o i loro emissari, i capi facevano in modo che essi non fossero visti e riconosciuti da nessuno, nemmeno dagli altri membri maschi della banda. Pur essendo mediamente molto giovani, non di rado le imputate, nel declinare le proprie generalità, mentirono ai giudici. Molte dichiararono di essere ancora minorenni e di non avere, all’epoca dei fatti, più di quindici o sedici anni. Così fecero Domenica Piturro, Filomena Pennacchio, Mariuccia Andreoli, Rosa D’Ascoli, Generosa Cardamone, Luisa Mollo, ottenendo una diminuzione di pena, che fu concessa anche alle brigantesse e alle

Ved. Sca-Del: 57-60.

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manutengole incinte. Lo stato di gravidanza era di solito facilmente verificabile, ma in qualche caso si trattò di gravidanza simulata. Erano incinte al momento dell’arresto Generosa Cardamone, Pietra Le Porte, Chiara Di Nardo. Per guadagnarsi il favore del tribunale, molte riferirono episodi in cui la loro intercessione presso i capi delle bande aveva salvato la vita di sequestrati o prigionieri o aveva evitato ad essi torture e maltrattamenti. Vantarono meriti di questo tipo soprattutto Giocondina Marino, Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale, Filomena Piccaglione e Maria Oliverio. Quando era difficile sostenere che erano state rapite, le brigantesse raccontavano ai giudici di essere state spinte alla macchia dalla paura di un’ingiusta carcerazione, in quanto parenti o amanti dei briganti. Il più delle volte il racconto era veritiero, ma alcune come Giuseppina Vitale e Angela Cotugno conferirono ad esso una notevole enfasi, sapendo che i giudici ne sarebbero stati favorevolmente colpiti, aggravando le accuse nei confronti dei briganti, imputabili così anche di plagio. L’argomentazione più forte da esse addotta fu la storia, quasi sempre inventata, del ratto, che solitamente testimoni compiacenti confermavano. Tuttavia i giudici non sempre potevano negare l’evidenza dei fatti. Dalle deposizioni delle imputate che cadevano in contraddizione e dalle palesi incongruenze di molte testimonianze, dovettero a volte riconoscere il carattere menzognero dei racconti di rapimenti e violenze: in questi casi diventava impossibile pronunciare verdetti di completa assoluzione. Andò bene, invece, a Luisa Mollo: nel processo contro

“GiOf ”: 17/6/1863.

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i superstiti della banda Barone, istruito nel giugno 1863, la brigantessa amante del capobanda uscì assolta, perché, anche grazie all’impressione che esercitò sulla corte, che dovette tenere conto del fatto che aveva solo diciannove anni, le fu riconosciuta la coazione su più piani, a cominciare dal ratto. Il carnefice diventava vittima, e un giornale riassunse in questi termini la “dolorosa storia” della “giovane ed avvenente popolana, “amante o vittima del Barone”: “Il Brigante la strappò alla sua famiglia, la trasse seco nelle montagne, la tenne il più delle volte chiusa in una pagliaia per soddisfare le sue voglie brutali. È una sciagurata ben più degna di commiserazione che di spregio”67. Luisa era stata invece amante consenziente e collaboratrice del capobanda, che seguiva anche nei combattimenti e nelle rappresaglie. Un giudice avrebbe potuto obbiettare che, quale che fosse stata l’origine della loro iniziazione al brigantaggio, le donne avevano comunque partecipato ad azioni illegali o criminali. Anche a questo esse si erano preparate, dal momento che di solito sostennero: a) di non aver preso parte alle operazioni della banda, quali sequestri, grassazioni, razzie, scontri a fuoco e, quando riusciva difficile dimostrarlo, b) di essere state costrette a farlo. Per quanto concerne il primo punto (a), non era facile dimostrare la partecipazione delle donne alle azioni militari della banda; si richiedeva infatti che esse dovessero essere state viste in azione insieme ai briganti, per essere dichiarate colpevoli di brigantaggio (il reato per il quale erano previste le pene più dure), ma questo riusciva molto difficile, sia perché il travestimento

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maschile le rendeva irriconoscibili, sia perché potevano contare su testimoni favorevoli o omertosi. Le testimonianze risultavano in effetti incerte e lacunose e non c’erano elementi sufficienti per considerare veritiera una testimonianza invece di un’altra, ma i giudici si mostrarono straordinariamente disposti a prestar fede a quelle più favorevoli alle donne. Scelsero la strategia difensiva dell’assoluta estraneità ai fatti, tra le altre, Giuseppina Vitale, Maria Parente, Maria Suriani, Generosa Cardamone, Mariuccia Andreoli, Maria Giovanna Bonnet. Circa il secondo punto (b), anche quando era attestata e provata la partecipazione delle donne alle azioni di guerriglia, bisognava accertare se esse avessero agito liberamente o in regime di costrizione. Ovviamente le decisioni ultime erano a discrezione dei magistrati, i quali, per confermarne la subalternità che storicamente le pretendeva docili e indifese, vollero credere alle donne. Maria Capitanio, inaspettatamente assolta con formula piena, non fu la sola a sostenere che durante i frequenti spostamenti della banda era obbligata a seguire i briganti, costretta, con la forza, a prendere parte alle operazioni militari. Pur non completamente prosciolte, in virtù delle attenuanti concesse ottennero consistenti riduzioni di pena le Filomena Di Poto, Carolina Casale, Carolina Di Ruocco68.

La clemenza dei giudici Un procedimento dall’esito clamoroso fu quello a carico di Maria Rosa Marinelli,

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processata insieme a Filomena Cianciarulo e Reginalda Rosa Cariello, la cui difesa fu assunta da due ufficiali dell’esercito, Antonio Polistina e Gustavo Pollone. In giudizio essi addussero, a totale discolpa, queste argomentazioni: (a) le donne furono rapite; (b) sapevano di non poter tornare indietro, per aver perduto l’onore; (c) avevano “stolta paura del rigore delle leggi”; (d) erano “tenute guardate” dai briganti; (e) non presero parte ai crimini della banda e (f) quando non poterono evitare di parteciparvi, lo fecero perché costrette69. Già nelle pagine di un precedente studio monografico, scritto in collaborazione con Domenico Scafoglio, Le donne col fucile, si era sottolineata l’inverosimiglianza di molte delle eccezioni sollevate dal sottotenente Polistina, in una pur splendida ed appassionata arringa difensiva. Maria Rosa Marinelli fu presentata da alcuni testimoni come una “malafemmina ladra”, altri però negarono che avesse avuto rapporti con i briganti. Il difensore smontò le testimonianze avverse con grande abilità, ma “non sempre oggi le sue argomentazioni risultano convincenti, né a lume di logica, né alla luce del diritto, anche se i giudici vollero credere alle sue conclusioni”70. La brigantessa, infatti, fu assolta in prima istanza, insieme alla Cianciarulo, e solo successivamente quest’ultima fu condannata a tre anni di reclusione. Furono prosciolte, per aver agito in regime di costrizione, Reginalda Cariello, Maria Domenica Piturro, Luisa Mollo, Maria Lorenza Ricciardi, Filomena Ciccaglione, Rosa Todisco, Maria Rita, Caterina Di Lucchio, Maria Di Vincenzo.

Sca-Del: 139. Sca-Del: 140; Poli. 70 Sca-Del: 141. 68 69

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Altre furono condannate a pene lievi, nonostante la gravità dei capi di imputazione. Carolina Casale, catturata nel 1868 dopo che le bande di Terra di Lavoro furono disfatte a Monte Cavallo, il 13 novembre 1872 venne assolta dal reato più grave, quello di brigantaggio. Successivamente la Corte d’appello di Napoli la rinviò in giudizio con l’accusa di associazione di malfattori, sequestro di persona e atti criminosi, omicidio volontario premeditato. Sorprendentemente, a conclusione del processo, Carolina, ritenuta responsabile solo di associazione di malfattori, fu condannata il 5 maggio 1875 ad un anno di carcere e a due anni di sorveglianza speciale, ma fu subito rilasciata, perché, detenuta dal 1868, aveva scontato una pena maggiore di quella che le venne inflitta71. La stessa clemenza fu esercitata dai magistrati nei confronti di Teresa Russomanno, Caronia Di Ruocco, Isabella Caramuta, Chiara Di Nardo. Solo in pochi casi, per l’impossibilità di negare l’evidenza dei fatti o per la insussistenza o l’estrema debolezza delle argomentazioni degli avvocati difensori, le brigantesse ebbero pene più severe. Fu condannata a 10 anni di lavori forzati Maria Lucia Di Nella, compagna di Francescantonio Summa, processata il 25 aprile 1864. Il Tribunale Militare di Guerra in Potenza, prendendo atto del fatto che “al momento dell’arresto la Dinella (sic) trovavasi senz’armi”, ma che “avrebbe seguito per lo spazio di quindici mesi la banda di Ninco Nanco, quale amante del fratello di quel capobrigante”, sentenziò che “quan-



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tunque militino a di lei favore delle circostanze attenuanti, specialmente quella dalla medesima dedotta, di essere stata rapita e condotta a forza dai briganti dal suo amante, non può tuttavia escludersi a suo carico l’imputabilità del fatto di sua criminosa permanenza, per ben quindici mesi, nella banda di Ninco Nanco, non essendo presumibile che, durante quel tempo, essa non abbia potuto trovare occasione, o modo di abbandonare quell’orda, né che vi sia stata costretta a rimanere colla violenza, dovendosi ritenere il contrario, per la circostanza appunto, che la medesima era amante del fratello di Ninco Nanco, il quale le avrebbe promesso di farla sua sposa (…); che però non essendo risultato che la medesima, durante quel tempo, abbia commesso alcun reato, o preso parte attiva nei misfatti perpetrati dalla banda alla quale trovavasi unita, né che sia stata mai armata, non potrebbe quindi ritenersi imputabile del reato di brigantaggio, ma soltanto di complicità di detto reato (…). Ritenuto infine che la Dinella non avrebbe compiuto l’età del 21° anno, sebbene sia maggiore di quella di 18, condanna la donna a 10 anni di reclusione”72. Altre condanne a 10 anni ebbero Filomena Nardozza, Maria Teresa Ciminelli, Maria Giovanna Longiello, Maria De Piana, Elisabetta Blasucci, Maria Nicola Suozzi, Caterina Boccia, Anna Pafundi, Maria Giuseppa De Meo, Cristina Cocozza. Poche furono le brigantesse condannate per brigantaggio, ma le pene furono più miti di quelle comminate agli uomini, che

ASCa, Corte d’Assise di S. Maria Capua Vetere, Sentenza d’accusa, b. 158, c. 1089, fasc. 13, f. 12, 13; Sentenza finale, 5 maggio 1875, f. 137, 138. ASP, Corte di Assise di Potenza, Processo n. 1688, cart. 1880, p. 31, estratto della sentenza del Tribunale di Guerra). La pena fu poi ridotta con Regio Decreto del 22 aprile 1868 a 5 anni; ASP, Corte d’Ass. di Potenza, Processo n. 1688, cartella 1880, p. 31, estratto della sentenza del Trib. di Guerra, 15 aprile 1864.

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venivano fucilati o, in subordine, costretti ai lavori forzati a vita. I giudici, anche inconsapevolmente, si resero esecutori di un progetto normalizzatore che, nella retorica della fratellanza, pretendeva di edificare un’identità nazionale in cui i contadini meridionali non volevano riconoscersi. Le cifre culturali dell’assimilazione spingevano alla eliminazione delle diversità, che la miopia politica dei generali dell’esercito regolare trasformò drammaticamente in ribellione e violenza. In un processo di unificazione sincopato e convulso, le due Italie – quella “progredita” del Nord e quella “arretrata” del Sud – si toccavano senza incontrarsi. Nell’ambiguità del teorema civilizzatore, la posta in gioco era il ristabilimento dell’ordine minacciato che mal si conciliava con la punizione esemplare delle brigantesse, che vennero viste o fatte passare per soggetti marginali, plagiati da pericolosi “delinquenti congeniti”, nella cui fisiognomica – come gli studi antropometrici introdotti da Cesare Lombroso cominciavano ad ipotizzare – era già inscritto il destino di banditi. Occorreva che la “giustizia” operasse una distinzione di responsabilità tra chi aveva progettato e organizzato la lotta armata e chi vi aveva invece preso parte senza alcuna condivisione. L’accusa di brigantaggio estesa alle donne ne avrebbe avallato un protagonismo che doveva essere istituzionalmente negato; di conseguenza, derubricato il reato in associazione a delinquere, le condanne inflitte dai tribunali oscillarono, al massimo, tra i 10 e i 20 anni di lavori forzati. Solo in alcuni casi, più per valutazioni di ordine pratico che per motivazioni giuridiche, a scopo di deterrenza, vennero appli-

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cati criteri più severi di giudizio. A Maria Teresa Ciminelli non fu perdonata la sua fede legittimista e forse non giocò a suo favore l’appartenenza filoborbonica dell’intera famiglia. Sul finire del 1865, nonostante avesse collaborato con i militari dopo la cattura, fu accusata di brigantaggio e condannata ai lavori forzati a vita, nel 1867 ridotti a 10 anni di reclusione ordinaria. Maria Luisa Ruscitti, pur essendo nelle carte processuali descritta unanimemente come donna “di sanissima morale ed illibatissimi costumi”, fu condannata a 25 anni di lavori forzati dalla Corte di Assise di Trani e alla sorveglianza speciale a vita, soprattutto in considerazione del fatto di aver ucciso in uno scontro a fuoco un ufficiale con un colpo di pistola, obbedendo agli ordini di Caruso73. Ebbero condanne analoghe Elisa Garofalo, Filomena Soprano, Angela Maria Consiglio, Rosa Pezzigni, Generosa Cardamone, Maria Carmina Valente, Maria Maddalena De Lellis, Maria Giovanna Tito, Francesca Cerniello, Serafina Ciminelli, Giuseppina Vitale, Giocondina Marino. La conclusione è che, tranne qualche eccezione in cui l’eccesso di rigore sembra apparentarsi con l’accanimento, i magistrati accoglievano senza troppe difficoltà le tesi difensive delle donne e, col riconoscimento della coazione e della impossibilità di dimostrare la loro presenza nelle operazioni delle bande, le assolvevano con formula piena o le discolpavano delle imputazioni più gravi. Come interpretare l’atteggiamento di clemenza durante i processi tradotto poi in sentenze che, nella palese disparità di trattamento, finivano coll’inficiare il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte

Sang: 215.

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alla legge? Il proscioglimento delle imputate tendeva ad esorcizzare l’idea che l’esperienza del brigantaggio avesse consentito alle donne forme di emancipazione che ne legittimassero aspettative di affrancamento dal regime di tutela che le assimilava ai minori. I giudici preferirono perciò immaginare che esse avessero per forza o per amore aderito alle bande e quando combattevano con accanimento accanto ai briganti lo facessero nella più totale irresponsabilità. Se la scienza, nel quadro teorico dell’arresto biologico dello sviluppo femminile74, cercava di dimostrare che le brigantesse erano solo delle degenerate e che nelle tare congenite ed ereditarie andasse ricercata la ragione della non imputabilità, i giudici le vollero vittime irresponsabili e stolide. Sono due facce della stessa medaglia, quella che sanciva l’inferiorità della donna, rallentandone il lungo e accidentato viaggio verso la parità75.

La condanna a morte di Maria Oliverio Come abbiamo anticipato, per il reato di brigantaggio politico con resistenza alle forze dell’ordine le leggi prevedevano la fucilazione; in assenza di resistenza, lo stesso reato era invece punito con i lavori forzati a vita, che solo le attenuanti potevano ridurre di alcuni anni. È in rapporto a questa normativa penale che Maria Oliverio organizza insieme al suo avvocato, Giacinto Oliverio, la sua difesa. Per quanto fosse raro che una donna venisse condannata a morte, il rischio che ciò accadesse diventava reale quando

l’imputazione di brigantaggio risultava provata senza residui di dubbio. In questo caso, specialmente se l’alto numero delle vittime o le efferatezze dei crimini perpetrati aveva suscitato l’esecrazione collettiva, poteva prendere forma nell’opinione pubblica il desiderio di una giustizia vendicatrice che non doveva risparmiare neanche le donne. Durante il processo, senza timore di influenzare la libertà dei giudici, anticipandone la decisione, il Comandante della Guardia Nazionale di Spezzano Grande scrisse al Comandante Sirtori una lettera in cui chiedeva che l’esecuzione di Maria Oliverio avvenisse “nel proprio rione, per essere di esempio a questi comuni del mandamento, fieri e tristi per propria indole, e per creare lo spavento e lo abbattimento ai moltissimi tristi, onde non difettare pel prosieguo”76. In effetti sulla brigantessa gravavano pesanti imputazioni, quali l’uccisione della sorella Teresa, amante di suo marito, la partecipazione a omicidi consumati dalla banda, sequestri, razzie e resistenza finale all’attacco sanguinoso delle forze dell’ordine. La difesa che la Oliverio costruì al processo si avvaleva di silenzi e invenzioni, per avallare la tesi delle coazioni continuate. Il suo comportamento non fu perciò diverso da quello delle altre brigantesse, con la sola differenza che a lei i giudici non vollero credere. Dal principio alla fine la sua difesa è coerente e ben articolata. “Interrogata se conosca il motivo del suo arresto, risponde: – Perché mi trovavo tra i briganti –. Interrogata analogamente, risponde: – Mentre mio marito Pietro Monaco latitava (…) mia so-

Cfr. Serg1: 167-182; le stesse riflessioni sul tema dell’inferiorità femminile si trovano in Serg2. Sca-Del: 142-143. 76 AUSSME, Roma, Fondo Brigantaggio, b. 53, c. 1-54. 74 75

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rella Teresa, maggiore di età di me, maritata con Salvatore De Cicco, istigava mio marito ad uccidermi non so per quale ragione, e mio marito veniva ogni volta alla mia abitazione tentando di uccidermi, ma ne venni sempre sottratta ad opera dei vicini dell’abitato che accorrevano tosto in mio aiuto. Un giorno, dopo che io sono uscita dal carcere di Celico (…) detta sorella disse a mio marito che tutti quelli che custodivano le carceri suddette avevano avuto illecito commercio con me durante quel tempo, ad eccitare lo stesso alla vendetta a mio danno. Ed infatti una sera capitò alla mia abitazione, cioè a Macchia, frazione del comune di Spezzano Piccolo, domicilio pure di mio marito, mi condusse in un vicino vallone, dove giunti fece col fucile che portava ad un tratto una scarica contro di me, che miracolosamente ne rimasi illesa, e tentando egli poi di uccidermi, traendo di tasca un coltellaccio, io riuscii con la fuga a salvarmi in casa della suddetta mia sorella nello stesso villaggio, ove non venne esso mio marito. Colà lagnandomi colla Teresa che essa era causa di quei tentativi di detto mio marito e dell’infelice mia situazione, essa ostinatasi a dire di nulla saperne e questionando fra noi due con molto calore, siamo venute alle prese; la sorella diede di mano ad un coltello tentando di scannarmi, ed io difendendomi, trovata a caso ivi una scure, diedi di piglio a questa e furiosamente scagliando colpi a mia difesa, vidi la sorella cadere al suolo, ed io fuggii e mi tenni nascosta per otto giorni in capo ai quali comparve mio marito insieme ad un certo Salvatore De Marco di Serra Pedace e mi condussero alla

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Sila. Mio marito mi voleva ammazzare, ma il suo compagno suddetto De Marco s’intromise calorosamente e lo fece desistere. Seppi in seguito che mia sorella soccombette alle ferite ricevute dopo alcune ore dal ferimento. Ma io ero ben lontana dal venire a quei fatali estremi causati dall’inevitabile mia difesa, oltreché la medesima era la ragione per cui io ero perseguitata a morte dal marito stesso. Tale irreparabile sventura mi trasse nell’altra non minore di dovermi ricoverare fra i briganti e ridurmi allo stato infelice in cui mi trovo”77. La brigantessa si presenta come una vittima della sorella, del marito, del cognato e del resto della banda. Ma non era facile contestare le imputazioni, ampiamente provate, concernenti la sua attività brigantesca, né, d’altra parte, Maria poteva dimostrare in maniera convincente di non aver opposto resistenza all’arresto finale, sfruttando fino in fondo l’argomento della coazione: “poche settimane prima dell’uccisione del capobanda Pietro Monaco l’accusata – sostenne l’avvocato difensore – volendo presentarsi alla giustizia, scappò dalla pressura dei masnadieri; ma fattosene accorto il Monaco la raggiunse, e l’intercessione dei compagni di lui la campò (sic) dalla morte che quegli voleva darle”. Su questo tema si sintonizza anche la brigantessa: “Nell’occasione in cui rimase ucciso mio marito, io riportai al braccio sinistro (…) tale ferita che tutt’ora porto e che qui vedete, onde ero risoluta a consegnarmi all’autorità, ma Antonio Monaco mi minacciava di uccidermi, ogni volta che così mi esternava”78. L’imputata aveva preparato da

ACS, Roma, Tribunali Militari di Guerra per la Repr. del Brig. nelle Prov. Merid., b. 80 (Catanzaro), fasc. 984. ACS, Roma, Tribunali Militari Straordinari, b. 80; ACS, Roma, Tribunali Militari di Guerra per la Repr. del Brig. nelle Prov. Merid., b. 80 (Catanzaro), fasc. 984.

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tempo questo elemento difensivo: nel verbale che il capitano Baglioni stese al momento della cattura si legge: “la Maria Oliverio, tosto che fu nelle mie mani col brigante Gagliardi disse che, sentite le prime fucilate, voleva arrendersi, ma che il Gagliardi l’aveva minacciata d’ucciderla con un colpo di revolver e ciò non fu smentito da Gagliardi”79. In realtà il Gagliardi, gravemente ferito e prossimo alla fucilazione, non aveva né confermato né smentito. Maria Oliverio il 30 aprile 1864 è condannata alla pena capitale mediante fucilazione alla schiena. Fu l’unica condanna a morte di una donna brigante, decisa da un tribunale regolare. La richiesta di grazia fu tempestivamente avanzata con telegramma dal più democratico e civile dei generali italiani, Giuseppe Sirtori. Quali che fossero le sue convinzioni personali e i suoi segreti sentimenti, il generale argomentava che la donna “era stata trascinata al male dalla malvagità del marito”, aggiungendo una considerazione di opportunità, dal momento che quindici giorni prima nella stessa Catanzaro era stato giustiziato il brigante Coppola, ed un esempio di reale clemenza dopo un esempio di rigore avrebbe sortito sicuramente un effetto positivo80. Altro colpo di scena: inaspettatamente giunge una lettera al generale Sirtori, in cui Nicola Parisio, Consigliere della Corte di Appello di Catanzaro, attesta “alcune circostanze in

favore della condannata”, quali il suo comportamento umano verso i suoi parenti Antonio Parisio e suo cugino Mazzei81. Le autorità supreme, il Re e il Ministro della Guerra, hanno già motivazioni sufficienti per commutare la condanna, ma forse non fu ininfluente l’effetto della battaglia per l’abolizione della pena di morte sostenuta, tra gli altri, da Victor Hugo. Ma dovette contare anche il fatto che, almeno per quanto concerne l’uccisione della sorella, la gente del paese si era schierata dalla parte di Maria, perché in lei vedeva la vittima e la vendicatrice di una tresca incestuosa. Pochi giorni dopo la sentenza, l’8 maggio dello stesso anno, il Re d’Italia commuta la condanna alla pena capitale in quella dei lavori forzati a vita82. I paragrafi Il rito di iniziazione, La consegna del cavallo e delle armi, Strategie e trasgressione sono stati scritti in collaborazione con Domenico Scafoglio.

Fonti archivistiche ACS: Archivio Centrale dello Stato, Roma. ASCa: Archivio di Stato di Caserta. ASFr Archivio di Staro di Frosinone. ASI: Archivio di Stato di Isernia. ASP: Archivio di Stato di Potenza. ASS: Archivio di Stato di Salerno. AUSSME: Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma.

Ibidem. AUSSME, Roma, Fondo Brigantaggio, b. 63, fasc. 7, c. 81-92. 81 L’intera storia della grazia è stata diligentemente ricostruita in Curc: 249-60. Per le imprese di Maria Oliverio ved. Sca-Del: 99-103. Nella stessa opera gli autori hanno riscritto e interpretato la vita, la personalità e il mito della brigantessa (pp. 15-17; 99-103, 141-42, 148-51). 82 AUSSME, b. 63, fasc. 7, cc. 1-54. 79 80

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Mujeres en armas: la revolución mexicana de 1910 Alicia Castellanos Guerrero - Francisco Pineda Gomez

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esde tiempo atrás, las mujeres participan de múltiples formas en los procesos de resistencia y transformación social de México. Su presencia en las grandes gestas de la historia nacional ha sido siempre fundamental desde la guerra de independencia, que se inicia en 1810, las diversas resistencias patrióticas contra las invasiones extranjeras, la revolución de 1910, hasta las luchas por sus derechos específicos y los movimientos sociales contemporáneos. Pero la invisibilidad y negación de las contribuciones de la mujer en la forja de una nación soberana y en los procesos emancipatorios de carácter democrático-popular será una constante en el pensamiento patriarcal que se expresa en la historiografía convencional y en una buena parte de la literatura contemporánea, objetos del valioso trabajo de la crítica feminista que ha emprendido, con perspectiva de género, una nueva lectura de nuestra historia. En la lucha por la independencia nacional, los sentimientos patrióticos expresados

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por las mujeres no surgen exclusivamente del “campo de las emociones”, como frecuentemente se puede leer en los libros de la historia oficial, sino que éstos derivan de una conciencia nacional que se fragua en las múltiples formas de sujeción e injusticia colonial, desde el lugar subalterno de su condición femenina en la sociedad, que alienta su compromiso con la nación que se va conformando desde el siglo XVIII. Los prejuicios y el sexismo pesan a la hora de valorar, por ejemplo, el papel que juega en momentos cruciales de la lucha independentista, Josefa Ortiz de Domínguez, de origen mestizo y mulato, “sensible a las experiencias de humillación, desprecio y segregación”1, fuentes que alimentarán su conciencia2. La mujer comunica a los líderes insurgentes los planes de los realistas, ayuda a los soldados del ejército del pueblo y les provee alimentos, funciones que si bien corresponden al mundo de lo “doméstico”, resultan acciones decisivas para el arranque de la rebelión anti-colonial y el triunfo posterior de la naciente sociedad de ciudadanos libres.

Véase Gutiérrez Chong, 2004. Ranero Castro, 2011; Natividad Gutiérrez, 2004: 34.

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Las mujeres intervienen en estos procesos desde los distintos lugares que ocupan en la sociedad y en sus colectividades de pertenencia social, étnica, cultural, al igual que en los proyectos contemporáneos para refundar la nación y resistir los embates de la devastación y el despojo neoliberales; pero, aun así, las tareas que desempeña, aún en el campo de la revolución y la lucha social, se consideran de poca trascendencia, configurando una imagen estereotipada que oculta convicciones políticas, conciencia social y amor a la patria. En la revolución, las mujeres desempeñaron un papel estratégico en la guerra de los ejércitos que lucharon por causas diametralmente opuestas: por una parte, las que se unieron a la lucha del Ejército Libertador del Sur y el Ejército villista, quienes combatieron por el fin de la explotación y la servidumbre de las haciendas, por Tierra y Libertad; mientras que, en la otra, las mujeres son enroladas de diversas maneras en el Ejército federal, luchando por la continuidad de viejos y nuevos privilegios de las elites políticas y las clases dominantes3. Las formas en que las mujeres participan en la revolución fueron multifacéticas y refieren a su protagonismo en el campo de la guerra y la política. En el escenario de una profunda y cruenta revolución, ciertamente, se encuentran mujeres que por su condición de clase, siguen vertientes de la lucha social que se expresan en diversas corrientes políticas. Encontramos mujeres en armas, soldaderas, obreras que luchan por mejores condiciones de trabajo, periodistas destaca 5 3 4

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Véase Martha Eva Rocha Islas, 1991. Véase Rocha Islas, 1991. Ranero Castro, ob. cit: 19.

das en su labor informativa de denuncia y difusión de los ideales de la revolución, sufragistas, etcétera. Por ejemplo, estudiosas ubican figuras como Margarita Ortega y su hija Rosaura Cortari4, quienes fueron militantes magonistas que combatieron en el norte de la República y contribuyen a reorganizar el movimiento en Sonora y, junto con otras mujeres, enfrentaron las tropas de Adolfo de la Huerta, y en un tiempo estuvieron exiliadas en Estados Unidos. En esta lucha, el poder es implacable con las insurrectas, Margarita Ortega es llevada a prisión, torturada por no revelar nombres de otros luchadores y fusilada en noviembre de 1913. Acorde a la misma autora, son mujeres con un sólido compromiso político por sus convicciones ideológicas. Las mujeres en el maderismo, en cambio, son de clase media urbana y constituyen grupos anti-reeleccionistas, trabajan en apoyo a la campaña para la presidencia de Francisco I. Madero: sus nombres son, entre muchos, Teresa Arteaga, Ma. Luisa Urbina, Joaquina Negrete, María Aguilar, Adela Treviño y Carmen Serdán, mientras otras mujeres participan en Ligas y Centros revolucionarios. Puntualizando, las mujeres “se integran de formas distintas en lo doméstico, sindical, militar, político y feminista a las distintas facciones revolucionarias: constitucionalistas, zapatistas y villistas.”5 No obstante, la imagen de la soldadera6 es la única que perdurará en el imaginario social, ya que el poder la difunde y socializa encarnada en la figura de La Adelita, la

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eterna acompañante del soldado, misma que esencializa a la mujer revolucionaria en un papel, marcado por la subalternidad, que reitera la dominación masculina y niega su protagonismo en la resistencia y lucha en contra de un sistema de dominación y por los ideales de la revolución. También, se construye otro estereotipo, en el que se le “dota de características tradicionalmente” atribuidas solo a los hombres, como son “la valentía, el aplomo y la bravura”, cualidades, que en realidad, pueden ser intrínsecas a todo ser humano. Su inserción en este proceso estará sellada por el patriarcalismo, que inexorablemente asigna a la mujer un lugar dependiente y secundario. Cierto que en tiempos de guerra, este orden de cosas sufre rupturas y se abren espacios para campear con mayor libertad y reconocimiento, e incluso ocultar su condición de mujer, como es el caso, entre otras, de Amelia Robles. Esta mujer revolucionaria se hace pasar por hombre y por sus méritos alcanza el grado de coronel en el ejército zapatista; a ella acudían otras mujeres para “protegerse de la violencia sexual de la guerra, o bien, con el fin de participar en actividades militares y ser reconocidas como soldados y no como soldaderas”7. También ésta participación dependerá de la causa que defienden y de los modos de su inscripción en la sociedad. Es verdad que muchas mujeres en este período de la historia nacional cumplen el papel de las llamadas “soldaderas”; esto es,



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van a la lucha para abastecer a los hombres combatientes, pero, a la vez, también es cierto que forman parte del esfuerzo bélico y, en muchos casos, realizan tareas de informantes del Ejército Libertador, son transmisoras de saberes y mensajes estratégicos para la guerra. En tanto adherentes del ejército zapatista, en ocasiones, se defienden y vengan a sus hombres caídos en combate; asimismo, encontramos a maestras sindicalizadas que apoyan al Ejército Libertador, mujeres organizadas en brigadas socialistas, y, desde luego, mujeres en armas de heterogéneas procedencias sociales, que alcanzan diversos grados militares; fueron muchas las mujeres en armas y combatientes en esta revolución social, de todas maneras en la guerra revolucionaria no se lucha sólo con fusiles: hacen falta las estructuras logísticas, médicas, de alimentación; esto es, comunidad, familia, relaciones de parentesco constituyen la base de los ejércitos populares, en los que las mujeres son un pilar central. Siguiendo las caracterizaciones que hacen estudiosos del zapatismo y del ejército zapatista8, hay que señalar la base comunitaria del ejército zapatista, dando como resultado un ejército popular, lo que significa la existencia de una fuerte relación entre ejército y pueblo, entre lo civil y lo militar. Así, parece necesario pensar en las bases estructurales y culturales como condición para tener un mejor entendimiento de las formas de participación de las mujeres en la revolución, en particular en el zapatismo y en el villismo.

Rocha Islas recuerda que la mujer se incorpora en conflictos armados durante el siglo XIX, la compañera del soldado federal (“por extensión llamada “soldadera”), desempeña “tareas tradicionales” y “las que surgen como parte de la guerra”. Cano, citada en Ranero Castro, ob. cit. Francisco Pineda, 2013, entre otros.

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En la cultura agraria, el mundo de lo privado y de lo público se funde en la guerra; así, el hogar y la familia se encuentran en el terreno de la guerra, y mujeres, niños y hombres se desplazan y reproducen en los trenes y campamentos, esto es, en esta contienda las estructuras familiares son fundamentales. Lo mismo ocurría en el villismo, que también era un ejército popular y llevaba familias completas, aunque avanzada la lucha intentó profesionalizar y disminuir la participación de las mujeres y niños. Aquí las mujeres aportan a la causa de la revolución “sus servicios educativos, de vinculación y propaganda”9. Hay mujeres especialmente valerosas, en tareas específicas y en el propio combate, como Mariana Gómez Gutiérrez, quien “escribió artículos a favor de la causa revolucionaria en periódicos publicados en español que circulaban en el sur de Estados Unidos. Participó en la toma de Ojinaga contra los orozquistas en diciembre de 1913; durante el asalto a la ciudad ella iba con la carga de caballería que atacó por el lado oeste. Al ver que las tropas desfallecían se puso al frente de ellas para infundirles ánimo”10. De mujeres valiosas está llena nuestra historia, así como de muchos silencios y distorsiones que ocultan su participación, tanto en la historia oficial como en la supuestamente alternativa. ¿Porque se les ha negado su reconocimiento en los distintos procesos que marcaron las grandes trasformaciones que dan forma a la nación mexicana? Independientemente de ciertos imponderables sociales que originan la separación de lo público y lo privado en la sociedad, indiso

Ranero Castro, ob.cit. Clee Woods, citado en Ranero Castro, 2008. 11 Véase Nira Yuval Davis, en Gutiérrez Chong, 2004. 9

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ciables para la crítica feminista11, que contribuyen a explicar la necesidad de que las mujeres permanezcan en el mundo de lo privado; su exclusión de la esfera pública, de la política, ha sido una estrategia del poder patriarcal constante en muy diversos procesos de integración nacional. Lo cierto es que la ideología patriarcal en sus diferentes tradiciones nacionales y culturales, ha masculinizado el poder y determinado un lugar subordinado para la mujer en la sociedad y en la historia. No obstante, con el tiempo, la historiografía feminista escrita por mujeres y hombres estudiosos de la gesta revolucionaria, ha ido develando los diversos rostros de las mujeres en la revolución, con base en la documentación hemerográfica y la memoria guardada por sus sobrevivientes, cuidadosamente recopilados. Así, la “soldadera”, no es la única forma en que participa la mujer en la revolución. Desde las fuentes históricas y la crítica feminista, se va dando paso a la imagen de una mujer multifacética en sus acciones, de diversas procedencias sociales, étnicas, educativas, generacionales, lo que se va construyendo desde su lugar asignado en la sociedad patriarcal y a partir de su intrínseca rebeldía de ser humano determinada por su circunstancia y por su voluntad.

Mujeres y revolución. Insurgencia y Plan de Ayala No obstante, la historia, desde la perspectiva de los pueblos y contada por su protagonistas, es distinta, las mujeres son artífi-

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ces de la misma; en la revolución de 1910 las encontramos en la esfera de lo público, en la guerra, comprometidas con los ideales de tierra, libertad y democracia. ¿Por qué se levantó usted en armas? Coronela Amelia Robles (zapatista): Por una mera locura de muchacha, fue una aventura como cualquier otra… ¿Y qué sensación experimentó usted al encontrarse en plena aventura? La de ser completamente libre. Pero, ¿no sentía usted temores? No. Yo nací en un rancho y desde pequeña me acostumbré al caballo y a las armas. Antes de ser revolucionaria, ¿a qué se dedicaba usted? Estaba yo estudiando, quería ser médico. Pero, qué quiere usted, vino la bola y me fui a la bola. Al principio, mi decisión no dejó de ser una mera locura; pero después supe lo que defiende un revolucionario y defendí el Plan de Ayala. Coronela Amelia Robles, Ejército Libertador12.

A finales de 1910, sólo se disputaba la presidencia de la república. Después del fraude electoral, el movimiento anti-reeleccionista proclamó una rebelión armada para llevar a Francisco I. Madero al gobierno. Muy pronto, sin embargo, en el sur del país irrumpió la multitud insurrecta y ésta abrió la brecha de la revolución social. Las acciones directas eran frecuentes por todos los rumbos surianos, en especial, contra las haciendas azucareras de los terratenientes, fábricas textiles y grandes comercios de la

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zona; los archivos municipales se incendiaban, las cárceles eran abiertas, los trabajadores presos fueron liberados y azotados los caciques. Por donde quiera surgía la bola zapatista: ¡Abajo haciendas! ¡Viva pueblos! ¡Muera el Supremo Gobierno! En esos días, para apertrecharse de armas y víveres, los campesinos tomaron el centro industrial de Metepec, la fábrica textil más importante de la república. Ahí, las mujeres alentaron a los obreros a tomar por asalto los almacenes, según informó El Diario13. Mientras que, en el exilio, el periódico ácrata Regeneración comentó que, luego de la ocupación llevada a cabo por los zapatistas, “los obreros de la fábrica – hombres y mujeres – no quedaron satisfechos, sino que acordándose de lo mucho que les ha robado la Compañía, decidieron expropiar parte de lo que les ha sido arrebatado bajo el reinado del ‘orden’ y la ‘ley’, y así lo hicieron invadiendo los almacenes y tomando todo lo que en ellos hallaron y que sus propias manos habían producido”14. La fábrica de Metepec llegó a contar con más de 1 500 trabajadores en un solo turno; mientras que, en la proximidad, en los caseríos fabriles de Atlixco, el 90% de los obreros no eran originarios de ese municipio15. Estos datos manifiestan las transformaciones estructurales de la época y, además, tuvieron incidencia directa en la vida cotidiana. Considérese que, en aquel tiempo – como observó el destacado historiador en temas de la vida cotidiana, José Pedro Barrán – en el

Coronela Amelia Robles, Ejército Libertador; entrevista realizada por Miguel Gil, en Iguala, Guerrero, abril de 1927. Citada por Edith Pérez Abarca en Amelia Robles. Revolucionaria zapatista del sur, Instituto Guerrerense de la Cultura, Chilpancingo, 2007. 13 “3,000 atacaron la fábrica de Metepec. Eran 1,500 rebeldes y se les unieron 1,500 operarios de la fábrica que acababan de rayar”, El Diario, México, D. F., 9 de mayo de 1911. 14 “El movimiento avanza. La bandera roja es izada en Sasabe. Madero sigue pidiendo paz pero los rebeldes lo maldicen y lo están desconociendo”, Enrique Flores Magón, Regeneración, Los Ángeles, California, 20 de mayo de 1911. 12

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Uruguay todos eran especialistas de la muerte. A la vuelta del siglo XIX, por el hecho de que la mitad de los muertos eran menores de diez años, todos habían tenido que asistir a enfermos graves y ver morir a más de uno de sus hijos16. Pero la muerte no sólo significaba angustia personal; también, la costumbre y la familiaridad con que se trataba la muerte facilitaban las irreverencias hacia el poder: allá, en la República Oriental del Uruguay, el Entierro de Carnaval, la risa-poder popular; acá, la revolución mexicana. Estimado jefe Hónrome en comunicar a usted que el enemigo está posesionado del cerro de Zempoala y las avanzadas llegan hasta el portezuelo del panadero. La señora coronela Rosa Bobadilla la sitiaron ayer y casi toda la gente la avanzó [capturó] el enemigo. Todos los pacíficos [población civil] que se encontraban en ese punto los mataron, y cuanto ganado había y semillas, todo se lo llevaron. Hoy salgo con el coronel Higinio Mendoza y la misma coronela para dicho portezuelo. Les pondremos una emboscada. Haré todo lo que más pueda, por no tener parque. General Ignacio de la Fuente, Ejército Libertador17.

Rosa Bobadilla viuda de Albarrán, desde el comienzo de la revolución fue zapatista. En una ocasión que viajó a la ciudad de México, fue acusada de que ayudaba a los rebeldes; y en la prensa se dijo, incluso, que Emiliano Zapata con frecuencia pasaba varios días de incógnito en la casa de Rosa. Ella,

que en su poblado era conocida “por su espíritu levantisco” y porque viajaba armada a la ciudad de Toluca, se presentó a las oficinas del periódico a protestar. Aseguró que había ido a la capital de la república para tramitar en Gobernación el ingreso de dos niños al hospicio y que, también, podía demostrar las gestiones que hizo en la Beneficencia Pública. Agregó que ella era revolucionaria y que, en la lucha contra Porfirio Díaz, había conocido a Zapata. ¿Y ustedes, llegaron a conocer al general Zapata en persona? Sí, yo lo llegué a conocer en persona. ¿Cuándo? Cuando envió un escrito al general Valentín [Reyes], para que mandara a un jefe, a que fuera a recibir un lanzabombas18 que le mandaba… Sí, nos recibió muy bien, fuimos como unos diez. Ahí estaba él en una casa viviendo y todos sus soldados. Yo ahí vi muchos, pero yo fui con mi esposo… Entonces, a nosotros nos dio el general [Zapata] una comida, nos dio de comer ya para salir de allá para el monte, con el cañón. ¿Qué impresión le causó a usted el general Zapata? Entonces, me regaló a mí, el general Zapata me dijo: – Señora, me hace el favor de que escoja dos cortes [de tela] de ahí, uno para usted y otro para su esposo. – Cómo no, general. Me paré y escogí un corte para mí y otro para mi esposo, para una camisa. Un hombre muy decente, un hombre muy atractivo, era un hombre que se veía un hombre de conciencia…

Cfr. Coralia Gutiérrez Álvarez (Coord.), Movimientos Sociales en un ambiente revolucionario, BUAP, Puebla, 2013. José Pedro Barrán, Historia de la sensibilidad en el Uruguay, Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo, 2008. 17 General Ignacio de la Fuente al general Genovevo de la O, Ejército Libertador, Mexicapa, Estado de México, 15 de marzo de 1916. Fondo Genovevo de la O (FGO) Caja 6, Expediente 3, Folio 38. 18 Los zapatistas llamaron lanzabombas a los cañones ligeros que ellos fabricaban. Existe una descripción detallada de este cañón de 1.75 m de longitud en: “Hubo pruebas con un nuevo cañón, se fabrican granadas”, The Mexican Herald, México, 15 de abril de 1915. 15 16

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¿Usted no oía qué era lo que querían los zapatistas, por qué peleaban? El lema de Zapata era el que llevaban ellos. ¿Cuál era el lema? El lema de Zapata era que dieran tierras para los que las necesitaban. Porque antes los ricos les daban de trabajar por 20 reales19. Todo el día arando la tierra, ya sus pies ya les lloraban sangre, ya partidos. Unas grietas así, de este tamaño, los inditos… Entonces, estas pobres almas se cansaron naturalmente. Que había revolución, ¡Vámonos a la revolución! Y Zapata: – Ya se acabó el tiempo de antes, despierten muchachos, abran los ojos. Ya se acabó que por 20 reales se mataban trabajando. Ahora no, dice. Ahora, si dios nuestro señor nos ayuda, vamos nosotros a tener tierras para que las trabajen ustedes, para que coman – decía Zapata – y que ningún gobierno se reelija. Por eso es la revolución, que sea efectivo, dice. Irene Copado viuda del general Valentín Reyes, Ejército Libertador20.

Desde la primavera de 1911, con las acciones de la bola zapatista, inició un proceso que será decisivo en la historia de la revolución social de México: la convergencia de mujeres y hombres rebeldes, campesinos y obreros, así como de los zapatistas y magonistas. En el campo de batalla, otras cuestiones – distintas que las disputas electorales – comenzaron a dirimirse como problemas fundamentales de la república. En seguida, Ricardo Flores Magón fue arrestado en Los Ángeles, California. La sección italiana del

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periódico magonista Regeneración denunció el hecho, en Europa21. Al mismo tiempo, en la ciudad de México, principió una campaña de propaganda para exigir el “exterminio de las hordas” jefaturadas por Emiliano Zapata, “El Atila del Sur”. Desde mucho antes, se imaginaba al rebelde con el símbolo de Atila porque éste representa una fuerza extremadamente amenazadora contra los privilegios del poder. Atila – el más fuerte, flagellum Dei – operó, en cierto modo, como un condensador de sentido para las preocupaciones racistas dominantes: el ‘sucio’, ‘mal oliente’, ‘estúpido’, ‘irresponsable’, ‘perezoso’, ‘chocarrero’ y ‘lascivo’, estaba en pie de guerra. Luego del triunfo maderista, las tropas del gobierno masacraron a zapatistas en la plaza de toros de la ciudad de Puebla, donde se había improvisado un campamento revolucionario. Esa noche, “niños, mujeres y ancianos, por centenares, se encontraban, unos durmiendo y otros entonando canciones populares… El fuego de fusilería que vomitaban desde los prados del cuartel de San Javier, las ametralladoras que colocaron en lugares estratégicos y los cañonazos que a 150 metros escasos disparaban sobre la plaza de toros, hicieron pronto una gran mortandad”22. Aquel año, además, hubo tres intentos del gobierno para asesinar a Emiliano Zapata, con emboscadas en Puebla, Chinameca y Villa de Ayala. En esas condiciones, la Junta Revolucionaria del Estado de Morelos proclamó el Plan

“20 reales”: expresión monetaria de origen colonial, los zapatistas la empleaban para designar un pago ínfimo. Irene Copado viuda de Reyes, Ejército Libertador. Entrevista realizada por Alicia Olivera de Bonfil y Laura Espejel, los días 14 y 28 de agosto de 1973, en Contreras, Distrito Federal. Programa de Historia Oral del Instituto Nacional de Antropología e Historia (PHO). 21 “Una nuova Scelleraggine. Ricardo Magón arrestado un’altra volta”, Regeneración, sezione italiana, n. 1, 15 de julio de 1911. Disponible en Internet: archivomagon.net. 22 Testimonio escrito del doctor Guillermo Gaona Salazar y el ingeniero Gustavo Gaona, el 7 de noviembre de 1930, en Francisco Vázquez Gómez, Memorias Políticas (1909-1913), Universidad Iberoamericana-El Caballito, México, 1982, p. 326. 19 20

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de Ayala (noviembre de 1911) y manifestó su propósito de “acabar con la tiranía que nos oprime y redimir a la Patria de las dictaduras que nos imponen”. Llamó a todo el pueblo de México, mujeres y hombres, a luchar con ese fin. No convocó solamente a los campesinos ni sólo a los habitantes del sur de la república. El Plan de Ayala estableció tres tareas fundamentales sobre la propiedad: restitución de las tierras usurpadas, confiscación y nacionalización. Estas acciones se aplicarían, respectivamente, en contra de los usurpadores, los poderosos propietarios y los enemigos de la revolución. A su vez, los beneficiarios de estas medidas revolucionarias serían los pueblos y ciudadanos mexicanos, tanto los que hayan sido despojados como los que sufran la miseria debido a la monopolización; además, las viudas y huérfanos de los combatientes de la revolución. Los zapatistas proclamaron, así, un código de justicia: la ley de los mexicanos desposeídos, diferente y opuesta a la ley de los opresores. “Pueblo mexicano, apoyad con las armas en la mano este plan y haréis la prosperidad y bienestar de la patria”23. Ciudadano general Emiliano Zapata Mi general, estamos a las órdenes de usted. General, quiero que me haga usted favor de darme el nombramiento [escrito] que usted dice darme, anticipándole que por lo pronto necesito 50 carabinas y parque. Suplico a usted tenga la bondad de decirme a quién me dirijo para los haberes de mis soldados. Es cuanto le dice, María Guadalupe Muñiz, Ejército Libertador.

Gracias de que nos haya usted concedido lo que nuestros corazones deseaban: pelear por el Plan de Ayala24.

La revolución social, que recién comenzaba en 1911, había asumido ya la forma de una guerra civil y ésta se prolongará por diez años, con intervenciones militares de Estados Unidos (abiertas y encubiertas). Fue un proceso revolucionario muy difícil, agravado por el hambre y las epidemias, sequías y migraciones, así como por las estrategias de la contrarrevolución que tomaron a la población civil como objetivo militar. Se ha calculado que en la zona nuclear del zapatismo, el estado de Morelos, la pérdida humana total excedió al 60% de mujeres y hombres nacidos antes de 1910. Asimismo se estima que, durante los peores años de la ofensiva militar contra el zapatismo (1915, 1916 y 1918), en la república morían más de la cuarta parte de los bebés, durante el primer año de su vida. En 1914, la esperanza de vida al nacer era de 17 años para las mujeres y, en el caso de los hombres, 15 años25. El costo humano de la guerra de exterminio fue enorme. Tales fueron las condiciones generales en que se produjo la intervención de la mujer revolucionaria, constituyente decisivo de la gesta zapatista. Al C. general Emiliano Zapata Su Campamento Me tomo la libertad de darle un detalle muy superficial sobre nuestra gira a Guanajuato [expedi-

Plan de Ayala, Junta Revolucionaria del Estado de Morelos, en Emiliano Zapata. Antología, Laura Espejel, Alicia Olivera y Salvador Rueda, INEHRM, México, 1988. 24 María Guadalupe Muñiz, Ejército Libertador, San Juan Ixtayopan, Distrito Federal, 10 de abril de 1915, Fondo Emiliano Zapata (FEZ) 7, 4, 92 y 7, 6, 24-25 (dos fragmentos). 25 “Millones desaparecidos: el costo humano de la revolución mexicana”, Robert McCaa, http://www.hist.umn. edu/~rmccaa/costo_humano_revolucion_mexicana.pdf. 23

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ción de una columna guerrillera] y es como sigue: Al hacer nuestra gira en julio del presente año en compañía de mi esposo Cándido Navarro y en unión del señor general Francisco Pacheco, salimos por el rumbo de Salazar en donde tropezamos con tropas enemigas teniendo que tomar el derrotero de Valle de Bravo, en cuyo trayecto encontrando también tropas enemigas con las cuáles se trabó un tiroteo como de cuatro horas. Entonces el general Pacheco ordenó que nos regresáramos y nos internamos en el sierra por donde caminamos todo un día; pernoctando en ella y al amanecer del día siguiente nos encontramos solamente Cándido, Iparco mi hijo y yo. Tal vez en la misma noche ordenó el señor Pacheco salieran las fuerzas que eran a su mando con las cuales se fue mi hijo Diascárides. Entonces nosotros tres nos dirigimos a Coatepec de Harinas, en donde encontramos al señor coronel Alarcón y su fuerza, la que nos acompañó hasta Pilcaya, Guerrero, de ahí le escribimos al señor general Pacheco suplicándole que nos mandara a nuestro hijo y demás acompañantes y en espera de nuestra contestación estuvimos dos días y entonces las fuerzas, no pudiendo permanecer por más tiempo, siguieron rumbo a Guanajuato, quedándome yo en Pilcaya en espera de mi hijo y los demás, los cuáles no llegaron a pesar de haber escrito cartas a varios jefes. Permanecí allí dos meses en completa incomunicación, hasta que por casualidad fue el coronel Vides Barona a una expedición y pude comunicarme con el general [Ángel] Barrios, quien en otra expedición que mandó por allá y de acuerdo con el general [Genovevo] de la O me trasladaron a San Nicolás Malinalco, donde tengo el gusto de ponerme a sus órdenes; donde sigo ignorando el paradero de Cándido y mis hijos. Suplicándole muy atentamente si usted ha sabido algo de ellos se digne informarme, pues repito no he sabido nada de ellos.



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Me encuentro triste solamente por no poder hacer algo en fruto de nuestra causa. Sin más y deseándole todo bien y triunfos en la causa que defendemos, quedo de usted como siempre su afectísima segura servidora. Reforma, Libertad, Justicia y Ley Carlota Bravo de Navarro, Ejército Libertador26.

Cuando esta mujer revolucionaria escribió esa carta a Zapata, ella no sabía que su esposo ya había muerto en combate. Esa columna guerrillera tenía por meta irradiar la lucha zapatista en el norte del país y establecer su base de operaciones en San Luis Potosí. Quizás, en su soledad, Carlota Bravo recordó amargamente aquella esperanza con la que ella, su esposo y sus hijos, se incorporaron a la revolución zapatista, cuatro meses antes cuando hicieron una colecta en Azcapotzalco, Distrito Federal, e hipotecaron su casa para comprar armas. Liberación o muerte La usurpación primordial de las tierras y la configuración del poder se hizo, en México, por medio de la guerra colonial. El propio Hernán Cortés recibió de la monarquía española el Marquesado del Valle, un título de despojo que comprendía tierras, montes, aguas y decenas de miles de vasallos en zonas de los actuales estados de México, Veracruz, Michoacán, Oaxaca, Morelos y el Distrito Federal. Al inicio del siglo XX, sin embargo, el régimen agrario colonial de las haciendas no había desaparecido. Por el contrario, continuamente potenció sus efectos destructores. En Morelos, con la introducción del ferroca-

Carlota Bravo a Emiliano Zapata, Campamento Revolucionario en el Estado de México, 10 de noviembre de 1913, FGO 13, 10, 66.

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rril y la maquinaria moderna de los ingenios azucareros, se intensificó la usurpación. Las tierras destinadas a sembrar el maíz fueron arrebatadas a los pueblos, para transformarlas en cañaverales. Los pueblos también fueron despojados de las principales fuentes de agua, a fin de incrementar la capacidad de irrigar las plantaciones y para generar fuerza motriz en los ingenios azucareros. Asimismo, fueron despojados de sus bosques, para facilitar otra fuente energética a las haciendas: el carbón y la leña. Ante los reclamos campesinos, un hacendado de Morelos respondió a gritos: si quieren sembrar maíz, que lo siembren en macetas. ¿Cómo se hizo la conquista de México? Por medio de las armas. ¿Cómo se apoderaron de las grandes posesiones de tierras los conquistadores, que es la inmensa propiedad agraria que por más de cuatro siglos se ha transmitido a diversas propiedades? Por medio de las armas. Pues por medio de las armas debemos hacer porque vuelvan a sus legítimos dueños, víctimas de la usurpación. El general en jefe Emiliano Zapata27.

A diferencia de lo que sucedió en otras regiones azucareras del mundo, en Morelos, la instalación de la tecnología moderna no produjo un dispositivo dominante con dos clases, el terrateniente y el industrial. Aquí, la innovación técnica se aplicó sobre el régimen agrario colonial28. Por eso se agudizó, simultáneamente, el monopolio de la tierra y la concentración

industrial en manos de los hacendados. Esto es, en la zona nuclear del zapatismo la moderna hacienda unió la apropiación de una renta absoluta, derivada del monopolio de la tierra, con la apropiación de plusvalía, derivada de la explotación industrial del trabajo en los ingenios azucareros. Esto engendró una clase dominante combinada – terrateniente y capitalista industrial a la vez – con métodos exacerbados de explotación, despojo y humillaciones. Las infamias contra las mujeres, los trabajadores y sus familias, para someterlos al orden industrial-terrateniente, produjeron una inmensa destrucción de la vida comunitaria. Pero el régimen de humillaciones que impuso el capitalismo industrial, el agravio moral, también fue uno de los factores que potenciaron la gran rebelión de los oprimidos. Tenían su costumbre de que ahí [en la hacienda] entraban todas las muchachas, ¿verdad?, y la que le gustaba al administrador la pedía y se la habían de dar, pero no para siempre, nomás para una noche. Y cuando se casaba un operario, un trabajador, tenía que depositar a la muchacha allá en el curato, para que el cura, el administrador o el hacendado le “enseñaran sus obligaciones” primero. Así se acostumbraba en aquel tiempo, [así] nos platicaban los mismos viejos de aquella época. [El cura], ése vivía en México, nomás venía a visitar. Ahí el administrador era el de todo. Sí, pero era español; no era indio, eh. Por eso, cuando la revolución, los trabajadores de la hacienda fueron los que más se sublevaron, de allí salieron coroneles, generales, capitanes… General Próspero García Aguirre, Ejército Libertador29

El General Emiliano Zapata a Gildardo Magaña, Ejército Libertador, Campamento Revolucionario, octubre de 1913. FGO, 17, 2, 34. 28 Cfr. Horacio Crespo, Historia del Azúcar en México, tomo I, Azúcar S.A. y Fondo de Cultura Económica, México, 1988. 29 General Próspero García Aguirre, Ejército Libertador, entrevista realizada por Laura Espejel y Salvador Rueda en Tlatenchi, Morelos, el 16 de agosto de 1975 (PHO). 27

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El dilema moderno estaba bien claro: el sometimiento brutal o la muerte. Las masacres de obreros en Cananea y Río Blanco (1906), en este sentido, fueron emblemáticas de aquello que ocurría por todos lados. Pero, en esas condiciones, sucedió lo extraordinario. La gente abrió un boquete a ese callejón sin salida y emprendió una gran revolución. Así, con el doble movimiento de la mirada – sobre el contexto específico del capitalismo industrial y sobre la historia larga de la colonialidad del poder – es posible apreciar la articulación de las luchas del campo y la fábrica, la convergencia de mujeres y hombres, en contra de aquel régimen de explotación, humillaciones y despojo. General Emiliano Zapata Las alumnas del Colegio Guadalupano del Sagrado Corazón, al saber de su entrada triunfante a México, llenas de júbilo nos reunimos en la casa de la alumna Victoria Castro, y pasamos el día muy feliz, honrando a los libertadores de la patria y gritando mueran los verdugos carrancistas que nos dejaron aterrorizadas por los horrores que cometieron y a cada rato saboreábamos estas palabras: vivan los valientes héroes que lucharon con valor hasta romper las cadenas de la esclavitud… Y nos enorgullecemos que nuestra patria tenga hijos fieles que sienten inflamado su corazón con el sacrosanto fuego del patriotismo, y su levantada actitud sirve de ejemplo. Luz Aguilar, La Piedad, Michoacán30.

Ahí, en la multiplicidad de articulaciones, radica la potencia de impacto de aquella experiencia revolucionaria y sus enseñanzas. Si la dominación capitalista impone múltiples rupturas a la vida en común; entonces,

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la posibilidad de comprender aquella gran lucha popular radica en redescubrir las articulaciones dentro de la diversidad territorial y de género, en el campo y en la fábrica, así como a través de las duraciones distintas de los procesos históricos de poder y resistencia. En el pueblo de San Pablo Atlazalpan, reunidos a petición de la señorita presidenta Adelaida del Castillo, los señores jueces y todo el pueblo que voluntariamente con ella están dispuestos a sacrificarse dando un paso al frente para defender los derechos de nuestra patria, en unión de nuestro jefe supremo de la revolución del sur y centro, el ciudadano general Emiliano Zapata y del general Everardo González; para demostrarles nuestra unión y fidelidad firmamos todos de acuerdo lo antes dicho con la expresada señorita, levantamos esta acta en febrero 7 de 1915, con las firmas que al calce se presentan31.

Que en esta lucha hubo grandes obstáculos, es cierto. Pero también es cierto que hay que descubrir cómo los revolucionarios trataron de enfrentar las dificultades y cómo, en común, construyeron un horizonte de liberación social y liberación nacional. Hubo experiencias, en muchos estados de la república, en que las mujeres tuvieron mando revolucionario; los hombres, por su lado, no sólo lo aceptaron sino que lo respetaron y expresaron orgullo por el mando de una mujer. Con esto también se manifestaba el curso ascendente de la revolución social. La subversión de los artificios que produjeron jerarquías milenarias estaba en marcha. – ¿Y ése que va [vestido] de charro?… Ay vale, este coronel ha de ser muy valiente.

Luz Aguilar, La Piedad, Michoacán, 12 de enero de 1915. FEZ 4, 1, 43-44. Adelaida del Castillo y 99 firmas, Atlazalpan, Estado de México, 7 de febrero de 1915. FEZ 5, 1, 60-61.

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– ¡Qué, no te fijas! ¡Si es la China [pelo crespo], la coronela China! Y que le veo las orejas, pues las tenía agujereadas; y ella nos iba arriando a bajar al gobierno. Y entonces conocí, verdaderamente, a la coronela China… ¿Nos podría describir más, un poco más, a la coronela China? Era trigueña de tez, media delgada, alta, muy delgada. ¿De dónde era ella? No sé de dónde haya sido. Ella era costeña, pero no sé de dónde… Era prieta costeña [origen africano]… ¿Ella también traía hombres bajo su mando? Bastante gente. Pero, en la revoltura, allí, quién iba a saber cuántos serían. Joaquín Campos Rodríguez, Ejército Libertador32.

Por lo mismo, la contrarrevolución se empeñó con saña en combatir a las mujeres, a las familias y a las poblaciones del territorio zapatista. La suegra de Emiliano Zapata, doña Guadalupe viuda de Espejo y tres de sus hijas fueron secuestradas por el gobierno militar de Victoriano Huerta, a mediados de julio de 1913. En aquella ocasión, la secretaría de Guerra dijo que, desde hacía tiempo, tenía aviso de la existencia de una red de mujeres que, con el pretexto de vender comida o fruta en las estaciones del ferrocarril, eran hábiles informantes de los zapatistas, a los que ponían al corriente de las fuerzas militares que llegaban, así como de sus movimientos. Pero ése no era el caso de la familia Espejo, que vivía refugiada en Yautepec. “El objeto de la detención de estas mujeres es el de tenerlas

como rehenes”, explicó el principal diario de la ciudad de México, El Imparcial 33. Las mujeres como rehenes: eso también fue un elemento de la guerra de exterminio contra los zapatistas. El Ejército Libertador redobló sus esfuerzos militares. En aquel momento se preparaba un ataque sobre la ciudad de México y, al mismo tiempo, un atentado dinamitero sobre el automóvil del dictador Victoriano Huerta. La policía secreta hizo una batida en la capital y obtuvo evidencia de los preparativos. El encabezado de la sensacional noticia rezaba: “Una banda de anarquistas pretendía dinamitar al señor presidente de la república y otras personas”. Este episodio de la revolución ofrece nuevos elementos de la lucha olvidada que hicieron los zapatistas en la capital de la república. En efecto, en aquellas acciones zapatistas participaban mujeres y hombres que venían de las filas magonistas. En esta ocasión, Susana Barrios, hermana del general insurgente encargado de la preparación del ataque a la ciudad de México, fue una de las mujeres aprehendidas por la policía. “Agradezco a usted sinceramente – le escribió Ángel Barrios a Emiliano Zapata – la participación que toma con motivo de la prisión de mi hermana y compañeras [Dolores Jiménez y Muro, Juana Belén Gutiérrez de Mendoza], que tantos y tan buenos servicios han prestado y seguirán prestando en provecho de la causa del pueblo; pero puede usted estar seguro que desde su prisión estarán ayudándonos ya moral como intelectualmente en nuestros trabajos”34.

Emiliano Joaquín Campos Rodríguez, Ejército Libertador. Entrevista realizada por Laura Espejel en Miacatlán, Morelos, el 12 de julio de 1975 (PHO). 33 El Imparcial, 7 de julio de 1913. 34 Ángel Barrios a Emiliano Zapata, Campamento Revolucionario en el Estado de México, 3 de agosto de 1913, FGO 13, 7, 18-19. 32

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Los magonistas llevaron su experiencia de lucha clandestina armada a la revolución del sur. Ángel Barrios, por ejemplo, mencionó que usaba tinta especial en los mensajes que enviaba a la red urbana zapatista, en la capital de la república. Mientras que en su campamento se elaboraban balas esféricas de plomo para el cuerpo de escopeteros. También fabricaban minas, bombas y demás explosivos con que se dotó a un cuerpo especial de dinamiteros. El artefacto para el atentado contra de Victoriano Huerta debió ser eléctrico; no sería lógico el empleo del sistema de mecha para atacar, en movimiento, el automóvil del dictador. Jesús E. Hernández (a) Trigueño, un minero que trabajaba en tareas clandestinas de ese contingente, llevó los implementos eléctricos hasta el campamento de Ángel Barrios. El 24 de noviembre de 1914, tres años después de la proclamación del Plan de Ayala, el Ejército Libertador tomó la capital de la república, cuya población era de más de 400 mil habitantes. Poco después arribó Emiliano Zapata y los periodistas se presentaron en su campamento. El jefe suriano se hallaba en medio de un numeroso grupo de hombres humildes que formaban semicírculo a su alrededor. Una banda amenizaba con sus acordes y una débil luz alumbraba la escena, en la estación de ferrocarril. Ahí no había siervos opulentos, ni jueces beodos de sangre, como antes dijera la prensa. No había tumbas profanadas o danzas satánicas, ni cuerpos mancillados o pudores inauditos. Nadie se complacía en extraer los ojos

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y cortar los testículos. No había rastros de chacales ni de turbas demoníacas, orgías monstruosas, huesos calcinados, miembros tumefactos y dios no era flagelado por Atila35. Sólo eran humildes rebeldes convencidos de su propia fuerza libertaria. Mujeres y hombres, ancianos y niños, dispuestos a vencer o morir, pero también dispuestos a vencer y cumplir. Había gente de a’i mesmo de México que a los zapatistas nos conceptaban como… se puede decir, como gente que come gente, vaya. ¡Sí, de veras! [ríe] – Ustedes se comen a la gente, nos dijeron unas que se sentaron con nosotros a’i en el zócalo. Y me le quedo mirando yo, a una joven, le digo: – Bueno, ¿por qué nos dices eso? Dice: Porque ustedes son muy… ¡Quién sabe!, como del cerro. Ustedes se comen a la gente… Coronel Narciso Cuéllar Ramírez, Ejército Libertador36.

La revolución social en ciudad Días después llegaron a México las fuerzas de Pancho Villa y se reunieron con las zapatistas. Un reportero anticipó que por mucho tiempo se conservaría en la memoria la marcha de los 58 mil rebeldes del sur y del norte que recorrieron la urbe resonante, el domingo 6 de diciembre de 1914. La vanguardia de la columna armada había llegado a Palacio Nacional a las 12 y diez minutos. Los metales tocaron a libertad mientras que Villa y Zapata entraban.

Acerca del discurso racista contra el zapatismo, cfr. Francisco Pineda, La revolución del sur, 1912-1914, Ediciones Era, México, 2005, y primera reimpresión, 2013. 36 Coronel Narciso Cuéllar Ramírez, Ejército Libertador. Entrevista realizada por Laura Espejel en El Higuerón, Jojutla, Morelos, el 19 de julio de 1975 (PHO). 35

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Al salir al balcón central del Palacio, ambos recibieron el saludo del gentío que llenaba la plaza de armas y fervor. Se descubrieron ante la multitud que los aclamaba, y permanecieron así hasta que la manifestación cesó. No me consta pero me han asegurado que nací en San Juan del Río, Durango, el nevado amanecer del día 27 de enero de 1875. Este dato debe ser importantísimo, porque lo han anotado con minuciosa escrupulosidad en los registros de la cárcel, cada vez que he estado allí… Cuando entro a alguna parte, o cuando me presentan a alguien, digo invariablemente: Juana B. Gutiérrez de Mendoza, San Juan del Río, Durango, 27 de enero de 1875, etcétera, etcétera. Estos etcéteras son la segunda parte del programa… También me los sé de memoria y también me he acostumbrado a repetirlos; parecen un sonoro repique de campanas a vuelo: sedición-rebelión, sedición-rebelión, sedición-rebelión… Eso dicen las palabras que agregan a mi nombre en los registros. Juana Belén Gutiérrez de Mendoza, Ejército Libertador37.

Desde antes de la revolución, Juana Belén destacó como directora del periódico rebelde Vésper. Por su parte, Dolores Jiménez y Muro – quien usaba el seudónimo de Espartaco – dirigió dos periódicos zapatistas, El Ideal Suriano y El Libertario, en Cuernavaca y la ciudad de México, respectivamente. Asimismo, en la capital, Dolores Jiménez y Muro fundó un Centro Feminista. Además, en su condición de maestra, junto con el profesor y general zapatista Otilio Montaño lograron la adhesión del Sindicato de Maestros de Escuela a la causa del Plan de Ayala. Así, el 21

de marzo de 1915, por las calles de la capital desfilaron las primeras milicias de las maestras adherentes a la revolución, armadas con fusiles, uniformadas y con un estandarte que decía: “1er. Regimiento de la Brigada Socialista de México.- Sexo Femenil”. El 5 de mayo siguiente, desfilaron contingentes del mismo sindicato junto con tres mil efectivos de infantería, caballería y artillería del Cuerpo Nicolás Bravo del Ejército Libertador. Conmemoraban de ese modo la victoria de las tropas republicanas de México sobre las tropas imperialistas de Francia (Puebla, 5 de mayo de 1862). El desfile del 1° de mayo lo hicieron los zapatistas con el Sindicato Mexicano de Electricistas. Las fuerzas villistas habían marchado al norte, desde diciembre, y sólo dejaron delegados y escoltas en la capital. Secretario General del Sindicato de Maestros El general Otilio E. Montaño, en la entrevista que tuvimos últimamente, me comunicó de una manera verbal los propósitos de ustedes, afiliándose a los principios que sirven de lábaro a esta revolución, y estimaría infinito de su patriotismo y entereza, que laboraran ahora, como siempre, en pro de la buena causa que sostenemos con tezón y sacrificio. Celebro infinito su actitud, y al encausarse en la vía que prosiguen, obtendrán, sin duda, el aplauso de la Patria y la estimación de sus conciudadanos. Sírvase usted dar cuenta con la presente nota a la H. Asamblea y aceptar mi nsideración y aprecio. El general en jefe Emiliano Zapata38.

En el mes de junio, el Sindicato de Maestros de Escuela se reunió, en asamblea, para

Apuntes autobiográficos en Juana Belén Gutiérrez de Mendoza, extraordinaria precursora de la Revolución mexicana, Ángeles Mendieta Alatorre, México, 1983, p. 18. 38 “Un telegrama del general Emiliano Zapata”, The Mexican Herald, 6 de mayo de 1915. 37

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ratificar su apoyo al Ejército Libertador. Los trabajadores de la educación comunicaron al general Otilio Montaño que estaban dispuestos a empuñar las armas y, además, formar brigadas sanitarias, organizar servicios de ambulancia, vigilancia y exploración, así como “levantar el espíritu del pueblo, por medio de mítines en los lugares públicos más concurridos de la ciudad”. Aquella asamblea también acordó establecer, en la línea de fuego, un servicio de información para el sindicato39. Otilio Montaño – ministro de Instrucción Pública y Bellas Artes en el gobierno de la Convención Revolucionaria y, a la vez, miembro del sindicato – les respondió complacido. Dio instrucciones para que todos los profesores que tuvieran arma se alistaran, en ese ministerio, para asignarles su brigada y pidió las nóminas de las profesoras integrantes de las brigadas sanitarias del sindicato. La comisión sindical estaba formada por las maestras Marina Martínez y Clementina Barroso, así como por los profesores Jesús Sánchez, Rodríguez Arana y José Juan Barroso40. ¿Y usted conoció a algunas mujeres en la revolución? El que jue coronela es de San Pablo Oztotepec [Distrito Federal], que se llamaba Esperanza; parece que se llamaba Esperanza González. ¿Ella tenía grado? Coronela. ¿Y qué tal era doña Esperanza González luchando?

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Pues, era arrebatada, era arrebatada… una muchachona gorda y tenía su sombrero tejano y con sus polainas y con su pantalón de caballería que tenía. ¡Ah!, usaba pantalón la señora. Pantalón de caballería. ¿No usaba falda? No, con un [sombrero] tejano y se parecía a muchacho. Con un caballo prieto y su pistola. ¿Y fue la única que usted conoció, mujer…? Otra mujer de San Salvador [Cauhtenco, Distrito Federal], pero nunca me acuerdo cómo se llamaba. ¿Y usted la conoció a doña Esperanza González, habló con ella? ¡Cómo no!, nos encontramos allá en Yautepec, en la hacienda de Atlihuayán, donde también fue a pedir elemento de guerra y allí estuvimos chanceando, allí en la hacienda [donde el Ejército Libertador instaló la Fábrica Nacional de Cartuchos, acuñó moneda de plata y cobre, e instaló su escuela militar41]. Juan Arellano Aguilar, Ejército Libertador42.

A su vez, el Centro Feminista marchó por las calles de la capital junto con el Sindicato de Maestros de Escuela. “En esta ocasión, ha manifestado más entusiasmo el elemento femenino que el masculino”, observó un reportero43. Las mujeres de la ciudad estaban en la línea. Al mismo tiempo, las reuniones de los trabajadores se multiplicaban. Luego de la primera conferencia para obreros que asistían a escuela nocturna, en el Museo Nacional, se proyectó una película sobre la tragedia de la explotación y el ham-

“Están dispuestos a empuñar las armas.- Una comisión del Sindicato de Maestros se acercará a la Comandancia Militar con el fin de ofrecer sus servicios para la defensa de la metrópoli”, The Mexican Herald, 20 de junio de 1915. 40 “Los profesores se aprestan a luchar. – El Sindicato de Maestros de Escuela pide defender a la Convención con las armas en la mano”, The Mexican Herald, 20 de junio de 1915. 41 Cfr. Francisco Pineda, Ejército Libertador, 1915, Ediciones Era, México, 2013, pp. 382-384. 42 Juan Arellano Aguilar, Ejército Libertador. Entrevista realizada por Alicia Olivera de Bonfil en Milpa Alta, Distrito Federal, el 7 de agosto de 1973 (PHO). 43 “Los maestros marcharon esta mañana”, El Combate, 24 de junio de 1915. “Se efectuó la manifestación convencionista”, The Mexican Herald, 25 de junio de 1915. 39

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bre, Germinal 44. Otro periódico adherente de la causa zapatista, El Combate, publicaba en esos días, por entregas, el folleto de Kropotkin, “Los Tiempos Nuevos”45. Sergio Pasuengo, villista, junto con Luis Méndez y Antonio Díaz Soto y Gama celebraron un mitin socialista en el Teatro Colón, participaron oradores del Sindicato Mexicano de Electricistas46. Mientras tanto, el Sindicato Mexicano de Electricistas, el Sindicato de Empleados y Obreros de la Compañía de Tranvías de México, el Sindicato de Empleados de Comercio y el Sindicato de Dependientes de Restaurant, fundaron la Confederación General del Trabajo47. En aquellos días de junio, el Ejército Libertador defendía la ciudad de México del ataque masivo carrancista y, simultáneamente, las mujeres pobres de la ciudad se alzaron. Venustiano Carranza había establecido el bloqueo económico, la burguesía en masa acaparaba los principales víveres y los pobres de la ciudad padecían hambre. Para el lunes 21 de junio de 1915, cuando triunfó la primera resistencia zapatista contra el ejército enemigo, las aglomeraciones para conseguir maíz se volvieron avalancha humana. Unas 30 mil mujeres batallaron para conseguir algo qué comer, hubo dos muertas y varias heridas. En ningún expendio o mercado se consiguió masa ni maíz. Y se agotó la paciencia. En seguida, la gente en tumulto se decidió a tomar por la fuerza los víveres que negaban los acaparadores. La lu-

cha se generalizó en todos los rumbos de la ciudad. El pueblo hambriento ha empezado a castigar a sus infames verdugos, expresó El Combate. Un contingente de la multitud acudió al cuartel zapatista en la capital, para reclamar la solución al problema del hambre. Ahí, el encargado directo del Cuartel General zapatista, general Santiago Orozco (antiguo magonista, hijo adoptivo de Juana Belén Gutiérrez de Mendoza y desde el año anterior, además, su yerno), hizo un discurso y luego envió una declaración escrita para la prensa, que se publicó al día siguiente, cuando la rebelión urbana escaló. Un numeroso grupo de soldados y del pueblo ha venido hoy a gritarme qué es lo que se hará en situación tan desesperada si el problema sigue complicándose, teniendo como único resultado el hambre. Dicho grupo me pedía que le informara que si nosotros no tomaríamos medidas para solucionar este problema. Yo les contesté que en mi carácter de revolucionario defendería la causa del pueblo en cualquiera circunstancia en que me encuentre y la posición en que me pueda encontrar. El problema está en pie: el hambre, la miseria y la angustia reinan ahora entre la clase humilde del pueblo, y de prolongarse esta situación, el comercio sufrirá las consecuencias si no restringe su actual comportamiento. El dilema es éste: o el comercio vuelve sobre sus pasos o el pueblo y las tropas tomarán lo que necesiten de donde lo encuentren… Este es el dilema y los culpables deben de atenerse a las consecuencias. General Santiago Orozco, Ejército Libertador48.

“La primera conferencia para obreros.- Se hizo propaganda de los ideales proclamados por la revolución”, The Mexican Herald, 24 de junio de 1915. Germinal (Albert Capellani, 1913, 140 min.), basada en la novela de Émile Zola sobre una huelga minera, en el norte de Francia. 45 Kropotkin, “Los tiempos nuevos”, traducción de Juan J. Rubio, El Combate, 18-29 de junio de 1915. 46 “Mitin socialista en el Teatro Colón”, El Combate, 26 de junio de 1915. 47 “La Confederación General del Trabajo”, The Mexican Herald, 25 y 26 de junio de 1915. 48 “Pueblo y soldados se dirigen al Cuartel General del Sur”, The Mexican Herald, 25 de junio de 1915. 44

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El 22 de junio, grandes contingentes de mujeres pobres acudieron a los mercados y tomaron los víveres. La acción directa se propagó por toda la ciudad, hubo graves enfrentamientos de carácter insurreccional. En las calles de Simón Bolívar, el guardián de una tienda disparó “sobre la multitud, habiendo causado la trágica muerte de una infeliz mujer y lesionado a algunas otras personas que allí se encontraban”49. Otra mujer, que encabezó la rebeldía en calles del centro, descargó rudos golpes de hacha contra la tienda de abarrotes El Vapor, al tiempo que insultaba a los propietarios del establecimiento. Las puertas estaban por ceder, cuando se oyeron detonaciones de arma de fuego que provenían del interior y se produjo la dispersión. Murió asesinada una mujer. La muchedumbre se rehízo pronto, los disparos de la tienda continuaban; mujeres y hombres arrancaron pedazos de asfalto para defenderse y arremetieron de nuevo contra la tienda.La columna insurrecta en la octava demarcación fue encabezada por una joven de 15 años, Carmen Macías. La policía fue impotente para contener la acción y ‘alguna persona’ hizo varios tiros al aire para tratar de disolver el coraje. Carmen, en lugar de intimidarse, arengaba a sus compañeras. En la tienda Las Cumbres de Maltrata, esquina de Bolívar y Mesones, el propietario Fernando Pérez Álvarez y uno de sus empleados también hicieron fuego contra la gente, después fueron capturados. Sobre la calzada de Nonoalco, Sabina García fue asesinada por bala en el pecho, murió un niño de 40 días y resultaron heridas por bala María Concep-

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ción Panera, Dominga Romero, Manuela Velázquez, Catarina Corona, así como Pedro Jiménez. Los zapatistas encargados del Cuartel General y el ayuntamiento del Distrito Federal, Santiago Orozco y Gildardo Magaña, ordenaron al Inspector de Policía (villista) que pusiera en absoluta libertad a las prisioneras de las jornadas de lucha50. La combinación del levantamiento urbano y la defensa armada de la capital fue el rasgo más peculiar de las jornadas de junio. En el mismo espacio y tiempo, los más humildes y los más oprimidos, en combate: las mujeres pobres contra la burguesía y el ejército de los campesinos revolucionarios contra el carrancismo. Con un añadido importante, era la capital de la república y tiempo de revolución. Aquellas columnas multitudinarias de mujeres pobres pasaron de la defensiva a la ofensiva. Ya no pidieron maíz, lo tomaron por medio de la acción directa. Si en 1911, la proclama del Plan de Ayala para restituir, confiscar y nacionalizar las tierras fue, abiertamente, un llamado a la insurrección campesina; ahora, en la capital, la confiscación masiva de los alimentos, en los hechos, era un llamamiento a la insurrección urbana. En junio de 1915, surgió una situación insurreccional. Pero, no era la huelga política general de los obreros lo que generaba condiciones para el levantamiento urbano masivo, sino la fuerza de las mujeres y los campesinos, en las calles de la capital y en la línea de fuego. En esta coyuntura, el problema crucial de la insurrección urbana no era cómo ganar para la causa a un sector del

Ídem. “Los grupos no hacen frente a los bomberos”, “Más de 10 cuartillos de maíz se venden”, The Mexican Herald, 27 de junio de 1915.

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ejército represor – como ocurrió en otras experiencias históricas – sino cómo incorporar a los hombres trabajadores al levantamiento. La huelga revolucionaria para ejecutar, en la capital, masivamente el Plan de Ayala y nacionalizar los bienes a los enemigos de la revolución estaba a la orden del día, igual que la defensa militar. Lo crucial no eran los alegatos doctrinarios. Más bien, los acontecimientos señalaban una posible ruta: ligar orgánicamente la fuerza de la insurgencia campesina con la rebelión de las mujeres y llamar a la huelga general como medio auxiliar para producir la insurrección. El levantamiento general en la ciudad y la confiscación a los enemigos de la revolución, no eran una utopía; más bien, fue la acción masiva de las mujeres pobres en las calles. En los hechos, fue el punto más alto de la revolución social de México, un trayecto convergente en las luchas del campo y la ciudad. La situación insurreccional que se produjo era la condición necesaria para asumir los siguientes escalones revolucionarios: aplicar masivamente el Plan de Ayala en la ciudad y confiscar los bienes a los enemigos de la revolución, acaparadores y especuladores, que era la burguesía en masa; en consecuencia, estructurar órganos populares para el control de los alimentos y la producción. Ese proceso revolucionario de los pobres del campo y la ciudad, a pesar de grandes dificultades que tuvo desde que inició en el año de 1911, arribó a un punto en que se avizoraba otro horizonte histórico: la posi-

ble unidad orgánica del Ejército Libertador y el levantamiento urbano; la combinación de trincheras y barricadas para asumir conjuntamente la resistencia armada al carrancismo y a la burguesía. Semanas después, el ejército carrancista sobrepasó a las líneas defensivas del Ejército Libertador y tomó la capital de la república. El New York Times anunció alegre: “es el principio del fin de la revolución”51. Por su parte, el comandante carrancista proclamó que, con la ocupación de la ciudad de México, “el gobierno constitucionalista domina casi la totalidad de la república y con ello ha demostrado que es un gobierno fuerte, porque cuenta con las armas” – entregadas por Estados Unidos52 – “para el restablecimiento del orden y la ley”53. En seguida, González informó a Carranza que sus topas habían hecho más de 3 mil muertos zapatistas, sólo en uno de los sectores de combate, y decretó la anulación de la moneda circulante en la ciudad. Los comerciantes se negaron a vender y de inmediato reinició la rebelión de las mujeres pobres, en toda la ciudad de México. El motín más grande ocurrió en La Merced, el mayor mercado urbano del país. Llegó la tropa carrancista y lanzó una carga de caballería contra la multitud, pero la avalancha humana de mujeres y niños no se disolvió. “Minutos después, se escucharon descargas de fusilería. En el pavimento ensangrentado quedaron yacentes” los cuerpos del hambre. Bajo un titular que rezaba: las autoridades militares emplearon la fuerza para poner orden, el Mexican Herald

“Capture of Mexico city by the carrancista forces”, The New York Times, 12 de julio de 1915. En nueve meses, enero-septiembre de 1915, el ejército carrancista recibió de Estados Unidos 25.3 millones de cartuchos y 53 749 fusiles y carabinas, según los registros del mismo ejército en el puerto de Veracruz. Cfr. Francisco Pineda, Ejército Libertador, 1915, op. cit. 53 “Las operaciones del Ejército de Oriente”, The Mexican Herald, 12 de julio de 1915. 51 52

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informó: “A los primeros disparos, el pánico se posesionó de la multitud y, en desordenada carrera, hembras y pequeñuelos empezaron a guarecerse en cuanto punto se creían a salvo de una bala… golpeaban fuertemente en las puertas de las casas cercanas, pidiendo asilo con angustiada voz. Todo era inútil”. La bestia estaba lanzada y “las maderas de las puertas se oponían al paso de los que buscaban refugio”. La tropa carrancista también disparó contra la muchedumbre en La Lagunilla, San Juan y el rumbo del casco de Santo Tomás. Las mujeres heridas fueron amontonadas en el Hospital Juárez, donde no había médicos, medicinas, ni camas para atenderlas54. Las muertas de La Merced y otros mercados no fueron tomadas en cuenta, desaparecieron. El orden del hambre se mezcló con la sangre, eso ha sido de ley.Al día siguiente, en Washington, el secretario de Estado dio instrucciones al agente Silliman: “dígale a Carranza que la actitud de Pablo González, al ocupar la ciudad de México, ha causado una impresión favorable”55. La guerra de resistencia zapatista continuó por cinco años más, en condiciones etraordinariamente difíciles. Fue una gesta heroica de la revolución social y eso no lo pudieron exterminar, quedó grabada con fuego en la memoria histórica de México. Pero si la historia de la revolución zapatista puede ser entendida como un texto, otras revoluciones sociales aparecen ineludiblemen-

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te como su contexto. Se multiplican así las posibilidades de comprender la significación histórica del Ejército Libertador. Y la lucha sigue: de un lado, los acaparadores de tierras, los ladrones de montes y aguas, los que todo lo monopolizan, desde el ganado hasta el petróleo. Y del otro, los campesinos despojados de sus heredades, la gran multitud de los que tienen agravios o injusticias que vengar, los que han sido robados en su jornal o en sus intereses, los que fueron arrojados de sus campos y de sus chozas por la codicia del gran señor, y que quieren recobrar lo que es suyo, tener un pedazo de tierra que les permita trabajar y vivir como hombres libres, sin capataz y sin amo, sin humillaciones y sin miserias. El general en jefe Emiliano Zapata56.

Mujeres participaron en todas las etapas de la lucha revolucionaria, temprano en el siglo XX, desde que surgió la bola zapatista y se iniciara la insurgencia, las cartas de las coronelas y mujeres zapatistas dirigidas al general del Ejército Libertador, Emiliano Zapata revelan su lugar y sus ideales en esta gesta heroica del pueblo mexicano, las mujeres escriben para comunicar sus planes de lucha, refrendar su convicción con la revolución y solicitar armas; testimonian sobre la figura del general y los ideales de la revolución que terminarían con la explotación de los trabajadores de las haciendas y condiciones infrahumanas en las que vivían; en estas

“Se registraron en la metrópoli varios saqueos.- La cuestión de los billetes dio margen a serios desórdenes en La Merced y en otros sitios. – Las autoridades militares emplearon de la fuerza para poner el orden”, The Mexican Herald, 16 de julio de 1915. 55 Robert Lansing a John Silliman, Washington, D.C., 16 de julio de 1915. Foreign Relations of the United States 812.00/15454. 56 Manifiesto “Al pueblo mexicano”, Ejército Libertador de la República Mexicana, Cuartel General en Tlaltizapán, 29 de mayo de 1916. Fondo Gildardo Magaña 27, 5, 56. 54

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cartas dejan testimonio de su conciencia mujeres que junto con sus familias brindaron sus bienes para la causa de la revolución y compra de armas, informando sobre los enfrentamientos con las tropas enemigas y en condiciones extremadamente adversas de la lucha, poniéndose a las órdenes del general; jóvenes estudiantes de colegios religiosos en la ciudad de México comunican su felicidad al honrar a los libertadores de la patria; mujeres de diversas procedencias sociales y étnico raciales con pantalón al mando de tropas, quienes fueron respetadas y reconocidas, ganaron admiración, por su entrega y capacidad y por su valentía. La revolución social en la ciudad de México se caracterizó por las acciones heroicas de mujeres y hombres y grupos organizados para la defensa de la ciudad de México, fueron estratégicas para la guerra. Pero la guerra de exterminio que el mal gobierno emprendiera no tendría límites, los intereses extranjeros en juego, particularmente del gobierno de Estados Unidos, contribuirían a la derrota de los revolucionarios. Muchos hombres y mujeres murieron en esta revolución; lo que representó una pérdida demográfica, entre muertos, desaparecidos y emigrados57. No obstante, fue un tiempo de rupturas de relaciones asimétricas, de convergencias y solidaridades de mujeres y hombres y de muchas esperanzas. Queda la memoria de esta gloriosa gesta, protagonizada por mujeres y hombres con los más caros ideales, la profunda convicción de que la lucha sigue, pues de un lado están los insaciables de poder y por el otro, millones de pobres despojados de bienes y derechos que quieren vivir como mujeres y hombres libres.

La lucha sigue La lucha por una Patria con justicia y libertad, por tierra y territorio, en defensa de los recursos de la nación, por los derechos de los ciudadanos y los propios de las mujeres, de los diferentes, no ha terminado. Vivimos un momento de nuestra historia más complejo por la globalización del poder y de la guerra, a poco más de un siglo de la revolución de 1910, nos encontramos nuevamente, como en los tiempos de la dictadura de Porfirio Díaz, contra la cual se rebelaron los zapatistas y los villistas y tantos otros mexicanos, ante la paulatina pérdida de la soberanía nacional, regional y local, y el despojo de la nación, del trabajo y de las conquistas laborales de los trabajadores, circunstancias todas, que unen a los hombres y a las mujeres que aspiran otro mundo.Los ideales que dieran lugar a la revolución siguen vigentes, vivos, la patria, la patria de los pobres está en peligro, desde hace tiempo los pueblos y las comunidades indígenas están amenazados por la expansión de las empresas transnacionales y nacionales, por las reformas constitucionales que privatizan y venden el patrimonio del pueblo mexicano, nuevas luchas han sido emprendidas por mujeres y hombres en contra del despojo de los bienes de la nación. Luego de poco más de un siglo, en las tierras de Zapata y cuna de la revolución del sur, el gobierno del estado de Morelos promueve un programa neoliberal de “modernización e industrialización” a través del Plan Integral de Morelos, para favorecer grandes empresas nacionales y transnacionales; su desarrollo y expansión afectarán tierras agrícolas, terri-

Véase a Robert McCaa, http://.hist.umn.edu/-rmccaa/costo_humano_revolucion_mexicana.pdf.

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torios, salud de sus habitantes y patrimonio cultural de la nación. Por ejemplo, en la región del Oriente de Morelos, las empresas españolas Elecnor y Abengoa, instalarán termoeléctricas, empresas metal-mecánicas que habrán de generar empleos para técnicos calificados procedentes de otras regiones, originando un desplazamiento de los pobladores originarios, señala Hersch58; además de los graves efectos en la vida de los pobladores por el alto consumo de agua que exige su funcionamiento, pondrán en riesgo la vida de sus habitantes, pues uno de los gasoductos atraviesa una zona de alto riesgo que es el eje neo volcánico del Popocatépetl. En la región centro, la Esperanza Silver, es el nombre de una de las empresas canadienses al que el gobierno mexicano le ha concesionado un proyecto de explotación minera a tajo abierto, significando despojo de tierras, uso del agua en proporciones que afectaría el riego de tierras de uso agrícola y el abastecimiento de los habitantes del sur de la ciudad de Cuernavaca y vulneraría el centro ceremonial de Xochicalco, declarado Patrimonio de la Humanidad por la UNESCO. En este caso particular, la movilización de la población,

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de los investigadores del INAH Morelos, entre otros actores, impidió el avance del proyecto, pero lamentablemente la empresa está buscando nuevos subterfugios para la explotación de los minerales y la depredación indiscriminada del medio ambiente. Hoy la empresa Álamo, otra firma canadiense reanuda el proyecto de extracción de metales preciosos, una megaminería tóxica de alto impacto para las comunidades de la región59 y el desarrollo y modo de vida de los campesinos, y de nuevo, hombres y mujeres se organizan en defensa de sus tierras, salud y patrimonio material y cultural. El Frente de Pueblos en defensa por la Tierra y el Agua conformado por habitantes de los estados de Morelos, Puebla y Tlaxcala ha demandado la cancelación del Proyecto Integral Morelos. Desde fines del siglo pasado, las mujeres zapatistas de Chiapas, han estado activas en el proceso de formación de un ejército sui generis, que es el EZLN, en el que son reconocidas como comandantas, mayores, entre otros grados militares. Se cuenta que una compañera llamada Susana, miembro del EZLN en 1993, juntó las demandas de miles de mujeres, darían contenido a la Ley Revolucionaria de Mujeres60, la que sintetiza y

Paul Hersch, De gasoducto y termoeléctricas: ¿el mejor modelo de desarrollo para el Oriente de Morelos?”, En el Volcán, Revista virtual, 15 de noviembre de 2012: 3. 59 Editorial, “La Minería a tajo abierto en Morelos y la “Seguridad Hemisférica”, en El Volcán, Revista virtual: 2 60 Primero. Las mujeres, sin importar su raza, credo, color o filiación política, tienen derecho a participar en la lucha revolucionaria en el lugar y grado que su voluntad y capacidad determinen. Segundo. Las mujeres tienen derecho a trabajar y recibir un salario justo. Tercero. Las mujeres tienen derecho a decidir el número de hijos que pueden tener y cuidar. Cuarto. Las mujeres tienen derecho a participar en los asuntos de la comunidad y tener cargo si son elegidas libre y democráticamente. Quinta. Las mujeres y sus hijos tienen derecho a atención primaria en su salud y alimentación. Sexta. Las mujeres tienen derecho a la educación. Séptima. Las mujeres tienen derecho a elegir su pareja y a no ser obligadas por la fuerza a contraer matrimonio. Octava. Ninguna mujer podrá ser golpeada o maltratada físicamente ni por familiares ni por extraños. Los delitos de intento de violación serán castigados severamente. Novena. Las mujeres podrán ocupar cargos de dirección en la organización y tener grados militares en las fuerzas armadas revolucionarias. Décima. Las mujeres tendrán todos los derechos y obligaciones que señalan las leyes y los reglamentos revolucionarios. 58

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comprende un campo diverso de la vida social en 10 derechos históricamente negados, varios de los cuales implican su presencia en la esfera pública, históricamente de exclusividad masculina Algunos de estos derechos han sido reconocidos desde hace tiempo en la legislación internacional (la Declaración Universal de los Derechos Humanos, etc.). No obstante, los estados capitalistas no han respetado ni hecho respetar, incluso derechos que durante largo tiempo estuvieron sujetos a leyes específicas: por ejemplo, el derecho a votar de las mujeres, que sólo se reconoce hasta mediados del siglo XX, luego de larga lucha de las mujeres sufragistas. El derecho a participar en la lucha revolucionaria “en lugar y grado que su voluntad y capacidad determinen”, se ha ejercido por la vía de los hechos en la revolución, recuérdese que en la lucha armada, las mujeres acudieron a la indumentaria masculina con osadía y por necesidad práctica. No hay que olvidar que la guerra ha sido el campo de lo masculino, símbolo de fuerza y poder, con sus atributos y exclusividades; así, las mujeres zapatistas de hoy reclaman el derecho a participar y merecer grados militares y no han tenido que ocultar en este tiempo su identidad de mujer; si acaso lo hicieron algunas mujeres en la revolución. Participar en los asuntos de la comunidad y ocupar cargos en las Juntas de Buen Gobierno si son elegidas democráticamente, son, sin duda, derechos que plantean una transformación de los roles tradicionales de mujeres y hombres, cambios en la política y en la toma de decisiones, que se supone, históricamente exclusivos de los hombres, no sólo en las comunidades indígenas, pero en la sociedad. Estos derechos conducen a un cumplimiento distinto de deberes y compromisos con la 100

familia, cuya preservación como institución es un asunto de todos sus miembros. Su espíritu es profundamente revolucionario, en la medida que no sólo significa el derecho de las mujeres de participar y de su desarrollo como personas, y como miembros de la comunidad, a la que igualmente se quiere contribuir en su continuidad y cambio, sino que implica potenciar y sumar las capacidades de todos los miembros de la familia y de la comunidad para alcanzar las aspiraciones de una vida mejor. Trabajar y recibir un salario justo constituyen una demanda histórica, aunque parece que está referido al trabajo para la comunidad, que por tradición no ha sido remunerado. Salud y alimentación son derechos de todos y, muy específicamente de las mujeres que requieren una atención especializada relativa a la reproducción biológica. El derecho a la educación abre una ruta para la incorporación más amplia de la mujer a la vida social y política. El derecho a decidir el número de hijos que pueden tener y cuidar, nos remiten a los derechos reproductivos, que a la fecha no se han ejercido plenamente, el reconocimiento de este derecho rompe con una concepción y una práctica patriarcales que han confinado a la mujer exclusivamente al mundo de lo privado, al hogar y al cuidado de los hijos, una práctica de control del Estado, en particular, de los cuerpos femeninos, (dependiendo de las políticas demográficas que pone en práctica en distintos contextos, relativas al control de la natalidad, legalización o no del aborto, etc.), de los hombres, condicionado por algunas religiones, un derecho que corresponde primordialmente a la mujer, como es decidir plenamente sobre su propio cuerpo. La prevención de la violencia intra y extra doméstica y la penalización del intento

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de violación constituye un reconocimiento fundamental en estos tiempos de violencia, en los que la violencia de género se exacerba, de feminicidios y conversión de la mujer en una especie de botín de guerra. A veinte años de autonomía zapatista en Chiapas, las mujeres cuentan los avatares de su participación. Esta ley revolucionaria ha ido cambiando las relaciones de género, reconocen que se avanza, poco a poco, “que no han cumplido totalmente”, aclaran que no quieren mandar y dominar, lo mismo que los hombres han hecho durante siglos, “pobrecitos”, lo que quieren las mujeres y hombres zapatistas es construir una nueva humanidad, la lucha no es una lucha de mujeres o una lucha de hombres, es una revolución en la que van juntos. Aquí es importante no perder de vista los límites de lo jurídico a nivel nacional y local; así, si los derechos se quedan sólo inscritos en la ley y no derivan en prácticas y acciones y políticas para hacerlos vigentes, de nada habría servido el esfuerzo para hacer las leyes, es cierto, lo sabemos todas (os) es un proceso largo y complejo, implica un cambio de mentalidades, de conciencias, como lo constatan las mismas mujeres zapatistas, a veinte años de su lucha. Ahora proponen agregar nuevos derechos, que con los diez de la Ley aprobada desde 1993 suman 33, pero que todavía no son incorporados en esta Ley: Estos se refieren al derecho al descanso; piénsese en las interminables horas de trabajo y multiplicidad de tareas que la mayoría de las mujeres cumplen, con las dobles o triples jornadas para las mujeres en la familia,

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fuera de casa y en la política. Piden se prohíba el abandono de las mujeres sin razón; “el derecho a tener, a heredar y a trabajar la tierra”; a recibir crédito, a impulsar y dirigir proyectos productivos”; a repartir los bienes por partes iguales en caso de separación del matrimonio; a ser apoyada cuando se hace trabajo para la organización; a defenderse verbalmente; piden sean castigados quienes discriminan, se burlan y abusan de las mujeres en múltiples formas; exigen el derecho al respeto y a la información, a ser respetadas e informadas. Todo este campo de formas de trabajo no reconocido y valorado socialmente, de subordinación, indefensión y de múltiples formas de discriminación y exclusión son asignaturas pendientes en el proceso de construcción de la autonomía en toda su complejidad, de una sociedad sin dominación masculina. Pese a que estos derechos aún no se han incorporado a la Ley, en la práctica los zapatistas de hoy desarrollan y consolidan sus autogobiernos, la educación intercultural, profundizan e instituyen el reconocimiento y participación de las mujeres en la vida social y política, en el marco de los múltiples procesos que causan la crisis económica mundial y la política de un Estado neoliberal que avanza sobre los territorios, los bienes de la nación. Este es el legado de las zapatistas históricas y contemporáneas, de innumerables mujeres indígenas y no indígenas, de las mujeres de Cherán, Michoacán, que desde hace dos años, sacaron las fogatas61 a la

Las fogatas son los fuegos de las cocinas que las mujeres de Cherán sacaron a la calle, como puntos de reunión y organización, para defender su bosque y la dignidad de su pueblo. Muchas fogatas se prendieron en las esquinas de las calles de la ciudad, alrededor de las cuales se juntaron los vecinos, conviviendo pese a las diferencias políticas. Las mujeres preparan alimentos que son compartidos, las fogatas siguen prendidas. Las fogatas de Cherán se

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calle para defender su patrimonio, que es su bosque, su comunidad, sus familias, la dignidad y la vida, y son ejemplo para que otras fogatas se prendan en la República. Etimológicamente y literalmente, patrimonio significa herencia recibida por la vía paterna, esto es expresión de la dominación masculina, pero también pasado, recuerdo, memoria e identidad individual y colectiva: “el patrimonio creado por la memoria y la palabra que lo expresa, produce en el grupo el sentimiento de compartir una misma herencia y de atar los lazos que la hacen posible. En ese sentido, herencia, memoria y patrimonio son expresiones de un mismo espacio mental y social”, escribe Urbano62. La polisemia de esta palabra también obedece a la intervención de diversos actores en su definición y defensa de intereses diversos que intervienen en el uso y apropiación, en la concepción y valoración, que se transforman en el tiempo y el espacio; su uso depende, asimismo, de las estructuras familiares históricamente patriarcales, de los intereses de las clases dominantes y grupos sociales, del tipo de Estado, así como de las



tendencias mismas del capitalismo. Este patrimonio cultural puede ser igualmente entendido como “el conjunto de costumbres, tradiciones, territorios, conocimientos, sistemas de significación; símbolos, danzas, ritos, formas de organización laboral, social y política; técnicas, instrumentos, vestimenta, lengua, educación, medicina, festividades, religión, arte, arquitectura, mobiliario, espacios sagrados…”63. Pero, posiblemente, con cierta certeza podemos plantear que una de las especificidades de este patrimonio que particularmente los pueblos campesinos e indígenas han conservado, descansa en un núcleo de elementos relacionados con formas de organización y valores comunitarios y una relación protectora y sagrada con la naturaleza; así como de una concepción más humanista de la vida y de la conflictividad social inherente a todo sistema social, constituyendo la base de una identidad colectiva que, indudablemente, cambia en el tiempo y que, independientemente, de los ejes que la pueden estructurar, es condición para un proyecto común de futuro de cualquier colectividad.

convierten en un símbolo de lucha que las mujeres emprenden, entre otras formas en las que participan por la autonomía de su comunidad. Cuenta una mujer de Cherán el inicio de la lucha en su comunidad: “Los primeros meses del movimiento fueron muy difíciles. No teníamos agua para tomar porque nosotros mismos nos encerramos. El alimento empezó a escasear. No teníamos dinero. No podíamos salir porque nuestras cabezas tenían precio. El crimen organizado en las comunidades indígenas de alrededor ofrecía $10,000 pesos por hombres o mujer, niño, joven o anciano de la comunidad de Cherán. Y nosotros no salíamos porque teníamos miedo. Nosotras nos atrincheramos y comimos lo poco que teníamos y nos empezó a llegar la ayuda humanitaria. Durante 3 meses estuvimos sin salir de nuestros pueblos. Los que trabajamos fuera de la comunidad estuvimos 3 meses sin trabajar. La gente que se dedica al hasta el día de hoy no puede ir a cultivar la tierra, ni siquiera traer leña porque el crimen organizado todavía está en nuestros bosques y nos cazan como si fuéramos venados, como si fuéramos coyotes. (…) De esta naturaleza es el impacto del crimen organizado en los pueblos indígenas, compañeros. (…) Los pueblos indígenas estamos siendo ferozmente azotados por el enemigo sin rostro. Y desgraciadamente en la actualizada nuestros gobiernos se han asociado con ellos.” “Mujeres cuentan sus luchas: Cherán, Atenco, DF/ Mujeres y la Sexta. Abajo y a la izquierda. Con todo el corazón. https://mujeresylasextaorg.wordpress.com/2012/03/15/ mujeres-cuentan-sus-luchas-cheran-atenco-df/ 62 Henrique Urbano, 2000: 15. 63 González Luis et al, 1994.

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Compartimos la idea que expresa Luxen64 de la artificialidad de la distinción entre patrimonio físico y patrimonio intangible que se reconoce en los documentos internacionales y nacionales; impide ciertamente una visión compleja de la cultura y antepone más bien una fragmentada que no reconoce los valores subyacentes en lo material y la materialización de la dimensión inmaterial.; además dar cuenta de la diversidad y distintos modos en que el ser humano despliega su capacidad de organizarse, representar, apropiarse de su propia historia, etc. La apropiación de la historia de la revolución de 1910 y particularmente de las contribuciones mujeres zapatistas es un patrimonio de los mexicanos que en este momento de una profunda crisis económica y civilizatoria que vive la humanidad, de una gran crisis del estado nación en México, deviene en una memoria que vitaliza el presente en el que la incertidumbre forma parte de la vida cotidiana y alienta las resistencias y luchas del pueblo mexicano, las que habrán de lograr una articulación nacional, para vislumbrar perspectivas de futuro. Retomando la idea de Ernest Gellner con relación a las diferencias entre nación y etnia, que es la capacidad de comunicación, la defensa del patrimonio local, regional y nacional y las luchas democráticas deben lograr ser nacionales a partir de potenciar su convergencia. El horizonte de la lucha se amplia y piensa desde lo local, lo regional y nacional, niveles

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en los que las mujeres y hombres convergen y construyen autonomía y defienden el patrimonio de la comunidad, de los pueblos indígenas y afrodescendientes y, de la nación, esta unidad mujeres y hombres es un potencial inconmensurable, si la unidad se constituye entre seres libres de la presión y de subordinaciones. Si uniéramos las memorias y testimonios de tantas luchas y, específicamente, las de las mujeres, en los grandes momentos de nuestra historia nacional, regional y local, escribiríamos todas (os) una historia gigantesca y dejaríamos una hermosa herencia a las generaciones venideras, con la transmisión de tradiciones culturales, lenguas y costumbres. Pero este legado se puede dejar, si juntamos hoy todos nuestros esfuerzos, saberes y corazones y nuestras luchas para defender el patrimonio nacional, nuestros territorios, nuestros bosques, y el patrimonio de las comunidades y pueblos indígenas y afrodescendientes, para construir una patria por la que lucharon las y los zapatistas históricos y todos los mexicanos. Si prendemos y no dejamos apagar las fogatas, y hacemos una grande, tal como nos han enseñado las mujeres de la comunidad de Cherán. Bibliografía Barrán, José Pedro, Historia de la sensibilidad en el Uruguay, Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo, Uruguay, 2008.

“En el curso de los últimos 30 años, la noción de “patrimonio cultural” no ha cesado de ampliarse (…).Un enfoque global y antropológico del “patrimonio”, nos lleva hoy a considerarlo como un conjunto social de manifestaciones diversas, complejas e interdependientes, reflejo de la cultura de una comunidad humana…La distinción entre patrimonio físico y patrimonio intangible, aparece hoy como algo artificial. El patrimonio físico no adquiere todo su sentido si no salen a la luz sus valores subyacentes. Y recíprocamente, la dimensión inmaterial, para su conservación, debe encarnarse en las manifestaciones tangibles, en los signos visibles (…). Esta dialéctica puede mostrarse particularmente fecunda, a la hora de asegurar una mejor representación de las culturas del mundo que privilegian la forma oral frente a la escrita, y las artes y tradiciones populares frente a las expresiones artísticas eruditas…”.

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Le Amazzoni di Procopio. Variazioni su un mito nella Bisanzio del VI secolo Claudio Azzara

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ei Libri delle guerre (Ύπὲρ τῶν πολέμων λόγοι) dello storico bizantino Procopio di Cesarea (ca. 500-ca. 560/570), dedicati alle campagne militari condotte dall’imperatore Giustiniano in Oriente, in Africa e in Italia, rispettivamente contro i Persiani, i Vandali e i Goti, e di cui lo scrittore fu in buona misura testimone diretto, non mancano frequenti ed estese digressioni dalla narrazione principale di carattere geografico ed etnografico, in ossequio a una precisa e risalente tradizione letteraria. In questo modo, il lettore veniva soddisfatto nelle sue curiosità circa paesi e popoli, spesso per lui lontani e mal conosciuti, che erano toccati dal racconto dei fatti bellici e che, per così dire, costituivano lo sfondo degli stessi; non senza l’inserzione occasionale da parte



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dell’autore di aneddoti curiosi e di resoconti mitici o leggendari, desunti, così come la massima parte delle informazioni geografiche ed etnografiche, da opere anteriori (anziché da una conoscenza diretta dei luoghi e delle genti menzionate, che per lo più mancava). In particolare, all’inizio del IV libro dedicato al conflitto combattuto in Italia contro i Goti (VIII del totale dei Libri delle guerre), Procopio, nello spostare momentaneamente l’attenzione dal teatro italico, dove stava per andare in scena l’ultimo atto della lunghissima guerra (535-553) che si chiuse con la definitiva rovina del regno dei Goti, a quello persiano, in cui erano allora ripresi gli scontri dopo un periodo di tregua, forniva una lunghissima descrizione (che occupa sette dei trentacinque capitoli in cui è ordinato il libro in sede di edizione critica moderna)1

Per l’edizione critica degli scritti di Procopio si rinvia a quella classica di Haury e Wirth in Procopii Caesariensis De bello Gothico, in Eiusdem Opera omnia, II: De bellis libri V-VIII, edidit J. Haury, addenda et corrigenda adiecit G. Wirth, Lipsiae 1963 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana). Nel presente contributo si citerà dalla versione italiana di Filippo Maria Pontani in Procopio di Cesarea, La guerra gotica, Roma 1974. Per un’introduzione alla figura di Procopio e alla sua opera si rinvia, tra i lavori più recenti e significativi, almeno a: A. Cameron, Procopius and the Sixth Century, London 1985; A. Kaldellis, Procopius of Caesarea. Tyranny, History and Philosophy at the End of Antiquity, Philadelphia 2004; D. Brodka, Die Geschichtsphilosophie in der spatantiken Historiographie. Studien zu Prokpios Kaisareia, Agathias von Myrina und Theophylaktos Simokattes, Frankfurt am Main 2004.

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delle popolazioni che abitavano i territori del Ponto Eussino, cerniera fra il continente europeo e quello asiatico e linea di demarcazione fra i due grandi imperi antagonisti. Lo storico di Cesarea ammetteva che in passato molto era già stato scritto sull’ambito di cui egli ora intendeva occuparsi, ma che ciò nonostante riteneva necessario insistere di nuovo sull’argomento dal momento che nei libri antichi si trovavano, a suo dire, numerose imprecisioni ed evidenti errori; anche perché nel lasso di tempo trascorso da allora il susseguirsi degli avvenimenti e le ripetute migrazioni di genti che si erano prodotte avevano inevitabilmente trasformato il quadro, rendendo obsolete le vecchie descrizioni. La polemica sembrava diretta soprattutto contro autori quali Senofonte e Arriano, pure non menzionati in maniera aperta, per deduzione dagli esempi di antiche inesattezze citati da Procopio: come l’aver collocato in un’area litoranea gli Tzani che abitavano invece una regione montuosa dell’interno, o aver distinto i Colchi dai Lazi, laddove questi erano solo due nomi differenti della stessa etnia. Insomma, Procopio si preoccupava di precisare come fosse suo scrupolo rendere un buon servizio ai propri lettori riportando in maniera accurata «nomi e fatti secondo la realtà oggi vigente in ciascuno di quei paesi» e trascurando di riprendere «notizie leggendarie o comunque antiquate»; per esempio evitando di dilungarsi sulle ipotesi d’identificazione del punto esatto nel Ponto Eussino in cui «secondo i poeti, fu incatenato Prometeo», nella piena consapevolezza che c’è «una bella differenza



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Procopio di Cesarea, La guerra gotica cit., IV, 1, p. 314. Ivi, IV, 2, p. 315.

fra la mitografia e la storia»2. Avviatosi, dunque, finalmente a elencare le popolazioni del Ponto partendo da Bisanzio e procedendo verso oriente, dopo aver menzionato i Bitini, gli Onoriati, i Paflagoni e i Pontici «veri e propri», e le città di Eraclea, Amastri, Trapezunte, Sinope e Amiso, Procopio citava il fiume Termodonte rammentando che presso di esso «si racconta che fossero accampate le Amazoni»3, sulle quali si riprometteva di tornare più diffusamente in seguito. Infatti egli riprendeva subito la propria carrellata di toponimi e di stirpi, non facendo mancare qualche glossa curiosa, come, per esempio, quella relativa al fatto che nei dintorni di Trapezunte, e solo lì, il miele prodotto dalle api è amaro, cosa «estremamente strana» (ma che non ci si preoccupava affatto di spiegare). L’esplicita, dichiarata, volontà di attenersi al puro dato storico, scansando ogni annotazione mitografica, trovava qualche contraddizione nei cenni qua e là presenti al fato di Apsirto, vittima delle trame di Medea e Giasone, da cui traeva il proprio nome l’antica città di Apsarunte, ubicata nel luogo del suo assassinio; o alle imprese dello stesso Giasone, con particolare riferimento alla precisa collocazione del vello in un determinato punto, piuttosto che in un altro, della Lazica. Giunto a descrivere il Caucaso, Procopio sottolineava immediatamente non solo l’imponenza di tale sistema montuoso, le cui cime si spingevano al di là delle stesse nubi, ma anche il suo rilievo in qualità di spartiacque fra genti diverse, tra cui spiccavano gli Unni. E proprio da qui, secondo quanto

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era tramandato («si dice»), provenivano le Amazzoni, che, spintesi poi verso occidente, «avrebbero posto il campo presso Temisciro e il fiume Termodonte, dove ora c’è la città di Amiso», cioè nell’Anatolia centro-settentrionale. Riferita la notizia, lo storico di Cesarea annotava però subito come «oggi però in nessuna delle località attorno al Caucaso si conserva una qualche memoria delle Amazzoni o un nome che le riguardi», malgrado Strabone e molti altri avessero scritto copiosamente su di loro4. Prendendo le distanze da quanto trasmesso dal grosso della tradizione letteraria, Procopio precisava con chiarezza la propria interpretazione del mito delle Amazzoni. Secondo lui avevano certamente ragione quanti in passato avevano negato che costoro fossero «una razza di viragini», sorta di deroga alla natura umana, ritenendo piuttosto che si trattasse delle donne di un’antica tribù sopravvissute alla strage dei propri uomini e costrette perciò dalla necessità a cavarsela da sole, dando vita a una forma di organizzazione sociale del tutto particolare. Infatti, egli reputava plausibile che in un’epoca remota una qualche etnia caucasica si fosse stanziata presso il Termodonte lasciando al campo le donne mentre gli uomini conducevano scorrerie a scopo di razzia per l’intera Asia; i guerrieri maschi erano però tutti caduti vittime della resistenza opposta dalle popolazioni da loro aggredite, lasciando così sole le proprie compagne. Queste ultime, «costrette dalla paura dei vicini e dalla penuria di viveri», ben presto furono obbligate a

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indossare le armi lasciate all’accampamento dagli uomini e a dotarsi di «coraggio virile», compiendo «gesta di valore», ma solo perché «spinte a ciò da necessità», «fino a che tutte furono sterminate»5. Questa lettura, per così dire “razionale”, del mito delle Amazzoni appariva dunque a Procopio l’unica accettabile, anche perché suffragata da esempi a lui contemporanei; egli annotava, infatti, che allorquando in tempi recenti gli Unni si erano scontrati con i Romani era capitato che tra i cadaveri lasciati dai barbari sul campo di battaglia ne fossero stati rinvenuti anche diversi di sesso femminile, mischiati ai guerrieri maschi. Se quindi tra gli Unni del suo presente c’erano donne che combattevano assieme agli uomini, perché non credere che ciò potesse essere accaduto anche in passato, presso una popolazione oltretutto ritenuta progenitrice degli Unni non fosse altro che per la medesima provenienza geografica? E in questi termini, a suo parere, doveva risolversi l’intera questione. Come s’è detto, Procopio citava esplicitamente soprattutto Strabone quale autore che prima di lui si era diffuso nel fornire notizie sulle Amazzoni. Il geografo greco nella sua opera6 si era innanzitutto preoccupato di vagliare le diverse ipotesi formulate da altri scrittori antichi (come Teofane di Mitilene, Ipsicrate, Metrodoro di Scepsi) sulla regione in cui sarebbero state stanziate le donne guerriere, alternativamente poste ora nell’Albania caucasica, lungo il fiume Mermadalis, che avrebbe separato il loro territorio da

Ivi, IV, 3, pp. 318-319. Ibidem. Edizione critica in Strabonis Geographica, edidit F. Sbordone, I-II, Roma 1963-1970 (Scriptores graeci et latini consilio Academiae Lynceorum editi); cenni sulle Amazzoni in: XI, 5; XII, 3. Versione italiana in Strabone, Geografia, libri 11-12: Caucaso, Asia centrale e Anatolia, a cura di R. Nicolai e G. Traina, Milano 2000.

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quello degli Sciti; ora in una valle fra i Monti Cerauni, nell’Armenia. Comunque, esse erano sempre collocate in quell’Oriente remoto e favoloso, compreso fra la Scizia, la Persia e l’India, che per i greci era la sede di una gran quantità di popoli esotici, reali o immaginari che fossero. Secondo le multiformi tradizioni che Strabone enumerava, le Amazzoni sarebbero originariamente vissute nella Scizia, presso la palude Meotide, oppure in un’area imprecisata delle montagne del Caucaso, e da questa sede primitiva sarebbero migrate in un secondo tempo in Anatolia, dove avrebbero fondato la città di Temiscira. Per altri narratori, tuttavia, il senso del loro percorso sarebbe stato esattamente inverso: avrebbero abbandonato Temiscira e l’Anatolia dopo esser state sconfitte dai Greci, per riparare solo allora nella palude Meotide. Le fonti antiche le collocavano spesso in rapporto con altre popolazioni, come i Sarmati, stirpe nomade di etnia iranica le cui donne pare combattessero a cavallo assieme ai loro uomini e alla quale veniva attribuita da alcuni una struttura sociale di tipo matriarcale; in alcuni casi si sosteneva che la popolazione dei Sarmati avrebbe avuto origine proprio dalla prole nata dall’unione delle Amazzoni con gli Sciti. Quindi, sempre attingendo a fonti anteriori, Strabone aveva tratteggiato per rapidi cenni la peculiarissima organizzazione sociale delle Amazzoni, insistendo su alcuni aspetti destinati a solleticare in modo particolare la curiosità dei suoi lettori. Le Amazzoni provvedevano per ogni cosa da sé, coltivando i campi, pascolando il bestiame e soprattutto allevando cavalli, la loro specialità, mentre le più valide tra loro sapevano anche cacciare a cavallo e cimentarsi nella guerra: insomma, erano perfettamente in grado di svolgere tutte le attività riserva110

te di norma agli uomini, venendo dunque a costituire una sorta di “società alla rovescia”. Si diceva che da bambine si recidessero la mammella destra per meglio maneggiare le armi, specialmente per scagliare con maggior facilità ed efficacia il giavellotto, il quale costituiva la loro arma principale assieme all’arco e a uno scudo leggero, mentre il capo e il corpo erano protetti solo dalle pelli di bestie feroci. La diceria sulla mutilazione mammaria era ampiamente riprodotta un po’ in tutti i testi antichi, alcuni dei quali (come lo pseudo-Ippocrate) la riferivano alle donne dei Sarmati, identificando queste proprio con le Amazzoni. Si può forse immaginare che tale uso, reale o meno che fosse, oltre a uno scopo “pratico” (come suggeriva, tra gli altri, anche Strabone), implicasse pure una certa valenza simbolica, insita nel fatto che la cancellazione di un attributo femminile finiva con il rendere in qualche modo più simile a quello degli uomini il corpo delle Amazzoni proprio nel momento in cui costoro si dedicavano a un’attività ritenuta peculiarmente maschile quale quella militare. Il problema della riproduzione, e quindi della continuità della stirpe, stante l’assenza di uomini, veniva risolto, come molti raccontavano e Strabone stesso riportava, con l’aiuto di una popolazione vicina, quella dei Gargareni, costituita di soli maschi, che si dicevano fossero in origine giunti nel Caucaso proprio con le Amazzoni, avessero poi combattuto un lungo conflitto contro di loro e avessero infine stipulato una pace che prevedeva quale unico rapporto tra le due etnie l’incontro reciproco una volta l’anno proprio per generare dei figli. Infatti, durante la primavera le Amazzoni salivano con i Gargareni sulle montagne che costituivano il confine fra i rispettivi territori e si

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univano con loro, al buio in modo da non sapere chi giaceva con chi. Nove mesi dopo, le bambine che nascevano erano trattenute dalle Amazzoni, mentre i maschi venivano rinviati ai Gargareni perché se li tenessero, adottandoli in modo casuale dal momento che non si poteva sapere chi fosse il padre di ciascun infante. Strabone sottolineava che nel caso delle Amazzoni la tradizione non aveva mai saputo separare i resoconti leggendari dai fatti storicamente accertati, tramandando gli uni e gli altri in un flusso indifferenziato che aveva costantemente alimentato il mito delle donne guerriere. Stupefacente, a suo dire, era il fatto stesso che potesse essere esistita una società di sole donne, oltretutto capaci di soggiogare i popoli circostanti e di spingersi con fortunate spedizioni militari addirittura fino all’Attica. Molti erano i centri urbani che si ritenevano da loro fondati (anche importanti come Efeso, Smirne, Mirina), così come alle Amazzoni venivano ascritte numerose sepolture e monumenti; a loro veniva associata soprattutto la città di Temisciro, con la vasta pianura stesa fra il fiume Termodonte e le montagne, reputata la loro sede principale. Alcune narrazioni a suo parere apparivano palesemente infondate, sebbene fossero riportate da parecchi autori, come quella relativa a un incontro avvenuto fra la regina della Amazzoni Talestria e Alessandro Magno; mentre non poteva del tutto escludersi una loro partecipazione alla guerra di Troia, da più parti asserita. Insomma Strabone, nel dedicare



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un discreto spazio all’interno della propria opera all’affascinante, e sconcertante, realtà delle donne guerriere, sempre così prossima a confondersi con la pura leggenda, glossava le singole asserzioni prodotte in merito delle sue diverse fonti, ma evitava, in definitiva, di formulare un proprio giudizio esplicito complessivo sull’origine di una società tanto singolare, come invece sceglieva di fare Procopio, riecheggiando pure quelle leggende e dicerie che lo storico di Cesarea invece taceva o liquidava come mera fantasia. All’incirca nello stesso periodo in cui scriveva Procopio un altro noto autore, Jordanes (nato tra la fine del V e gli inizi del VI secolo), nel suo De origine actibusque Getarum7 (largamente modellato sulla perduta storia dei Goti di Cassiodoro) indugiava a sua volta nel riferire quanto ancora al suo tempo veniva tramandato circa le favolose Amazzoni, fornendo però un racconto ben diverso da quella dello storico di Cesarea e, in sostanza, più vicino nei modi a quello di Strabone. Per Jordanes gli uomini della Amazzoni sarebbero stati proprio i Goti, i protagonisti della sua opera. Alla morte del re Taunasis, le donne dei Goti, rimaste sole, sarebbero state attaccate dagli uomini di una tribù vicina, che le volevano catturare e rapire, ma sarebbero riuscite a respingere gli aggressori, sbaragliandoli sul campo. Inebriate dall’inopinata vittoria, si sarebbero date due regine, una, Lampeto, incaricata di difendere da ogni possibile invasore le sedi di stanziamento originarie, in Scizia; l’altra, Marpesia, gravata del compito di guidare una schiera

Edizione critica in Iordanis De origine actibusque Getarum, a cura di F. Giunta-A. Grillone, Roma 1991 (Fonti per la Storia d’Italia, 117); cenni sulle Amazzoni in: V; VII; VIII. Versione italiana di Elio Bartolini in I barbari. Testi dei secoli IV-XI scelti, tradotti e commentati, Milano 1982, pp. 429-577. Per una recente introduzione a Iordanes, si veda A. Amici, Iordanes e la Storia gotica, Spoleto 2002.

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di guerriere in scorribande attraverso tutta l’Asia, fino ai contrafforti del Caucaso, allo scopo di sottomettere quante più genti e paesi fosse possibile. Questo esercito «mai visto» avrebbe imperversato per l’Armenia, la Siria, la Cilicia, la Galazia, la Pisidia, la Jonia e l’Eolia, fondando città e castelli ed erigendo a Efeso uno splendido tempio in onore della dea Diana, cacciatrice e arciere come erano loro stesse. Le Amazzoni avrebbero così dominato gran parte dell’Asia per almeno cent’anni, prima di ritirarsi nel Caucaso. Anche Jordanes riprendeva la leggenda dell’accoppiamento concordato una volta all’anno con gli uomini delle popolazioni limitrofe per garantire la continuità della stirpe, con le femmine nate da tali unioni trattenute dalle madri e i maschi resi ai padri; precisando, inoltre, che secondo una diversa tradizione (sulla cui veridicità Jordanes non si esprimeva) le Amazzoni avrebbero invece ucciso i neonati di sesso maschile. Quest’ultima diceria contribuiva ad alimentare ulteriormente il terrore che l’asserita crudeltà delle Amazzoni suscitava: quale nemico, infatti, poteva risultare più spietato in battaglia di madri che erano solite non risparmiare nemmeno i propri figli? Lo storico dei Goti raccoglieva, infine, e offriva al suo pubblico, ma senza vaglio, pure un’ultima carrellata di resoconti leggendari sulle Amazzoni: nemiche di Ercole e di Teseo (che aveva generato un figlio dalla regina Ippolita, sua prigioniera), partecipanti alla guerra di Troia sotto la guida della regina Pentesilea, ancora attive e potenti al tempo di Alessandro Magno. In particolare il loro ruolo nell’assedio di Troia era stato amplifi-

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cato in epoca antica dal poema di Arctino di Mileto l’Etiopide, composto nel VII secolo a. C. e assai diffuso in epoca classica, di cui sopravvivono oggi solo un frammento e un riassunto contenuto nella Crestomazia dello pseudo-Proclo, posteriore di due secoli. Nell’Etiopide si narrava lo scontro fra Achille e Pentesilea, intervenuta con le sue guerriere al fianco dei troiani e uccisa dall’eroe greco; da notare che nell’Iliade le Amazzoni erano invece dipinte quali antiche nemiche dei troiani, come raccontava lo stesso re Priamo rievocando una spedizione contro di loro avvenuta molti anni prima e alla quale egli stesso aveva partecipato. Insomma, nella propria evocazione delle favolose Amazzoni, Jordanes operava alla stessa stregua degli autori antichi, recuperando ed elencando alcune tra le numerose e variegate narrazioni loro relative, desumendole tanto da fonti di carattere storiografico, geografico ed etnografico quanto da altre di genere squisitamente letterario, senza esprimersi sull’attendibilità o meno di ciascuna di esse; anzi, non rifuggendo nemmeno dal richiamare gli aspetti più sinistramente suggestivi della loro leggenda, come quello delle presunte pratiche di infanticidio. Ben diverso dunque appare, rispetto non solo alle fonti classiche ma anche al suo contemporaneo Jordanes, lo scrupolo storiografico di Procopio, così dichiaratamente attento a discernere il vero storico dalla tradizione mitografica e letteraria e a fornire una spiegazione logica e verosimile dell’esistenza delle Amazzoni (donne rimaste sole e perciò costrette a imparare l’uso delle armi per difendersi), sottraendole all’aura della leggenda.

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Interventi e contributi sul tema

Donne e armi nell’alto medioevo. Il caso longobardo Arianna Bonnini Una legge emanata dal re dei longobardi Liutprando nell’anno 734 si preoccupava di stabilire un criterio di risoluzione per un caso assai singolare, verificatosi da poco, che, come osservava lo stesso monarca, non aveva precedenti, e per il quale non vi era quindi alcuna sanzione adatta nell’Editto che raccoglieva le leggi della sua stirpe. Com’era stato direttamente riferito al re, alcuni uomini intenzionati ad assaltare un villaggio per razziarlo, preoccupandosi di evitare in caso di cattura l’elevatissima composizione (cioè la pena pecuniaria a carico del reo che puniva il reato) prevista per tale fattispecie da una norma del predecessore Rotari (titolo 19: il versamento dell’enorme somma di 900 solidi o in caso d’insolvenza la morte per il capobanda, di 80 solidi per gli altri membri), avevano mandato al loro posto le proprie donne, incluse le serve, le quali avevano portato a compimento la spedizione armata infierendo sugli aggrediti «con maggior crudeltà di quanto facciano gli uomini».



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Le vittime, in assenza di una legge che contemplasse ciò che era successo, si erano appellate al monarca, il quale provvide subito a colmare la lacuna legislativa garantendo loro giustizia, pur senza riuscire a celare il proprio disprezzo nei confronti di costoro per essersi fatti battere da delle donne (due volte nel testo si sottolinea che sono uomini con «una forza inferiore», «più deboli»). Qualora un fatto del genere si fosse ripetuto in futuro, stabiliva Liutprando, in primo luogo le donne colpevoli, se ferite o uccise nel corso dell’attacco, non avrebbero avuto alcun diritto alle composizioni ordinariamente previste dall’Editto per le lesioni inflitte a un soggetto di sesso femminile, mentre invece i loro mundoaldi (cioè i detentori del mundio della donna) sarebbero stati tenuti a risarcire secondo legge i danni provocati dalle assalitrici. Ma, soprattutto, l’autorità locale avrebbe dovuto applicare loro la durissima pena della decalvatio (vale a dire lo strappo violento dei capelli con asportazione di parte della pelle del cranio, una sorta di “scalpo”) e farle anche frustare trascinandole «per i villaggi vicini a quel luogo», «in modo che in futuro le donne non osino commettere una simile malvagità»1.

Leges Langobardorum 643-866, hrsg. F. Beyerle, Weimar 1947, Liutprandi leges, 141: «Relatum est nobis, quod aliqui hominis perfidi et in malitia astuti, dum per se non presumpsessent mano forti aut violento ordinem intrare in vicum aut in casam alienam, timentes illam conpositionem, que in antiquo edicto posita est, fecerunt collegere mulieres suas, quascumque habuerunt, liberas et ancillas, et miserunt eas super homines, qui minorem habebant virtute, et adprehendentes hominis de ipso loco et plagas fecerunt, et reliqua mala violento ordine plus crudeliter

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Non sfugge come all’evidente valenza afflittiva della pena se ne accompagnasse un’ulteriore, consistente nello svergognare in pubblico le colpevoli portandole in giro per tutto il territorio circostante e castigandole in una maniera esemplare e infamante, allo scopo di diffondere un terribile monito per quante avessero mai osato emularle. In un siffatto avvenimento il disonore per le colpevoli, che la pena inferta pubblicamente amplificava e rendeva perpetuo tramite le cicatrici conseguenti alla decalvatio e alle frustate, era generato dalla loro stessa condotta inaudita, perché costoro nel compiere un assalto armato erano fuoriuscite dai limiti di ruolo e dai parametri di comportamento imposti al genere femminile, comportandosi piuttosto da uomini sì da venir meno al decoro del proprio sesso. Il legislatore confessava, infatti, di aver dovuto produrre la nuova legge in quanto il reato che era stato sottoposto al suo giudizio non poteva essere assimilato a nessun altro di quelli già regolati da Rotari, dalla rivolta di contadini all’harschild (cioè alla razzia





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di un villaggio in banda armata)2, «dal momento che queste cose le fanno gli uomini, non le donne»; mentre ora si trattava per l’appunto di un «raduno di donne» inammissibile e senza precedenti. Nei casi di harschild o di riunione di contadini in bande la punizione inflitta ai rei arrivava alla messa a morte (riscattabile tramite composizione) per il capo, con pagamento delle composizioni per tutti i danni arrecati a uomini e cose; ora, l’introduzione dell’ulteriore connotazione infamante oltre che afflittiva della decalvatio e delle frustate in pubblico per i villaggi vicini appare rispondere alla volontà di denunciare e amplificare la vergogna specifica che si percepiva insita nel comportamento di donne che avevano osato condursi da uomini. Insomma, se la violenza commessa da soggetti maschili veniva sanzionata in ragione della natura del reato e dell’entità dei danni da esso prodotti; quando a farsene responsabili erano individui di sesso femminile si aggiungeva l’aggravante del peculiare disonore insito in una condotta che implicava l’usurpazione di un ruolo ri-

quam viri exercuerunt. Dum autem hoc ad nos pervenissit, et ipsi homines pro sua violentia, qui minus potebant, interpellabant: ita prospeximus in hoc edicto adfigere: ut si amodo mulieres hoc facere in qualecumque locum presumpserit, primum omnium decernimus, ut si aliqua iniura aut obprobrium, aut plagas aut feritas, aut mortem ibi acceperint, nihil ad ipsas mulieres aut ad viros aut ad mundoald earum conponant illi, qui se defendendum eis aliqua fecerint lesionem aut internicionem. Insuper et publicus, in quo loco factum fuerit, conprehendat ipsas mulieres, et faciat eas decalvare et frustare per vicos vicinantes ipsius loci, ut de cetero mulieres tale malitia facere non presumant. Et si in ipsa causa feritas aut plagas fecerint ipsae mulieres cuicumque homini, mariti earum conponant ipsas plagas aut feritas, quas ipsae fecerunt, secundum edicti tinore. Hoc autem ideo prospeximus tam de disciplina quam de conpositione, quia non potuimus mulierum collectionem ad harschild consimilare, neque ad seditionem rusticanorum, quia istas causas viri faciunt, nam non mulieres: ideoque sic de ipsis mulieribus faciat, sicut supra statuimus. Si quidem simpliciter in scandalum qualiscumque mulier cocurrerit, et mortem aut plagam aut feritam ibi susceperit, sic ei faciat iustitiam, sicut decessor noster rothari rex instituit et iudicavit». Del corpus edittale esiste una versione italiana commentata con testo latino a fronte in Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara e S. Gasparri, Roma 2005, da cui sono tratti i brani tradotti inseriti nel testo. Per una primissima introduzione alle leggi dei longobardi si vedano almeno E. Besta, Fonti del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano sino ai tempi nostri, Padova 1938; F. Calasso, Medio Evo del diritto, I: Le fonti, Milano 1954. Circa la decalvatio, è pena di particolare gravità e di applicazione assai rara (presente, oltre che nel citato titolo 141 di Liutprando, nei titoli 80 dello stesso Liutprando e 4 delle leggi di Astolfo); su di essa si vedano le annotazioni di S. Gasparri, La cultura tradizionale dei Longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane, Spoleto 1983 pp. 140-151. Sulla figura del mundoaldo e il valore del mundio si tornerà qui sotto. Il riferimento è a Rotari 19 (attacco a un villaggio in banda organizzata); 279 (razzia di una banda di contadini); 280 (rivolta di contadini). Da notare che Liutprando 134 prendeva in considerazione il caso di uomini che si fossero riuniti tra loro per aggredire vicini con cui avessero controversie di proprietà, stabilendo che anche quella fattispecie non potesse essere equiparata all’harschild o alle bande di contadini, ma piuttosto al complotto per realizzare un omicidio già sanzionato da Rotari 11 (tramite semplice pagamento di una composizione).

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servato agli uomini, l’uso delle armi, meritando una punizione dal carattere anche infamante. Del resto, la medesima logica si trovava già presente in qualche misura in un precedente titolo di Rotari (il 378), il quale, considerando le possibili ferite riportate da una donna che si fosse volontariamente immischiata in una zuffa tra uomini, sanciva che il calcolo della composizione per tali lesioni si dovesse formulare come se a rimanere colpito fosse stato il fratello di lei, perché risultava incongrua sul piano concettuale, quasi inimmaginabile, la partecipazione di donne a un tumulto, «quod inhonestum est mulieribus facere»3. Nella società longobarda la capacità giuridica dell’individuo era strettamente legata alla sua capacità di portare le armi; pertanto, essa non solo non veniva riconosciuta agli appartenenti al vasto gruppo dei non liberi, suddiviso al proprio interno tra aldi (semiliberi) e servi, ma nemmeno alle donne, le quali per tutta la loro vita erano obbligatoriamente sottoposte alla protezione (mundio) di un uomo, fosse esso il padre, il marito, un fratello oppure un altro parente maschio, e persino, in casi estremi, il re in persona4. Il mundio era un concetto proprio dei diritti di area germanica, interpretabile nei termini di un “potere di protezione” in qualche misura accostabile al concetto romano di potestas del pater familias. La donna longobarda, come confermava la legge codificata5, non poteva vivere sui iuris (selpmundia), ma doveva rimanere sempre sottoposta al mundio di un uomo. Pertanto, ella non godeva di diritti nel senso di facoltà, ma



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solo di diritti affievoliti, a lei concessi dalla legge limitatamente a determinate situazioni giuridiche e che potrebbero essere concepiti piuttosto come una licencia. Un mundoaldo (cioè il detentore del mundio) poteva perdere il mundio sulla donna in caso di acclarata condotta indegna verso di lei o di manifesta incapacità di difenderla; solo in una circostanza del genere alla donna veniva permesso di scegliere liberamente a chi riaffidare il proprio mundio, se a un qualsiasi uomo di suo gradimento oppure alla medesima corte regia. L’incapacità giuridica della donna si esprimeva anche in occasione del matrimonio, istituto nel quale ella figurava come res tradita trasmessa dalla famiglia d’origine all’uomo che la prendeva in moglie in seguito al perfezionamento di due precisi negozi giuridici: la desponsatio (cioè l’accordo allora stipulato tra il futuro marito e il padre di lei) e la traditio (vale a dire la consegna materiale della donna al suo sposo). Il marito, generalmente ma non necessariamente, acquistava il mundio su di lei versando alla sua famiglia d’origine una somma (meta) la cui disponibilità rimaneva poi alla donna; a quest’ultima il consorte pagava anche un’ulteriore somma (morgingab, “dono del mattino”), in segno di onore e di soddisfazione dopo la prima notte di nozze. Se il marito non procedeva all’acquisto del mundio della propria moglie, quest’ultimo restava a un membro maschio della sua famiglia d’origine, il che implicava allora per la donna una doppia subordinazione, al proprio mundoaldo e alla potestalis dominatura del coniuge.

Rotari 378: «Si mulier libera in scandalum cocurrerit, ubi viri litigant, si plagam aut feritam factam habuerit aut forsitan inpincta fuerit aut occisa, adpretietur secundum nobilitatem suam et sic conponatur, tamquam si in fratrem ipsius mulieris perpetratum fuisset; nam alia culpa pro iniuria sua, unde nongenti solidi iudicantur, non requiratur, eo quod ipsa ad litem cocurrit, quod inhonestum est mulieribus facere». Per un’introduzione all’organizzazione sociale dei longobardi e alla loro vicenda storica si vedano almeno P. Delogu, Il Regno Longobardo, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. I: P. Delogu, A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, Torino, 1980, pp. 1-216; C. Azzara, L’Italia dei barbari, Bologna 2002; S. Gasparri (a cura di), Il regno dei Longobardi in Italia. Archeologia, società e istituzioni, Spoleto 2004. Considerazioni sul ruolo della donna, soprattutto con riguardo alla violenza, si trovano in A. Bonnini, Le donne violate. Lo stupro nell’Italia longobarda (secoli VI-XI), in “Nuova Rivista Storica”, XCV, fascicolo I (2011), pp. 207-248. Rotari 204.

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Nell’arcaica struttura tribale dei longobardi il godimento dei pieni diritti era quindi riservato ai maschi, in quanto solo costoro erano in grado di portare le armi e, pertanto, di partecipare al gairethinx, l’assemblea degli uomini liberi, autentica sede del potere. Lo stesso re presso di loro era in primo luogo un comandante militare. Nel testo dell’Editto il vocabolo exercitus viene spesso a coincidere con la totalità della gens Langobardorum, colta come l’insieme degli uomini liberi-guerrieri, e ciò appare ben comprensibile in una società votata alla guerra, principale fonte di sostentamento economico almeno nella fase originaria della propria storia, e la cui cultura era fondata sui valori militari. In tale panorama di rigida separazione di ruoli le donne, incapaci di usare le armi analogamente a un uomo, finirono dunque per essere costrette entro uno status di subordinazione giuridicamente definita che rese l’occasionale ricorso alla violenza armata da parte di alcune tra loro inammissibile e innaturale sul piano concettuale prima ancora che contra legem.

Dove porta la storia Soldatesse crudeli afroamericane e arabe Anna Maria Musilli Le soldaderas della rivoluzione messicana e le brigantesse dell’Italia postunitarirano fino a pochi anni fa due dei pochissimi casi conosciuti di donne soldato presenti come gruppo in organizzaoni armate prevalentemente maschili: un fenomeno che solo in questi ultimi anni si va diffondendo all’interno di Stati diversi per struttura e cultura. L’ultima guerra mondiale aveva registrato la presenza delle donne negli eserciti, soprattutto in quello sovietico, ma si trattava quasi sempre di ruoli secondari. Se si eccettuano le ausiliarie di Salò e le partigiane della Resistenza, alle soldatesse degli altri eserciti non era consentito l’uso delle armi. Non dipese dalla marginalità del loro ruolo se queste ultime, considerate utili in tempo di guerra, ven-

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nero quasi nascoste nei momenti ufficiali del dopoguerra, perché un destino non diverso ebbero le partigiane e le ausiliarie di Salò. Tutto questo ci consente di concludere che, se il fatto che gli uomini resistono ad accettare le donne soldato denuncia la persistenza di pregiudizi e timori maschili nei confronti delle donne, l’accettazione che le donne possano fare la guerra non implica necessariamente il superamento completo delle discriminazioni. Solo recentemente si è cominciato a riflettere su questi aspetti, su cui per ragioni politiche e per resistenze culturali ha gravato un lungo silenzio rotto soltanto dagli accertamenti critici sulla storia delle brigantesse di Domenico Scafoglio e Simona De Luna. L’altro problema che le esperienze di donne in armi sopra ricordate pongono è che esse presentano indubbie somiglianze, ma al tempo stesso notevoli differenze, che sembrano rendere difficile raccontarle come capitoli diversi di una medesima storia delle donne nel loro rapporto con le armi. E le difficoltà crescono, quando di questi gruppi si analizza il contesto e il rapporto con la politica, costringendoci a muoverci lungo un asse che va dal rivoluzionarismo populista delle soldaderas alla passione fascista delle repubblichine. Per quanto concerne il presente, le analisi si sono focalizzate sulle forze armate statunitensi e hanno fatto luce anche su situazioni nuove, determinate dall’arruolamento di massa delle donne (circa quindicimila unità), dal loro accesso a nuovi ruoli militari e dal raggiungimento della parità cogli uomini nell’esercito, ma hanno anche prodotto un mutamento sostanziale del fenomeno delle soldatesse. Scomparse le motivazioni patriottiche e ideologiche del secondo conflitto mondiale, la guerra americana nel Medio Oriente è diventata una disperata risorsa dei ceti disagiati e marginali, che attrae soprattutto le donne afroamericane. L’opera Questioni globali concernenti il genere (Global Gender Issues) di Spike V. Peterson e Anne Sisson Runyan (Boulder, Westview Press, 1993) analizza in chiave moderatamente femminista gli effetti della presenza delle donne nell’esercito americano, ar-

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rivando alla conclusione che, a parte l’uguaglianza tra i sessi, essa non ha contribuito a modificare i sistemi simbolici e comportamentali della vita militare, che continuano ad essere plasmati dai valori della mascolinità e dal culto della virilità, implicanti aggressività e durezza; valori che hanno finito col risucchiare nella loro logica le stesse donne, con risultati a volte sorprendenti e perfino sconcertanti. Né convince del tutto la giustificazione che il contrasto all’aggressività e alla violenza non si risolve soltanto all’interno di un’unica istituzione. Intanto, anche se le troviamo impegnate in prima linea, le soldatesse sono tutt’altro che eroine. Secondo la rivista del centro ricerche del Congresso Usa, CQ Researcher, la vita durissima e il rischio altissimo di rimanere ferite o uccise durante le missioni in luoghi pericolosi come l’Iraq e l’Afganistan induce sempre più frequentemente le soldatesse a farsi congedare facendosi mettere incinte. Accadeva anche alle brigantesse, ma solo perché queste ultime ignoravano l’uso dei contraccettivi (quelli tradizionali funzionavano male), ma, dopo il parto, che solitamente avveniva in casa delle “mammane”, esse ritornavano spontaneamente nelle bande. Le soldatesse americane violano invece le leggi che proibiscono di avere rapporti sessuali durante le missioni, rischiando di finire davanti alla corte marziale. Ma il fenomeno delle soldatesse americane ha un lato oscuro, che forse ci costringe a rivedere criticamente l’immagine del femminile, che per parecchi decenni, coincidenti con la storia del femminismo e oltre, abbiamo coltivato e condiviso. Alcuni anni fa a Washington la CBS mandò in onda fotografie in cui nella Bagdad occupata dagli americani i soldati e le soldatesse statunitensi torturavano i prigionieri nel carcere di Abu Ghraib, già luogo di detenzione e di tortura nel regime abbattuto. Ne sono protagonisti 17 americani, tra cui un generale donna. Nelle fotografie scattate dagli stessi aguzzini è possibile vedere prigionieri iracheni con elettrodi sui genitali, mentre altri sono costretti a mimare atti omosessuali per il divertimento dei militari statunitensi. In un inquadramento che avrebbe

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fatto la felicità di De Sade compare un mucchio di corpi nudi di prigionieri accatastati, uno dei quali mostra una frase ingiuriosa scritta sul corpo con la vernice. In un’altra foto un cane attacca un irakeno inerme e atterrito. In un’altra ancora compaiono prigionieri incappucciati, con elettrodi collegati ai polsi, costretti a stare in equilibrio su una cassetta, sapendo che – gli hanno fatto credere –, cadendo, morirebbero fulminati. Le torture avevano lo scopo di strappare informazioni ai prigionieri, ma gli aguzzini e le aguzzine mettevano qualcos’altro nel loro lavoro: risulta documentato che un prigioniero minorenne è stato violentato da un americano in presenza di soldatesse statunitensi che, divertite, fotografavano lo stupro. Il commento immediato che lo shock sollecita è la pur banale verità che le donne sono come gli uomini in fatto di violenza e di sesso. È sopravvissuta invece fino ai nostri giorni la convinzione, avallata perfino da pensatori quali Adorno e Horkheimer, che la violenza e la crudeltà del mondo, inestricabilmente associate all’ossessione del potere, e in qualche modo da essa prodotte, avessero soltanto un volto maschile, e che le donne le avessero subite, ma non adoperate. Nella donna risiederebbe invece l’ultima possibilità di un mondo pacificato e innocente. Il fatto che le donne in armi, sulle quali questa rivista ha iniziato le prime analisi approfondite che si conoscano, non si sono dimostrate diverse dagli uomini in guerra nell’uso della violenza e nel rapporto col potere sembra ridurre questa convinzione a mendace mitologia. Il problema è emerso da poco, con la scoperta dei fenomeni storici delle soldaderas messicane e delle brigantesse italiane, ma la vicenda contemporanea delle torturatrici sadiche americane getta altra luce, più inattesa e fosca, sul fenomeno delle donne in guerra. Da qualche anno si è cominciato a scrivere che “sul terreno dell’utopia si cominciano a contare dei cadaveri. Il primo è l’illusione che le donne possano declinare al femminile certi ruoli storicamente riservati ai maschi, l’idea che nelle loro mani il comando si tramuti in un gesto giusto e gentile. L’esperienza di questi anni ci dice, al contrario, che

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quando una donna ha il potere, spesso lo usa come i maschi, con in più una smania napoleonica di rivalsa. La parità su cui si batterono generazioni di femministe non è mai diventata un’uguaglianza di possibilità, ma si è rapidamente convertita in un’uguaglianza di comportamenti” (M.Gramellini, “La Stampa”, 2004). Ma non si tratta, fatte le dovute differenze, di “donne nuove” o di un problema solo di oggi. Storicamente le donne hanno sempre “fatto parte dei massacri e della mitologia che li circonda” (J. Bourke, Le seduzioni della guerra, 2001): gli occhi dell’oggi tuttavia ci consentono di guardare da più prospettive e con un aggancio diretto con la realtà il fenomeno della crudeltà e degli eccessi delle donne combattenti, il cui significato non solo illumina un aspetto della storia pregressa, ma va al di là di essa, ponendo domande sui modi di essere naturalmente e culturalmente donna nel rapporto con le armi e il potere che ad esse le armi conferiscono.”La tortura eseguita da una donna sull’uomo, topos di romanzi neri e film gialli e fumetti porno, era finora meno probabile nella realtà”; la donna ambiziosa e spietata si considerava fuori della norma, e come tale ha alimentato lo stereotipo letterario della donna fatale. In un’ottica femminista si potrebbe pensare che l’emancipazione delle donne in armi dalla cultura tradizionale abbia trovato un limite nella loro forse residuale soggezione all’uomo, soggezione che sarebbe responsabile della “permanenza del tratto fallico della sessualità di donne. Ma questa lettura contrasta col fatto che le combattenti più dure e spietate sono spesso quelle più libere e forti.La subordinazione all’uomo, soprattutto al capo, c’entra piuttosto nella misura in cui produce il fenomeno delle gregarie pronte, per ambizione o per amore o per dovere, ad emulare anche la crudeltà dei capi in tutto il suo orrore e a identificarsi col loro potere. Molte delle brigantesse studiate da Scafoglio e De Luna erano totalmente devote ai capibanda, da tollerare infedeltà e tradimenti. Ma in altri casi potevano operare dinamiche diverse. È possibile, anche, che la donna, improvvisamente liberata, non riesca a controllare la vio-

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lenza che la libertà porta con sé, e si lasci attrarre da essa. Va da sé che allora entra in gioco tutta la precedente storia della donna, che rende ragione di un istinto di vendetta, di rivalsa per la sottomissione e le violenze subite, trasferito astrattamente dai propri aguzzini agli uomini in quanto tali e infine, realisticamente, a quelli che la sorte ha messo di traverso, nemici, prigionieri, persone comunque ritenute o immaginate colpevoli. Sappiamo quanto le donne umiliate o violate possano diventare aggressive e violente. In molti casi tuttavia i condizionamenti e le ragioni culturali e politiche sembrano prevalenti. Una emancipazione parziale e limitata delle donne è stata ed è spesso una caratteristica degli stati totalitari e dei regimi autoritari dell’Occidente, quando prendono la via di una modernizzazione, che concerne soprattutto le trasformazioni tecnologiche, militari, economiche e meno quelle culturali. Valgano gli esempi storici del fascismo e del nazismo, con cui quanto accade oggi alle donne nel mondo arabo – escludendo alcune categorie, come le combattenti curde degli ultimi anni e le palestinesi – presenta alcune analogie. Nell’Iran il processo di occidentalizzazione promosso dallo Scià aveva coinvolto anche la condizione delle donne, alle quali per la prima volta fu consentito di liberarsi del velo; la rivoluzione di Komeini ne ripristinò l’uso, ma, al tempo stesso, concesse alle donne alcune libertà e possibilità di accedere a ruoli e attività tradizionalmente maschili, compresa la possibilità di formare una milizia femminile. Inizia così nel mondo islamico il singolare connubio di una modernizzazione limitata ed eterodiretta con la persistenza e il rafforzamento dei vincoli tradizionali, con una chiara funzione di incentivo e insieme di controllo. Questo implica che la modernizzazione ha percorsi diversificati, che ogni cultura opera scelte e le innovazioni che considera compatibili con i propri valori e che la stessa emancipazione femminile non si sottrae a questa che sembra una regola fondamentale. Non si può probabilmente parlare – come si fa, a volte a ragione – di lavaggio del cervello, perché la re-islamiz-

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zazione è comunque condivisa dalle donne, che avvertono l’occidentalizzazione come una minaccia perigliosamente sospesa sul loro mondo, o come un progetto estraneo al loro modo di stare al mondo. Se portare le armi è per la donna il simbolo vistoso di una conquista e di un riconoscimento, portare il velo, oltre a indicare emblematicamente la difesa della propria identità attraverso fedeltà ai valori tradizionali dell’Islam e a rafforzare la comune fede religiosa, concilia questa vittoria delle donne col mondo dei maschi. Nella sua concretezza, la realtà salda principi in linea teorica incompatibili. Almeno secondo la logica di una parte del mondo occidentale tradizionale. Come fossero viste le donne in armi nel mondo musulmano ce lo spiegano gli uomini del più conservatore dei regimi arabi, col decreto saudita che autorizzava le soldatesse americane a guidare, sulla base della considerazione che “le soldatesse Usa in uniforme non sono donne quando guidano veicoli militari”. Il paradosso suggerisce più di una possibile interpretazione, ma la più immediata sembra essere quella che cancella, non solo la sessualità, ma anche l’identità di genere della donna che fa il lavoro degli uomini. Fonte di preoccupazione, forse di angoscia, sembra essere proprio la sessualità femminile. In Indonesia le donne recentemente diventano soldatesse senza portare il velo, in un esercito, che è una istituzione aconfessionale e multietnica, ma i musulmani integralisti propongono di introdurne l’uso. L’impiego delle donne per operazioni militari come soldatesse col velo e perfino col burqa si diffonde sempre più nel mondo musulmano, soprattutto tra gli estremisti di ispirazione tradizionalista, compresi, oggi, i soldati dell’Isis. È invece difficile parlare di emancipazione attraverso le armi e la guerra, quando si evoca la tragedia delle bambine-soldato africane. Il fenomeno presenta qualche analogia con i lati più marginali e oscuri della storia delle brigantesse dell’Italia meridionale, anch’esse spesso giovanissime, se non bambine. Sulle soldatesse africane esiste uno studio di Susan MaKay e Dyan Mazurana (“Where are the Girls?”), frutto di una ricerca condotta soprattut-

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to in Monzambico, Uganda e Sierra Leone, da cui risulta che le bambine presenti nelle forze armate riguardano 55 paesi e nella maggior parte dei casi esse partecipano ai combattimenti. Spesso sono sottratte con la forza alle famiglie: il rapimento, che il più delle volte era una menzogna delle brigantesse per difendersi in tribunale, in Africa è un fatto reale. Una volta arruolate, sono costrette a compiere delitti anche contro i propri familiari, allo scopo di impedire il loro ritorno al villaggio. Quando sono esse stesse a scegliere la vita militare, lo fanno per sopravvivere all’indigenza e alla fame, per un bisogno di sicurezza o come reazione a violenze subite. Superato l’addestramento, combattono come i maschi, e, come non poche brigantesse, alcune di esse sono abili e feroci nei combattimenti e nelle razzie. Alcune di queste miliziane spietate sono le compagne degli ufficiali, sui quali esercitano una notevole influenza, grazie alla quale godono di grande prestigio tra i soldati. Le soldatesse comuni però sono più esposte alle violenze e agli stupri dei maschi. Molte – circa un terzo – rimangono incinte, e quelle che non continuano a combattere durante la maternità rimangono fuori dell’esercito, e sono al tempo stesso rifiutate dalla loro comunità, a causa del figlio illegittimo, o perché ammalate di malattie a trasmissione sessuale. Tutto questo succede con qualche variante anche nella Costa d’Avorio, insanguinata sin dal 2011 da una guerra civile ancora non del tutto spenta, alimentata dagli interessi economici delle grandi potenze. In tutti i gruppi armati militano alcune decine di migliaia di bambine-soldato. Ad esse ha dedicato un informatissimo articolo di Vauro Senesi (in “Il Fatto Quotidiano”, 20 luglio 2014). A volte si arruolano volontariamente per sottrarsi a una vita di stenti, ma spesso accade che vengano rapite dai soldati, che le costringono a compiere delitti contro la gente del villaggio o i loro stessi parenti, le addestrano militarmente e le usano anche, volenti o nolenti, come il loro campo sessuale. Prodotto della violenza, finiscono per essere esse stesse catturate dal gioco maligno della guerra, e diventano crudeli e spietate nei combattimenti. Fi-

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nita la guerra, rifiutate dalla loro gente, finiscono nella prostituzione. Allo scrittore che la interrogava Ashley dichiarava: “È il mio lavoro. So come si smontano e si montano le armi. Ho già ucciso molte persone quindi non potrei più fare altro lavoro, a parte essere militare. So maneggiare le armi, potrei essere un malvivente, preferisco essere un soldato”.

Erano innamorate di Mussolini: le ausiliarie di Salò Annalisa Di Nuzzo Il tema delle donne in armi, che è insieme antropologico e politico, e consente forse di guardare da angolazioni nuove non solo la storia delle donne, ma l’intera storia civile, dovrebbe essere esteso proficuamente – si spera che ci siano altre occasioni per farlo, oltre la felice partenza rappresentata da questo numero della rivista – alle Ausiliarie della Repubblica di Salò: un fenomeno in larga misura indotto dalla propaganda di regime, ma anche – questo soprattutto sembra renderlo interessante – frutto, come l’altro fenomeno parallelo ed opposto delle donne della Resistenza, del nuovo sentimento femminile di autosufficienza e di autostima, legato alle supplenze esercitate dalle donne durante quattro anni di guerra e perfino alle loro precedenti esperienze nel Ventennio. La scarsa letteratura che le concerne si polarizza su due prospettive interpretative: quello della agiografia nostalgica e celebrativa e quello della decisa condanna, che è, alla fine, una condanna politica. È rimasto fuori dal coro il discorso alla Camera dei deputati tenuto da Luciano Violante, che “da sinistra” rivendicò la dignità delle tensioni ideali che avrebbero mosso le giovani fasciste di Salò a cercare forme di eroismo e sacrificio verso “una patria”. Bollato con l’accusa di revisionismo e di superficialità storica, il discorso fu relegato, nel dibattito che ne seguì, nella pura dimensione accademica. Istituito da Mussolini nell’aprile del 1944, il Servizio Ausiliario Femminile riscosse un grande successo, che sarebbe interessante cominciare a

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spiegare: presentarono domanda di arruolamento oltre seimila donne appartenenti ad ogni ceto sociale e provenienti da ogni parte dell’Italia, alcune minorenni, parecchie madri e mogli. Le ausiliarie normalmente non erano armate, ma durante i corsi erano addestrate all’uso delle armi e sia nella X Flottiglia Mas che nelle brigate nere parteciparono attivamente ad azioni militari, infiltrandosi perfino come spie nelle zone del paese liberate dagli Alleati. Resta da chiarire perché Mussolini istituì un corpo del genere e perché tante donne, prevalentemente giovali e giovanissime, vi aderirono. Già prima della guerra lo stesso Mussolini aveva creato un singolare legame donna-fascismo; la sua politica verso le donne aveva mirato alla formazione di una “nuova italiana”, la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana, che coinvolgeva sia gli aspetti intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la formazione e l’inserimento sociale. Il dittatore aveva tentato di staccarsi dalla tradizione del primo fascismo, che accentuava solo la prolificità delle madri, a favore del rifiuto della riservatezza, il silenzio, la timidezza, il sentimentalismo e, pur restando la maternità e la famiglia il perno della vita della donna fascista, tutto lo stile di vita doveva essere impregnato di energia, coraggio, fierezza, decisioni rapide, voce alta ed espressione schietta di sé (cfr. Franca Poli, Fidanzate con la morte. Storia delle ragazze di Salò, 2013). Le giovani donne aderirono per fedeltà ad un regime che consideravano immutabile e per un amore viscerale nei confronti di Mussolini, che il culto della personalità aveva trasformato in una specie di idolo, un padre-amante insostituibile. Si pensi allo sguardo innamorato di una ragazza di Salò, che così racconta il suo incontro con Mussolini: “Quello che mi colpì del Duce fu l’espressione dei suoi occhi, che infatti non ho mai più dimenticato: sembrava che ci guardasse a una a una e che il suo stato d’animo, di fronte al nostro slancio, fosse di una gioia pensosa. Ciò che direi, oggi, è che il suo sguardo non aveva nulla del leader che insuperbisce alla vista di coloro che lo acclamano. Viceversa, era quello di un padre che è sì orgoglioso dei propri

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figli ma anche, in un suo modo segreto, preoccupato del loro avvenire; e preoccupato, anzi, assai più del loro destino che del proprio”. Spesso appena adolescenti, le donne fasciste si lasciarono travolgere dalla tentazione di una nuova emancipazione ed abbracciarono la causa con una passione a volte estrema. Rimasero affascinate dal fascismo e dal dittatore, ma anche dalla novità assoluta dell’esperienza, essendo le prime in Italia ad essere inquadrate in un corpo militare che dava loro l’opportunità di uscire da quel ruolo tipicamente femminile che avevano sempre avuto. In altre parole, esse mettevano in pratica quella voglia di emancipazione che già altre generazioni avevano cominciato a vivere e che in altri paesi si era già concretamente avviata. L’ educazione e la propagande del regime avevano poi fatto il loro corso; una propaganda ed una pedagogia che già nei primi anni del Ventennio inculcava alle ragazze che il bene della Patria faceva parte della sacra missione della donna e che la Madre era insignita della gloria di educare la prole a questo ideale. Teresa Labriola, una della più note intellettuali del tempo, aveva abbracciato il programma dell’Associazione nazionalista, nonostante la sua formazione familiare. Per certi aspetti la sua svolta politica dalla sinistra alla destra richiamava quella dello stesso Mussolini e di altri esponenti della “generazione del fronte”. Il socialismo marxista era quasi una seconda natura per la Labriola, figlia del filosofo e attivista politico napoletano. Teresa, il cui ingegno volubile e salottiero aveva ben poco assimilato della filosofia marxista, aveva al pari di Mussolini una mentalità élitaria, imbevuta del volontarismo comune a un’intera generazione di intellettuali. Ammirava l’idealismo di Giovanni Gentile, col quale aveva studiato, e preferiva l’iconoclastia di George Sorel e Friedrich Nietzsche ai principi inesorabili del marxismo della Seconda Internazionale. Secondo Teresa solo nuove, fresche avanguardie, abbandonando l’inetto riformismo del movimento socialista italiano, avrebbero costruito una nuova Italia, ripudiando I’agnosticismo liberale per infondere nel popolo italiano una nuova “eticità”. Questa élite per la

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Labriola era soprattutto al femminile: fin dal 1908 parlava della “capacità di sacrificio, peculiare della donna”, che la rendeva l’unico soggetto capace di ricomporre il “contrasto tra le esigenze dell’individuo e quelle della specie”. La sua visione delle donne italiane come campionesse di un nuovo ordine sociale fondato sulla revisione dei concetti di razza, nazione e Stato, risultò accattivante. La stessa figlia prediletta del duce, Edda Ciano Mussolini, continuerà a sostenere negli ultimi anni della sua vita che il fascismo aveva dato modo che si realizzasse un femminismo di destra. In una situazione in cui le donne quasi mai disponevano di informazioni diverse e alternative, era stato facile al fascismo costruire una nuova identità femminile mediante un sistema formativo autoritario ed eterodiretto; le voci delle ausiliarie, affidate a scritture autobiografiche che da non molto cominciano ad essere note, risentono del lessico e della propaganda del tempo, che poneva come principio fondante del riconoscimento del femminile il valore del sacrificio, e faceva leva su un sentimento di maternità mediterranea e su un desiderio di emancipazione e di partecipazione pubblica. La dilatazione del sentimento materno oltre i confini familiari ispirò una cura corale dei soldati sbandati, dei prigionieri fuggiti, dei bambini, che conviveva con una volontà forte di protagonismo personale, di cittadinanza da vivere accanto e analogamente a quella maschile. L’addestramento era duro: “niente rossetti, niente donne fatali, niente amori conturbanti”, quindi controllo affettivo e sessuale, spirito di sacrificio, sorretti da una retorica che ripeteva gli stilemi e i temi della retorica fascista. Basta leggere giornalini come “Sveglia” del 1944 per rendersene conto. Questo clima spirituale era arroventato dal riflesso delle passioni, che dividevano il paese. Le lettere di alcune condannate a morte mostrano drammaticamente la complessità di una formazione, in cui l’indottrinamento fascista era riuscito a mettere radici nei vissuti delle persone, perché aveva saputo subdolamente catturare i valori profondi, le domande di autenticità e di intransigenza di donne giovani che, chiamate per la prima volta

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ad assumere un ruolo da protagoniste, accettarono pienamente il sacrificio per la “patria tradita”. È quanto emerge da una lettera che una condannata a morte scrive a sua madre:

la fede la portassi sempre tu per mio ricordo. Addio per sempre (in “Lettere dei caduti della Repubblica Sociale Italiana”, Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, 1990).

Mamma mia adorata, Purtroppo è giunta la mia ultima ora. È stata decisa la mia fucilazione che sarà eseguita domani, 25 luglio. Sii calma e rassegnata a questa sorte che non è certo quella che avevo sognato. Non mi è neppure concesso di riabbracciarti ancora una volta. Questo è il mio unico, immenso dolore. Il mio pensiero sarà fino all’ultimo rivolto a te e a Mirko. Digli che compia sempre il suo dovere di soldato e che si ricordi sempre di me. Io il mio dovere non ho potuto compierlo ed ho fatto soltanto sciocchezze, ma muoio per la nostra Causa e questo mi consola. È terribile pensare che domani non sarò più; ancora non mi riesce di capacitarmi. Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che alla nostra Causa non sanno che sacrificare parole. Mi auguro che papà possa ritornare presso di te e che anche Mirko non ti venga a mancare. Vorrei dirti ancora tante cose, ma tu puoi ben immaginare il mio stato d’animo e come mi riesca difficile riunire i pensieri e le idee. Ricordami a tutti quanti mi sono stati vicini. Scrivi anche ad Adolfo, che mi attendeva proprio oggi da lui. La mia roba ti verrà recapitata ad Aosta. Io sarò sepolta qui, perché neppure il mio corpo vogliono restituire. Mamma, mia piccola Mucci adorata, non ti vedrò più, mai più e neppure il conforto di una tua ultima parola, né della tua immagine. Ho presso di me una piccola fotografia di Mirko: essa mi darà il coraggio di affrontare il passo estremo, la terrò con me. Addio mamma mia, cara povera Mucci; addio Mirko mio. Fa’ sempre innanzitutto il tuo dovere di soldato e di italiano. Vivete felici quando la felicità sarà riconcessa agli uomini e non crucciatevi tanto per me; io non ho sofferto in questa prigionia e domani sarà tutto finito per sempre. Della mia roba lascio a te, Mucci, arbitra di decidere. Vorrei che la mia picco-

Pur nel rispetto per la dignità di chi è capace di scrivere lettere di questo tenore, la nostra consapevolezza che non c’era una patria tradita, e che si trattava di un motivo della propaganda fascista, specchio della falsa coscienza del regime, frena in parte l’intensità della nostra umana partecipazione. Anche perché le vittime causarono anch’esse altre vittime, e alcune, oltre a combattere dalla parte sbagliata, uccisero e torturarono. Questi documenti vanno comunque sottratti all’oscurità cui li condanna una parte politica, non tanto per una generica volontà di restituire voce e dignità ai vinti, e comprendere, pur in assenza di condivisione, l’entità della tragedia della guerra civile, quanto per rappresentare le contraddizioni interne alla storia dell’emancipazione delle donne, liberando questa storia dai facili schematismi e dalle costruzioni ideologiche. Certamente le adunate fasciste permisero alle donne di uscire dai luoghi privati e di essere protagoniste di spazi pubblici, di conquistare la piazza, di essere come i loro fratelli (“non eravamo libere di uscire da sole, di incontrare amici, di andare a cinema, ma la divisa e le adunate ce ne davano l’opportunità. Si percepiva di essere prese in considerazione, di essere parte di un tutto, forse per la maggioranza era la patria, non il fascismo, anche se nessuna, o quasi, aveva l’idea di che cosa fosse esattamente”), ma questo avveniva senza la minima consapevolezza di quello che il fascismo realmente era ed a costo di una militarizzazione autoritaria che non era certo la forma ideale dell’emancipazione femminile. La retorica funeraria di un regime che aveva ormai i giorni contati provò a cavalcare fino in fondo il motivo epico della “bella morte”, inondando le canzoni delle giovani donne votate al sacrificio: “O giovane ragazza / Che parti volontaria / Per fare l’ausiliaria / Ricorda che la vita / Non sempre sarà bella ….”. E ancora: “Cara Mamma,

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parto volontaria / Dammi un bacio senza lacrimar…./ …a noi la morte non ci fa paura, / ci si fidanza e ci si fa l’amor”. Quando si studieranno accuratamente questi testi, riuscirà facile forse far emergere temi cari ad un languido e stucchevole romanticismo tipico di una letteratura femminile da romanzi d’appendice, che si declina nelle forme del nuovo eroismo. E si potrà anche mostrare come il vento di questa modernizzazione autoritaria dei ruoli e dei compiti delle donne aveva investito anche il rapporto con la famiglia, in particolare con i padri, che si opposero spesso alle decisioni dell’arruolamento, mentre le figlie si sentivano sacerdotesse e garanti del nuovo ordine. Si era realizzata con successo una sorta di militarizzazione della mente di ragazze molto giovani insieme all’elaborazione di una sacralità laica e pubblica, che sarà

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ricorrente in molti regimi totalitari del secondo Novecento, per esempio quelli del Vietnam o della Cambogia. Questo fa pensare che questa militarizzazione della mente femminile non fosse soltanto il prodotto di un regime disperato che avverte la sua fine, ma sembra porsi come un modello attraverso il quale si procede alla ricostruzione di un tessuto sociale e si elabora un rito collettivo, che, comunque, passa attraverso la soppressione di libertà, atrocità, esposizione dei cadaveri. In ogni caso è interessante osservare che le donne soldato di questo periodo, ausiliare o partigiane, per motivi opposti sparirono dalla visibilità pubblica: le prime, perché traditrici e da rinnegare, le seconde perché probabilmente ingombranti e possibili concorrenti nel gestire lo spazio politico della ricostruzione di un paese.

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“Facta ficta” nella ricerca scientifica e nel romanzo storico-antropologico Domenico Scafoglio

Antropologia e storia: un incontro da riconsiderare

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l rapporto tra la ricerca antropologica e quella storica non può esaurirsi in una rilettura della disciplina storica alla luce dell’antropologia e viceversa. L’incontro, peraltro in alcuni momenti e in parte già avvenuto, non può neppure limitarsi al “trapianto” nella ricerca storica di importanti concetti e temi antropologici, per dare vita a una disciplina di confine, come l’antropologia storica. Innanzitutto perché esistono molte tendenze e scuole negli studi antropologici (evoluzioniste, storiciste, diffusioniste, funzionaliste, funzional-strutturaliste, culturaliste, strutturaliste, cognitiviste ecc.), che alla fine hanno in comune poche idee importanti, appena sufficienti per formare una identità disciplinare ridotta all’essenziale, e divergenti per tutto il resto. I concetti antropologici estrapolati da diversi sistemi dovrebbero comunque risultare coerenti, se non interattivi, tra di loro per celebrare il loro incontro o fusione con la storia e dovrebbero inoltre essere collocati in un nuovo sistema storico-antropologico in modo da creare una totalità coerente, di

segno nuovo e diverso, con gli altri elementi di provenienza storica: una nuova disciplina non è la somma di due precedenti discipline, ma un sistema di pensiero e una modalità di ricerca nuova e potenzialmente innovativa. In secondo luogo, occorrerebbe liberare i concetti antropologici dalle contaminazioni ideologiche che si sono accumulate nella storia di una disciplina che è convissuta, restandone frequentemente contagiata, se non coinvolta, con storie di conquiste, di dominio e di violenza acculturatrice. È un compito che spetterebbe anche alle discipline storiche, analogamente contaminate da interessi di parte e da più o meno oscure o palesi connessioni con i gruppi di potere.

Il peso delle differenze e delle affinità A un primo approccio, le differenze tra la ricerca storica e quella antropologica possono apparire macroscopiche, al punto da rendere comprensibile in parte diffidenza, che è durata parecchi decenni, degli antropologi nei confronti delle indagini storiche. L’antropologia, pur occupandosi, soprattutto nel suo momento etnografico, non diversamente 125

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dalla ricerca storica, di situazioni specifiche, caratterizzate da un’ estrema concretezza, non può fare a meno delle generalizzazioni che le consentono la formulazione di leggi del comportamento sociale; questo ha fatto sì che soprattutto nella sua fase funzionalista e strutturalista essa si autorappresentasse come una disciplina nomotetica, opposta alla ricerca storica, qualificata invece come disciplina descrittiva, idiografica, proiettata verso la rappresentazione del particolare. Non è una differenza da poco, perché, grazie all’impiego scientifico e sistematico del metodo comparativo, il confronto tra le culture può mettere in gioco il decentramento della conoscenza, che costituisce un merito storico della pratica e della riflessione antropologica. Se è vero che, come sostiene Lévi-Strauss, entrambe le discipline sono unificate dallo scopo comune, che è “la migliore intelligenza dell’uomo”, è anche vero – se guardiamo alla differenza tra i loro territori e alle sue implicazioni teoriche – che, mentre gli storici per lungo tempo non sono usciti quasi mai fuori della storia dei loro popoli, e, quando si sono imbattuti nelle altre storie, le hanno osservate e interpretate dal punto di vista della storia propria, l’antropologia ha perseguito lo scopo indicato da Lévi-Strauss attraverso il confronto con la diversità culturale: le forme della conoscenza e l’intero sapere antropologico sono fondamentalmente legati all’incontro e al confronto tra due alterità, quella del ricercatore europeo e quella dei popoli lontani (per lo più “primitivi”) o delle culture popolari del proprio paese e di tutto l’Occidente. Le due spinte fondamentali del pensiero antropologico, quella universalista e l’altra, opposta e complementare, la spinta relativista, presuppongono un campo d’osservazione costituito da una varietà di popoli e culture 126

diverse, compresa quella del ricercatore. In quanto disciplina anche applicata, l’antropologia studia le culture su larga scala per pervenire a una teoria generale della società, da utilizzare per comprendere casi specifici e risolvere problemi concreti, oppure approfondisce la conoscenza di singole culture, per rapportarsi ad esse nella maniera giusta e facilitare la loro interazione, nella prospettiva di un mondo tollerante e dialogante. Quanto al metodo, l’antropologia, dopo una iniziale e solida esperienza storicista, ha privilegiato per molto tempo l’approccio sincronico all’oggetto di studio, mentre lo storico è stato visto come uno specialista della diacronia. È la sincronia, che, fermando strumentalmente il flusso degli eventi, consente di allargare lo sguardo su tutti i lati del campo di ricerca e scoprire angoli ignorati o occultati, mentre lo sguardo catturato dal divenire costringe ad appiattirsi sul dinamismo storico e a privilegiare i tratti che determinano i mutamenti delle società in evoluzione, trascurando tutti gli altri, escludendo o sottovalutando stati di coscienza e forme di vita. Quando si schiaccia il presente sulla prospettiva del futuro, si impedisce di cogliere la vastità e complessità dell’hic et nunc, della storia che è, a vantaggio della storia che deve essere. Ma non sempre gli individui e i popoli vivono la storia nella prospettiva di un divenire intravisto o sognato, e non per questo la loro esistenza porta le stimmate dell’irrilevanza. Ma forse il discrimine maggiore, più volte rilevato, tra l’antropologia e la storia è costituito dal fatto che gli studi antropologici hanno indagato le trame di significati latenti e le strutture profonde della cultura inconsapevole dei gruppi umani, mentre gli storici si sono prevalentemente occupati – a parte qualche proposta solitaria di psicoanalisi

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della storia, avanzata negli anni sessanta del secolo passato – delle espressioni coscienti e delle logiche di superficie. Questo per gli antropologi ha implicato l’approfondimento di importanti problemi di ordine cognitivo ed epistemologico, rimasti quasi estranei alla riflessione degli storici. Vi hanno contribuito in maniera decisiva gli strumenti e le tecniche stesse dell’antropologia, a cominciare dallo strumento principe della conoscenza antropologica, la ricerca sul terreno, l’ osservazione, la conoscenza diretta e l’autosservazione, poco praticate o sconosciute all’indagine storica. È difficile che gli antropologi alle prese con la storia rinuncino a queste che potrebbero essere le conquiste più alte della loro disciplina: ove questo avvenisse, rappresenterebbe per essi una regressione dal piano propriamente antropologico a quello meramente etnografico (che comunque continuerebbe a costituire per tutti un fondamento e un punto di partenza imprescindibile). La storia dei rapporti tra le due discipline dimostra comunque che l’ostilità o l’indifferenza per la storia non è congenita all’antropologia, ma inizia soltanto con i funzionalisti e si conclude con l’esaurirsi dell’esperienza dello strutturalismo. Precedentemente gli evoluzionisti e i comparativisti della seconda metà dell’Ottocento avevano conferito una grande importanza alla ricerca storica: in Cultura primitiva Tylor, citando Spencer, dichiarava che i concetti si comprendono solo se se ne sa fare la storia, e riteneva oltremodo rischioso cercare di spiegare un’usanza separandola dai fatti passati con i quali è connessa. Il limite di questo interesse per la storia era la teoria degli stadi, in cui esso si risolveva, opportunamente liquidata poi da Boas. Notoriamente i funzionalisti e

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strutturalisti, nello sforzo di assimilare l’antropologia alle scienze naturali, andarono oltre, rimproverando gli storici di lavorare in maniera congetturale su un passato mal conosciuto e mal documentato, perché di solito anteriore alla invenzione della scrittura. In realtà il rifiuto della storia era inscritto nell’epistemologia struttural-funzionalista, secondo cui il presente ha in se stesso le condizioni che spiegano il suo funzionamento, alla cui comprensione la storia è totalmente estranea ed inutile. Da alcuni decenni – sono cose note – le prevenzioni degli antropologi nei confronti del lavoro degli storici sono cadute, insieme all’illusione di adottare il modello delle scienze naturali, mentre è cresciuta la consapevolezza che l’indagine etnografica e etnologica limitata alla ricerca sul campo priva la rappresentazione delle culture della necessaria profondità storica, già auspicata dai padri fondatori dell’antropologia. Una crisi pressoché parallela ha attraversato la ricerca storica, facendo prendere coscienza – sollecitata dal confronto con i risultati e i metodi delle ricerche antropologiche – dei limiti tematici e delle inadeguatezze teoriche e metodologiche degli studi storici tradizionali. Crisi salutare, che ebbe come esito la nascita della storia antropologica francese, dalle “Annales” a Braudel e alla “nuova storia”, che per la prima volta ha forzato i limiti della ricerca storica tradizionale, aprendosi alla possibilità di pervenire a una lettura più sottile e complessa dei documenti, transitare nuovi territori di ricerca, prima ignorati o trascurati, arricchire la ricerca storica di una nuova consapevolezza critica. Gli studi storici hanno cominciato a contaminarsi con l’antropologia, in un momento in cui quest’ultima metteva in discussione i suoi 127

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stessi fondamenti, e iniziava a riconoscere una “somiglianza di famiglia” cogli studi storici. Evento favorevole fu l’affermarsi, prima in America e poi in Europa, delle correnti di pensiero riflessivo, grazie al quale il riconoscimento della comune letterarietà ha contribuito ad accelerare e rafforzare l’avvicinamento delle due discipline. Mentre il campo antropologico fu presto e facilmente sconvolto dalla fortuna dell’antropologia interpretativa e dialogica, fuori d’Italia la riflessività ha contagiato anche il territorio della ricerca storica, con l’idea che le costruzioni storiche si fondino su punti di vista, che le rendono assimilabili in ultima analisi alle creazioni artistiche, con le quali condividono le medesime strategie discorsive e persuasive, oltre una poetica più o meno implicita e un rapporto significativo col mito. Per un altro verso la presunzione di oggettività affidata alla creduta inconfutabilità dei dati è stata messa in crisi dalla consapevolezza che il passato è una costruzione che si riscrive ogni volta alla luce del presente, secondo un ordine di idee in cui la storia sembra aver trovato ispirazione e sostegno nella psicologia del profondo: le ricerche sulla memoria individuale e collettiva insegnano che, se il passato costituisce una “totalità ineffabile”, che occorre decostruire per poterlo conoscere, la sua interpretazione diventa una operazione creativa e retrospettiva: in virtù del “principio dell’appropriazione”, l’ elaborazione sia consapevole che inconscia del passato “è resa possibile dalle nuove esperienze del soggetto e attraverso di essa il passato assume una nuova qualità e può produrre effetti psichici nuovi” (Peth 2002: 429). L’avvicinamento ha portato, sul piano epistemologico, a smussare il contrasto tra 128

l’osservazione diretta degli antropologi che lavorano sul terreno e l’osservazione storica, in cui il documento sostituisce la realtà, sulla base della considerazione che in entrambi i casi il ricercatore opera in maniera analoga (ossia adoperando procedure di tipo induttivo-deduttivo, compiendo comparazioni, disegnando classificazioni e operando selezioni di dati sulla base di un modello teorico) e lavora su testi o documenti, cui occorre incessantemente porre nuove domande e che bisogna leggere ogni volta alla luce di nuovi codici: testi e documenti che l’antropologo, a differenza dello storico, si costruisce da sé, con l’aiuto degli informatori. Nietzsche aveva già fatto importanti considerazioni sulla inscindibilità di conoscenza diretta e storia, a proposito dell’autosservazione: “L’autoconoscenza diretta non basta da sola a conoscersi: abbiamo bisogno di storia, perché il passato continua a fluire dentro di noi in cento onde; noi stessi non siamo altro che quello che avvertiamo in ogni momento di questo flusso. E anche qui, se vogliamo entrare nel flusso del nostro essere apparentemente più nostro e personale, vale il detto di Eraclito: non si entra due volte nello stesso fiume (Niet 1965, II, 223). Si è andata, anche per questa via, sdrammatizzando l’opposizione sincronia/diacronia, quando si è compreso che l’oggetto dell’osservazione diretta non nasce sotto gli occhi dell’ osservatore, ma preesiste al suo sguardo e ciò che egli osserva è soltanto l’ultimo istante di un fenomeno che ha cominciato a dispiegarsi in un tempo a volte recente, a volte lontano se non immemorabile: il presente è un racconto che viene da lontano. In questo modo il cerchio si chiude, e l’antropologia sembra ritornare, con altra consapevolezza, alle origini tyloriane.

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Antropologia storica? Questi fatti recenti, che rappresentano in sede antropologica un aspetto della più generale crisi che attraversa l’organizzazione tradizionale dei saperi, hanno fatto pensare alla possibilità della generalizzazione delle esperienze delle “Annales”, facendone il fulcro di una disciplina autonoma, l’“antropologia storica”. Si è pensato cioè che questa nuova disciplina esistesse già, e che rimanesse soltanto da fissarne lo statuto, definirne i confini, mettere a punto il quadro teorico-metodologico. In realtà, pur essendo orientate da un proposito di sintesi onnicomprensiva, le varie definizioni dell’antropologia storica risentono delle diverse sensibilità, storie culturali, estrazioni disciplinari degli studiosi, rendendo difficile il compito di unirle in una sola categoria, sul fondamento di un comune denominatore. A titolo di esempio ricordiamo una sola delle definizioni dell’antropologia storica, che nel 1987 diede Peter Burke (Bur 1988: 5-10) individuandone cinque componenti fondamentali: casi particolari concreti, invece delle tendenze generali indagate dalla Storia sociale su basi quantitative; fatti di modeste dimensioni, microstorie e storie di piccole comunità; “descrizione densa”, intesa come interpretazione “dell’interazione sociale in una data società nei termini delle norme e delle categorie di quella società stessa”, contrapposta alla lettura dall’esterno, “etica”, degli storici sociali; simbolismo nella vita quotidiana, ossia “usanze, abitudini e rituali apparentemente banali”. È difficile immaginare che tutti gli antropologi storici si possano riconoscere in questa definizione dell’antropologia storica. In definizioni di questo tipo l’incontro tra le due discipline

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si realizza a un livello modesto, come una contaminazione en bass, che lascia fuori della nuova disciplina alcuni aspetti dirompenti dell’esperienza storica ma soprattutto di quella antropologica, quali la rappresentazione dei vissuti esperienziali individuali; l’ utilizzazione complementare delle ricerche quantitative e seriali; il recupero della presenza e del ruolo delle masse, come rimedio alle lacune della ricerca macrostorica e alle omissioni della storiografia tradizionale; l’attenzione alle marginalità sociali e culturali, potenzialmente capace di mettere in discussione, nell’ottica, per esempio, di Khun, i paradigmi scientifici dominanti e di agevolare il loro superamento; l’individuazione e l’uso di nuove fonti, come quelle orali, folkloriche e letterarie; la pratica del lavoro comparativo. Assenze significative, che riducono l’antropologia storica di Burke al ruolo di una “disciplina del particolare”, classificabile come etnografia storica connotata in senso sociologico. Le carenze maggiori si collocano sul piano teorico, al quale rimangono estranei i concetti, vecchi (per così dire) e recenti, che hanno attraversato il campo antropologico nell’ultimo mezzo secolo, quali il recupero della soggettività interpretante nelle scienze umane e sociali, il carattere dialogico della conoscenza nelle discipline umanistiche, il problema della “forma” della scrittura storica, il rapporto tra la psicologia e la ricerca antropologica e storica, il ruolo della storia e dell’antropologia nell’ organizzazione dei saperi.

“Facta ficta”: se la storia non è una scienza Storici e antropologi, sia che collaborino nella medesima indagine, sia che procedano 129

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ognuno per conto proprio, hanno in comune il problema che ha acceso un importante dibattito negli anni settanta del secolo passato e non si è ancora risolto, quello dell’esistenza o meno delle leggi generali che governano la storia e della loro conoscibilità. Nell’ opinione di molti l’esistenza di queste leggi conferirebbe agli studi storici una veste scientifica, laddove la loro inesistenza farebbe di essi un’attività di più difficile definizione. Senza andare troppo lontano, diciamo che della loro esistenza si era detto convinto, in un articolo pubblicato nel 1979, l’argentino Carl G. Hempel (Hem 1979), secondo cui esse avrebbero oggettivamente una funzione analoga a quella che le leggi hanno nelle scienze naturali, e si potrebbero conoscere mediante il collegamento delle cause a dei fini, che conferirebbe ad esse una capacità di predizione. La tesi ha trovato l’avallo in sede filosofica di esponenti del positivismo logico e di filosofi analitici, come Popper. Per tutti “spiegare un avvenimento equivale a dimostrare che è effetto di una causa o, in altri termini, è un caso di una legge” (Pop 1981: 111). Nelle tradizioni di pensiero opposte non esistono i fatti, ma soltanto le rappresentazioni, facta ficta, come aveva sostenuto Nietzsche (Nie 1881: 307), che può essere considerato il punto di partenza – o almeno quello di maggior prestigio – di quanti considerano i fatti indissociabili dal loro racconto e dalla soggettività di chi li evoca. Con essa si raccorda Ricoeur, quando aggiunge che “un fatto fisico semplicemente avviene, mentre un fatto umano ha già uno statuto storico, perché è stato già raccontato nelle cronache, nelle leggende ecc.”, per cui il vero problema è semmai quello di capire “in quale tipo di discorso questa struttura esplicativa funziona” (Ric 1983: 165). La critica 130

contro la “realtà” del dato storico era stata ripresa in sede antropologica da Lévi-Strauss, in base alla considerazione che la ricostruzione storica è il risultato di una sintesi compiuta dal soggetto investigante, implicante la selezione e perfino l’invenzione dei dati. Pur non escludendo che in un futuro imprecisato la storia potesse divenire una scienza, l’antropologo sosteneva che i miti delle società evolute “sono tutti riducibili alla storia”, implicando che tutta la storia è riducibile al mito (Lev-Ca 1969: 69-70); il mito compare dove manca la conoscenza scientifica, tra i “primitivi”, che, incapaci di analizzare scientificamente la natura, della natura fecero la protagonista della loro mitologia; invece noi civilizzati “abbiamo riassorbito, pulito, assimilato nell’analisi scientifica” il mondo naturale, mentre abbiamo mitologizzato il mondo della storia, perché esso è “impermeabile alla scienza – perlomeno, allo stadio in cui si trova attualmente – quanto lo è la natura per i popoli primitivi” (Lev 1969: 68). In realtà, quando nelle società evolute gli uomini si impegnano a dare una struttura scientifica alla conoscenza della storia, la loro immaginazione continua a esercitarsi anch’essa sui fatti storici, i quali conservano nella forma di miti un’esistenza parallela, riconoscibile – nei suoi esempi più importanti – nell’epos e nel romanzo storico: le società complesse hanno perciò una percezione doppia dei fatti storici, contesi da una presunzione di scienza e al tempo stesso oggetto di una rappresentazione immaginaria. Nelle società moderne coscienza storica e rappresentazione immaginaria coesistono, forniscono risposte a bisogni diversi e producono effetti diversi, ai quali la gente non vuole rinunciare. Questo sembra costituire un problema finora scarsamente approfondito.

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Per Lévi-Strauss invece è possibile dare dei fatti storici una rappresentazione mitologica e non scientifica, perché i fatti sono imprevedibili nel loro svolgimento: “bisogna inchinarsi di fronte alla contingenza irriducibile della storia” e prendere atto che “la storia reale si sottrae alle leggi di sviluppo, come quelle elaborate dai marxisti” (Lev-Di 1988: 177). Perché i fatti variano, non si ripetono, né si somigliano: “non esistono dunque leggi della storia, perché il numero delle varianti è tale, che vi sono talmente tanti parametri, che forse soltanto un intelletto divino potrebbe conoscere, o sa già dall’eternità, che cosa accade o accadrà. Quelli umani ogni volta si ingannano; la storia lo dimostra. Si dice: ‘delle due l’una’, ed è sempre la terza”. Anticipando per certi aspetti Benjamin, Lévi-Strauss riteneva che semmai “gli eventi sono imprevedibili sin tanto che non si sono verificati. Ma quando hanno avuto luogo, si può cercare di capire e di spiegare. Si possono legare gli avvenimenti gli uni agli altri e cogliere retrospettivamente la logica di tale contaminazione” (Lev-Di 1988: 177). Almeno attualmente, il lavoro dello storico è inevitabilmente parziale, e può portare solo a risultati parziali: la logica con cui leghiamo i singoli fatti non costituisce la struttura logica della totalità.

Fuori del “bordello dello storicismo” Le tradizioni di pensiero storiciste tendono a collocarsi dalla parte delle leggi, per via della tendenza a stabilire nessi di causalità fra momenti diversi della storia. Ad esse Benjamin obiettava che “nessun fatto, perché causa, è perciò storico. Lo diventerà solo dopo, postumamente, in seguito a fatti che

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possono essere divisi da millenni”. Da questo storicismo Benjamin sganciava le tradizioni autentiche di materialismo storico, perché “lo storicismo postula un’immagine ‘eterna’ del passato, il materialista storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice ‘c’era una volta’ nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia” (Benj 1995: 84-86). Invece l’idea benjaminiana dello “sviluppo a strappi” rivendica l’autonomia e la creatività dell’agire umano contro il rischio delle strumentazioni ideologiche e le mitologie del continuazionismo e del casualismo storiografico. La critica del continuazionismo storicistico e della presunzione di oggettività assoluta delle ricostruzioni storiche, insieme alla presa di coscienza della loro natura di narrazione di narrazioni e alla sua identificazione con le rappresentazioni mitiche, hanno aperto la strada a riflessioni teoriche coraggiose sulla storia negli ultimi decenni, introducendo elementi di novità, che non possono essere ignorati o non tenuti in conto nelle pratiche di ricerca.

Una storia dialogica? Lo spazio che la soggettività ha guadagnato in sede antropologica potrebbe costituire un problema per gli storici che vanno a incontrare l’antropologia. Eppure era stato proprio uno storico, Alain Besançon, a sostenere la necessità dell’apertura delle analisi storiche alla soggettività (la soggettività del testo, ma anche dell’autore): nel proposito di fondare una psicoanalisi della storia, Besançon negli anni 1968-1971 poneva, ac131

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compagnati da lucide proposte di soluzione, gli stessi problemi, che, al di là dei rapporti tra la storia e la psicoanalisi, a breve avrebbero sconvolto il tradizionale assetto teorico-metodologico del settore antropologico (Bes 1975): “oggetto e soggetto dell’indagine storica (e psicoanalitica) non sono ontologicamente, qualitativamente diversi. Nella misura in cui l’oggetto è l’uomo (ovvero documenti-che parlano-di uomini), quello intrecciato tra il documento storico e il suo interprete è un dialogo fra due pari, fra due soggetti”, ed entrambi sono soggetti relativi. Relativo il documento, che non enuncerà mai tutto ciò che gli ‘sta-dietro’”; relativo anche l’interprete, ricettacolo di sogni e desideri, che inevitabilmente si riversano o riverberano nell’analisi, togliendole purezza e trasparenza (Bes 1975: 69). Riflessioni preziose, le cui radici sono state opportunamente individuate “in un humus teorico per più versi prossimo a quello da cui sono nati Heidegger, Gadamer, l’ermeneutica come scuola filosofico-teologica” (Mor 1975: 17).

La soggettività profonda e la mediazione della forma La rivalutazione del ruolo della soggettività dell’interprete ha dato i suoi frutti assai più in sede antropologica (in cui raramente si è fatto il nome di Besançon) che storica. Era già risaputo che l’intera storia intellettuale ed emotiva dell’interprete, passando attraverso il suo lavoro di selezione e costruzione concettuale e formale, confluisce nelle sue rappresentazioni, a dispetto della sue presunzioni di oggettività e asetticità. E si era in qualche modo già posta l’esigenza di collocare lo stesso interprete all’interno 132

del campo della ricerca, come elemento da indagare oltre che indagante. Ora, però, si va oltre, alla ricerca dei condizionamenti che provengono dalla soggettività più profonda dell’autore. Besançon, se, per un verso, anticipava le istanze dell’antropologia dialogica e interpretativa, per un altro le scavalcava portando la stessa storia in un altro ambito di competenze, quello della psicologia, in parte familiare all’area antropologica, ma con a quella storica: l’interprete subisce non soltanto i condizionamenti “dettati dalla nostra situazione storica”, ma anche di “ciò che in noi sfugge alla storia, della parte non storica di noi stessi, ossia dell’inconscio”. Dall’inconscio vengono le motivazioni segrete, quelle che ci consentono di dare risposte a domande come queste che Besançon si pone: “Che cosa vogliamo di preciso quando facciamo della storia? A quale desiderio primario questo desiderio di sapere può riferirsi? La mia scommessa è che le risposte a questi due problemi (sull’inconscio nel testo e in noi che l’esaminiamo) non possono essere cercate che insieme; che lo storico non può avanzare nella conoscenza del testo senza condurre parallelamente questo necessario esame di coscienza”. Il progresso della conosenza scientifica è proprio prodotto dall’inquietante incontro del simile-esterno a sé e dell’altro-interno a sé (Bes 1975: 23). L’ elemento fondante dell’osservazione, cosciente e inconscia, è proprio nell’interazione soggetto/oggetto: quando il sistema dello storico incoscientemente o involontariamente si “mette in risonanza con il sistema fantasmatico dell’oggetto studiato” (“fantasma”), ossia, quando l’inconscio dello storico si incontra o scontra con l’inconscio che emerge dal documento, nell’osservatore si produce una “perturbazione euristica” (Bes

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1975: 72, 69) analoga a quella prodotta dal “perturbante” freudiano, che genera immagini familiari e sinistre, terribili e accattivanti. In altri termini, l’investigazione storica può fare emergere dall’incontro/scontro dell’inconscio del testo e della personalità dell’interprete uno scenario fantasmatico, tramato di desideri, affetti, pulsioni, ossessioni. È una svolta radicale, perché finora gli storici che hanno dato spazio al soggetto “non hanno evidenziato nulla più dei modi razionali-coscienti, categoriali dell’operare storico” (Mor 1975: 19). Essa getta nuova luce su tutta la strutturazione del testo scientifico: il “compimento di un desiderio”, che fonda l’immaginario dello storico-antropologo, è inevitabilmente “più o meno deformato dai processi difensivi”, sicché nessun interprete, come già pensava Freud, “va più lontano di quanto gli permettano i suoi complessi e le sue resistenze interne: ciò che si reprime in sé impedisce di vedere ciò che gli corrisponde, allo stato di rimozione, nella cultura che si studia” (Bes 1975: 65, 68). La perturbazione euristica può però giovare a superare complessi e resistenze interne, sbloccando almeno in parte il linguaggio e aprendo a nuovi orizzonti la comunicazione. È questo il momento creativo e innovativo della discesa agli inferi della soggettività inconscia. Si tratta di ben altro che di concetti psicoanalitici trasformati in “figure di stile”, come pensa Certeau (Cert 1975: 298). Perché l’incontro dei vissuti soggettivi del testo e dell’interprete può approdare a nuove forme di decodifica, che restituiscono un’esperienza insospettatamente più ricca, più intensa, frastagliata, meno convenzionale e scontata: laddove – nell’opinione di Nietzsche, che in parte condividiamo – “i nostri storici letterari sono noiosi, perché costrin-

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gono a parlare di tutto e a giudicare anche là dove non hanno vissuto niente” (Niet 1965: 30 (60). L’ermeneuta, a nostro giudizio, al tempo stesso dovrà tenere conto del fatto che già il testo che egli analizza è assai più del “fantasma”, perché, nel suo nascere, al sistema fantasmatico sono state conferite forme culturalmente approvate, differendo o promuovendo o plasmando pulsioni e istinti in conformità con le regole sociali, in modo che i loro contenuti diventassero consapevoli rimanendo inespressi, o sospesi tra l’inconscio e la coscienza, o manifesti ma non immediatamente percepibili. La perturbazione euristica ed ermeneutica ha però la capacità di farli emergere dalla loro liminarità o latenza, esplicitando il non detto, dando un volto all’inespresso, ma anche l’ermeneuta dovrà fare i conti, a un altro livello, con i contenuti della coscienza, i codici culturali, le convenzioni stilistiche e retoriche, dando vita a formazioni di compromesso tra la pressione fantasmatica e il principio della realtà. Se l’inconscio ha suggerito le scelte “primarie”, è stato il lavorio culturale a fare il resto. Questo lavorio è presente nella strutturazione del testo e fa parte della rappresentazione della realtà (Scaf 1996: 95-206).

Storia e letteratura La forma della scrittura della storia come dell’antropologia è insomma anche un problema letterario. Un elemento che ha accomunato storicamente l’antropologia e la storia è stata anche la comune avversione alla letteratura, che concerne tre aspetti: il rifiuto della cura formale, come vizio pernicioso che attenta al rigore del linguaggio scientifi133

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co; la condanna dei cedimenti all’immaginazione storica, che consegna la realtà dei fatti e delle cose al mondo dell’invenzione e delle chimere; l’utilizzazione dei testi letterari come fonti per la l’interpretazione di eventi e di interi periodi storici. In sede storiografica, tra quanti si sono rivoltati contro l’“influenza cancerogena della critica letteraria”, e tra quelli che li hanno secondati in questa crociata troviamo, inaspettatamente, Hobsbawm. In realtà, proprio il grande storico inglese aveva avuto il merito di utilizzare anche testi letterari come fonti delle sue opere sul banditismo sociale; ma aveva al tempo stesso commesso degli errori (da cui probabilmente fu indotto a questo drastico ripensamento), concernenti il trattamento dei materiali letterari, che sarebbe stato necessario, riconosciuta preliminarmente la loro natura di fonti speciali, analizzare con strumenti specifici, chiedendosi, per esempio, se le convenzioni e le regole dei generi letterari, gli archetipi dell’epos brigantesco avessero potuto avere qualche peso nella determinazione delle invarianze presenti nelle rappresentazioni del brigantaggio, che lo storico analizza come specchio ora della realtà, ora del modo di pensare diffuso (Scaf 1994: 9-10). Negli anni settanta, nel pieno boom del riflessivismo antropologico, il problema del rapporto della storia con la letteratura viene posto in termini critici, grazie alla presa di coscienza del carattere artistico delle opere storiche. Si è trattato di una svolta di notevole qualità, ma assai più limitata nell’estensione e negli effetti di quanto di simile era accaduto nell’area antropologica (Scaf 2013: 21-32). In Veyne (Vey: 1973) si è affacciata l’idea che la storia si fondi sull’opinione e che ai testi storici non siano estranee le strategie 134

di carattere discorsivo e persuasive e che essi conservino rapporti significativi col mito, celino una loro poetica e siano in qualche modo assimilabili alle creazioni artistiche. White (Whi 973) per primo si inventa “un approccio formalista allo studio del pensiero storico del secolo XIX secolo” (p. 12), facendo emergere dai testi “la struttura profonda dell’immaginazione storica” e arrivando alla conclusione che le opere storiche “presentano un contenuto profondo che è generalmente poetico, di natura specificamente linguistica, e che serve da paradigma, acriticamente accettato, di ciò che dovrebbe essere una spiegazione caratteristicamente storica”. Per ottenere un “effetto di spiegazione”, gli storici mettono in atto una delle seguenti strategie o una loro combinazione: spiegare secondo l’argomento formale; secondo l’intreccio; secondo l’implicazione ideologica. Alla fine, l’opera storica si rivela come “una struttura verbale in forma di discorso in prosa narrativo che tende ad essere un modello, o icona, di strutture e di processi passati, nell’interesse di spiegare ciò che erano rappresentandoli”. La conclusione ultima è che “la storia è un’attività intellettuale insieme poetica, scientifica e filosofica” (Whit 1973) Collocate in una dimensione eccentrica della ricerca storica, queste riflessioni non hanno modificato l’organizzazione del lavoro storico né gli apparati teorici e strumentali della disciplina. Ma forse hanno contribuito a incoraggiare alcune scelte coraggiose, come quella di un antropologo storico di prim’ ordine come Thompson (Thom 1981), che con sicurezza e sano senso critico ha legittimato l’uso dei testi letterari come fonti: perché le opere letterarie forniscono rappresentazioni preziose della vita, dei costumi, delle istituzioni e degli eventi di una

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società in un preciso momento storico, ma le risorse conoscitive più interessanti che esse possono offrire sono quelle che dischiudono la mente a mondi interiori storicamente connotati, cogliendo in profondità la vita e l’intera esperienza di una società: “in definitiva, gli uomini consumano le loro vite sotto forma di esperienze; per le loro esperienze, per le loro illusioni e la loro autocoscienza, dobbiamo basarci su fonti letterarie; e se gli storici smetteranno di cercare di capire come le generazioni passate hanno condotto le loro esperienze di vita, commetteranno un grosso sbaglio. Forse a quello stadio reinventeranno l’arco e la freccia” (Thom 1981: 263). Se poi si parte dall’idea della storia come “teatro delle passioni”, l’esperienza più profonda di una società, di un gruppo umano in un preciso momento storico è consegnata ai testi letterari. La psicoanalisi e la critica letteraria risulteranno allora indispensabili al lavoro ermeneutico, per via della loro esperienza dei meccanismi linguistici, delle pratiche espressive e dei linguaggi dell’inconscio. Infine, l’antropologia e la storia non solo possono avvalersi degli approfondimenti cognitivi ed esperienziali della letteratura e della psicologia del profondo, ma – lo ha dimostrato in parte White con le sue analisi della produzione storica dell’Ottocento – possono mutuare dai prosatori e dai poeti strumenti espressivi e tecniche di costruzione del testo, per restituire al linguaggio il suo uso creativo e ridare alle rappresentazioni scientifiche le emozioni del vissuto. Come abbiamo in più occasioni sostenuto, l’antropologia va verso la letteratura, perché si è resa conto di poter avvalersi proficuamente della conoscenza dell’uomo approfondita dalle opere letterarie e per sottrarsi al rischio di un impoverimento co-

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gnitivo (Scaf 2014: 702). La medesima considerazione potrebbe valere per la storia, se si eviterà che il connubio tra la letteratura e le scienze storiche e sociali partorisca soltanto romanzi storici o storico-antropologici, in cui spesso la storia è un pasticciato fantasma.

La storia è anche passione Il successo del romanzo storico Questi romanzi pongono questioni come quella della loro legittimità a fornire elementi utili alla conoscenza della storia: problema non solo teorico, se si considera che il romanzo storico è la prima fonte di informazioni storiche per il pubblico mediamente colto, interessato assai più alle narrazioni storiche che alla saggistica storica. Si tratta anche di capire se esistono criteri per una valutazione, che non sia unicamente letteraria, di questa produzione, di comprendere quali sono le ragioni della sua fortuna tra i lettori, a quali domande fornisce risposte e qual è il suo rapporto con la ricerca storico-antropologica. Intanto bisogna resistere alla tentazione di liquidare questi testi come lavori mendaci e inutili, che suggeriscono spesso l’idea dei beni di consumo contraffatti e taroccati: anche quando sono storiograficamente inattendibili, almeno i migliori di essi pongono spesso dei problemi di scottante attualità, azzardano intuizioni nuove ed entrano spesso nel vivo dei dibattiti culturali e politici del loro tempo. Le responsabilità del romanziere storico sono grandi, proprio per questa capacità di influenzare un pubblico enormemente più vasto dei lettori degli storici. Una delle ragioni del successo dei romanzi storici e storico-antropologici va 135

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cercata nella considerazione che gli studi scientifici si lasciano attrarre dagli elementi razionali, normativi delle vicende storiche e dalla logiche che le attraversano, mentre sfugge ad essi la loro complessità, che solo in parte rientra nell’ordine intellettuale della realtà. Già nel secolo passato, davanti all’irrazionalità della storia, evidenziata dalla tragedia delle due guerre mondiali, storici dotati di ricca sensibilità confessavano di trovarsi impreparati a “intendere il termine ragione diversamente da come l’avevamo appreso”, mentre alcuni romanzi sembravano “andare a fondo là dove noi storici restiamo in superficie”. Non molto diversamente la generazione presente, che fatica a dare un nuovo senso alla ragione, dopo lo spegnimento di certezze ritenute intoccabili e l’apparizione inquietante di sintomi di un’apocalisse culturale a ridosso di quella economica, cerca anch’essa narrazioni nuove che restituiscano all’esistenza il suo significato, ed i romanzi di qualità “ci ispirano il rispetto che spontaneamente viene attribuito a coloro che si sono portati molto vicini ai luoghi infernali. Loro la sanno più lunga di noi”. Dichiarazioni importanti, che riconoscono al romanziere il diritto di interpretare la storia, attribuendogli la sfera ampia e calda dell’esperienza, senza peraltro intaccare la professionalità e gli spazi degli storici di professione, perché “noi dobbiamo far comprendere ciò che l’artista fa sentire, e spiegare ciò che lui mostra con uno sguardo” (Bes 1975: p. 21). Dunque, il romanziere deve “far sentire” quello che il ricercatore deve “spiegare”. Nel romanzo, in altri termini, lo scrittore riversa l’esperienza umana nella sua pienezza, a differenza delle investigazioni storiche e antropologiche, che hanno un orientamento unidirezionale e compiono scelte ed esclusioni di dati in vista 136

del loro scopo, che è quello dell’accumulo di un sapere segmentario. Sia lo scrittore che lo scienziato sociale costruiscono modelli di relazioni e di interconnessioni, ma lo fanno in maniera diversa: il romanzo storico ha preso il posto delle narrazioni mitiche ed è esso stesso una narrazione sostanzialmente mitologica. La gente legge romanzi perché cerca in essi il senso dell’esistenza. La differenza tra la storia antropologica e il romanzo storico esiste ma non è incommensurabile, perché anche le ricostruzioni storico-scientifiche come sappiamo non sono esenti da contaminazioni mitologiche, e alla fine tutto potrebbe risolversi in una differenza di quantità e di qualità, oltre che di procedure. Le differenze decisive sono altre: le scienze sono dalla parte delle strutture e della funzione, laddove il romanzo è proiettato verso una totalità ricca e intensa. Il saggio storico non ignora la dimensione emotiva e la sfera del simbolico, ma comunica emozioni e simboli concettualmente (ossia traducendo le emozioni in concetti astratti e impoverendo i simboli nelle loro spiegazioni); invece il romanziere possiede un linguaggio altamente simbolico, quello della letteratura, in grado di comunicare le emozioni che egli attribuisce ai personaggi mediante le proprie emozioni, che in qualche modo vicariamente le rappresentano, e che il lettore accoglie per autentiche, come in un magico affidamento. Il problema, che stiamo cerando di focalizzare, non è tanto quello del diritto ad esistere dello specifico genere romanzesco, che chiamiamo storico-antropologico, quanto quello di capire la sua compatibilità con l’antropologia e la storia, ossia l’utilità o complementarità del romanzo per la conoscenza degli eventi storici, tenendo conto che esso

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è stato ed è ancora, a dispetto di quello che pensiamo e crediamo, informatore (e formatore) di storia per un vasto pubblico di lettori. Nel trattamento delle fonti storiche, la differenza tra il romanziere e lo storico-antropologo consiste nel fatto che quest’ultimo deve rispettare una procedura rigorosa e soggetta a verifiche, che pretende in primo luogo la conoscenza e il rispetto dei fatti documentati, laddove lo scrittore conserva la sua libertà di inventare. Quanto ai limiti dell’invenzione, è necessario che lo scrittore restituisca una situazione storica individuale o collettiva con una certa verosimiglianza; questo però non basta a fare del suo racconto un’ opera di qualche validità o utilità dal punto di vista dello storico. La sua validità e utilità per la conoscenza storica dipenderanno soprattutto dalla capacità di interpretare intuitivamente (ma anche concettualmente) lo spirito di una vicenda, di un’intera società o di un’epoca, anche manipolando le fonti in maniera funzionale a questo scopo. In altri termini, lo scrittore non può ignorare le fonti né esimersi da una conoscenza approfondita delle forme di vita e degli eventi di un momento storico, ma può subordinare il loro trattamento, ricorrendo anche a invenzioni e manipolazioni, a quella “intuizione dell’insieme”, al “colpo d’occhio” che restituisce l’anima profonda della storia. Se uno scrittore si cimenta con la storia, deve saper restituire di un periodo storico o di un’epoca o di una presunta condizione universale (ma concreta) dell’esistenza una immagine che dovrebbe trovare innanzitutto un riscontro concettuale nelle pagine dei professionisti del lavoro storico-antropologico, il che potrà avvenire – come dimostrano tutte le esperienze presenti e passate dei buoni romanzi

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storici: si pensi a Balzac letto la Engels – se lo scrittore possiede i mezzi per procurarsi una serie così vasta e articolata di informazioni significative, da consentirgli di “entrare” nelle situazioni evocate, dando l’illusione di “esserci stato”. Proprio come gli antropologi, che sono riconosciuti come tali solo se danno la certezza di “esserci stati”. Con l’aggiunta delle risorse (quando ci sono) del suo talento, della profondità delle sue intuizioni e della forza della sua scrittura, che daranno l’impressione di un ritorno felice dalla discesa agli inferi. Allora il romanzo storico-antropologico potrà integrare la storia evocata dagli storici e dagli antropologi, a volte approfondirla e perfino porsi a volte come una alternativa. Un romanzo che non si attiene a queste condizioni può legittimamente aspirare – se i lettori e i critici glielo consentono – a essere considerato, letterariamente parlando, un buon romanzo, ma non ha il diritto di definirsi un buon romanzo storico-antropologico. Perché non può pretendere di fare luce sulla storia, se la storia non c’entra.

La storia trasformata in mito dalla politica Come abbiamo anticipato, i fatti storici evocati dai romanzieri hanno l’aspetto prevalente del mito, per cui la nuova fioritura del romanzo storico e storico-antropologico ripropone in termini nuovi l’antica opposizione mito/storia, che nella vulgata corrispondeva all’opposizione realtà/invenzione o, nel peggiore dei casi, verità/menzogna. Il rifiuto di queste distinzioni era già stato auspicato all’interno di solide e importanti tradizioni europee di studio e di ricerca soprattutto nel settore dell’antichistica: Bachofen, 137

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tra i tanti, aveva scritto che “la moderna ricerca storica ha indicato alle scienze dell’antichità una strada lungo la quale non si raggiungerà una comprensione più profonda né più coerente”, perché “la distinzione tra mito e storia non ha alcun senso e nessuna giustificazione nei confronti della continuità dello sviluppo umano. Essa deve essere completamente abbandonata nell’ambito della nostra ricerca” (Bach 1989: 12). La convinzione che il mito fosse portatore di storia è implicita anche in opere come Il ramo d’oro, la monumentale impresa di James Frazer, ma è in ambito funzionalista che troviamo per la prima volta la definizione scientifica di mito per merito di Malinowski: il mito “è un racconto, il cui significato è importante e decisivo nel contesto pratico della sua narrazione. In generale esso giustifica comportamenti nel presente: giustificare il proprio presente con un mito è un’esigenza di ogni società. In questo senso anche la storia può diventare mitologia”, perciò, “non credo che ci sia una distinzione così netta tra mito e storia” (in Lea: 41). In sostanza, il funzionalismo apre una strada, che Lévi-Strauss percorre con maggiore decisione, interpretando – lo abbiamo già visto – la storia tout court come mitologia: “gli storici trasformano gli avvenimenti passati in schemi di efficacia permanente, che permette di interpretare la struttura sociale di una società e di intravedere i lineamenti dell’evoluzione futura” (Lev 1966: 234): nel mito la comunità rappresenta se stessa procedente nella direzione di un destino salvifico, già segnato, analogamente nelle scritture storiche dell’Occidente “la struttura della storia è orientata dal progresso, dal presente se non dall’avvenire: il futuro è presentificato, l’avvenire è dominato dall’im138

maginazione”. Già per i romani la storia era esempio e preparazione dell’avvenire; a questa rappresentazione storica di segno epico si sovrappose poi il messianismo giudaico-cristiano e, successivamente, il rivoluzionarismo marxista. Leach invece parte da Lévi-Strauss per ritornare a Malinowski, di cui riprende quasi alla lettera il pensiero: la storia può diventare mitologia. Dunque la storia non è sempre mitologia, ma può diventarlo, quando viene utilizzata dai politici per motivi di propaganda e per legittimare il loro comportamento. Nietzsche aveva già fatto considerazioni simili, concludendo che “i tiranni di ogni genere (anche artisti e politici tirannici) fanno spesso violenza alla storia, affinché essa appaia come preparazione, come scala che porta a loro” (Niet 1965: II, 307) Ad esse sembra ispirarsi Leach, aggiungendo un chiaro progetto di demistificazione: “Tutti i politici, moderni o primitivi che siano, hanno bisogno di una mitologia di fondazione: in definitiva il loro governo va nella direzione di un destino salvifico prefigurato e scritto nel mito. Gli antropologi devono sottoporre questo tipo di storia ad una critica distruttrice, perché è una storia fatta per diventare mito per finalità politiche” (Lea 1985: 41). Per Lévi-Strauss non c’è altra storia che quella mitologizzata. Per Leach invece un’altra storia è possibile, se si rifiuta la storia manipolata per ragioni politiche.

Esiste la storia senza mitologia? Ma cosa rimane della storia, una volta che se ne toglie la parte mitologica (in cui si coagulano, mescolandosi e confondendosi, il punto di vista, il contenuto inconscio, l’intenzione agiografica, la strategia politica,

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il mito personale del soggetto o dell’oggetto); esiste, una volta cancellate le incrostazioni mitiche, un “resto” non ideologizzato, oggettivamente reale? O gli eventi entrano nella storia solo a condizione di diventare leggenda? Esistono fatti del tutto indipendenti dal racconto che li assume? Questo “resto” può essere comunicato fuori del suo (o di qualunque) statuto retorico, che ad esso conferisce senso e direzione? Indubbiamente, distruggendo, come vuole Leach, le strumentalizzazioni e le falsificazioni politiche della storia, si compie un’ opera degna sotto il profilo della verità e dell’etica, ma non si cancella interamente l’involucro mitologico delle narrazioni storiche, sia perché esso risponde a bisogni diffusi e irrinunciabili, al di là delle domande della politica, sia perché i fatti diventano comunicabili e comprensibili nei modi in cui qualcuno li racconta, e quando vengono narrati sono anche lo specchio deformante del narratore, individuale o collettivo (e, attraverso lui, della sensibilità, dei bisogni, anche oscuri, del suo tempo), per cui dovremmo forse ipotizzare l’esistenza di una domanda di mito, emergente dalla totalità profonda dell’esistenza e riversantesi anche nel racconto storico. Il lavoro dello storico è ovviamente diverso da chi costruisce o racconta miti, per via dell’uso di fonti certe, più o meno scritte (con i limiti rappresentati dal fatto che – come è stato chiarito – le fonti non sono fatti, ma racconti di fatti), per la verificabilità delle procedure di analisi e di sintesi e, infine, per il carattere segmentario delle sue conoscenze; ma per la scelta dei dati e dei criteri, per l’orientamento complessivo e per l’uso che della storia si fa, e – forse soprattutto – per i contenuti inconsci che attraversano i fatti narrati, le ricostruzio-

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ni celano effettivamente un impianto mitico, che è compito dello studioso individuare e portare alla luce. In questo impianto mitico c’è e permane, ineliminabile, il particolare punto di vista dell’osservatore, che fa parte della strutturazione dei fatti operata dalla narrazione e che deve essere esplicitato e privato di ogni valore assoluto. Se perciò è inevitabile fino a un certo punto che la storia sia anche mitologia, si può almeno cercare un nuovo equilibrio, che impedisca che le ragioni del mito prevalgano su quelle della critica. Possiamo perciò ridurre la distanza tra il mito e la storia, senza eliminarla interamente. Anche se non si spiega, in questo modo, l’essenza ultima della storia, si circoscrive almeno l’area del suo mistero. Non ci può essere una storia interamente scientifica, non solo perché l’oggettività dei fatti è compromessa dalla soggettività del ricercatore ma anche perché l’oggetto è costituito da fatti di cui fatichiamo a capire le regole. Lévi-Strauss è stato in questo il più chiaro ed esplicito di tutti, distruggendo con la forza della sua dialettica l’illusione del progresso che alimenta la rappresentazione occidentale della storia. I fatti anteriori alla forma e alla struttura che ad essi dà l’ermeneuta, partendo dal suo angolo visuale, sono il resto neutro e irrelato, al quale soltanto chi lo assume per raccontarlo potrà attribuire quello che considera un valore o un disvalore. Nell’Italia postunitaria – è solo un esempio – la guerriglia denominata brigantaggio da alcuni, riconosciuta come guerra civile da altri, ha ispirato diverse e opposte narrazioni, che tuttavia avevano in comune la realtà di alcune decine di migliaia di contadini passati per le armi: il resto di un conflitto decennale, lo zoccolo duro, che almeno in parte non poteva essere 139

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da nessuno negato, se non a costo di porsi fuori di ogni dialettica, come tutti i negazionismi mendaci, ma che può essere legittimamente raccontato in diversi modi da diverse parti, salvo a lasciare il giudizio all’etica e alla politica, consegnando al mistero le ragioni del male. (Continua)

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Fare e dire la storia raccontando storie Giulio Angioni

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on è raro dover dire del rapporto tra il mestiere di insegnante universitario, come nel mio caso di antropologia, e l’attività di narratore. Per cavarmela a buon mercato spesso dico che oggi in Italia quasi nessuno può vivere di scrittura letteraria, a meno che non scriva per i Moloch televisivi. Ma poi concedo che mi pare ci sia un rapporto stretto tra il mio mestiere di saggista e il mio hobby di narratore. E che, entrando nei particolari di un racconto, potrei trovare nessi più o meno immediati tra i due modi di scrivere, saggistico e narrativo, e nei temi trattati. Ci troverei anche certe sensibilità di antropologo, ma usate diversamente. Con un pubblico adatto, ne capto la benevolenza dicendo che per me cercare di diventare antropologo e cercare di diventare scrittore sono anche una conseguenza del bisogno di fare i conti con le mie origini, quindi con la mia terra e la mia gente, e dunque con la nostra storia particolare, e in fondo con me stesso. Ma anche questo è troppo ovvio, troppo detto, troppo indossato. E sbandierato senza pudicizia. Potrei forse dirlo meglio precisando che sia da antropologo sia da scrittore cerco di fare i conti col me stesso collettivo mediante

la ricerca e la riflessione, dedicandomi in particolare al mondo da cui provengo, in questi due modi di cui sono un poco esperto: studiando con gli strumenti dell’antropologia, descrivendo e trasfigurando alcuni aspetti con lo strumento del racconto, reinventando un mondo perché, paradossalmente, sia più veritiero. Nessuno sa meglio di uno scrittore sensato che la vita ha solo il senso che riusciamo a darle fin dalla prima volta che diciamo “Mamma, raccontami una storia!”. E di che cosa scrivi? Questa domanda sembra sciocca, in presenza di libri già scritti e pubblicati. E chi te la fa finisce spesso che te lo spiega lui di cosa scrivi. E consiglia o impone ciò di cui scrivere o non scrivere, di questi tempi. Alla lunga, mi sono convinto che ne ha diritto, se uno ha fatto la fatica di leggermi. Ed è una domanda che merita riposta. La risposta che mi do io è che scrivo del mondo e della vita, sempre e tutti interi, il mondo e la vita, e anche di tutto il resto, se c’è un resto. Ma mi dicono spesso che scrivo sempre della Sardegna. Non è falso. Anche perché in luoghi come la Sardegna abbondano i portavoce letterari della propria gente. Ma pur essendo già velleitario dire della Sardegna, cito Tolstoi e proclamo la mia aspirazione, nel dir di Sardigna, a dire 141

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dell’universo mondo e della vita tutta intera. A parte che i luoghi come la Sardegna nel mondo d’oggi sono molto numerosi, forse addirittura maggioranza, per lo meno in quanto periferie, e periferie di periferie. Poi però mi do una regolata. E ammetto che un mio tema importante, preminente, sempre attuale negli ultimi decenni e ancora attualissimo, è quello del mutamento della mia isola: mutamento sia endogeno che esogeno, sia programmato (industria chimica e Costa Smeralda, per esempio) e sia endogeno e spontaneo, che mi pare anche più interessante del riproporsi del Piano di Rinascita Economica e Sociale della Sardegna. Nei miei racconti degli anni ’70 il mutamento incombe sempre in varie forme, compresa l’emigrazione massiccia di giovani uomini e donne. Oppure l’obsolescenza del vecchio mondo agropastorale, la fine di un mondo durato millenni che scompare in due decenni. E la vertigine culturale che ne consegue. Credo che, diversamente dalla maggioranza di chi allora faceva e oggi ancora fa narrativa in Sardegna, non mi colloco né tra i detrattori del nuovo e i laudatori del vecchio, né tra i vergognosi del vecchio e laudatori del nuovo. Spesso ci guadagno l’antipatia degli uni e degli altri, perché le loro convinzioni sono, come dappertutto, pure qui molto forti e pregiudiziali. Anche a me pare di dovere e potere raccontare cose che a tutti gli altri sfuggono, si lasciano per strada, anche quando ne trattino, come nel caso dell’emigrazione e del grande e rapido mutamento del Novecento. Che a me pare proseguire troppo inavvertito, sebbene tanto invocato dal politicismo banale del cambiamento. Potrei dire che per me diventare scrittore è stata conseguenza della percezione del mutamento socio-culturale, della pluralità coeva dei modi di vivere in questo luogo che si continua a rappresentare e ad apprezzare come immo142

bile e primordiale. Mentre siamo già anche qui nel postmoderno, ma quasi saltando a pie’ pari la modernità. È che sono anch’io un sardo in bilico tra tradizione e modernità: continuo a essere un contadino trexentese che studia e vive in Europa, curioso di tutto, preoccupato di molto. Studiarlo da antropologo, il mio mondo d’origine in mutamento, a un certo punto non mi è bastato, come anch’io devo dedurre a posteriori. E ho fatto ricorso a questo primordiale mezzo del raccontare, potente e collaudato in tempi storici soprattutto per iscritto. Non credo però di avere aderito di proposito a dei generi. Ho la presunzione di averne adattato delle possibilità, come nel caso del romanzo storico e della detective story. L’essere di mestiere un antropologo mi fa vedere il mondo da certi punti di vista, mi ha abituato a certi temi e problemi, come appunto il mutamento, la pluralità e la mescolanza culturale, però non mi pongo mai esplicitamente il problema di essere un antropologo che racconta, o che scrive “gialli”. Lo sono, come sono parecchie altre cose come tutti, problematicamente. Essere sardi non è mai stato facile. Ho apprezzato altri modi di sentirsi al mondo più a proprio agio. Nella geografia immaginaria della modernità, quest’isola non si sa dove collocarla. Nemmeno nella geografia immaginaria della modernità italiana, con la sua vecchia questione meridionale e con la sua nuova questione settentrionale. I sardi, la Sardegna, hanno sofferto a lungo di una specie di oblio esterno, di inesistenza. Noi sardi al mondo e per il mondo ci siamo troppo poco, i siciliani ci sono troppo, e i grandi popoli ci sono e basta. Noi abbiamo il problema del nostro posto nel mondo, come molti altri certo, ma l’abbiamo eccome, a modo nostro. A me pare che l’abbiamo di più. Ma nei già molti decenni della mia vita ho vissuto la strana esperienza

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di essere parte di una gente e di una terra che è passata da un’immagine di diversità negativa a un’immagine di diversità positiva, da isola isolata da poena insularis del Ti sbatto in Sardegna! a uno dei paradisi delle vacanze. E dunque di essere sardo continuo sia a vergognarmi che a essere orgoglioso, fortunato e diminuito, qui a due passi dall’Africa simbolo europeo moderno di ogni arretratezza. Vivere in quest’isola è impegnativo. Ma anche l’andarsene. O il restarci impigliato. Ho imparato a vivere in una dimensione agropastorale paesana sarda degli anni di guerra e dopoguerra, in una dimensione già acutamente locale e globale, da guerra e dopoguerra mondiale, appunto, ma in un’isola con modi di vita ancora simili a quella dell’età dei nuraghi. Credo che anche un sardo che si riconosce solo nei luoghi più comuni del sentirsi sardo mi riconosce come sardo leggendo una mia pagina. Forse anche un lettore non sardo. Una mia lettrice piemontese ha scoperto in tutti i miei racconti un personaggio piemontese negativo. Mai accorto. Ma è che nella mia vita di insulare sardo c’è un momento traumatico fondante. A dieci anni mi hanno mandato a studiare dai preti in Piemonte e lì mi hanno inculcato quella loro convinzione che sono da meno in quanto sardo. Da questa scoperta non guarirò più, temo. Non ero stato preparato a questa brutta sorpresa. Me ne difendo ancora. Non ci farò mai abbastanza i conti. Tanto più che certe protervie nordiche sono diventate delirio padano organizzato in lega. Nei miei scritti narrativi, dicevo, è centrale il tema del mutamento, e quindi anche il tema del ritorno a qualcosa che non è più quel che si vorrebbe, storia vissuta ma anche storia nel suo senso di ricordo meditato del passato. Il mio scrivere è anche percorso di conoscenza in andirivieni tra passato e presente, magari per non avere troppa paura del futuro, spesso ridotto a

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minaccia. E poi sono troppo convinto che ogni identità individuale è anche il risultato particolare di identità collettiva a sua volta fatta di varie identità l’una dentro l’altra a scatole cinesi. E dunque, come dico spesso, se siamo fatti come le cipolle, le cipolle in tempi di normale nutrimento sono buone come condimento, non come il piatto unico dei tempi delle nostre carestie secolari. Cioè, questa cosa che diciamo identità forse in letteratura non è buona in tutte le salse e tanto meno come piatto forte. A me pare che la forza nuova della letteratura sarda di oggi sia sapere usare le cipolle identitarie come condimento, spezia, spizzico, e non più come piatto unico. Non ci insisto, anche perché mi pare abbia qualche ragione chi dice che niente va prescritto o proibito in ciò che diciamo arte. Tutto può essere elaborato e apprezzato esteticamente, anche le cipolle identitarie come piatto unico. Come narratore a volte sono detto uno dei padri del giallo sardo, mentre avrei forse preferito, dovendo proprio essere classificato, passare per un continuatore, magari per un rifondatore del romanzo storico sardo rimpolpato di antropologia, come ho cercato di fare nel raccontare, ne Le fiamme di Toledo, la storia vera di Sigismondo Arquer bruciato come eretico nel 1571, qualche settimana prima della battaglia storica di Lepanto. Non so che dire della fortuna attuale del giallo, che non mi pare nuova, nemmeno il giallo di tipo seriale. Le unità di tempo e di luogo e le maschere-personaggi sono antichi e collaudati elementi di serialità. Se il racconto ha bisogno di sorprese, ha altrettanto bisogno del noto, del chi si rivede, del brivido del consueto. E il giallo sfrutta il consueto più dell’insolito. E poi c’è giallo e giallo tanto quanto c’è libro e libro. La letteratura di genere non mi piace in quanto di genere. Non capisco gli appassionati esclusivisti di gialli o di 143

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fantascienza. Leggo Simenon, Asimov e Dick mentre apprezzo molto il nostro Salvatore Satta, ma anche Le avventure di Pinocchio e Delitto e castigo, non perché classificabili in un certo genere e tutti quanti in un iper-genere che oggi diciamo fiction, ma perché sono quel che sono e mi prendono, m’interessano, mi edificano, mi piacciono. Banale, ma così per tutti. Nessuno ha mai spiegato le mode, inevitabili come le intemperie, a meno di attribuirle solo all’insipienza umana, dimentica del passato e cieca verso il futuro. E nell’attuale domanda globale di offerte locali, non poteva mancare una Sardegna in giallo, come in altri tempi una Sardegna storica o preistorica o più spesso fuori dalla storia. Come lettore, ma anche come scrittore, mi sento vicino a giallisti, da Duerrenmatt a Chandler, da altri americani ad altri svizzeri, francesi, italiani, dal milanese Scerbanenco ai sardi Mannuzzu e Todde e ad altri sardi giovani come De Roma e Mandreu, per ovvi motivi di affinità. Ed è per affinità ereditate che mi sento vicino a Sciascia. Come cerco di fare anch’io, Sciascia scrive di individui che sono dei tipi sociali, e di situazioni che sono molto umanamente elementari pur restando siciliane ben radicati nella storia siciliana. I buoni scrittori fanno sempre più o meno questo. Ma certuni credono di fare altro, di essere e di rappresentare l’unico e l’irripetibile. Per Sciascia, come voglio che sia per me, il giallo, l’inchiesta, la rappresentazione dell’emergenza delittuosa, sono espedienti per dire altro d’importante: soprattutto più importante del mero venire a capo di una vicenda complicata di morti ammazzati. Già, il giallo, racconto di morte sterilizzata con un simulacro di spiegazione, di cui alcuni si accontentano. Verso uno come Sciascia, che non accontenta, si sente debitore chiunque scriva in Italia dopo di lui. Sciascia ormai sta nell’aria che respira chiunque legga o scriva, in qualche 144

modo anche in negativo, nel suo incoercibile scetticismo sulla possibilità che i siciliani possano cambiare, credendo nella possibilità che il loro mondo cambi in meglio per progetto umano. Sciascia riesce a pensare e a rappresentare il disagio di vivere da siciliano come metafora di un disagio più generale, per lo meno italiano, dunque come disagio di una modernità difficile, di un cattivo passato che non riesce a passare, non si riesce o non si vuole far passare, gattopardescamente non solo dalle sue parti. Sciascia ha sempre raccontato il male, storicamente determinato alla siciliana e panumanamente aborrito e denunciato, senza sterilizzarlo o divertirsi a sezionarlo, bensì soffrendo, anche perché mai si arriva a comprenderlo. Il suo è certo un male siciliano. Il male alla sarda gli assomiglia, ma fino a un certo punto. Gli assomiglia nel non essere né comprensibile né accettabile. Il male sardo ha in più, per chi lo rappresenta e per chi l’osserva, di essere anche esotico, particolare pur restando generale e generico. Gli scrittori (e tutti gli altri tipi di artisti) sardi e dei tanti luoghi simili a un luogo come la Sardegna, che non cerchino di risolvere il problema eliminandolo oppure vestendo i panni di una vaga quanto risaputa genuinità locale, devono prendersi il compito supplementare di fare i conti con la peculiarità del disagio (o della fortuna, se uno è ottimista) di essere al mondo da sardi, ma in compagnia ecumenica, glocali, cioè globali e locali. Come il siciliano Sciascia, appunto, ma anche diversamente. E non è che il diversamente sia meno importante di ciò che accomuna. Se non si scappa alle proprie origini particolari, non si scappa nemmeno all’umano elementare. E se è difficile vivere nell’umano elementare, lo è anche, ogni tanto, anzi spesso, per il tipo d’uomo storico che ti capita di essere e di voler essere, per non dire dell’uomo che sei e vuoi essere personalmente.

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Su alcuni effetti della valutazione all’italiana Stefano Semplici

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ANVUR, nella Premessa del Rapporto finale sull’esercizio di valutazione dei risultati della ricerca (VQR) per il periodo 2004-2010, datato 30 giugno 2013, ha indicato in modo chiaro gli obiettivi e al tempo stesso i limiti di questa ambiziosa impresa. L’Agenzia, coerentemente con i compiti e le responsabilità che le erano stati assegnati dal DPR 76/2010, ha messo a disposizione della comunità accademica e scientifica e dell’opinione pubblica una ingente mole di dati, che corrispondono a molteplici finalità: a) “presentare al paese una valutazione imparziale e rigorosa della ricerca” nelle diverse istituzioni nelle quali essa viene svolta, per facilitare e rendere più consapevoli le scelte degli organi di governo delle diverse strutture, delle famiglie, dei giovani ricercatori, delle industrie e degli enti pubblici; b) determinare una graduatoria per area scientifica e per struttura “che costituisca uno degli elementi su cui basare la distribuzione della quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università”; c) offrire agli atenei e agli enti di ricerca informazioni utili ad orientare “la distribuzione interna

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delle risorse acquisite” fra i loro dipartimenti e sottostrutture; d) “consentire un confronto della qualità della ricerca nazionale con quella dei principali paesi industrializzati”. Vengono immediatamente aggiunti alcuni caveat. Il primo riguarda l’esclusione della mission che si accompagna da sempre, nelle università, all’attività di ricerca: i risultati della valutazione presentati nel Rapporto “non riguardano in alcun modo la qualità e quantità dell’attività didattica”, anche se l’ANVUR “ritiene comunque che una buona didattica richieda, a ogni livello, la presenza di un’attività di ricerca adeguata”. Si precisa poi, con la differenza fra questo esercizio e i ranking degli atenei pubblicati periodicamente da organizzazioni, quotidiani e università, la scelta di non proporre un confronto della qualità della ricerca fra aree scientifiche differenti, sconsigliato per l’impossibilità di incrociare criteri metodologici e culture della valutazione profondamente diversi. E si chiarisce infine – last but not least – “che i risultati della VQR non possono e non devono essere utilizzati per valutare i singoli soggetti”, anche in questo caso per ragioni ben note agli addetti ai lavori1.

Vengono citate: “la scelta dell’associazione prodotti-soggetti valutati, dettata dall’ottimizzazione del risultato di

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Gli effetti di questo tentativo di introdurre finalmente anche in Italia la cultura e soprattutto la pratica della valutazione si misureranno ovviamente nel lungo periodo. È già possibile, tuttavia, indicare alcune ricadute immediate sull’attività di docenti e ricercatori e sulla governance del sistema che suscitano più di una perplessità e che dovrebbero suggerire rapidi interventi di correzione, muovendo dalla consapevolezza che non esiste valutazione dei professori che non presupponga l’attività dei professori della valutazione. Nel senso della circolarità che caratterizza, con tutti i suoi rischi e le sue ambiguità, l’esercizio della peer review, che della valutazione è lo strumento principale nelle aree non bibliometriche e uno strumento di supporto e verifica comunque prezioso anche in quelle bibliometriche. Ma anche nel senso che la valutazione della produzione scientifica rinvia per la sua legittimità e perfino doverosità alla produzione della valutazione come scienza, scivolando poi, grazie all’uso di questo vocabolario tutt’altro che ingenuo, verso il suo imporsi come industria. Ed è proprio qui che si richiede una particolare attenzione. Le regole della valutazione sono il risultato della stratificazione, della selezione e infine della vera e propria istituzionalizzazione (perfino nella forma di discipline accademiche) di procedure che, anche quando rimangono ancorate ad aspetti essenzialmente quantitativi, non sono





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mai neutrali. Per gli obiettivi che si propongono, per i comportamenti che incentivano o sanzionano, per i rapporti di potere che disegnano. Su questi obiettivi, comportamenti e rapporti è dunque necessario aprire e mantenere un serio confronto pubblico. Un modello di darwinismo accademico? Nel febbraio del 2012, in un’intervista ad un quotidiano, Sergio Benedetto (membro del Consiglio direttivo dell’ANVUR e coordinatore dell’esercizio della VQR 20042010) si esprimeva in termini perentori sugli obiettivi del gigantesco sforzo di valutazione in atto: “Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa. Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta”2. Tagliare, chiudere, diminuire. Non stupisce che proprio Valutare e punire sia il titolo di uno dei testi più critici nei confronti dei presupposti teorici dell’intero meccanismo e dell’uso a fini di controllo ed omologazione di termini quasi universalmente connotati in modo positivo come qualità, eccellenza, efficienza, merito3. L’idea della progressiva eliminazio-

struttura e non del singolo soggetto, la richiesta di conferire solo tre prodotti di ricerca pubblicati in sette anni, che costituiscono in molti settori della scienza un’immagine della produzione complessiva dei singoli soggetti molto parziale, la non considerazione del contributo individuale al prodotto nel caso di presenza di coautori, e, infine, l’utilizzo di metodi di valutazione la cui validità dipende fortemente dalla dimensione del gruppo di ricerca cui sono applicati”. Il Rapporto è disponibile su: http://www.anvur.org/rapporto/main.php?paragraph=premessa&cap=UFJFTUVTU0E=. Consultato il 13 novembre 2014. Laurea DOC (intervista a cura di Simonetta Fiori). Il testo è disponibile su: ricerca.repubblica.it/repubblica/ archivio/repubblica/2012/02/04/laurea-doc.html. Consultato il 13 novembre 2014. Cfr. V. Pinto, Valutare e punire, Napoli, Cronopio, 2012.

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ne dei meno dotati, in effetti, non sottende necessariamente una strategia di massimizzazione degli interessi del più forte a scapito dello sviluppo di tutti gli altri. Fu Herbert Spencer – guadagnandosi così la palma di padre fondatore del darwinismo sociale – a teorizzare con particolare crudezza questo carattere competitivo fino alla lotta per la sopravvivenza del passaggio dalla società militare a quella industriale, interpretandolo in linea con la tesi generale secondo la quale nel corso del progresso umano alcune parti vengono sacrificate appunto “a beneficio della società nel suo complesso”: mentre negli stadi più remoti questo sacrificio prende la forma di mortalità nelle guerre, in quelli più progrediti esso “prende la forma di mortalità prodotta dalla lotta commerciale, e dalla viva concorrenza che ne consegue”4. Il darwinismo accademico si potrebbe allora interpretare come una nuova variante a fin di bene di questa pratica della “viva concorrenza”, non diversamente dalla “distruzione creatrice” teorizzata da Schumpeter. Non ci si aspetta che i perdenti, che in quanto tali sono destinati ad essere soppressi, gioiscano del loro destino. In una società che voglia essere equa, oltre che ricca, questo inevitabile prezzo da pagare al progresso sarà compensato dalle misure, tendenzialmente finanziate dalla fiscalità generale, che evitano che questa ‘morte’ sui mercati si traduca in marginalizzazione sociale ed esclusione dai diritti fondamentali, garantendo così a tutti non solo la massima uguaglianza possibile delle opportunità ma anche le condizioni e lo stimolo per ripartire dopo un fallimento, magari con un’altra sfida.



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Le finalità della VQR dichiarate dall’ANVUR orientano decisamente la valutazione alla competizione. L’obiettivo è quello di stilare delle graduatorie e di fornire in questo modo uno strumento utile a tutti i livelli per decidere la distribuzione delle risorse, con un esplicito riferimento, nel caso del Fondo di Finanziamento Ordinario, alla sua quota premiale. Collegando in modo così stretto gli incentivi alla posizione in una classifica (e anche assumendo quel che è in realtà controverso, cioè che la classifica sia stata determinata sulla base di criteri oggettivi, trasparenti e correttamente applicati, consentendo così di riconoscere il merito e portare allo scoperto le sacche di inefficienza e spreco) non ci si può meravigliare nel constatare che i soggetti interessati modificano i loro comportamenti con l’obiettivo prioritario di migliorare appunto il loro ranking: i criteri di una valutazione competitiva non si limitano a fotografare una realtà e in qualche modo la creano. L’utilizzo del vocabolario della premialità al posto di quello punitivo di tagli e chiusure non cambia la sostanza delle cose, perché allargando la forbice delle risorse disponibili – come si può facilmente comprendere – si rende sempre più difficile, anche potendo contare su buone idee, talenti e impegno, chiudere il gap della qualità, che è destinato a sua volta ad allargarsi. E alla fine non c’è neppure bisogno di sopprimere i più deboli, perché scompaiono da soli. Le ragioni per le quali l’applicazione di questo metodo alla produzione e trasmissione del sapere richiede una straordinaria cautela sono di almeno due ordini. C’è, in primo luogo, la questione della compatibilità fra la

H. Spencer, Principi di sociologia, Torino, UTET, 1967, vol. II, p. 997.

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natura e le finalità della ricerca scientifica e un approccio che crea di fatto ostacoli alla collaborazione anziché favorirla. E li crea là dove in gioco c’è davvero uno dei pilastri fondamentali della stessa competitività del sistema-paese, che andrebbe costruito e consolidato secondo una prospettiva coerente ed equilibrata anche quando, riconoscendo le differenze fra i diversi atenei e i loro diversi territori e dunque il valore dell’autonomia, si dovesse trattare di decidere chi fa che cosa. Il fatto che questa competizione si accenda per risorse sempre più limitate e dunque per ridurre il loro taglio piuttosto che acquisirne di nuove funziona da acceleratore di questa contraddizione a tutti i livelli. Nei caveat dell’ANVUR era nascosta una contraddizione latente rispetto all’obiettivo di offrire indicazioni utili alla distribuzione delle risorse all’interno dei singoli atenei ed enti di ricerca. Una volta stabilita e applicata la finalità premiale delle graduatorie, infatti, la strada era aperta per la sua pervasiva estensione al di là dei confini stabiliti dalla stessa Agenzia, pena l’esposizione alla contestazione quasi automatica di aver cercato di eludere i parametri dell’oggettività, della qualità e del merito in nome dell’arbitrio e del familismo accademici, tradizionale capo d’accusa contro uno dei ceti dirigenti (i professori universitari) la cui immagine appare da tempo più compromessa agli occhi dell’opinione pubblica. Sono così venuti rapidamente meno i vincoli a non confrontare aree scientifiche differenti e a non utilizzare i risultati della VQR per valutare i singoli docenti e ricercatori, anche e soprattutto in vista di un loro possibile avanzamento di carriera.



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Il risultato, ampiamente prevedibile e previsto, è un adattamento opportunistico ai criteri utili a favorire lo scorrimento verso l’alto nelle graduatorie, che non sempre corrispondono a quelli che davvero promuovono lo sviluppo del sapere. Basti citare due atteggiamenti. La redditività nel breve termine può diventare una scelta obbligata, prosciugando quello sforzo di pensare lungo dal quale sono nate molte delle più importanti rivoluzioni scientifiche e culturali. L’ossessione del publish or perish produce esiti sconfortanti come il salami slicing, cioè la tecnica dello spezzettamento dei risultati della ricerca per avere più articoli da pubblicare e per non lasciare ‘buchi’ nella propria attività produttiva, come fece Kant nei lunghi anni di silenzio che precedettero l’uscita della Critica della ragion pura. È naturalmente vero che proprio questo esempio può essere facilmente utilizzato dai molti “inattivi” che coprono in questo modo la loro debolezza o semplicemente la loro scelta di dedicarsi ad altro, ma ciò non giustifica la conclusione che solo ciò che può essere finalizzato e calcolato vale. Ugualmente insidiosa è la tentazione dell’omologazione al main stream, che riproduce lo stile accademico di quella “filosofia delle università” che Schopenhauer liquidava con disprezzo, perché attenta a promuovere la devozione di coloro che “misurano le loro dottrine alla volontà del Ministero e a quelle che di volta in volta sono le sue opinioni” anziché trasmettere “al fiore della nuova generazione” una parola viva davvero capace di “svegliare lo spirito di ricerca”5. Il secondo ordine di perplessità rispetto ad una curvatura della valutazione in senso

A. Schopenhauer, La filosofia delle università, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, p. 82.

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esclusivamente competitivo è formulato in modo chiaro ed efficace nel capitolo conclusivo del Rapporto con il quale si è concluso il lavoro di un gruppo di esperti nominato nel 2008 dalla Direzione Generale per la Ricerca della Commissione Europea con l’incarico di approfondire proprio il tema della valutazione della ricerca scientifica all’interno delle università6. Una volta definite le diverse graduatorie, si legge nel documento, la scelta di premiare le università e gli studiosi che hanno ottenuto i migliori risultati non è l’unica possibile. Il decisore politico può anche (e in qualche caso probabilmente deve) privilegiare nell’allocazione delle risorse proprio le istituzioni che sono rimaste più indietro e che vanno tuttavia aiutate a recuperare per non compromettere l’equilibrio complessivo del sistema e la sua capacità di supportare le punte di eccellenza con una base solida e ampia di metodologie, buone pratiche e capitale umano. Il DM 9 agosto 2013, n. 713 offre un buon esempio di una scelta poco attenta a questa esigenza. In esso venivano definiti i criteri per l’assegnazione ai singoli atenei della quota del 20 per cento della somma dei Punti Organico relativi alle cessazioni del Personale a tempo indeterminato e del Personale ricercatore a tempo determinato a livello di sistema universitario verificatesi nell’anno 2012. Attraverso una formula particolarmente complessa, che avrebbe dovuto fotografare in modo oggettivo la qualità degli atenei dal punto di vista amministrativo, si determinava una forbice che garantiva all’istituzione giudicata più virtuosa addirittura il 213 per cento del turn

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over e agli ultimi il 7 per cento, cioè nulla. Nella coda della graduatoria si affollavano molti atenei del Sud e questa constatazione imponeva e impone una domanda, che va al di là delle divergenze, che pure non mancarono, sulla correttezza dei criteri utilizzati. Il compito dello Stato è semplicemente quello di misurare e certificare i risultati di una competizione e lasciare che si realizzi la desertificazione universitaria di intere aree del paese? È accettabile concentrare risorse premiali sul merito di pochi anziché sullo sforzo di far crescere – naturalmente senza indulgenze per i responsabili dello spreco di denaro pubblico – la qualità diffusa del sistema? Quella della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza non può essere una soluzione e l’esercizio della valutazione deve necessariamente avere un orizzonte e obiettivi più vasti.

La mission dimezzata È lo stesso Rapporto del gruppo di esperti della Direzione Generale per la Ricerca della Commissione Europea che ho appena citato a sottolineare come sia importante, per coloro che hanno la responsabilità di prendere decisioni sul sistema della formazione superiore, non solo considerare seriamente i risultati della valutazione della ricerca, ma anche “gettare un occhio sulle altre funzioni delle loro istituzioni: l’insegnamento e l’apprendimento e il coinvolgimento della comunità”7. La cosiddetta “terza missione”, alla quale questo coinvolgimento rinvia, ha gua-

Cfr. Aa.Vv., Assessing Europe’s University-Based Research, Brussels, European Commission: Directorate Generale for Research, 2010, pp. 56-57. Ivi, p. 59.

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dagnato rapidamente terreno in questi ultimi anni come uno dei fondamentali fattori di spinta dello sviluppo economico e sociale, che trova nelle università il suo luogo naturale. L’ANVUR, partendo dalla distinzione fra la sua dimensione di “valorizzazione economica della conoscenza” e quella “culturale e sociale”, ne propone una definizione articolata e ampia. Nel primo caso, a tema c’è “la trasformazione della conoscenza prodotta dalla ricerca in conoscenza utile a fini produttivi” e appartiene a questa logica, con tutti i delicati problemi di regolazione che ne derivano, anche il fatto che, “a qualche stadio del processo, la conoscenza prodotta dal sistema pubblico di ricerca, per sua natura pubblica e inappropriabile, assuma invece la natura di un bene privato”. Il secondo vettore della terza missione è invece quello della produzione di beni che “possono avere contenuto culturale (eventi e beni culturali, gestione di poli museali, scavi archeologici, divulgazione scientifica), sociale (salute pubblica, attività a beneficio della comunità, consulenze tecnico/professionali fornite in equipe), educativo (educazione degli adulti, life long learning, formazione continua) o di consapevolezza civile (dibattiti e controversie pubbliche, expertise scientifica)”. A distinguere le due prospettive c’è anche il fatto che per la fruizione di questi beni non è previsto il pagamento di un prezzo o in ogni caso non di un prezzo di mercato e che la loro rilevazione e misurazione è più difficile, in quanto tali attività vengono spesso svolte

dai singoli ricercatori e non dalle istituzioni. L’Agenzia, in questo documento di lavoro dell’aprile del 2013, sottolinea anche come gli indicatori di terza missione non possano che essere differenti “da quelli che tracciano i risultati delle missioni di insegnamento e ricerca” e non possano “compensare gli altri” (assumendo ad esempio che una forte presenza sui media possa bilanciare la debolezza nelle pubblicazioni scientifiche)8. Con queste precisazioni, gli indicatori di terza missione sono stati comunque inclusi nell’esercizio della VQR 2004-2010 e nel relativo Rapporto. Il Green Paper su Fostering and Measuring “Third Mission” in Higher Education Institutions, realizzato attraverso la collaborazione di una rete di università finanziata dal Lifelong Learning Programme della Commissione Europea, invitava ad una grande cautela nell’avvicinare la terza missione a classifiche e logiche immediatamente premiali: gli autori del Paper dichiaravano esplicitamente di aver evitato di proporre una metodologia di ranking, perché ciò avrebbe significato non rispettare “la straordinaria diversità e variabilità nella missione, nel profilo e nella qualità che sono evidenti fra le università del continente europeo, per non parlare del resto del mondo. Le graduatorie generali possono spostare l’attenzione dall’impatto che si sta ottenendo in quanto istituzione alla competizione, forse superficialmente nella metrica piuttosto che nella sostanza, con altre istituzioni”9. Nel Rapporto sulla VQR 2004-2010, in effetti, sono

Cfr. La terza missione nelle università e negli enti di ricerca italiani. Documento di lavoro sugli indicatori (Workshop 12 aprile 2013). Il testo è disponibile su: anvur-miur.cineca.it/eventi/index.php/documento/80. Consultato il 15 novembre 2014. 9 Fostering and Measuring “Third Mission” in Higher Education Institutions, p. 19. Il testo è disponibile su: http:// www.e3mproject.eu/docs/Green%20paper-p.pdf. Consultato il 15 novembre 2014. 8

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stati utilizzati gli indicatori di attività conto terzi, brevetti, spin-off, incubatori, consorzi, siti archeologici e poli museali per assegnare anche in questo caso ad ogni università, ente di ricerca e consorzio una “posizione in graduatoria”, mentre solo per la voce “altre attività di terza missione” si specifica che “dall’esame delle risposte sono emerse differenze tra le strutture nell’interpretazione dell’unità di analisi che renderebbero la graduatoria priva di significato”10. L’impianto fortemente competitivo del modello italiano di valutazione trova così un’ulteriore conferma. Che ne è invece della didattica, cioè della mission to educate che è stata la prima missione delle università europee “sin dal medioevo”, per citare ancora il Green Paper? I risultati della VQR – come ho ricordato – “non riguardano in alcun modo la qualità e quantità dell’attività didattica” e non potrebbe essere altrimenti. Questa limitazione è del tutto ovvia e comprensibile e il fatto che si cominci con la ricerca e la terza missione non esclude evidentemente l’intenzione di valutare successivamente anche la qualità dell’insegnamento, con l’obiettivo magari di stilare le relative classifiche. La storia della politica universitaria di questi ultimi anni orienta però ad una conclusione diversa: la logica competitiva è stata sistematicamente e deliberatamente agganciata alla sola valutazione della ricerca e dei suoi prodotti, marginalizzando l’attività didattica e facendo della stessa proposta di differenziare researching e teaching universities uno strumento di esplicita gerarchizzazione delle missioni. A sostegno di questa tesi è utile richiamare almeno

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tre decisioni, che sono state e sono di grande impatto disincentivante rispetto all’impegno appunto didattico dei professori universitari. La prima è stata la scelta di stabilire per legge che la didattica non conta ai fini della carriera accademica. La Legge 30 dicembre 2010, n. 240, meglio nota come Legge Gelmini, ha istituito come è noto una abilitazione scientifica nazionale come “requisito necessario per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori” (art. 16, comma 1). Questa abilitazione viene attribuita “con motivato giudizio fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di ricerca e sviluppo svolte, ed espresso sulla base di criteri e parametri differenziati per funzioni e per area disciplinare, definiti con decreto del Ministro” (art. 16, comma 3, lettera a). Le polemiche non hanno risparmiato né i criteri e i parametri definiti con il DM 76 del 7 giugno 2012 né i giudizi delle Commissioni nominate per le due tornate 2012-2013 e che hanno prolungato i loro lavori ben oltre il termine fissato dall’articolo 8, comma 6 del DPR 14 settembre 2011, n. 222, richiedendo per questo una defatigante sequela di proroghe. Ma non si sono mai infiltrati dubbi sul fatto che la commissione debba semplicemente ignorare l’attività didattica svolta o la propensione a svolgerla in modo efficace, a seconda che il candidato abbia già lavorato o no come professore. L’ampiezza dei criteri indicati dal DM 76/2012 per la prima fascia sottolinea anzi questa esclusione: a dover essere accertata è semplicemente la piena

Cfr. http://www.anvur.org/rapporto/main.php?paragraph=7.2&cap=Ny4yLiBJIERBVEkgREkgQ09OVEVTVE8gREkgVEVSWkEgTUlTU0lPTkU=. Consultato il 15 novembre 2014.

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maturità scientifica, “attestata dall’importanza delle tematiche scientifiche affrontate e dal raggiungimento di risultati di rilevante qualità e originalità, tali da conferire una posizione riconosciuta nel panorama anche internazionale della ricerca. Sono ulteriori criteri di valutazione la capacità di dirigere un gruppo di ricerca anche caratterizzato da collaborazioni a livello internazionale, l’esperienza maturata come supervisore di dottorandi di ricerca, la capacità di attrarre finanziamenti competitivi in qualità di responsabile di progetto, soprattutto in ambito internazionale e la capacità di promuovere attività di trasferimento tecnologico” (articolo 4, comma 1). L’unico riferimento alla prima missione dell’università, coerentemente con l’impianto della normativa, appare quello della supervisione dei dottorandi. Per la Legge Gelmini, d’altronde, è solo al momento della “chiamata” che può essere valutata anche l’attività didattica dei professori. I relativi obblighi, di conseguenza, saranno assolti nella consapevolezza della loro inutilità ai fini degli avanzamenti di carriera. La seconda decisione, con la quale la didattica appare mortificata con una determinazione tanto implacabile da non arretrare neppure di fronte ad un esito francamente paradossale, è quella che ha fissato i criteri per la valutazione delle politiche di reclutamento degli atenei. Non solo insegnare bene è inutile prima. Lo è anche dopo. Il Decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 49, stabilisce infatti, all’articolo 9, che le politiche di reclutamento del personale sono valutate in relazione ad una serie di criteri fra i quali non è indicata in nessun modo la qualità dell’insegnamento, mentre figura, in cima alla lista, “la produzione scientifica dei professori e dei ricercatori elaborata in data successiva alla presa di 152

servizio presso l’ateneo ovvero al passaggio a diverso ruolo o fascia nell’ateneo”. Anche per i nuovi professori, insomma, il primo dovere – o almeno quello che solo conta per evitare che la propria università venga penalizzata – non è quello di andare in aula ed insegnare bene, ricevere gli studenti, seguire tesi, ma quello di continuare a scrivere articoli, possibilmente in riviste con un impact factor elevato. Ed è davvero significativo constatare come deputati e senatori, in occasione della conversione in legge del decreto 24 giugno 2014, n. 90, abbiano ritenuto indispensabile introdurre un emendamento con il quale si ribadiva appunto che “la qualità della produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei all’esito dell’abilitazione scientifica nazionale è considerata prioritaria nell’ambito della valutazione delle politiche di reclutamento”. Quasi un richiamo ai pochi che si sono spesi in questi anni per ricordare che una università senza didattica o comunque con una didattica senza qualità è una contraddizione in termini. E certamente non una sollecitazione ai Rettori a considerare prioritario l’impegno a garantire agli studenti le migliori risorse disponibili. Il terzo e ultimo passo di questa strategia è la destinazione di tutti o quasi gli interventi premiali sulla base delle classifiche della qualità della ricerca e dei suoi prodotti. Il decreto di riparto del Fondo di Finanziamento Ordinario per l’anno 2014 (secondo lo Schema disponibile al momento della consegna di questo articolo) è una dimostrazione eloquente della sistematica pervasività di questo atteggiamento. La “quota premiale”, che sale al 18 per cento del totale delle risorse disponibili, viene assegnata per il 70 per cento in base ai risultati conseguiti nella Valutazione della qualità della ricerca (VQR 2004-2010), per il 20 per cento in base alla

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Valutazione delle politiche di reclutamento (cioè, come abbiamo appena visto, in base ad un criterio sostanzialmente identico al primo) e per il restante 10 per cento in base ai risultati della didattica, con specifico riferimento alla componente internazionale. La didattica, dunque, vale al massimo il 10 per cento, ammesso che si possano considerare davvero come indicatori della sua qualità il numero dei corsi offerti in lingua inglese e quello degli studenti stranieri, quale che sia la loro provenienza. È possibile che questa situazione possa modificarsi con l’avvio delle procedure previste per l’accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio e con le relative “visite” delle commissioni di esperti che dovranno accertare la “qualità” di questi ultimi, con il rischio concreto di chiusura per quei corsi che non dovessero superare positivamente la verifica. Ma è un’ipotesi, anche per il numero ridottissimo di visite che la stessa ANVUR dichiara di poter effettuare, che resta a sua volta tutta da verificare. Molti, probabilmente, sono ancora pronti a riconoscere che una buona università è tale solo quando offre una buona didattica e non solo un elenco di ricercatori che, rimanendo chiusi nei loro laboratori e nelle loro biblioteche, collezionano citazioni e non si preoccupano minimamente di formare allievi capaci a loro volta di far crescere i diversi ambienti nei quali si troveranno a lavorare. Si ha però talvolta l’impressione che vi sia, in chi governa l’università italiana, la convinzione che i ‘migliori’ debbano essere salvaguardati dal fastidio di insegnare o che comunque una didattica di qualità venga per così dire ‘da sola’, una volta garantita la qualità della ricerca. La prima affermazione ha almeno il merito di sollevare a viso aperto la questione della missione dell’universi-

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tà. La seconda rischia di essere un modo per realizzare alla chetichella lo stesso obiettivo.

Presidi di parole La fredda oggettività degli algoritmi elaborati dagli ‘esperti’ è diventata la scialuppa di salvataggio degli zelatori della qualità. Ha fatto un passo indietro perfino la politica, il cui prestigio agli occhi dell’opinione pubblica non è probabilmente superiore a quello dei professori universitari, tuttora omologati nel linguaggio e nella sensibilità comuni alla logica feudale dei ‘baroni’. Esemplare, da questo punto di vista, è quanto previsto dal Decreto Legislativo 27 gennaio 2012, n. 19 sul rapporto fra l’ANVUR e il Ministero rispetto alla definizione dei criteri e parametri che dovrebbero appunto garantire la qualità del sistema: l’Agenzia “definisce gli indicatori per l’accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio universitari e li comunica al Ministero. Gli indicatori sono adottati con decreto del Ministro entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione” (art. 6). Insomma: l’ANVUR decide e il Ministro, aggiungendo la sua firma, esegue. In questo contesto, a dir poco insolito, gli aspetti cruciali sui quali occorrerebbe portare l’attenzione del decisore politico sono la presunzione della neutrale purezza delle regole – della quale ho già parlato – e la loro dilagante, soffocante, inutile ipertrofia, pendant patologico della convinzione che non ci si possa fidare dei professori universitari più che di un noto borseggiatore su un autobus affollato. I Requisiti di Assicurazione della Qualità esposti nell’Allegato C al Decreto Ministeriale 30 gennaio 2013, n. 47 su “Autovalutazione, Accreditamento Iniziale e Periodico delle sedi 153

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e dei corsi di studio e Valutazione Periodica” (modificato dal Decreto Ministeriale 23 dicembre 2013, n. 1059) illustrano in modo efficace questa duplice criticità. I requisiti sono 7 e l’ultimo indica come calcolare la “quantità massima di didattica assistita” che può essere considerata “sostenibile” per le Università Statali (l’implicita assunzione di un diverso parametro di sostenibilità per quelle non Statali è evidentemente già una scelta politica). La formula è dunque la seguente: DID = (Yp x Nprof + Ypdf X Npdf + Yr x Nric) x (1 + X). Ai fini del calcolo di DID si deve tenere presente che: Nprof = numero dei professori a tempo pieno dell’Ateneo; Npdf = numero dei professori a tempo definito dell’Ateneo; Nric = numero totale dei ricercatori a tempo pieno e definito dell’Ateneo; Yp = numero di ore “standard” individuali di didattica assistita individuato dall’ateneo e riferito ai professori a tempo pieno (max = 120 ore); Ypdf = numero di ore “standard” individuali di didattica assistita individuato dall’ateneo e riferito ai professori a tempo definito (max = 90 ore); Yr = numero di ore “standard” individuali di didattica assistita individuato dall’ateneo e riferito ai ricercatori (max = 60 ore); X = percentuale di didattica assistita erogabile per contratto di insegnamento o supplenza (max = 30%). Completa la formula il fattore k, calcolato sulla base dei risultati della VQR e che consente alle università con una valutazione più alta della qualità della ricerca di incrementare anche la quantità massima di didattica erogabile. Il valore DID viene così moltiplicato per k, il cui valore massimo è indicato in 1,2, «corrispondente a una valutazione positiva di eccellenza della ricerca». Il fattore k, come appare del tutto evidente, è un elemento che appartiene al confron154

to culturale e politico sulla missione dell’università e non cessa di essere tale per il fatto di generare una formula con la quale calcolare un numero di ore di lezione (uso questo termine per evitare di addentrarmi nella selva oscura dell’interpretazione del concetto di “didattica assistita”). In un sistema di incentivi tutto sbilanciato sulla ricerca, può anche essere visto come il tentativo di aprire un’alternativa alla separazione netta fra le researching universities dove si insegna poco (e tendenzialmente per pochi) e le teaching universities dove si fa poca ricerca e per questo si insegna di più. Resta naturalmente il problema che per le università (che nel contesto attuale hanno certamente un interesse ad ampliare l’offerta formativa e accogliere in questo modo un numero potenzialmente maggiore di studenti) può non essere facile persuadere i propri docenti-ricercatori ad insegnare di più, essendo questa attività sostanzialmente irrilevante dal punto di vista degli interessi e delle ambizioni accademici dei singoli. Peraltro, essendo il DID calcolato moltiplicando il numero totale dei professori su un numero di ore standard, non è detto che siano poi i ricercatori giudicati migliori ad andare davvero in aula ad insegnare. Ed è proprio l’indicazione di questo standard individuale a fornire un’ulteriore dimostrazione del fatto che queste formule incorporano sempre una storia e precise scelte di modello, di priorità, di obiettivi. Perché proprio 120 ore (che diventano 90 per i professori a tempo definito e 60 per i ricercatori)? Perché non 150? O 192, come in Francia? L’indicatore scelto dall’ANVUR, come ho detto, ha alle spalle una storia. Era stato l’articolo 16 della Legge 4 novembre 2005, n. 230 ad introdurre un preciso obbligo di 120 ore di didattica frontale per i professo-

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ri universitari a tempo pieno (80 per quelli a tempo definito). L’obbligo evaporò nell’attesa dei Decreti Ministeriali che avrebbero dovuto definire i parametri in base ai quali “le ore di didattica frontale possono variare sulla base dell’organizzazione didattica e della specificità e della diversità dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti”. Il risultato è che ‘università che vai, obbligo che trovi’, anche prescindendo dalla considerazione della predisposizione e dell’efficacia dei controlli sul rispetto da parte dei docenti dei loro doveri nei confronti degli studenti. E il tentativo, annunciato dal Ministro Profumo nel 2012, di ritornare su questo punto per risolverlo in modo chiaro e definitivo con l’indicazione di un minimo di 100 ore l’anno di didattica frontale venne stroncato ancor prima di raggiungere le aule parlamentari. Poste queste premesse, l’indicatore sulla sostenibilità della didattica appare uno strumento tutt’altro che neutrale. Le 120 ore sono diventate un massimo e non più un minimo. E, soprattutto, non corrispondono più ad un preciso obbligo individuale, che viene lasciato indeterminato. I singoli docenti potranno anche collocarsi al di sotto dello “standard”, purché il loro minore impegno sia compensato da altri. E in assenza di concreti incentivi a comportarsi altrimenti non ci sarà da stupirsi se molti tenteranno di farlo. L’ipertrofia burocratica è – come ho detto – uno degli elementi che più hanno caratterizzato gli interventi regolatori di questi ultimi anni. I 6 requisiti di assicurazione della qualità che precedono quello sulla sostenibilità della didattica appaiono in effetti ridondanti e contribuiscono a costruire un struttura farraginosa, con funzioni inutilmente moltiplicate e sovrapposte, che impongono un inutile carico di lavoro supplementare a

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docenti già alle prese con le conseguenze del blocco del turn over e del taglio delle risorse. I primi 3 requisiti affermano solennemente che ogni ateneo “stabilisce, dichiara ed effettivamente persegue adeguate politiche volte a realizzare la propria visione della qualità della formazione” (AQ 1), “sa in che misura le proprie politiche sono effettivamente realizzate dai Corsi di Studio” (AQ 2) e “chiede ai Corsi di Studio di praticare il miglioramento continuo della qualità, puntando verso risultati di sempre maggior valore” (AQ 3). Porre come obiettivo di una università il raggiungimento di risultati di sempre maggior valore non è meno ovvio di quanto possa esserlo affermare che per una azienda for profit è importante puntare ad aumentare i ricavi e ridurre i costi mantenendo alta la soddisfazione dei consumatori. È dunque sul modello di governance che da tutto ciò risulta che occorre concentrarsi. Il 3 ottobre 2014 è stata pubblicata sul sito dell’ANVUR la Nuova Versione delle Linee Guida per l’Accreditamento Periodico delle sedi e dei corsi di studio, che espone “criteri, metodi e procedure” da utilizzare a tal fine e “contiene informazioni che gli Atenei possono utilizzare per riflettere sul livello di sviluppo raggiunto dal proprio sistema di Assicurazione della Qualità (AQ)”. Ecco come viene spiegato il contenuto del Requisito AQ 1: “Politiche e procedure rendono evidenti i ruoli, le responsabilità e le interazioni che si determinano tra Organi di Governo, CdS, Dipartimenti, Strutture di Raccordo o altre articolazioni interne dell’Ateneo, strutture tecniche di supporto, Presidio Qualità, Commissioni paritetiche docenti-studenti, Nucleo di valutazione. Tali elementi possono trovare formalizzazione, oltre che nello Statuto e nei regola155

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menti degli Atenei, in documenti di programmazione approvati dagli Organi di Governo e in delibere di Organi che, pur se non direttamente finalizzate alla programmazione, contengono indirizzi rilevanti a questo scopo”. Il Requisito AQ 4, che impegna gli atenei a possedere “un’effettiva organizzazione con poteri di decisione e di sorveglianza sulla qualità dei CdS”, ci aiuta a comprendere in che modo, concretamente, si debbano articolare tali ruoli, responsabilità ed interazioni. Le Linee Guida, dopo aver integrato la lista con i Rapporti di Riesame e i relativi Gruppi, puntualizzano come, per soddisfare tale requisito, si dovrà osservare fra l’altro se il Presidio Qualità “affianchi le strutture coinvolte (Dipartimenti o Strutture di Raccordo, Commissioni paritetiche docenti-studenti e CdS) in tutte le fasi della AQ […] se il Nucleo di Valutazione e le Commissioni paritetiche docenti-studenti svolgano un’adeguata e documentata attività annuale di controllo e di indirizzo dell’AQ, da cui risultino pareri, raccomandazioni e indicazioni indirizzate al Presidio Qualità e agli Organi di Governo dell’Ateneo […] se il Presidio Qualità e gli Organi di Governo dell’Ateneo siano a conoscenza dei pareri, delle raccomandazioni e delle indicazioni che il Nucleo di Valutazione e le Commissioni paritetiche docenti-studenti producono e sulla base di esse comunichino e mettano in atto adeguate misure migliorative”. La relativa documentazione dovrà mettere le Commissioni di Esperti della Valutazione “nella condizione di comprendere agevol-

mente quale ripartizione di ruoli e responsabilità sia prevista tra i diversi soggetti”11. È arduo immaginare che tutto ciò sia davvero indispensabile per migliorare la qualità della vita e dei risultati scientifici e didattici degli atenei italiani. Quel che è certo – come ho scritto insieme al collega Giovanni Salmeri cercando volutamente il linguaggio della provocazione – è che porta con sé una serie di effetti collaterali sui quali varrebbe la pena di riflettere: “occupazioni che tolgono spazio al nostro vero lavoro e ci trasformano in passacarte che non hanno più tempo e voglia neppure di parlare con gli studenti (e ancor meno fra di noi); adempimenti che sono, per ammissione universale, perfettamente inutili e inducono a continui falsi ideologici, consistendo, in buona parte, nelle redazione di documenti in cui si parla di riunioni immaginarie con discussioni immaginarie su argomenti immaginari; una mentalità che è la filigrana di queste normative e che rivela una sistematica sfiducia nei confronti delle Università, presentate all’opinione pubblica come istituzioni che devono continuamente dimostrare di non essere associazioni a delinquere dedite alla circonvenzione di incapaci; la mortificazione dell’autonomia universitaria tramite una regolamentazione nevrotico-ossessiva che rende sempre più difficile l’invenzione, la sperimentazione, l’interdisciplinarità, non per ultimo per l’anticipo spropositato con cui ogni sia pur minima novità va programmata”12. È importante che ci siano nelle nostre università presidi di qualità. Non è utile che siano presidi di parole.

Cfr. Nuova Versione Linee Guida per l’Accreditamento Periodico delle sedi e dei corsi di studio erogati in modalità convenzionale: Finalità e procedure per l’Accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio, pp. 2, 5-6 e 7-8. Disponibile su http://www. anvur.org/attachments/article/698/2_Finalita%CC%80%20e%20procedure%20DEF.pdf. Consultato il 16 novembre 2014. 12 G. Salmeri e S. Semplici, L’università che uccide se stessa, 29 aprile 2014. Consultabile su http://www.roars.it/online/ luniversita-che-uccide-se-stessa/ 11

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Ritorno ad Alvaro. Tra richiamo antropologico e tensione letteraria Luigi Reina Nello scaffale dei debiti non pagati, tra la ventina di monografie dedicate all’opera di Corrado Alvaro ho ritrovato, invitante, un volumetto non trascurabile (Gennaro Mercogliano, Corrado Alvaro, Rossano, Ferrari Editore) cui non avevo prestato attenzione adeguata perché impegnato nella redazione di un volume sul romanzo italiano degli ultimi due secoli (Percorsi del romanzo, Roma, Lepisma, 2012). Merita attenzione per le sollecitazioni che fornisce a una ulteriore riflessione sulla poetica dello scrittore calabrese di cui, con manifesta passione, l’autore del volume rivendica l’ancoraggio solido all’antropologia della comune regione, terra mitica nella memoria. È una tesi in qualche modo contrastante, e perciò stimolante, rispetto a quella a me più cara applicata all’irrequietezza dello scrittore che si dispose a investigare (col rammarico di non trovare conforto) nei miti della civiltà contemporanea (un «rimbarbarito ’600») trasferendoli in vicende e occasioni da romanzo. In questo (forzando lo spazio del pacifico idillismo naturale, che rimane come memoria psicologica e luogo edenico d’attrazione, per il personaggio narrativo) entrano, e cercano adeguata accoglienza, quali essenziali fattori fondanti, materiali naturali, realistici, o fat-

tuali, e supporti magici, simbolici e allusivi che, attraverso metaforiche aggregazioni di dati testimoniali e di supposizioni ideali, guidano nella direzione di approdi letterari di sicura robustezza. I tempi e i modi vi sono scanditi dalla rappresentazione contestuale delle tappe che evidenziano, in Alvaro, motivazioni e conseguenze del montante disagio dell’uomo nel processo di mutamento della società che lo condiziona costringendolo a subire riti e ritmi connessi all’epidemico fenomeno di omologazione culturale (politica, economica e tecnologica), con il potenziarsi della capacità di invadenza di modelli appartenenti ad altre civiltà, che incoraggiano a ricercare possibili ancoraggi nei disvalori della moda, del successo e del denaro. Con tutto quanto di contrastante e negativo si riversa sul personaggio da romanzo che, non avendo saputo rinunciare alla sua identità (di meridionale, nel caso di quelli di Alvaro), non ha potuto adeguarsi al sistema del nuovo, interiorizzandone i modelli, e perciò è rimasto narrativamente come irrealizzato (umanamente, spaesato), sempre tentato dalla rinuncia all’impegno, o dalla fuga verso un altrove indefinibile, o da un improbabile ritorno all’antropologico Eden purtroppo smarrito. Esattamente come il prototipo di Sebastiano Babe colto nel suo più che problematico rapporto con il labirinto metropolitano, e incapace di adeguarvisi. C’è un punto su cui è facile concordare con la tesi inseguita dal Mercogliano, nel desiderio

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di ritrovare un possibile tracciato che faccia da amalgama riportando ad organicità l’opera di Corrado Alvaro. Riguarda l’ipotesi che induce a registrarne la poetica bifronte ad essa sottesa: come antropologico frutto, spontaneo quanto genuino, di natura (mito delle origini), e come espressione di un genetico bisogno di soddisfare l’esigenza avvertita di un progetto culturale di elevato prestigio (cultura della modernità). Viene opportunamento esplicitato, dal critico, attraverso una campionatura di assaggi testuali e proposizioni interpretative che, rapportandosi a personali, anche assai pregresse esperienze di fedele investigatore, testimoniano a favore non soltanto della propria amorevole frequentazione di lettore, ma anche di una tensione euristica mai paga. Ed è questa che, alla fine, motiva e corregge a un tempo, chiarificando, l’apparente simpatetico coinvolgimento dello studioso e la disposizione favorevole dell’uomo nei confronti dello scrittore. Si tratta di condizioni entrambe di «natura», derivanti dalla comune origine calabrese (antropologia), e responsabili, per senso di appartenenza, di quella non raffrenata disposizione compartecipativa, appena mitigata dall’esigenza di collocare, poi, il dato empirico e personale su un piano di oggettiva valenza, pur con i rischi connessi al regressivo richiamo della confortante ascendenza. Al fine di esorcizzare quei rischi, il critico s’impegna a dimostrare che richiamo di natura e sollecitazioni di cultura, in Alvaro, assolutamente s’integrano e tendono a esaltarsi all’insegna della calabresità. Una tesi che viene sviluppata con incursioni nelle opere e col recupero di funzionali dati biografici. Ma si dà il caso che proprio questo ancoraggio sembrò non soddisfare Alvaro che si adoperò nel ricercare gli opportuni correttivi attraverso la frequentazione, dimostratasi rigenerante, di sicuri campioni della cultura più attiva e avanzata del resto d’Europa. Assunti a modelli o eletti a interlocutori privilegiati, furono questi a suggerirgli quell’interrogativa disposizione che lo guidò lungo i sentieri di una pratica sperimentale, tenuta come

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in sospensione d’attesa, nell’intimo, entro una mai smessa ricerca di aggiornamento, perdurando la tensione creativa esposta alla riproposizione di «storie» che fossero come «memorie» da un mondo sommerso, carico di «misteri», e «avventure» che fossero prodotti di un’immaginazione allegorica esercitata su frantumi di realtà ipotetica («è impossibile scrivere realisticamente… Scrivere di qualcosa di più della realtà», annotava). Contrastivamente si esibivano per lui due mondi quasi inconciliabili, riaprendo il discorso sulla natura e, dunque, sul modo di rappresentazione simbolica di essa, attraverso la letteratura, che interessava il moralista Alvaro più di quanto non interessi il critico Mercogliano sollecito a cogliere l’attenzione dello scrittore per «l’umana dignità e per il decoro del mondo». Di là delle vecchie questioni riaperte o riapribili (antico e moderno, paese e città, società ed individuo, storia e politica, regola e caos, omologazione e identità, civiltà e barbarie, organicità e labirinto….), quelli di Alvaro erano interessi gnoseologici e tensioni sperimentali che, rispolverando annose diatribe, mettevano sotto accusa i vecchi moduli compositivi e sollecitavano definizioni di grammatiche nuove. Le quali, se producevano in lui risultati di arricchimento tematico, obbligavano altresì ad un continuo apprendistato (ideologico e strumentale) chiunque volesse mettere a frutto il nuovo tanto nella milizia giornalistica quanto nella produzione creativa. Il ritorno anche frequente ai moduli di un ripagante e quasi automatico sistema di rappresentazioni lirico-idilliche del reale era il rifugio, l’ancora di salvezza, angelicamente riposante dei momenti di maggiore tensione (affettiva o ideologica, che fosse) in cui veniva prodotto il «qualcosa di più» che era la letteratura, da féerie o da strumento di conoscenza critica che dovesse apparire. Su tale versante si collocano racconti e reportage dal sud del mondo (il Mezzogiorno d’Italia, la Turchia, la Russia Sovietica) che hanno alle spalle l’esperienza dell’antropologia paesana e rappresentano in modo più evidente una sorta

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di perdurante difficoltà che lo scrittore avvertiva nel far lievitare diversamente una materia già tutta letterariamente consumata. Un’eccezione fortunata (Gente in Aspromonte) ne aveva esaltato superbamente un modello, che tuttavia rimaneva frutto spontaneo e unico di una scelta quasi istintiva, d’ascendenza antropologica, «emotiva» e non coltivata, come Alvaro preferiva dire («Scrivere per me nasce da un’emozione che voglio comunicare…»), qualcosa, insomma, «che si trova nell’animo e da cui provengono le azioni» sviluppate su polverizzati fondali di vita mummificata che solo la memoria dl gruppo conserva ed attesta. È la parte che preferiscono, in genere, i lettori o critici meridionali di Alvaro, come Mercogliano il quale si ricostruisce anche un percorso (parsimonioso e personalizzato) di funzionale storiografia critica insieme ad un inventario di riferimenti contestualizzanti l’attraversamento, da parte dello scrittore, di vicende che segnarono in parte la storia politica e civile del tempo. Naturalmente di quelle che lasciarono tracce evidenti nelle opere in cui domina l’altra poetica: quella, cioè, che sostituisce all’umanità paesana, fissata in quasi assolute figurazioni antropologiche, il prototipo del meridionale inurbato costretto a vivere l’avventura come sradicato o come pedina alienata di una controstoria da costruire, come altra memoria, sulla storia che non può essere ormai altro che metropolitanaed europea, soggetta a tutte le incursioni interpretative e condizionanti. Di questa diversa storia, narrativamente Alvaro si accinse a delineare alcuni tratti costitutivi, rinunciando all’idillio e spingendosi sui sentieri della sperimentazione più ardita, per uno come lui che s’interrogava sull’applicazione di leggi partorite dalla filosofia politica a rischio di devianza nella prassi (L’uomo è forte), dalle nuove convenzioni imposte al costume (Il nuovo giorno), o dalla scienza (Belmoro), per servire al racconto del sociale massificato (Tutto è accaduto), o per sovraintendere alle complessive ragioni dell’omologazione (Il mare, Domani) che costringe all’accettazione del diverso come essenziale strumento

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di inserimento nella modernità e non consente nemmeno la coltivazione della nostalgia dell’identità. Un mondo, dunque, la cui diversa formalizzazione costringeva a una nuova narrazione, presupponendo anche altre conoscenze. Per letture «finalizzate» di questo tipo occorre ben scegliere i campioni di ordine testuale o i dati testimoniali (biografici e relazionali) da assemblare («Non si può separare lo scrittore dalla sua biografia», suggeriva Alvaro). Mercogliano non trascura di mostrarne consapevolezza e si impegna a esibirne campioni individuati con puntigliosità analitica e procedimento selettivo che una scrittura ricca di lucentezza contribuisce a aggregare in sistema logico. Sono assaggi che non prefigurano, tuttavia, un itinerario diacronicamente disposto (e forse non lo vogliono fare), ma si limitano a fornire un contributo di illuminazione alla tempra dell’uomo impegnato nella quotidiana milizia di cronista che racconta il proprio tempo. Insistono nel trascorrere, selettivamente, su particolari caratterizzanti il rapporto dell’uomo con la modernità, piuttosto che quelli dello scrittore creativamente proteso a testimoniare il cambiamento (o l’avventura) nella pratica più intima dell’attività letteraria cui sentiva dover fornire prove alternative di testimonianze efficaci quanto innovative, andando oltre il proprio sentire, ma provando a collocarsi sulla linea indicata dalla più moderna e innovativa letteratura europea. Si è dato il caso che a questo impegno dell’uomo e dello scrittore non abbia corrisposto un’attenzione altrettanto disponibile della critica che ha preferito seguire percorsi interpretativi più tranquilli, come quelli cui appare particolarmente sensibile Mercogliano: la mitologia dei luoghi e degli affetti, il ritratto rusticale, il realismo lirico e la dipintura di atmosfere, l’idillismo naturale e la tensione memoriale, le tinte locali e il radicamento regionale… Interpretazioni e valutazioni conseguenti sono relazionate a quell’idea di calabresità, estensivamente intesa (come condizione di natura e come dato di cultura), che dovrebbe

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fornire il leitmotif di una supposta o possibile esemplarità quasi monolitica dell’intera opera (cosa che a me non pare). Talché tutto può ad essa raccordarsi funzionalmente, anche quanto ne sembra più lontano: il ritratto dell’uomo/ personaggio posto di fronte all’eterno femminino oppure alle prese con l’appuntamento fatale; il tormento della sospensione tra bisogno di radicamento (il paese) e spinte integrative (la città); l’ansia di coniugazione di antropologia e storia, natura e cultura, realtà e utopia, identità e omologazione, ordine e caos; l’alienazione umana o il dramma dei costumi…; o quant’altro è possibile rinvenire pescando da vicende biografiche rilevanti (i viaggi e i soggiorni per inchieste o per altro, tra capitali europee e Italia, da irrequietezze intellettuali (letture della Bibbia e dei i classici), o da notazioni aneddotiche. E, finalmente, dal cercato bagno nella contemporaneità attraverso lo strumento delle inchieste e dei reportage, o con racconti in forma di elzeviri o con saggi di costume e con indagini che approfondiscano consonanze (molte) o divergenze intellettuali (non poche): Pavese, Papini, Albertini, Amendola, Bontempelli, Pirandello… Limitativa a me appare la rinuncia a individuare il positivo emergente dalla pratica della modernità, all’inizio identificata nella tentacolare rappresentazione della diversa civiltà metropolitana (alienante e regressiva) Perché proprio questa segna le tappe di un costante attraversamento di altri modelli culturali e societari per i quali lo scrittore si mantenne come in interrogativa attesa. Strumenti euristici ne erano non più quelli forniti dagli approfondimento antropologici o dai modelli del realismo regionale, bensì quelli della rinata analisi sociologica che faceva buona festa anche alle grammatiche narrative di riferimento sollecitando l’elezione di nuovi modelli e una revisione degli impianti tematici e dei registri compositivi. Tutte cose che poco si raccordano con il richiamo alla genetica connotazione della calabresità che scorre in zone più permeabili alle

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esigenze di genere, come sarebbe facile riscontrare se si volesse recuperare quella dimensione monografica per l’interpretazione che a me tanto interessa. Perché non bastano le parsimoniose referenze assunte dalla bibliografia critica o qualche spunto di riflessione sulla concezione estetica dello scrittore, anche se non caricate di eccessiva responsabilità definitoria, se poi non si dà il giusto rilievo a dichiarazioni esplicite dello scrittore, come quando lamenta: «In Italia non si arriva più, e da un pezzo, a elaborare una cultura piena, una letteratura che arrivi all’apice della cultura.». In un contesto di storiografia critica, se non ci si vuole arrestare alle soglie del complesso sistema compositivo, non si può non riconoscere a tali espressioni la medesima valenza attribuita nella cultura di Alvaro al dettato di quell’umanesimo moderno, capace di coniugare il vero con il buono, su cui insiste Mercogliano. Si tratta di qualcosa di manzoniano, in linea con l’utilizzo dell’antistoria applicata alle forme del sociale («lotta per la vita») che lo scrittore ritrovava compromesse col politico: quella «cabala» mai accettata o esplorata veramente, quindi mai capita e perciò non spiegata (deriva moralistica?), se non metaforizzando. Per tale ragione egli si affidava, sperimentalmente, alla favola distopica o all’allegoria (cultura), su un proscenio che sollecitava le tentazioni del ritorno e rimandava ritualmente al mondo delle origini (natura), che diviene, nel tempo, come un archetipo mitizzato ma ormai sempre più imprendibile. Cogliervi soltanto una quasi devozionale disposizione d’animo (cosa non sbagliata in sé) significherebbe sminuire un po’ il significato di un impegno ben più forte di Alvaro nel ruolo di critico testimone del proprio tempo, assunto come uomo e come intellettuale/scrittore, non certo riconducibile al peso esercitato dall’idea di una «Calabria dal robusto sentire, generosa e forte», la Calabria di natura, assai a lui cara e così ricca di «orgogliosa pazienza…». Per difetto di azione, il peso della connessa prevaricante «naturalezza istintiva» ne farebbe davvero un campione as-

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soluto di dipintore di atmosfere o di pittore del tempo e dell’anima: scrittore, certo, ma non sicuramente mymethes, e in quanto tale, anche difficilmente collocabile in sede storiografica, tenendo conto dei modi in cui avvenne il trapasso tra due epoche segnate dall’avvento della democrazia repubblicana e dall’apertura di tutte le frontiere. C’è da dire che, nonostante le professioni ripetute di fascinazione della compostezza classica, in realtà Alvaro era legato a una concezione mimetica della narrativa che, applicata alla tradizione italiana, glela faceva apparire combattuta tra due determinazioni: come espressione della «lotta per la vita», e come frutto degli «impulsi del sangue e degli appetiti». In qualche modo il suo canone era tutto già definito alle origini: tra contenuto ed espressione. Il sistema articolato del Decameron, gli forniva l’archetipo (di scorta, L’asino d’oro di Apuleio), con Manzoni/Verga a segnare le tappe di avanzamento del primo motivo (realismo) e D’Annunzio quella del secondo (idealismo/estetismo). Più ricorrente e di più agevole e diffusa declinazione, per ragioni che non importa qui precisare, nella tradizione narrativa italiana è stato più frequentato il motivo della lotta per la vita. Ma Alvaro non se ne accontentava, tanto che tendeva a motivarlo liricamente. L’Europa chiamava ad altre imprese che la contemporaneità sollecitava e gli scrittori proponevano nella pratica creativa: con il sempre eterno Dostoevskij, Mann, Proust, Kafka, Joyce, Orwell, Huxley, Sologub, Gončaròv…. La sua attenzione, forte dell’esperienza novecentista, si rivolse fiduciosa a questi (anche quando s’introducevano chiare prese di distanza, come per Proust) per arricchire il proprio mondo e trovare nuove espressioni. La critica intravide subito la disposizione dicotomica già evidenziata, ma preferì concentrarsi sul primo tracciato (accreditato anche dall’anagrafe). Considerando il secondo come di scarto, si privilegiò la formula con cui si potevano evidenziare le implicazioni regionalistiche e idilliche («scrittore di atmosfere»), condite da un moralismo appro-

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dante, fuori dalle strutture narrative, a forme varie di scritture, dall’elzeviro al pamphlet sociopolitico (L’Italia rinunzia?) e al saggio di costume… Un esempio? Prendete i suoi personaggi: sono tutti, in qualche modo, fuori di chiave, cioè sradicati, non integrabili, sia che appartengano al sistema antropologico dell’idillio paesano e sia che si travaglino nella tentacolare babele cittadina, tra pulsioni del sangue e degli appetiti; tutti con nostalgia di ritorno o desiderio di fuga, e quando appaiono diversi o non sono integrabili (Dale), o appartengono a un altro mondo, o difettano di umanità per eccesso di fattori singolativi che li destina a un «altrove» (Belmoro). Un dualismo non ancora risolto criticamente, che rende problematica la collocazione storiografica dello scrittore. Personalmente l’ho affiancato a Moravia, nella sezione Viaggio intorno all’uomo del volume ricordato all’inizio, ma per farne una rappresentazione da doppio speculare, con il primo, Alvaro, destinato a incarnare la figura dello scrittore e il secondo quello del narratore: moralista il primo, totale il secondo; geloso, amaro elegiaco ed umbratile, Alvaro; prensile e rotto ad ogni possibile aggiornamento pur di inseguire il processo della storia, Moravia per il quale la critica ha risolto subito la dualità. Credo si tratti di problemi che appartengono a sistemi di cultura piuttosto che a natura. E questi dicono che qualcosa in Alvaro è allo stato d’incompiutezza, come le opere pubblicate postume. Se la sollecitazione di cultura, demonicamente maliosa, fu responsabile di fughe in avanti e di volitive scommesse letterarie approdanti a esiti (non sempre compiuti) che si nutrono di variegate mitologie metropolitane (da Misteri e avventure a Domani) trasudanti controverse esperienze di mutazioni troppo rapide e distanti per poter produrre effetti immediati (Belmoro), l’altra, angelicamente riposante, fornì in genere effetti di liricità sublimante, con forme di ripiegamenti compensativi verso aree tematiche letterariamente consolidate (realismo regionale) e personaggi un po’ imbalsamati («mummie che si polveriz-

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zano, secondo lo scrittore, con il mondo di cui fanno parte») in una sorta di eroismo commotivo destinato a trascendere il dato naturale per ricomporsi in atmosfera trascolorando la stessa umanità (Gente in Aspromonte). Gli stessi tessuti narrativi ne seguono le sorti, per la necessità di trasformare i tratti di umanità, statisticamente assommati, in figure di personaggi che rimangono sempre fuori misura, per deficienza antropologica, e perciò non più eroi, o per condizionamento del ruolo, e perciò non più uomini (L’uomo nel labirinto o L’uomo è forte). Miraggio utopico sarebbe stato poter pervenire a una fissazione antropologica dell’uomo nella costrizione di un ruolo che lo scrittore avrebbe voluto di sufficiente corrispondenza ideale, come i critici hanno percepito. Ma, alla verifica, il personaggio derivatone finisce col risultare, con sempre maggiore evidenza, senza scampo anche in un contesto eletto a malioso Eden che va custodito gelosamente, fuori dalla contaminazione illusoriamente accarezzata di poterlo riconquistare (ricorrente motivo del ritorno dopo il viaggio metropolitano, caratteristico di tanti personaggi di Alvaro). Qualche volta può essere assunto a schema o a puro fattore eletto a campione di storia, ma sempre in linea, come chiarificazione di poetica, con quello che lo scrittore definiva «un nucleo emotivo che si trova nell’animo e da cui provengono le azioni». Mercogliano risolve il contrasto (o la dualità), rimarcando questa illustrazione di poetica, con una incisiva formula definitoria, a riassunto: «Alvaro pittore del tempo e dell’anima». È ispirata da una contrapposizione ossimorica della Campo che testimonia sulle ultime ore dello scrittore trascorse nella casa di Trinità dei Monti, tra «tenebra» e «lume». Il critico, ripensando al dissidio tra cultura e natura, o modernità e classicità, riannoda i fili disponibili proponendone una sintesi estrema: «l’anima stride di dolori antichi». Quanto basta a farci capire che il suo è un attraversamento dell’opera di Corrado Alvaro all’insegna della ricerca di elementi in grado di favorire

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la definizione di un profilo di intellettuale a tutto tondo motivato da una concezione etica ed estetica del mondo nella quale convivono ascendenze arcaiche, mitiche, o forme dell’immaginario e componenti empiriche del mondo contemporaneo che, per divenire oggetto da romanzo, devono potersi piegare al trattamento simbolico che ne fa lo scrittore soprattutto quando ne ricerca remote connotazioni antropologico-ambientali o di natura mitica con strumenti memoriali psicologicamente motivanti (Sebastiano Babe o Rinaldo Diacono). Un intellettuale con la nostalgia della naturalezza paesana e il bisogno di sublimazione delle genetiche connotazioni, ma che sente il contrastivo richiamo della cultura della modernità metropolitana. Il critico lo segue nei viaggi forzati e nei vagabondaggi conseguenti tra Berlino, Roma, Mosca, Milano, Parigi, Napoli e quell’«altrove» spesso dato come luogo d’origine del personaggio romanzesco liberatosi dal mito del ritorno (ormai solo testimonianza di nostalgia) perché catapultato in un non-luogo rispetto a quello suo di provenienza e cui è tolta la possibilità di pensare a un credibile scampo edenico, la terza via corteggiata da Alvaro, sulla quale poteva incontrare Gioacchino da Fiore, Mattia Preti, frate Barlamo, Tommaso Campanella…Passava per utopia, e si coniugava con sradicamento e alienazione e, una volta approdata in territorio contemporaneo, diventava distopia (Belmoro), incrociando la «cabala» politica (L’uomo è forte) o l’antistoria (Memorie di un mondo sommerso). Per lo scrittore si trattava forse di dare soddisfazione all’esigenza di ritrovamento di quei frammenti di etica da proporre ai propri lettori insinuandoli, come postulati categorici, negli spazi commentativi o illustrativi consentiti dallo sviluppo della narrazione, o incarnandoli in figure di personaggi che, anche per questo, finiscono per somigliarsi spesso tra loro. (Gennaro Mercogliano, Corrado Alvaro, Rossano, Ferrari Editore, p. 208, € 15,00).

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G. Botti, Sulle vie della salute. Da speziale a farmacista-imprenditore nel lungo Ottocento a Napoli, Bologna, Il Mulino, 2008 In un passo del suo Apologia della storia, riprendendo le posizioni di Michelet e di Fustel de Coulanges, M. Bloch ricorda come «l’oggetto della storia [sia] per sua natura l’uomo. O meglio: gli uomini»1. L’uomo, colto nella sua dimensione sociale, è il fine ultimo di una scienza capace di mettere a fuoco tempi e contesti su grande scala, senza perdere di vista quanti in essi si muovono. Più avanti, infatti, Bloch aggiunge che il «buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda»2. Proprio su queste premesse si muove Gabriella Botti nel suo “Sulle vie della salute. Da speziale a farmacista-imprenditore nel lungo Ottocento a Napoli” (edito per i tipi del Mulino). Attraverso un sofisticato gioco di piani, la strategia di ricerca induce l’autrice a muoversi nelle intricate trame della genesi della professione di farmacista nella Napoli dell’Ottocento. L’analisi storiografica è condotta in frequente correlazione (di cui si colgono spesso i tratti dissonanti) con altri casi italiani che hanno anticipato il processo di verticalizzazione capitalistica e di concentrazione che a Napoli si innescheranno soltanto a Novecento inoltrato. La ricerca, per affermazione stessa dell’autrice, colma una lacuna: quella relativa all’assenza, tra gli studi sulle professioni, della categoria dei farmacisti. La ragione più probabile rimanda ad una sorta di liminalità del gruppo rispetto alle convenzionali e codificate strutture ermeneutiche della categoria lavoro: artigiani, mercanti, professionisti, sono classificazioni diverse che, nel caso dei far

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macisti, confluiscono in una medesima storia. Il lavoro di ricerca ha consentito all’autrice di cogliere il peso di un’assenza che si è tramutato in spinta per la ricerca, nel tentativo riuscito di condurre a sintesi i molteplici contributi storiografici già disponibili (e di cui vi è ampia traccia nel volume) per costruire, a partire da essi, analisi originali sui tratti evolutivi di una professione mai compiutamente indagata per il contesto napoletano. La struttura del volume, organizzata secondo il duplice corrimano cronologico e argomentativo, si articola per piani ed individua i tratti di un processo di per sé archetipico dell’ascesa (economica e sociale) della borghesia napoletana di fine Ottocento. L’origine delle professioni e il loro determinarsi nei diversi contesti geografici è un argomento di rilevante interesse poiché procede in stretta correlazione con le evoluzioni economiche, politiche e sociali, soprattutto tra diciannovesimo e ventesimo secolo, quando il profitto scalza la rendita e la localizzazione lascia il posto alla dimensione nazionale e sovranazionale. Il mutamento storico tra ancien régime ed età contemporanea in Italia procede di pari passo con il lungo cammino dell’industrializzazione, di cui proprio l’avvento della figura del farmacista-imprenditore a Napoli, secondo le analisi della Botti, diverrà un esempio nitido. In un’ottica di lungo periodo, il fenomeno è condizionato da eventi epocali che si muovono sullo sfondo: il passaggio dall’età borbonica all’Italia unita, le trasformazioni economiche cui la Napoli capitale del Regno è soggetta nel corso del diciannovesimo secolo, le evoluzioni urbanistiche e sociali che inevitabilmente da quelle trasformazioni scaturiscono, gli strati popolari e le élites i cui protagonisti si muovono anche in termini di mobilità sociale, le

M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, p. 41. Ibidem.

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strategie familiari che vi sottendono, le storie personali, tutti elementi di una trama robusta su cui è intessuta la storia di un’evoluzione. Su questi quadri di ampio respiro si innestano le analisi di dettaglio della Botti, che muovono da argomenti apparentemente minori (come lo studio della formazione di una categoria professionale in un contesto spaziale circoscritto) ma che si mostrano, invece, profondamente utili per le estensioni concettuali che, proprio in quelle analisi, trovano conferma o smentita. In quest’ottica l’autrice articola una ricostruzione storica che radica in numerose fonti d’archivio per ramificare concetti e documentare dettagliatamente mutamenti in grado di descrivere scenari più ampi. L’evoluzione della figura del farmacista professionista è attraversata dalle nuove conoscenze in campo medico; un ripensamento delle scienze sociali affianca l’innovazione scientifica e così, dalle impellenze della diagnostica l’asse operativo si sposta sulla terapeutica. Il processo evolutivo marca il passo di un percorso tutto culturale che procede dal problema al rimedio: in questa non secondaria rivoluzione delle modalità di approccio alla salute (tutta inscritta in un contesto ottocentesco figlio della rivoluzione francese e delle più tarde spinte positivistiche che dell’estrema fiducia nella capacità umana di individuare rimedi aveva nutrito le più grandi scoperte scientifiche del secolo) allocano anche le conquiste che in campo medico avevano riguardato la fisiologia e l’anatomia. La ricerca dei rimedi procede accanto a queste dinamiche, sospinta da diversi fattori di cambiamento che hanno portato, già sulle prime, a determinare la separazione tra la figura del medico e quella dello speziale-farmacista: sullo sfondo si muovono le grandi conquiste della scienza, come i progressi compiuti con l’affermazione del metodo anatomo-clinico nella diagnostica e la scoperta degli alcaloidi. A sostenere il progresso vi è l’avanzare inarrestabile delle conoscenze in campo chimico, fisico e biologico. Ma lo studio condotto dalla Botti, nel ripercorrere le tappe evolutive della farmacopea dal periodo borbonico fino al primo Novecento incrocia anche la storia della malattia: nell’individuare i rimedi ci si imbatte necessariamente nelle patologie più diffuse o in quelle ritenute più pericolose, una sorta di “storia nella storia” in cui meglio si manifesta il lavoro per piani compiuto in questa ricerca. Così le antiche spezie cedono il passo alle sostanze chimiche e il farmacista professionista prende il posto dello speziale: una proporzione matematica che svela il senso di un’evoluzione emblematica dei grandi processi economici tra Otto e Novecento. Ma i filoni di studio che analizzano il lento formarsi della professione a Napoli, le conquiste nel campo delle conoscenze scientifiche, le trasformazioni culturali che

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surrogano l’idea di malattia con quella di salute, aprono progressivamente alle direttrici sociali ed economiche del fenomeno. Una dettagliata ricostruzione compiuta attraverso lo studio dei fondi archivistici notarili, di Stato civile, del Protomedicato e della Prefettura, definisce i contorni di una storia che apre a risvolti socio culturali (come nel caso del ruolo esercitato dalle comunità straniere a Napoli), di genere (è il caso della funzione gregaria delle donne in questa storia, della loro istruzione come della loro inquieta e tarda emancipazione) ed economici (relativi all’affermarsi dell’impresa farmaceutica). Il farmacista diviene così il protagonista del quartiere e della città. La sua bottega raccoglie i bisognosi nel corpo e diviene luogo di confronto politico: al riguardo la Botti descrive i retrobottega delle farmacie come spazi all’interno dei quali si alimentava la cospirazione risorgimentale che si saldava alla rete liberale in funzione antiborbonica. L’autrice ricostruisce fatti e vicende della cospirazione e dei sospetti nei confronti della categoria: denunce e “soffiate” rinfocolano il contrasto politico e portano i tutori dell’ordine pubblico a monitorare da vicino le botteghe di farmacia. Il centro antico della città di Napoli diventa il centro dell’attivismo liberale che nelle farmacie trova il luogo più adatto per compattarsi. Protagonisti e vicende legati al risorgimento meridionale svelano il volto nuovo di una capacità di azione che si fa tutt’uno con la speranza di dare origine al mutamento. Le aspirazioni politiche si saldano a quelle del riscatto sociale e il professionista che opererà nell’Italia unita saprà gradualmente risalire i gradini di una gerarchia sociale apparentemente immobile. La ricostruzione storica del riscatto professionale è strettamente intrecciata ad un altro interessante filone che attraversa, in maniera trasversale, tutto il volume: quello della formazione e dell’istruzione. Gli speziali prima e i farmacisti poi si formano attraverso un tirocinio pratico nelle botteghe e solo negli anni trenta dell’Ottocento vedranno il primo tentativo di istituzione di un corso pubblico di studi, propedeutico al rilascio di cedole e privilegi per l’esercizio della professione. Tuttavia, solo dopo l’Unità il corso di studi comincerà ad essere organizzato in scuola universitaria di farmacia secondo i modelli europei. È dagli anni Settanta, infatti, che prenderà il via quel progressivo cambio di rotta che porterà al rilascio delle prime lauree in chimica e farmacia e al diploma in farmacia. L’excursus si accompagna anche all’analisi di dettaglio che la Botti fa per ricostruire, nel tempo, il dispiegarsi degli interventi normativi su cui si è fondato lo sviluppo del settore e l’affermazione della figura professionale del farmacista a Napoli. Significativo, rispetto ad altri casi europei, sarà il ritardo con cui si giungerà, solo nel 1910, all’istituzione dell’ordine professionale.

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Il volume, inoltre, trascina il lettore nella Napoli dell’Ottocento, con il dedalo di vie e di quartieri puntualmente descritti. Un viaggio nello spazio, oltre che nel tempo, che rappresenta una delle chiavi più suggestive di questo volume: percorrere la Napoli del centro antico o quella del Vomero è un’operazione felicemente riuscita e che svela, lungo il suo dispiegarsi, vicende, nomi, architetture. Un’operazione di puntuale ricostruzione topografica delle vie cittadine accompagna nella percezione anche simbolica di un’ascesa professionale replicata nello spostamento delle farmacie e delle famiglie che le possiedono. Il dislocamento verso la parte alta della città costituisce la metafora più eloquente dell’affermazione di una professione, come quella del farmacista, destinata a consolidare il proprio prestigio proprio nel corso del Novecento. In ultimo, le storie delle grandi famiglie di farmacisti a Napoli (locali e straniere) ricostruite attraverso i documenti d’archivio e sulle fonti orali raccolte dall’autrice negli anni: Beneduce, Cutolo, Kernot, Berncastel,

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Mangiapia diventano altrettante storie di legami e relazioni personali, capaci di rileggere e riconfigurare spazi sociali come indicatori storici di più lungo periodo. L’evoluzione da speziale a farmacista-imprenditore nella Napoli dell’Ottocento costituisce, pertanto, un percorso che rimanda all’agire degli uomini, agli assetti sociali ed economici, ai complessi mutamenti politici a ridosso dei quali la storia ricostruita e narrata dalla Botti si svolge. La nascita della professione di farmacista nel lungo Ottocento a Napoli allunga però le sue propaggini anche nei primi decenni del secolo ventesimo, quando la categoria si impone come élite finanziaria e di potere proprio in virtù di un’egemonia economica e politica che le opportunità offerte dalla concentrazioni di matrice capitalistica consentono. Quelle del volume pertanto, sono vicende di lungo corso che preludono a fenomeni più ampi e consolidati che arrivano fin dentro ai giorni nostri. (D. Verrastro)

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Rassegna di studi

G. Gasparello-R. Stefani, Raíces de nuestra justicia, documentario Il Messico sta vivendo una situazione di violenza sociale generalizzata senza precedenti. Mentre lo Stato ha intrapreso una vera e propria guerra contro alcuni settori della delinquenza organizzata e del narcotraffico, utilizzando a tal fine la militarizzazione e la sospensione di diritti civili in tutto il paese, è fondamentale approfondire e diffondere esperienze che, partendo da contesti sociali e culturali diversi dal sistema dominante, cercano di modificare la trama della violenza e disattivarla senza ricorrere ad una risposta che faccia uso della forza o della violenza stessa. Questo è il proposito e l’obiettivo del lungometraggio Raíces de nuestra justicia (Radici della nostra giustizia, 2014), prodotto dal Centro di Diritti Umani Miguel Agustín Pro Juárez, alla cui realizzazione ho partecipato. Per piú di due anni un gruppo di difensori di diritti umani ed antropologi abbiamo documentato diversi percorsi e pratiche di giustizia in comunitá indigene e non indigene di diverse regioni del Messico: la zona Norte del Chiapas, la Montaña e la Costa Chica del Guerrero, il sud di Durango e l’istmo di Oaxaca. Storicamente, i popoli indigeni hanno vissuto in contesti di violenza: violenza di Stato e repressione politica, caciquismo, razzismo, violenza inter e intraetnica, delinquenza comune, criminalità organizzata, violenza politica e violenza strutturale. I processi di organizzazione e costruzione di autonomia, ed i sistemi di giustizia come un’espressione di tale autonomia, rappresentano una risposta positiva a queste diverse situazioni di violenza. Questo lavoro acquisisce una rilevanza particolare nell’attuale dibattito sul fenomeno sociale delle autodefensas (“autodifese”, gruppi di civili armati), che nell’ultimo anno si è diffuso in tutto il territorio messicano di

fronte alla minaccia del narcotraffico e la delinquenza organizzata. Sebbene questo fenomeno possa rappresentare – nel migliore dei casi- una risposta collettiva e spontanea a fronte di situazioni di violenza insostenibili, ha innescato un meccanismo di cooptazione/criminalizzazione da parte del governo, e ha tolto legittimità ad altri processi di organizzazione comunitaria. Mentre le autodefensas sorgono in modo congiunturale per rispondere al problema specifico della sicurezza comunitaria, il quale non è altro che la punta dell’iceberg della profonda costruzione della violenza attuale e storica, le esperienze che si raccontano nel lungometraggio svelano le diverse forme in cui i popoli indigeni risolvono alla radice le situazioni di violenza, prima che diventino problemi di sicurezza comunitaria o pubblica. Così, se risaliamo nella successione delle possibili risposte alla violenza, troviamo la risoluzione dei conflitti e l’amministrazione della giustizia. La risoluzione dei conflitti è fondamentale, poiché cerca di disattivarli in modo pacifico, per mezzo dell’accordo, la conciliazione e la coscientizzazione delle parti coinvolte. È una costante in tutte le esperienze di giustizia indigena e interculturale, di cui ne è il cuore. Ci sono esperienze dirette principalmente alla risoluzione dei conflitti comunitari, come gli jmeltsa’anwanej-risolutori di conflitti- di Bachajón (Chiapas), influenzati dal profondo lavoro svolto in tal senso dalla Diocesi di San Cristóbal de Las Casas e da organizzazioni civili come la Commissione per la Riconciliazione Comunitaria (CORECO). In altre esperienze, la conciliazione è parte di un sistema di amministrazione della giustizia più complesso che include anche il giudizio di coloro che hanno commesso qualche errore, e la loro rieducazione per mezzo del lavoro comunitario (socialmente utile), come nella Coordinadora Regional de Autoridades Comunitarias nello stato del Guerrero o nelle Juntas de Buen Gobierno in Chiapas. In entrambe queste esperienze si risolvono in maniera autonoma e si

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sanzionano per mezzo della rieducazione anche problemi gravi come l’omicidio, la violenza sessuale o il traffico di droga e migranti. Nelle società indigene, in termini generali, non troviamo la pena carceraria come castigo, se non per tempi brevi (8 o 12 ore, nei casi degli ubriachi molesti). In molti paesi europei, i sistema giudiziari si sono modificati in tempi recenti incorporando la mediazione e le pene alternative al carcere, recuperando forme che sono sempre state predominanti nelle societá indigene dell’America Latina. Questi sistemi di giustizia o di risoluzione dei conflitti, vigenti nelle regioni indigene e interculturali, non presentano le caratteristiche congiunturali delle autodefensas, al contrario: affondano le proprie radici nelle strutture organizzative dei popoli, nei collettivi e commissioni che articolano la vita comunitaria, come viene spiegato dalle autorità ayuuk (o mixes), un popolo con una lunga tradizione autonoma e comunitaria. Le giustizie “autonome” non sono necessariamente “ancestrali”, sono piuttosto molto innovatrici, ma sono radicate nelle strutture assembleari e nei meccanismi decisionali collettivi; la loro giustizia è poi esercitata da autorità collegiate, mai da una sola persona, che devono rispondere delle loro decisioni alla comunità che le ha elette. Stiamo dunque parlando di una giustizia vicina alla gente, che riflette valori e norme che le persone capiscono e condividono perché fanno parte della propria cultura e sono e vigenti nella vita quotidiana. Questo è il secondo elemento sottolineato da tutte le esperienze raccolte nel documentario, l’abissale differenza della giustizia propria, basata sulla ricerca della conciliazione e su norme condivise, e la giustizia ufficiale o dello Stato, che viene invariabilmente definita come corrotta, ingiusta, inaccessibile e incomprensibile. La denuncia della corruzione e della mancanza di attenzione verso la popolazione indigena da parte delle autorità statali incaricate di amministrare la giustizia è un dato importante che emerge dal lungometraggio. Pur mostrando una situazione preoccupante, tale denuncia dimostra anche una profonda conoscenza dei propri diritti ed una forte determinazione a rivendicarli, lottare per ottenerli e costruirli nella pratica quotidiana. In questi mesi si sta preparando, secondo le dichiarazioni del Commissario per il Dialogo con i Popoli Indigeni Jaime Martínez Veloz, una “iniziativa di gran profondità” che dovrebbe riprendere gli Accordi di San Andrés ed armonizzare, in termini di diritti indigeni, la legislazione messicana con i trattati internazionali. Perché tale iniziativa non sia, come d’abitudine, solamente cosmetica, sarà fondamentale il riconoscimento pieno del diritto e delle pratiche di autonomia. In tal dibattito, ciò che si racconta e si denuncia in Raíces de Nuestra Justicia dovrebbe occupare le autorità riguardo all’urgenza non solamente di rispettare, finalmente, gli

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Accordi di San Andrés ma anche di combattere la corruzione, l’ignoranza ed il razzismo che caratterizzano il sistema giudiziario in tutto il Messico e che, senza dubbio, rappresentano per i popoli indigeni il principale ostacolo all’esercizio del proprio diritto alla giustizia. Il documentario completo è disponibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?=IZO7UW uDT0M e la versione corta (8 min.) all’indirizzo: https:// www.youtube.com/watch?v=vCB1gpg-0C0. (G. Gasparello)

Franco Cardini, In Terrasanta; pellegrini fra medioevo e prima età moderna, Bologna, Società Editrice il Mulino, 2007, p. 544 Il testo di Cardini espone dettagliatamente il senso del viaggio come percorso individuale e collettivo, interiore ed esteriore, che termina col raggiungimento di una meta. I pellegrinaggi cristiani verso la Terrasanta, in epoca medievale, vedono al centro la figura del pellegrino; colui che è caratterizzato dallo “status viatoris”, e raccoglie le sue memorie di volta in volta per realizzarne una cronaca. I viaggi cristiani affondano le loro radici almeno in due tradizioni differenti; la aliyah ebraica (la salita verso Gerusalemme) e il viaggio greco-romano al santuario. Durante gli spostamenti nella Terrasanta, il pellegrino poté servirsi di sostanze oniropoietiche per enfatizzare attraverso la percezione dei sensi il contatto con gli elementi sacri. La prima spedizione massiccia di pellegrini diretti in Terrasanta avvenne sotto Costantino, periodo storico in cui fu consentito praticare liberamente il culto cristiano. Tali viaggiatori, che partivano ogni anno, erano spronati da una curiosità devozionale, lo stesso spirito con cui si muovevano a caccia di reliquie nelle “cerche”. Tale periodo vide il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli; quindi la dislocazione dell’interesse culturale collettivo sulla zona delle coste asiatiche del Mediterraneo – che congiuntamente all’area geografica orientale, all’epoca dominata dall’impero romano –, era una zona ricca di tradizioni. Sorse, così, un nuovo genere letterario detto memorialistico, tecnicamente formato dalle cronache sugli Itineraria in Terrasanta. Il “peregrino”, che al ritorno del viaggio recava con sé reliquie di ogni tipo, diveniva incettatore di pignora sacra; costui si serviva delle memorie di viaggio di altri pellegrini per ottenere le indicazioni sulle distanze da percorrere e le città in cui fermarsi. Il primo racconto di viaggio ci è pervenuto dall’anonimo di Bordeaux: si tratta dell’itinerario burdigalense, e narra dei percorsi palestinesi, ripercorrendo le memorie del Cristo attraverso l’excursus nei

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luoghi sacri. Cardini sottolinea come i pellegrinaggi cristiani abbiano gettato le basi per la istituzione del modello moderno di città-santuario diffusosi a Roma e in Oriente. Tuttavia, a ridosso dei secoli VII e X Roma e Gerusalemme sperimentarono una fase di crisi, e la pratica del pellegrinaggio fu riformulata. Il primo pellegrinaggio di cui si hanno memorie è di Santo Brasca (funzionario ducale di Milano, e ambasciatore di Ludovico il Moro) che s’imbarcò su una nave partita da Venezia verso Gerusalemme. A questa spedizione parteciparono molti fra artigiani e mercanti. Sembra che il Brasca fosse stato guidato nelle “cerche” dai francescani del Sion, osservando da vicino i costumi dei valligiani fra l’aprile e il novembre 1480. Con l’utilizzo da parte dei viaggiatori di determinate vesti di viaggio, delle quali il Brasca fa dettagliata descrizione ne Les Mémoires du Voyage, si rafforza l’idea del viaggio medievale come esperienza umana mistico-liturgica, praticata anche nel contesto musulmano, che in quel periodo, aveva dato avvio ad un processo di pacificazione col mondo cristiano. Cardini evidenzia, inoltre, come la narrazione delle memorie di viaggio fosse dipesa soprattutto dal livello di preparazione del pellegrino. Il periodo delle partenze variava da aprile all’inizio dell’autunno, ma il viaggio completo era suddiviso in fasi distinte, ognuna relativa alla propria marcia, dal luogo di origine al luogo d’imbarco, o dalla marcia attraverso il mare verso la Terrasanta, oppure dalla rotta del Mar di Levante alle coste italiche. Le imbarcazioni, o più propriamente galee, di proprietà dei pirati erano alternate alla Pola, nave dalla forma tondeggiante con capacità di trasporto di sessanta uomini fra balestrieri e marinai. Mentre la galea, che aveva sostituito la trireme romana, era veloce e di legno sottile, come si evince dal termine di derivazione greco-bizantina e significa pesce spada, per il richiamo al numero cospicuo di remi, e per la forma oblunga. Santo Brasca rimase in Terrasanta per circa venti giorni, e riuscì a rientrare in Italia nello stesso anno, poco prima che cominciasse l’autunno, facendo tappa a Giaffa il venti luglio e dopo circa otto giorni a Gerusalemme, infine a Betlemme verso il Giordano e la Betania. L’analisi di Cardini sul fenomeno dei viaggi mistici come manifestazioni della realtà è rivolta anche agli aspetti materiali, quindi, agli itineraria commerciali lungo la Costa orientale del Sinai, del mercato indiano di per sé florido, produttore ed esportatore di stoffe pregiate e tessuti. Nei documenti del XIII secolo lasciatici dal da Uzzano è evidente che dall’Italia del Nord partissero continue esportazioni di tessuti. L’equipaggiamento e il vestiario tardo trecentesco del pellegrino era costituito dalla veste, il bordone, e la bisaccia come mostrano le stampe sui documenti: “Ch’el porta due borse seco, una

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ben piena de patientia, l’altra che habia ducento ducati venetiani”. Nessun accenno da parte sua circa i periodi di pestilenza più frequenti e temuti dai viaggiatori a causa delle condizioni precarie tipiche del viaggio. Gli scritti sulle esperienze di viaggio erano tanto più dettagliati quanto maggiore era la cultura del viaggiatore, e variavano in base alle disponibilità economiche, da cui la possibilità di navigare su imbarcazioni più confortevoli e veloci, o fermarsi lungo il percorso su più tappe. Le reliquie provenienti dall’Occidente erano associate soltanto alle notizie che i viaggiatori diffondevano di esse. La Santa Croce assieme alla corona di spine era ancora considerata fra le reliquie la principale, mentre ai riti e alle icone sacre venivano conferiti poteri di operare miracoli, come la tradizione di immergersi nelle acque del Giordano per guarire dalle malattie. Dopo aver percorso il libro a tappe, quasi come fosse un viaggio, fra le pagine è possibile avere una visione d’insieme, tale per cui l’autore ha inquadrato il pellegrinaggio non solo come fenomeno di massa relativo ai credi religiosi, ma come espressione individuale e trasversale di fede. In particolar modo, come riportato dal San Severino nelle sue memorie: “Tuti li mori turchi et che tengono la lege di Machometo, hano prima per loro principale chiesa il templio di Salomone che è in Ierusalem, et Sancto Abram et La Mecha, tuti sono ubligati visitare ognuno de questi predicti lochi almancho tre volte”. Nella visione prospettica della concezione medievale il credente musulmano era visto come un cristiano capovolto, che aveva abbandonato la fede cristiana, dalla quale si era sentito rinnegato. La presenza musulmana in Spagna, infatti, frenava l’identificazione occidentale con la Cristianità: nozione, questa, scomoda per i cristiani stessi. Concludendo, dal saggio emerge che ai viaggi medievali di carattere sacro era propria un’ambivalenza di fondo (collettiva e individuale); il senso del fenomeno di massa era espresso in termini di spostamento pratico, che portava, quindi, gli uomini a viaggiare sulle navi in maniera collettiva, mentre, il senso dell’individualismo era connesso alla descrizione dei luoghi sacri, che veniva affrontata in maniera soggettiva, in modo tale che ciascun pellegrino potesse fotografare in funzione della sua anima il luogo e trasmetterne l’immagine che sentiva propria. Questa modalità di approccio al culto ha gettato le basi per il consolidamento del sapere cristiano in Europa, un sapere che di lì a poco sarebbe divenuto predominante, sebbene portasse ancora tracce di paganesimo. Di fatto, esso ha svolto una funzione essenziale nella costruzione della sfera politica religiosa, economica, militare e amministrativa medievale. (O. Paesano)

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Notiziario Libri/Eventi Un convegno e una iniziativa per la maschera di Pulcinella A Laurino si è svolto il 19 settembre 2014 il Convegno “Il Burlone Divino”, organizzato dal Comitato promotore per la valorizzazione della maschera di Pulcinella come bene immateriale dell’umanità. L’incontro è servito a illustrare le motivazioni che hanno spinto gli ideatori dell’iniziativa a creare le condizioni per sostenere la candidatura della maschera come bene immateriale dell’umanità riconosciuto e protetto dall’UNESCO. Il Convegno è stato curato da Domenico Scafoglio, già ordinario di Antropologia all’Università di Salerno, la psicologa Sandra Maragno, Amministratore della SeleFor, Simona De Luna, ordinaria di Antropologia, direttrice del Laboratorio antropologico dell’Università di Salerno. Figura universale e al tempo stesso incarnazione etnica, campana ma anche italiana e perfino mediterranea ed europea, di un grande archetipo culturale presente in analoghe forme su scala pnetaria, Pulcinella nella sua storia plurisecolare ha trovato la sua comunità d’origine e d’elezione in Napoli e nella Campania, che per questa ragione – in sintonia con quanto richiesto dal regolamento UNESCO per l’individuazione e il riconoscimento delle “comunità prototipo” abilitate a sostenere le candidature – hanno tutte le caratteristiche per diventare titolari dell’importante iniziativa. Presente in quasi tutti i generi teatrali tradizionali popolari, semipopolari e colti – la Commedia dell’Arte, la Commedia “ridicolosa”, il teatro delle maschere, l’opera buffa, il teatro di figura, il balletto, il teatro di strada e così via – Pulcinella è stato ed è ancora una figura centrale del Carnevale, con straordinarie varianti locali, nelle quali si è espressa per secoli la creatività e l’identità del genius loci; è diventato un tema letterario e musicale, attraverso cui la comunità elettiva ha riflettuto sui grandi temi della vita, della morte, dell’amore, con ironia e filosofia, trasgressione e saggezza. La maschera ha assunto nel tempo le caratteristica delle figure totemiche, radicandosi profondamente negli usi e nelle tradizioni culturali, religiose e magiche del territorio, dove è tuttora presente come folklore vivente, dotato di una vitalità tutt’altro che “residuale”. Come si legge nel comunicato che presenta l’iniziativa, la comprensione di Pulcinella presenta tutte la complessità dei fenomeni solo apparentemente semplici: alcuni dei personaggi più importanti della cultura occidentale, come Goethe, Kerenij, Jung, Lacan, a questa maschera hanno dedicato pagine che hanno fatto luce sullo spessore che la risata pulcinellesca nasconde e rivela: con qualche esagerazione, Alessandro Fontana ha scritto che Cristo e Pulcinella, spesso associati nelle rappresentazioni e nelle narrazioni, “appaiono come le figure costitutive della scena simbolica italiana, allo stesso modo in cui Dioniso e Apollo, secondo Nietzsche, lo erano per la scena greca”. Questi ed altri temi sono stati oggetto di discussione nel Convegno di Laurino con interventi di Scafoglio e De Luna, insieme a Antonio Fava, uno dei protagonisti del revival della Commedia dell’Arte: temi che si sono intrecciati con la discussione – avviata e approfondita da Annamaria Amitrano, ordinaria di antropologia all’Università di Palermo – sui risvolti economici e sugli effetti positivi che potrà avere la valorizzazione della maschera come bene culturale sull’immagine e sulla promozione del territorio.

Congresso Internazionale a Morelia sulle Poéticas de la Oralidad Dall’1 al 4 giugno 2014 nella sede dell’UNAM ENES di Morelia si è svolto il primo convegno internazionale su Poéticas de la oralidad. Questo il vasto e ricco programma delle attività: Inauguración, con Ken Oyama, Mariana Masera, Berenice Granados, Santiago Cortés y Lori Garner; Conferencia inaugurale, Martin Lienhard (Universidad de Zurich) “La performance oral, los contextos y el cine”, presenta Ken Oyama Prima sessione: Palabra y memoria, modera Santiago Cortés. Interventi di Carlos Huamán (Centro de investigaciones sobre América Latina y el Caribe, UNAM) “Oralidad y memoria en la poesía cantada del mundo andino perua-

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no contemporáneo”; Eliana Acosta (DEAS-INAH) “El lugar del tiempo. Apuntes desde la etnografía sobre el vínculo entre palabra, voz y memoria”; María del Carmen Díaz Vázquez (Universidad Autónoma de la Ciudad de México) “Oralidad y memoria en el relato autobiográfico”; Daniel Gutiérrez Rojas (El Colegio de México) “Oralidad y transmisión de conocimientos”; Juan Manuel Mendoza (Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo) “Historia oral y reflexividad. Tres testimonios de la historia agraria uruapense”; Andréa Betânia da Silva (Universidade Federal da Bahia) “Entre acordes de viola e fios da memória: a cantoria de improviso brasileira e seu caráter”. Seconda sessione: La palabra y su función social, modera Caterina Camastra. Interventi di Luciana Hartmann (Universidad de Brasilia) “Miedo y encanto en narrativas orales contadas por niños”; Ana Zarina Palafox Méndez (Becaria del FONCA) “La mujer y la décima: introspección, autoconocimiento y sonoridad”; Miguel Nenevé y Simone de Souza Lima (UFAC y UNIR) “Descolonizar a língua portuguesa – uma leitura da oralidade e da memoria em Mia Couto”; Martha Itzel Pineda Vázquez (Academia Mexicana de la Lengua) “Cantos de sanación de lo sagrado femenino”; Olivier Le Guen (CIESAS) “La poética cotidiana del maaya t’aan. El uso de la morfología expresiva en maya yucateco”; César Hernández Azuara (Universidad Iberoamericana) “La comida tradicional en las coplas del son huasteco como parte de su identidad”. Lezione magistrale: José Manuel Pedrosa (Universidad de Alcalá de Henares) “Poéticas de la oralidad”; presenta Claudia Carranza. Terza sessione: Gesto e imagen, modera Olivier Le Guen. Interventi di Carolina Odone Correa (Pontificia Universidad Católica de Chile) “San Antonio, desde los retablos de las capillas de San Pedro Estación (Cuenca San Pedro-Inacaliri, II Región, Antofagasta, Chile)”; Mercedes Martínez González (ENES Morelia, UNAM) “Oigo y veo, luego proyecto. La importancia de la etnografía en el proceso de diseño”; Martha Ribeiro (Universidade Federal Fluminense) “Memória, experiência e ritual no trabalho do performer: o workcenter de Grotowski e Thomas Richards”; Edilene Diaz Matos (Universidade Federal da Bahia) “Corpo e voz: teatralidade das poéticas orais”; José Alfredo López Jiménez (CIESAS, Sureste) “Entre gestos y narraciones tzotziles de pistik”; Ilia Alvarado Sizzo (ENES Morelia, UNAM) “La hacienda y el ejido en el imaginario popular de Nueva Italia”; Proyección de video documental Unas mujeres que décimas dicen Ana Zarina Palafox (FONCA). Secondo giorno: Lezione magistrale Aurelio González (El Colegio de México) “La oralidad, conservación y variación poética en la tradición oral”, presenta Cecilia López Ridaura. Prima sessione: Fiesta, música y danza, modera Claudia Carranza. Interventi di Jorge Amós Martínez Ayala (Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo) “Cuadros de castas en coplas cantadas. Los estereotipos raciales en la lírica tradicional de la Tierra Caliente”; Grissel Gómez Estrada (Universidad de la Ciudad de México) “Tres versiones de la chilena que se llama La malagueña curreña”; Miriam R. Torres Carrillo (Facultad de Filosofía y Letras, UNAM) “La oralidad en la obra de Jack Kerouac y su traslado a la música popular”; Agustín Rodríguez Hernández (ITESM Campus León) “La controversia de este siglo: Yeray y Pimienta a ritmo de arribeño”; Leidys Estela Torres Samudio (Universidad de Chiriquí, Panamá) “Tradición y presente de la décima cantada en Panamá”; Raúl Eduardo González (Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo) “Los estribillos en las canciones folclóricas”. Seconda sessione: Artes verbales en medios masivos, modera Raúl Eduardo González. Interventi di Rodrigo Bazán Bonfil (Universidad Autónoma del Estado de Morelos) “Poeticantológica: lírica popular, medios masivos y mecanismos de consagración”; Raúl Casamadrid (Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo) “Verosimilitud y variación en los diálogos del cine de oro mexicano (1948-1954)”; Tania Espinales Correa (Universidad Nacional Autónoma de México) “Las formas del humor en las canciones de Chava Flores Artes verbales en medios masivos de comunicación”; Claudia Carranza Vera (El Colegio de San Luis) “La risa en la red. Reflexiones en torno a la narrativa oral que circula en la web”; Martha Isabel Ramírez González (El Colegio de San Luis) “El motivo del baile con el diablo: su presencia en un contexto multimediático de transmisión”. Lezione magistrale: Gloria Chicote (Universidad de La Plata, Argentina) “La literatura popular en Iberoamérica: de la tradición a la globalización”; presenta Mariana Masera. Presentación de proyectos de investigación; modera Edith Negrín. Interventi di Proyecto Vanegas Arroyo (Instituto de Investigaciones Filológicas, UNAM) Grecia Monroy (Facultad de Filosofía y Letras, UNAM), “Impresos y poéticas populares”; Mariana Masera, Briseida Castro (ENES Morelia / Facultad de Filosofía y Letras, UNAM), Crónica de un hallazgo y sus viscisitudes”; Rafael Bolívar y Adrián Olvera Hernández (Facultad de filosofía y Letras, UNAM), “Base de datos y portal electrónico”. Terza sessione: Escritura y oralidad, modera Bernardo Pérez. Interventi di José Alejos García (Instituto de Investigaciones Filológicas, UNAM) “Estética de la literatura oral indígena”; Marcelo Alejandro Garrido Monroy (Universidad Católica de Temuco, Chile) “La historia de un caballo muerto bajo la lluvia que no interesó a nadie”: la oralidad como memoria absoluta y precaria en El auriga Tristán Cardenilla de Alfonso Alcalde”; Luz María Lepe (Universidad

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Autónoma de Querétaro) “Oralidad/Oralitura. Relaciones de la voz con la escritura en la literatura indígena”; Raquel Iglesias Plaza (Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo) “Intertextos de canciones tradicionales infantiles en la novela El circo que se perdió en el desierto de Sonora, de Miguel Méndez”; Anastasia Krutitskaya (ENES Morelia, UNAM) “La Oración del Santo Sepulcro en la Nueva España del siglo XVII”; Lilia Álvarez (El Colegio de San Luis) “La leyenda del juego de barras o la leyenda del juego de las varas: relaciones entre relatos populares inquisitoriales y registros orales del Valle de San Francisco, S.L.P”. Terzo giorno: lezione magistrale Alfredo López Austin (Instituto de Investigaciones Antropológicas, UNAM) “El género mítico en el contexto literario mesoamericano”, presenta Berenice Granados. Prima sessione in Cosmovisiones: modera Sue Meneses Eternod. Interventi di Michela Craveri (Universidad Católica de Milán) “Cuenta la escritura de la cueva, la escritura de la barranca de Tulan: oralidad y poesía en los títulos de tierra del área k’iche’”; Danieli dos Santos Pimentel (Pontificia Universidade Católica do Río Grande do Sul) “O mito da Cabeça voadora no imaginário de povos indígenas da Amazônia”; Berenice Granados (ENES Morelia, UNAM), “‘Nosotros lo sembramos de nuevo’: aproximación a las caras de la muerte en la tradición oral purépecha”; Víctor Hernández Vaca (Universidad de la Ciénega) “Kuatsokoro: el arpa náhuatl huasteca como soporte de la palabra, la música y la danza”; Ignacio Silva Cruz (Facultad de Filosofía y Letras, UNAM) “Huehuetlahtolli: la “palabra antigua” en Diego Durán y Alvarado Tezozómoc”; Danira López Torres (El Colegio de San Luis) “Pecado y desorden: confesión o muerte mediante rezos y velas negras”. Seconda sessione: Formas rituales, modera Martin Lienhard. Interventi di Cecilia Jaime González (Facultad de Filosofía y Letras, UNAM) “El deseo de lanzarse al mar por amor… Un ritual que permanece”; Jahzeel Aguilera Lara (ENES Morelia, UNAM) “El ciclo ritual y la narrativa tradicional en la comunidad nahua de Acatlán, Guerrero”; Gloria de Jesús Rosas (UIIM), Sue Meneses Eternod (ENES Morelia, UNAM) “Discursos ceremoniales de la boda purépecha en Cuanajo”; Alejandro Martínez de la Rosa (Universidad de Guanajuato, Campus León) “Los parabienes. Tradición, palabra y música para despedir angelitos”; María del Carmen Orihuela Gallardo (Posgrado en Estudios Mesoamericanos, FFyL, UNAM) “La palabra como cuerpo de seres de viento. Discurso ritual de los mayas de Nunkiní, Campeche”; Renzo Aroni Sulca (Universidad de Davis, CA) “Carnaval de Accomarca: música, canto y memoria de una masacre en el Perú”. Lezione magistrale: Gonzalo Espino Relucé (Universidad Nacional Mayor de San Marcos, Perú) “Willlanakuy willanakuy kasqan/ Cuento es cuento”, presenta Luz María Lepe Presentación de proyectos de investigación, modera Víctor Hernández Vaca. DARP: un prototipo digital para la presentación de poesía ritual (INAH) di Ernesto Miranda; Laboratorio de Materiales Orales (ENES Morelia, UNAM) di Santiago Cortés y Berenice Granados; Oralidad y escritura. Experiencias desde la literatura indígena (Universidad Autónoma de Querétaro) di Luz María Lepe. Quarto giorno: Presentación de proyectos de investigación. Prima sessione: modera Michela Craveri, Estudios del wixárika o huichol (Departamento de Estudios en Lenguas Indígenas, Universidad de Guadalajara); Interventi di Paula Gómez López, “Intuiciones sobre oralidad y escrituralidad de hablantes de wixárika”; Julio Ramírez de la Cruz, “La crónica histórica en la cultura huichola”; José Luis Iturrioz Leza, “La escrituralidad antes de la escritura”; Corpus Michoacano del Español (Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo / Universidad de Guadalajara); Bernardo Pérez Álvarez (UMSNH),“Aportes metodológicos de un corpus oral en lingüística”; Susana León Ambriz (UMSNH), “Consideraciones lingüísticas para el análisis de narraciones orales: Conversaciones con ex braceros”; Gabriela Patiño Sánchez (U. de G.), “Gramática y oralidad: el uso de quedar(se) en la oralidad”. Lezione magistrale: Domenico Scafoglio (Università di Salerno) “Antropología y literatura escrita y oral: cuestiones teóricas y de método”; presenta Caterina Camastra. Seconda sessione: Presentación etnopoética, modera Enrique Flores. Interventi di Dennis Tedlock (State University of New York at Buffalo) “Sonidos y silencios en los cuentos orales”; Serge Pey (Poeta) “Performance etnopoética”. “Ethnologie française” (ottobre 2014) sull’ “Ethnologie du littéraire” La nota rivista francese pubblica negli atti del convegno di Metz dedicato ai rapporti tra l’antropologia e la letteratura gli interventi di J.-M. Privat, L.F. Fournier, D. Scafoglio, M. Chapdelaine, A. Lesne, G. Bois, A. Kéfa, S. Menard, M.-C. Vinson, M. Scarpa, A.D. Alter, M.N. Craith, U. Hockel. Questo l’annonce, curata dalla redazione, dell’iniziativa: “Entre l’ethnologie et la littérature les relations sont multiples: expressions littéraires dans la société, production, médiation et réception des textes, univers symboliques et rhétoriques propres aux cultures. Une ethnologie du littéraire,

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uaderni

c’est aussi l’étude des manifestations publiques définissant «la chose littéraire» au sein de micro-univers sociaux et symboliques. Ce numéro traite du rôle des oralités lettrées, exprimées à l’occasion de salons du livre, de soirées conteuses et de réappropriations festives locales de héros littéraires. Si Ethnologie française a publié de nombreux travaux sur la littérature, c’était le plus souvent à propos de corpus à dominante de littérature orale. Cette livraison étend le champ à l’analyse ethnocritique de la modernité littéraire. L’ethnocritique s’intéresse aux jeux incessants à l’œuvre dans le texte entre des formes plus ou moins hétérogènes de cultures orale et écrite, folklorique et officielle, religieuse et profane, féminine et masculine, légitime et illégitime, endogène et exogène, attestée et inventée, etc. Il s’agit d’une démarche critique en devenir et ce numéro s’aventure ainsi à explorer les systèmes ethno-sémiotiques de grands textes littéraires, la poésie de Baudelaire, le théâtre de Koltès, le roman (Flaubert, Comtesse de Ségur, Hélène Cixous). Enfin, le numéro propose une dimension comparative pour cartographier les relations institutionnelles, scientifiques et symboliques que différents pays établissent entre études culturelles et études littéraires, révélant l’image particulière que chaque pays (et chaque langue) conçoit de sa propre littérature.

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