Pedro de Salazar, Historia de la guerra y presa de África

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Descripción

Università degli studi di Napoli

HISTORIA DE LA GUERRA Y PRESA DE ÁFRICA

UNIOR

Pedro de Salazar

HISTORIA DE LA GUERRA Y PRESA DE ÁFRICA

Edizione e introduzione a cura di

Marco Federici

“L’Orientale”

ISBN 978–88–6719–109–3

Napoli 2015

Napoli 2015

UNIOR

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”

HISTORIA DE LA GUERRA Y PRESA DE ÁFRICA

Pedro de Salazar

ISBN 978–88–6719–109–3

NAPOLI 2015

HISTORIA DE LA GUERRA Y PRESA DE ÁFRICA Edizione e introduzione a cura di

Marco Federici

NAPOLI 2015

PUBBLICAZIONI DELLA SEZIONE ROMANZA DIPARTIMENTO DI STUDI LETTERARI, LINGUISTICI E COMPARATI UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”

TESTI - VOLUME XIII

In copertina: Frontespizio della Historia de la guerra y presa de Africa, BNN – S. Q. LVI 6

Proprietà letteraria riservata © Università degli studi di Napoli “L’Orientale” Napoli 2015 Tutti i diritti di riproduzione sono riservati. Sono pertanto vietate la conservazione in sistemi reperimento dati e la riproduzione o la trasmissione anche parziale, in qualsiasi forma e mezzo (elettronico, meccanico, incluse fotocopie e registrazioni) senza il previo consenso scritto dell’editore.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”

Pedro de Salazar

HISTORIA DE LA GUERRA Y PRESA DE ÁFRICA Edizione e introduzione a cura di MARCO FEDERICI

NAPOLI 2015

A Josephine e a Carlotta

INDICE Nota introduttiva.......................................................................................... ix 1. La storiografia in area ispano-napoletana della prima metà del Cinquecento ............................................................................................ xi 1.1 La storiografia in lingua spagnola sul Nordafrica ........................ xxiv 1.2 La Historia al centro di un secolo di storiografia napoletana........ xxxiv 2. La Historia di Salazar nella Napoli del viceré Toledo ........................ xli 2.1 La figura di Pedro de Salazar ........................................................ xlix 2.2 Struttura e aspetti materiali della Historia ...................................... lix 2.3 La lingua ..................................................................................... lxxix 2.4 Il tipografo Mattia Cancer ......................................................... lxxxvi 2.5 La Historia di Medina del Campo ................................................... xc 3. Edizione ...............................................................................................xcvii 3.1 Criteri di edizione ...................................................................... xcviii Bibliografia .................................................................................................... ci Testo ................................................................................................................1

NOTA INTRODUTTIVA Questo volume è offerto a conclusione dell’assegno di ricerca Libri a stampa in lingua spagnola nella Napoli di Carlo V: genere storico e propaganda imperiale, svolto per il Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nella parte introduttiva alcuni capitoli rappresentano un aggiornamento di quanto anticipato in contributi differenti: si tratta della biografia di Pedro de Salazar1 e della sezione sugli aspetti materiali e sulla struttura dell’opera di cui si offre l’edizione2. Sono state utilizzate le seguenti abbreviazioni: Autoridades BBM BBR BCR

Real Academia Española, Diccionario de Autoridades, ed. facsimile Fernando del Hierro (1737), Madrid, Gredos, 1963. Biblioteca Bavarese, Monaco di Baviera Biblioteca de Reserva (CRAI), Barcelona Biblioteca Casanatense, Roma

1 Marco Federici, “Appunti sulla figura e sull’opera di Pedro de Salazar: storiografo, cronista e novelliere al tempo di Carlo V e Filippo II”, Annali dell’Università di Napoli L’Orientale – Sezione Romanza, LIV, 2, 2012, pp. 123-132. Altri documenti sul periodo napoletano delo storiografo sono stati anticipati nella mia comunicazione “Pedro de Salazar y la historiografía en la Nápoles del virrey Toledo” presentata al convegno internazionale Rinascimento meridionale. Napoli e il viceré Pedro de Toledo (1532-1553), diretto da Encarnación Sánchez García (Napoli-Pozzuoli, Universitá degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 22-25 ottobre 2014), il cui volume è attualmente in corso di stampa. 2 Marco Federici, “Corsari del Mediterraneo e viceré d’Italia: la Historia de la guerra y presa de Africa di Pedro de Salazar (Napoli, Mattia Cancer, 1552)”, in Encarnación Sánchez García (dir.), Lingua spagnola e cultura ispanica a Napoli fra Rinascimento e Barocco: testimonianze a stampa, Pironti, Napoli, 2013, pp. 63-82.

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Nota introduttiva

BHUC BHV BNCR BNE BNN BPLM BPP BPR BUSa DBE DBI DRAE EDISNA Edit16 FLG NTLE

RAE RAH

Biblioteca Histórica de la Universidad Complutense, Madrid Biblioteca Histórica de la Universidad de Valencia Biblioteca Nazionale Centrale di Roma Biblioteca Nacional de España, Madrid Biblioteca Nazionale di Napoli Biblioteca Pública Lambert Mata, Girona Biblioteca Palatina, Parma Biblioteca de Palacio Real, Madrid Biblioteca Universitaria di Sassari Diccionario Biográfico Español, Madrid, RAH. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Diccionario de la Real Academia Española (www.rae.es) Editoria Ispanica a Napoli (http://ispanica.unior.it) Censimento Nazionale delle Edizioni Italiane del XVI secolo (http://edit16.iccu.sbn.it). Fundación Lázaro Galdiano, Madrid Lido Nieto Jiménez, Manuel Alvar Ezquerra (a cura di), Nuevo tesoro lexicográfico del español (S. XIV-1726), Madrid, Arco Libros, 2007, 11 voll. Real Academia Española Real Academia de la Historia

*** Devo la pubblicazione di questo lavoro alla direzione scientifica della prof.ssa Encarnación Sánchez García, che ringrazio. Sono grato anche a José Solís de los Santos, per il fitto e reciproco scambio di informazioni e per avermi permesso di consultare alcuni suoi contributi su P. de Salazar e J. Ginés de Sepúlveda, al tempo ancora inediti. Un grazie anche a Norbert von Prellwitz, critico imparziale e disponibile. Per l’aiuto nell’interpretazione dei lessemi di origine araba è stato decisivo il supporto del prof. Giovanni Canova; al prof. Carlo José Hernando Sánchez devo la generosa cessione di preziosi documenti su Salazar. Ringrazio Roberto Mondola, Laura Rodríguez Fernández, Maite García Langa e Matías Hidalgo Gallardo per la condivisione di un ottimo ambiente di lavoro; a Maria e Leandro devo invece la gentile ospitalità. Ringrazio Enzo Cipullo, paziente e professionale. In ultimo, un grazie anche a Carlotta e a Josephine: a entrambe dedico questo volume.

1. LA STORIOGRAFIA IN AREA ISPANO-NAPOLETANA DELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO Nella transizione dal Regno aragonese (1494-1503) alla Corona di Spagna, a Napoli si identifica un rafforzamento nella “produzione di testi memorialistici e cronachistici in volgare che già in età durazzesca si era segnalata come uno dei settori di maggiore interesse della produzione in volgare”1. Nel passaggio di secolo la stampa partenopea soffrì un graduale declino, che la portò allo stallo tra il 1500 e il 15022. Pertanto il 1503 è una data chiave anche per la ripresa dell’attività tipografica3; la stampa cinquecentesca napoletana riprenderà la vocazione ufficiale dell’età aragonese, e sarà anch’essa strumento di diffusione scelto dal potere per trasmettere un’immagine gloriosa di se stesso.

1 Chiara De Caprio, Scrivere la storia a Napoli tra Medioevo e prima Età Moderna, Salerno, Roma, 2012, p. 72. 2 Tobia R. Toscano, “Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi viuda: Carlo V nell’editoria napoletana di primo Cinquecento tra elezione all’Impero e rivolta del 1547”, in Sánchez García (dir.), Lingua spagnola e cultura ispanica a Napoli, cit., p. 35. 3 Ivi, pp. 35-36: “La ripresa, a partire dal 1503, fu lenta e stentata e il caso volle fosse inaugurata il 26 gennaio da un’edizione pirata dell’Arcadia di Sannazaro. Non mancheranno impennate produttive in alcuni anni particolari, ma il ruolo di Napoli, nel quadro della tipografia cinquecentina italiana, appare decisamente marginale. E tuttavia Napoli offriva tutte le condizioni indispensabili per attrarre e rendere stabili le officine tipografiche. Sebbene fosse venuta meno la dinastia aragonese, rimaneva pur sempre una nobiltà di alto rango, gli Acquaviva e gli Avalos soprattutto, che non di rado appare committente diretta o indiretta di alcune imprese editoriali, senza dimenticare le potenzialità connesse ai centri del potere religioso, la curia arcivescovile in primis e i numerosi insediamenti monastici, e della cultura accademica e universitaria”.

1. La storiografia in area ispano-napoletana …

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I testi di genere storico apparsi in questo primo cinquantennio si possono dividere in tre gruppi: il più numeroso è quello delle opere in latino (13)4, seguito da quello di edizioni in volgare (10)5; il terzo è composto da una sola opera in castigliano di Pedro de Salazar del 15486. La storiografia partenopea del Cinquecento si apre con due opere del Cantalicio e del Pontano, entrambe in latino e stampate da Sigismondo Mayr: si tratta rispettivamente del De bis recepta Parthenope (1506) e del De bello Neapolitano (1509). Il testo del Cantalicio avvia un movimento editoriale incentrato sulla figura del Gran Capitán Gonzalo Fernández de Córdoba, eroe celebrato anche nel secolo successivo tramite biografie, poemi epici e cronache. Cantalicio è il primo autore che dedica un intero poema epico alla figura del Gran Capitán, illustrandone le gesta in Italia e concedendo centralità a questo eroe contemporaneo7. L’opera ebbe una comprovata fortuna editoriale, e sembrerebbe aver rappresentato un modello anche al di fuori dei confini del Regno8. 4

Giovanni Battista Cantalicio (1506); Giovanni Pontano (1509); Belisario Acquaviva D’Aragona (1519); Manilio Carbacio Rallo (1520); Camillo Querno (1529); Pietro Gravina (1532); Girolamo Borgia (1535); Giovanni Francesco Giorgi (1536); Niccolò Salerno (1536); Girolamo Borgia (1536); Girolamo Borgia (1538); Antonio Capece (1538); Alfonso Alvares Guerreiro (1543). 5 Paride Dal Pozzo (1518); Libro overo cronica de tutte le cose passate de Italia (1518); Girolamo Britonio (1519); Daniel Perosino (1522), due edizioni; Girolamo Britonio (1525); Chroniche de la inclyta cità de Napole (1526); Giovanni Domenico Lega (1535); Pompeo Bilintani (1536); Copia de la lettera di sua maiestà (1544); Copia d’una lettra venuta d’Affrica (1550). 6 Si esclude Francisco de Pedrosa, Arte y suplimento militar (Giovanni Sultzbach, Napoli, 1541) poiché non si tratta di un’opera di genere propriamente storico. Si esclude anche la Historia de la guerra y presa de Africa di Salazar, pubblicata in questa sede, poiché stampata nella seconda metà del secolo (1552). 7 Sul mito di Gonzalo Fernández de Córdoba cfr. Encarnación Sánchez García, Imprenta y cultura en la Nápoles virreinal: los signos de la presencia española, Alinea, Firenze, 2007, pp. 19-42 e Id, “El mito del Gran Capitán en edad carolina: de Hernán Pérez del Pulgar a Paolo Giovio”, in Encarnación Sánchez García et al., Fra Italia e Spagna. Napoli crocevia di culture durante il vicereame, Liguori, Napoli, 2011, pp. 151-179. Sullo stesso argomento si ha notizia di un altro testo, di Fray Bernardo de Gentile: De rebus gestis Fernandi di Cordoba, di cui però non si conoscono i dati tipografici, citato da Richard L. Kagan, Los Cronistas y la Corona. La política de la Historia en España en las Edades Media y Moderna, trad. di P. Sánchez León, Marcial Pons, Madrid, 2010, p. 111, nota 44. Titolo originale Clio and the Crown: The Politics of History in Medieval and Early Modern Spain, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2009. 8 Sánchez García, Imprenta y cultura, cit., p. 28: “El primero en seguir la horma de Cantalicio es Alonso Hernández, protonotario de la Santa Sede, que escribe en Roma su Historia parthenopea, poema en coplas de arte mayor en estrofas de ocho versos a la manera de Juan de Mena dedicado enteramente al “loor” –como reza el título– de Gonzalo Fernández. Su

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Riguardo all’opera del Pontano, il De bello Neapolitano si compone di sei libri organizzati secondo il modello annalistico di Livio: l’argomento è la Congiura dei Baroni sotto il regno di Ferrante I d’Aragona9. L’autore (morto nel 1503) che portava con sé un’eredità aragonese in cui, durante il regno di Alfonso, la letteratura in castigliano godeva di un certo prestigio, dimostrava “assoluta predilezione per il latino”10. Questa preferenza si deve probabilmente alla perdita di validità del volgare napoletano, rispetto al latino o al toscano, al di fuori dei confini del Regno11. Un contributo riguardo alla storiografia proviene invece dall’Actius (1499), in cui si delineano le qualità peculiari della poesia e della storia: per definirsi tale, il poeta deve sucitare la admiratio; la storia deve al contrario perseguire la veritas12. In un momento in cui la tradizione storiografica aragonese è ancora dominante, il Pontano assume il ruolo di teorico della scrittura e di mediatore tra i due secoli, distinguendo e definendo la composizione poetica da quella storica. Tuttavia Pedìo ne sottolinea la parziale documentazione, affermando che nella composizione del De bello neapolitano l’autore non considerò le opere dello storiografo di corte Bartolomeo Facio (Rerum gestarum Alphonsi regis Aragonum) e di Antonio Beccadelli il Panormita (De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum), occupandosi unicamente di raccontare il conflitto tra Ferdinando d’Aragona e Giovanni D’Angiò13. Un parzialità che in qualche modo si opponeva all’approccio metodologico precedentemente proposto

publicación, pocos meses después de la muerte del Gran Capitán invita a pensar que hubo razones de tipo político para dar a la imprenta este texto mediocre”. Il poema di Alonso Hernández fu pubblicato a Roma, da Stephano Guilleri nel 1516. 9 Dell’opera pontiana e in particolare del testo storiografico dell’autore si è occupata Liliana Monti Sabia, di cui si segnala la monografia Pontano e la storia. Dal De bello neapolitano all’Actius, Bulzoni, Roma, 1995. 10 Nicola De Blasi e Alberto Varvaro, “Napoli e l’Italia meridionale”, in Alberto Asor Rosa, (dir.), Letteratura Italiana. Storia e geografia, II/1, L’età moderna, Einaudi, Torino, 1984, pp. 242, 271. De Blasi e Varvaro indicano che la corte napoletana del Magnanimo diede un forte impulso a una letteratura in volgare, che durante il regno di Ferrante giunse a un alto grado di maturazione (cfr. p. 247). Esemplare l’esempio di Carvajal, poeta del Magnanimo, che redige componimenti bilingui in castigliano e napoletano, o trilingui, aggiungendo massime latine. 11 Ivi, p. 256. 12 Ivi, p. 272. 13 Tommaso Pedìo, Storia della storiografia del Regno di Napoli nei secoli XVI e XVII (Note ed appunti), Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1973, p. 12.

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da Lorenzo Valla, in cui l’umanista suggeriva uno spoglio critico delle fonti atto proprio alla composizione di una storiografia esemplare e veritiera14. Nei primi dieci anni di attività tipografica (1503- 1512), Toscano riconosce le linee di una strategia editoriale imperniata sulla ripresa dell’eredità aragonese15. Dopo le opere del Cantalicio e del Pontano, che aprono la storiografia partenopea del Cinquecento, abbiamo un silenzio editoriale di nove anni, seguito da un rafforzamento di testi a carattere storico tra il 1518 e il 152216, che vede una media di una pubblicazione per ogni anno. Inaugura questo periodo l’anonima Cronicha de tutte le cose passate de Italia (Baldassarre Rinaldi, 1518)17, che quasi anticipa la lega tra il papato e la Corona spagnola del 1521. L’anno della consacrazione di Carlo a Romanorum Imperator (1519), appaiono due opere di Belisario Acquaviva d’Aragona e di Girolamo Britonio, rispettivamente in latino e italiano, che hanno come tema l’elogio della sovranità: il De venatione et de aucupio, e De re militari et singulari certamine

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Sul Valla si veda Giacomo Ferraù, Il tessitore di Antequera. Storiografia umanistica meridionale, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma, 2001. 15 Toscano, “Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi viuda”, cit., p. 38: “Oltre all’Arcadia di Sannazaro [...] si stampano il corpus delle opere del Pontano e le raccolte poetiche in volgare del Cariteo, del Caracciolo e del De Jennaro, con il contorno di qualche ‘minore’ come il Cantalicio. Ma in generale si tratta di anni in cui la letteratura occupa uno spazio marginale rispetto al resto della produzione libraria, in cui le voci piú cospicue continuano pur sempre ad essere rappresentate da opere di argomento religioso, filosofico e giuridico”. 16 Si esclude da questo conteggio l’edizione di Battista Della Valle, Vallo libro continente appartenentie ad capitanij: retenere et fortificare una cita con bastioni, artificij de fuoco, poluere, et de expugnare una cita con ponti, scale, argani, trombe, trenciere, artegliarie, caue, dare auisamenti senza misso alo amico, fare ordinanze, battaglioni, et puncti de diffida con lo pingere, opera molto vtile con la experientia de larte militare, Antonio Frezza, Napoli, 1521, poiché rientra tra i libri di argomento militare più che storico. Nella medesima categoria rientra anche il Duello di Paride Dal Pozzo (Antonio Frezza e Lucio Giovanni Scoppa, 1518) (Edit16 [scheda 15879]), ristampa della volgarizzazione del Libellus de re militari o De duello curata dallo stesso autore. Come indicato da De Blasi e Varvaro (“Napoli e l’Italia meridionale”, cit., p. 255) il testo in latino risaliva infatti al 1477, e già nel 1478 ne conosciamo la traduzione in volgare. Queste opere presentano una affinità tematica con il trattato militare in castigliano di Francisco de Pedrosa (1541), per cui cfr. p. xliv e ss. 17 Libro ouero cronicha de tutte le cose passate de Italia sotto el rezimento de Pappa Alexandro e Pappa Pio e Pappa Julio, sin al presente del nostro pastor Pappa Leone decimo, narrando tutte le guerre si del Reame de’ Napoli, come de Lombardia e ’l re e duchi e signori del stato suo schazati. E qual cita castelli sono state brusate & sachizate per fin al zorno presente. Edit16 (Scheda CNCE 70679).

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(Ioannes Pasquetto de Sallo)18 e l’Ordene et recollettione de la festa fatta in Napoli per la noua hauuta de lo imperadore Carlo de Austria (Caterina Mayr)19. Gli scritti dell’Acquaviva sono parte di una serie di trattati che delineano il programma educativo di un principe, e che in qualche modo si collegano al tema affrontato nel Duello di Dal Pozzo; solo l’ultimo, il De re militari et singulari certamine, tratta il genere bellico e più in particolare il duello, con un ritorno alla contemporaneità ricordando condottieri antichi e moderni, come Federico di Montefeltro o Ramón de Cardona. Incentrato sulla storia contemporanea, oltre che sull’elogio di un importante momento all’interno della vita di un re, è il testo del Britonio, che dà inizio a quel successivo filone editoriale che celebrerà le imprese militari di Carlo20. Sull’Elegia eroice de discessu Licinuae di Manilio Cabacio Rallo (Ioannes Pasquetto de Sallo, 1520) e sul periodo napoletano dello scrittore non si hanno informazioni rilevanti: si tratta di un testo raro di cui sono stati censiti solo due esemplari21. Nel 1522 Daniel Perosino pubblica per i tipi di Giovanni Conti due edizioni de La guerra nova del Turco contra la potente città di Rodi, che narra l’attacco ai Cavalieri di Rodi (26 giugno) da parte degli eserciti ottomani di Solimano, che conquisterà l’isola costringendo i membri dell’ordine a rifugiarsi a Malta22. Ci si concentra quindi sul tema della guerra contro il Turco, presente fin dall’inizio del secolo: Cantalicio, ad esempio, aveva attribuito a Gonzalo Fernández de Córdoba il ruolo di nuovo Cid già nel 150323. 18 Edit16 (Scheda CNCE 238). Sull’Acquaviva cfr. Domenico Defilippis, Tradizione umanistica e cultura nobiliare nell’opera di Belisario Acquaviva, Congedo, Galatina, 1993, p. 218. 19 Edit16 (Scheda CNCE 50578). 20 Sul Britonio cfr. Defilippis, Tradizione umanistica e cultura nobiliare, cit., p. 177. 21 Edit16 (Scheda CNCE 60982). 22 La guerra noua del Turcho contra la potente cita di Rhodi principiada adi vintisei zugno 1522. Edit16 (Scheda CNCE 63403/4). Dopo l’assedio dell’esercito di Solimano il Magnifico a Rodi –precedente sede dell’Ordine di Malta– nel 1523 i cavalieri devono abbandonare l’isola. L’Ordine rimane senza un territorio finché nel 1530 il Gran Maestro Fra’ Philipe de Villiers de l’Isle Adam prende possesso dell’isola di Malta, ceduta all’Ordine da Carlo V con l’approvazione di Papa Clemente VII. Oltre a Malta, nel 1530 Carlo V diede anche Tripoli ai cavalieri di San Giovanni: “Non erano state né la generosità né la compassione cristiana verso i vagabondi a spingere in un primo momento l’Imperatore a quel gesto. Malta e Tripoli non avevano un grande valore; erano però punti di grande importanza strategica per il controllo delle acque circostanti contro i turchi e i corsari. Sua Maestà Cattolica contava sul fatto che, avendo i Cavalieri perso tutti i loro beni, essi sarebbero stati ben lieti di guadagnarsi la vita come ausiliari della polizia d’alto mare spagnola.”. Gosse, Storia della pirateria, Odoya, Bologna, 2008, cit., p. 49. 23 Sánchez García, Imprenta y cultura, cit., pp. 31-32.

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Tre anni più tardi il Britonio elogerà le gesta di Ferdinando Francesco d’Ávalos nel suo Triompho (Evangelista di Presenzani, 1525)24. Il poemetto in terzine proviene da un autore che seguì il marchese di Pescara –morto quello stesso anno– nella battaglia di Pavia del 1525, e che partecipò direttamente al conflitto25. La notizia della vittoria sulle armate francesi di Francesco I, imprigionato nella disfatta, raggiunge l’imperatore mentre si trova a Madrid; si tratta della prima vittoria militare di rilievo ottenuta durante il regno di Carlo26. L’anno seguente è sempre la tipografia del Presenzani a dare alle stampe le anonime Croniche de la inclita città di Napoli27. L’opera, meglio conosciuta come Cronaca di Partenope, raccoglie e organizza cronologicamente gli accadimenti sulla città, attingendo a una pluralità di fonti ed evidenziando una tendenza all’enumerazione28. Nel 1529 appare il De bello Neapolitano, poema eroico di Camillo Querno, frutto della collaborazione tra i tipografi Mattia Cancer e Giovanni Sultzbach29. Personalità legata a Leone X, il Querno fu considerato un abile verseggiatore, e come tale sarà ricordato in una testimonianza tardiva al cap.

24 Triompho nel quale Parthenope sirena narra et canta gli gloriosi gesti del gran marchese di Pescara. Edit16 (Scheda CNCE 7604). Anche Torres Naharro dedicò la princeps della Propalladia (Ioan Pasquetto de Sallo, Napoli, 1517) al Marchese di Pescara. Si veda ora Encarnación Sánchez García, “Sobre la princeps de la Propalladia (Nápoles, Ioan pasqueto de Sallo, 1517): los mecenas (Fernando D’Avalos, Vittoria y Fabrizio Colonna, Belisario Acquaviva) y la epístola latIna de Mesinerius I. Barberius”, in Ead., Lingua spagnola e cultura ispanica a Napoli, cit., pp. 1-33. 25 Cfr. l’entrata di Gianni Ballistreri in DBI, XIV, 1972, s.v. Britonio, Girolamo. 26 Sulla prigionia di Francesco I abbiamo un manoscritto conservato nella BNE: Juan de Oznaya, Prisión del Rey de Francia Francisco de Angulema, (MSS/7471). In una relazione ufficiale ordinata dal Gattinara, Alfonso de Valdés descriverà la vittoria di Pavia come un successo che prefigurava la determinazione di Carlo a guidare una crociata che avrebbe definitivamente liberato Gerusalemme e il Santo Sepolcro dalle mani islamiche. Kagan, Los Cronistas y la Corona, cit. p. 111. Sulla battaglia di Pavia e la difesa del Regno cfr. Carlos J. Hernando Sánchez, El Reino de Nápoles en el Imperio de Carlos V: la consolidación de la conquista, Sociedad Estatal para la comemoración de los centenarios de Felipe II y Carlos V, Madrid, 2001, pp. 328-344. Sul Britonio promulgatore della politica di Carlo V cfr. Toscano, “Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi viuda”, cit., pp. 40-48. 27 Chroniche de la inclyta cità de Napole emendatissime, con li bagni de Puzolo et Ischia. Edit16 (scheda CNCE 36181). 28 Francesco Montuori, “Come ‘si costruisce’ una cronaca”, relazione presentata il 13 maggio 2015 alla VI Settimana di Studi Medievali (Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 13-15 maggio 2015). 29 Edit16 (scheda CNCE 47537).

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XXVII della Terza parte della Selva di varia lettione di Pietro Messia (Venezia, Niccolò Pezzana, 1670)30. Qualche anno più tardi, nel Neapolitani poematum libri di Pietro Gravina (Giovanni Sultzbach, 1532)31 appare un Carmen epicum incompiuto. La raccolta fu stampata per iniziativa di Scipione Capece32, e si compone di una prima parte di epigrammi, cui seguono quattro Silvae, altrettante elegie e il poema epico Consalvia, dedicato evidentemente al Gran Capitán: ne rimangono il Primo libro e parte del Secondo. Di natura piuttosto encomiastica, gli epigrammi si rivolgono a personalità note come Prospero e Pompeo Colonna, Traiano Caracciolo, Leone X, Agostino Nifo, Isabella d’Aragona o il Sannazaro; seguono degli epitalami, epigrammi funebri e componimenti d’occasione. Di particolare rilevanza risultano i panegirici delle vittorie di Prospero Colonna, il cui fervore politico diviene il tema principale e accompagna l’esortazione alla difesa contro i Turchi33. Tra il 1535 e il 1536 un folto gruppo di edizioni riguarda sia l’entrata dell’imperatore nella città di Napoli sia la campagna di Tunisi: due eventi strettamente legati e utilizzati in maniera funzionale alla celebrazione dei successi militari della Corona (si pensi anche ai festeggiamenti per l’entrata di Felipe II a Genova). In un solo anno i torchi napoletani producono sei opere sia in italiano sia in latino34. 30 L’opera, che rispetto alla Silva in castigliano contiene delle aggiunte di Girolamo Brusoni, non corrisponde interamente al testo originale; la nuova Terza selva in cui appare la citazione al Querno è contenuta nella sola traduzione italiana. 31 Edit16 (scheda CNCE 21656). 32 Signore di Antignano e di San Giovanni a Teduccio, fu un allievo del Pontano. Probabilmente il 25 novembre 1535 pronunciò un’orazione di benvenuto al cospetto di Carlo V, reduce dalla spedizione in Tunisia. Cfr. l’entrata di Giovanni Parenti in DBI, XVIII, 1975, s.v. Capece, Scipione. 33 Dati estratti dall’entrata di Monica Cerroni in DBI, LVIII, 2002, s.v. Gravina, Pietro. La Cerroni aggiunge che “una scelta di epigrammi e di elegie è in Antologia poetica di umanisti meridionali, a cura di A. Altamura - F. Sbordone - E. Servidio, Napoli 1975, pp. 167-177”. 34 Toscano, “Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi viuda”, cit., p. 49: “La spedizione di Tunisi fu l’occasione per molti nobili napoletani di mostrare il proprio valore in presenza dell’imperatore. Dieci anni dopo Pavia, un altro d’Avalos, Alfonso marchese del Vasto e di Pescara, aveva avuto parte non irrilevante negli episodi decisivi della conquista di La Goletta e ovviamente a Napoli non mancarono i letterati che amplificarono i suoi atti di valore, quasi presentandolo come il protagonista d’eccezione di quella impresa. I tre mesi della permanenza di Carlo V in Napoli segnarono, si è già detto, un sussulto della stentata produzione tipografica della città, che raggiunse punte record mai toccate prima e dopo in tutta la prima metà del Cinquecento”. Sul viaggio di Carlo V dopo Tunisi e la propaganda imperiale, cfr. Maria A. Vi-

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La prima opera dedicata alla conquista di Tunisi è l’Africana Caesaris victoria (s.n., 1535)35, una raccolta di liriche in latino di Girolamo Borgia, sostenitore della politica papale di pacificazione europea in vista della guerra santa contro il Turco36. In questa raccolta il poeta canta la spedizione dei Carlo V, dedicando un’ode celebrativa al viceré Pedro de Toledo, e un epigramma a Paolo III37. Contemporaneamente per i tipi di Mattia Cancer vede la luce Il glorioso trionfo di Giovanni Domenico Lega (1535), in cui l’autore esalta le celebrazioni durante l’ingresso del sovrano nella capitale38; l’anno sesceglia, “Il viaggio cerimoniale di Carlo V dopo Tunisi”, in José Martínez Millán (coord.), Carlos V y la quiebra del humanismo político en Europa (1530-1558), Sociedad Estatal para la Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V, Madrid, 2001, pp. 133-172. 35 Edit16 (scheda CNCE 7130). 36 Cfr. l’entrata di Gianni Ballistreri, DBI, XII, 1971, s.v. Borgia (Borgio), Girolamo. Si noti tuttavia che l’opera principale del Borgia è l’inedita Historia de bellis Italicis: “se ne servì Guicciardini nella Storia d’Italia come fonte, non sempre dichiarata, delle vicende del Regno. L’opera copre un arco di tempo di oltre cinquant’anni, dai prodromi dell’invasione francese del 1494 sino ai primi mesi del 1547, e si propone inizialmente come prosecuzione del De bello neapolitano di Pontano, di cui Borgia era stato discepolo sino al 1503, rilevando in questo –e nel riuso, nei primi due libri, del De bello Italico di Rucellai, esemplarmente modellato sui precetti storiografici dell’Actius pontaniano– la sua matrice umanistica, che tuttavia con il passare degli anni si aprirà sull’esempio gioviano a una prospettiva ‘universale’.”. Francesco Tateo, “Storiografi e trattatisti, filosofi, scienziati, artisti, viaggiatori”, in Enrico Malato (dir.), Storia della letteratura italiana. Il primo Cinquecento, Salerno, Roma, 1996, IV, p. 1126. Al Borgia appartiene anche il libello Ad Iulium III gratulatio, Paolo Suganappo, Napoli, 1550 (Edit 16, scheda CNCE 7136). 37 I tre rarissimi opuscoli di Simone Porzio, di Girolamo Borgia e di Marcantonio delli Falconi scritti in occasione della celebre eruzione avvenuta in Pozzuoli nell'anno 1538: colle memorie storiche de’suddetti autori raccolte da Lorenzo Giustiniani, Luca Marotta, Napoli, 1817, p. 122. In questo volume si segnala anche un breve poema su un’eruzione del Monte Nuovo nel 1538 presso il lago Averno: Incendium ad Avernum lacum horribile pridie Kal. Octob. 1538, nocte intempesta exortum (Neapoli 1538). Questa pubblicazione anticipa di più di un secolo il fortunato filone editoriale corrispondente a una delle più catastrofiche eruzioni del Vesuvio (dicembre 1631), per cui si vedano i lavori di Laura Rodríguez Fernández, “La erupción del Vesubio de 1631: libros en español editados en Nápoles”, Annali dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale - Sezione Romanza, LIV/1, 2012, pp. 97-121; Ead., “La erupción del Vesuvio de 1631 en la imprenta napolitana en lengua castellana: Los incendios de la montaña de Soma (Nápoles, Egidio Longo, 1632)”, in Sánchez García (dir.), Lingua spagnola e cultura ispanica a Napoli, cit., pp. 223-240. Si segnalano inoltre le edizioni di Francisco de Alegría, Los incendios de la montaña de Soma (Egidio Longo, Napoli, 1632), inclusa in Laura Rodríguez Fernández, El Vesubio en llamas. Un texto napolitano en español sobre la erupción de 1631, Pironti, Napoli, 2014, e Juan de Quiñones, El monte Vesubio, aora la montaña de Soma (Juan González, Madrid, 1632), in c.d.s. sempre a cura di Laura Rodríguez. 38 Il glorioso triomfo et bellissimo apparato ne la felicissima entrata di la maestà ces. in la nobilissima città di Parthenope fatto con lo particolare ingresso di essa maestà ordinatissima-

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guente, Pompeo Bilintani darà alle stampe il Carlo Cesare V Affricano (1536)39. Si sommano quindi interessi storici (la presa di Tunisi) e di rappresentazione (l’entrata del sovrano), che si fondono in un chiaro intento celebrativo della Corona. D’altronde, il periodo tra il 1535 e il 1536 fu definito da Paolo Giovio: “Uno anno o il più illustre di tutti gli altri dell’età nostra, per la pace sicura in casa, per la mirabile clementia dell’aere, e per la vittoria d’Africa nobilitò i principi del pontificato di Paolo III, dopo i lacrimosi tempi di Adriano e Clemente”40. L’affermazione conferiva valore sia all’immagine del sovrano sia ai primi anni del pontificato del Farnese41. L’eccellenza del castigliano parlato e scritto nella capitale in quegli anni – si pensi a quanto si afferma nel Diálogo de la lengua e alla presenza di Garcilaso a Napoli fino al 1536– no ha esiti editoriali, mentre il predominio del latino come lingua ufficiale è testimoniato da altre tre edizioni, tutte del 1536: Giovanni Francesco Giorgi, De Caroli quinti; Niccolò Salerno, Conqueritur Italia ante Carolum (entrambe pubblicate da Giovanni Sultzbach)42; Girolamo Borgia, Africanus Caroli V, di cui si disconosce il tipografo43. A probabile conferma di quanto affermato riguardo alla relazione tra gli eventi storici e la produzione libraria, tra il 1538 e il 1540 si registra un sensibile calo di edizioni in confronto al biennio precedente. Tre sono i libri di genere storico, che per altro dimostrano di aver esaurito la trattazione degli eventi bellici nordafricani, e quella dell’entrata del sovrano nella capitale, pamente descritto. Edit16 (scheda CNCE 23660). Si segnala anche Giovanni Battista Pino, Il triompho di Carlo quinto a cauallieri et alle donne napoletane, Giovanni Sultzbach, Napoli, 1536. Edit 16 (scheda CNCE 50460). 39 Edit16 (scheda CNCE 6075). Sempre nel 1536 il Bilintani darà alla tipografia veneziana di Francesco Bindoni il suo Affricano. Opera nuoua nellaqual [sic] si contengono li memorandi gesti & gloriose vittorie di Carlo Cesare quinto imperator romano. Edit 16 (scheda CNCE 6074). 40 Paolo Giovio, Delle Istorie del suo tempo, divise in libri quarantacinque tradotte da M. Lodovico Domenachi, al segno delle Colonne, Venezia, 1581, p. 167. Citato da Visceglia, “Il viaggio cerimoniale di Carlo V dopo Tunisi”, cit., p. 133. 41 Visceglia, “Il viaggio cerimoniale di Carlo V dopo Tunisi”, cit., p. 133. 42 Per il Giorgi, De Caroli quinti Romanorum imperatoris semper augusti laudibus, e il Salerno, Conqueritur Italia ante Carolum, augustum caesarem imperatorem, quod hinc a Gallis, illinc a Turcarum, maurorumque, praedonibus infestetur, hortaturque, ad expeditionem, contra Mauros, et Turcas, suscipiend, cfr. Edit16 (scheda CNCE 21024 e CNCE 50463). 43 Africanus Caroli V Caesaris Ro. imp. inuicti triumphus. Si tratta di un dialogo in versi in cui Mercurio ammonisce Roma a riprendersi dall’avvilimento presente –in relazione ai fasti del passato– magnificando il pontefice e l’imperatore che le garantiranno un futuro meritorio. Cfr. la già citata entrata di Gianni Ballistreri nel DBI.

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lesando anche l’importanza della contemporaneità tra i fatti narrati e le opportunità editoriali. Lo stesso Borgia, che aveva chiuso il precedente blocco, compone e dà alle stampe il Triumphus Pauli III (Augusto Nonis, 1538), un canto alla pace che coincide con la tregua di Nizza tra Francesco I e Carlo V, ottenuta dal Pontefice44. Contemporaneamente Antonio Capece pubblica il suo Aurea et subtilis repetitio (Giovanni Sultzbach, 1538)45. Questo biennio si chiude con un’opera che prima vide la luce a Venezia e solo successivamente a Napoli. Si tratta di un importante testo in volgare che riguarda una tematica più estesa e relativa alla storia del Regno di Napoli dalle origini al 1459, e considerata un “exemplum metodologico di rispetto delle ‘leges historicas’”46: il Compendio delle historie del regno di Napoli (Venezia, Michele Tramezzino, 1539) di Pandolfo Collenuccio47. La pubblicazione veneziana non escluse tuttavia una discreta circolazione manoscritta dell’opera nella capitale del Regno, di cui abbiamo notizie già nel 152748, sebbene avesse avuto molte critiche a livello linguistico e contenutistico49. Nelle Historie del Regno di Napoli, il Di Costanzo si riferisce al Compendio come unico precedente narrativo delle “infinite cose degne di memoria” accadute nel Regno nel periodo tra l’Impero Romano e i Goti. Tuttavia il giudizio sull’autore è feroce, poiché “per trattare di quel che non sapea dele cose 44

Ibid. Per la localizzazione della cinquecentina cfr. Edit16 (scheda CNCE 7134). Aurea et subtilis repetitio super c. imperialem de prohibita feudi alienatione per Federicum. Edit16 (scheda CNCE 9075). 46 Girolamo Masi, “Scampoli di sartoria testuale: Benedetto Di Falco, Giovan Battista Carafa e Pandolfo Collenuccio”, in Roberto Gigliucci (dir.), Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, Bulzoni, Roma, 1998, p. 309. 47 Edit16 (scheda CNCE 12773). La prima edizione napoletana di cui abbiamo notizia è del 1563, ad opera del tiografo Giovanni Maria Scotto, per cui cfr. Edit16 (scheda CNCE 12783). 48 Nel proemio alle Historie del Regno di Napoli di Angelo Di Costanzo (L’Aquila, Giuseppe Cacchi, 1582), l’autore afferma: “Questi duo buoni vecchi [Sannazzaro e Poderico] che nell’anno di N. Sal. 1527 s’erano ridutti a Somma dove io era, fuggendo la peste che crudelmente infestava Napoli, in haver veduti tanti errori nel Compendio del Collenuccio che all’hora era uscito, mi conhortarono ch’io havesi da pigliare la protettione de la verità.”. Trascrivo dall’edizione conservata nella BHUC (segnatura: BH FLL 29206). Le successive citazioni, provenienti da questo stesso testimone, non saranno richiamate in nota. 49 Eduardo Melfi (DBI, XXVII, 1982, s.v. Collenuccio [Coldonese, da Coldenose], Pandolfo) indica che queste critiche furono “linguistiche, da parte di Girolamo Ruscelli, che del Compendio diede un’edizione (Venezia 1552) purgata dai latinismi e dagli aspetti più ‘padani’ della morfologia dei verbi; storiche, da parte di storici napoletani (Angelo Di Costanzo, Tommaso Costo) che, ricorrendo, se necessario, all’uso sistematico della falsificazione, respinsero in particolare le accuse ‘d’incostanza e d’infedeltà’ mosse nel Compendio ai ‘regnicoli’.”. Si rimanda all’entrata di Melfi per una bibliografia critica pertinente. 45

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da 300 anni in qua, ne dice molte non vere, e molte in gran parte mozze e manche”50. Il Compendio resiste a questi attacchi, e la sua importanza si evince anche da alcune traduzioni: la francese del 155351, la latina del 157252 e la castigliana del 158453. In questa prima metà di secolo la storiografia del Regno di Napoli diverge da quella degli altri centri italiani, e nemmeno il modello di storia cittadina di Leonardo Bruni (Historia florentini populi) riesce ad attecchire54. Sebbene il Bruni non sposasse l’idea di inserire la storia della propria città in un contesto più ampio, egli si concentrava prevalentemente sugli aspetti politici dello stato55. Gli scrittori partenopei sono lontani da quell’analisi critica propria del Bruni stesso, del Machiavelli e del Guicciardini, alla quale preferiscono una relazione episodica e strettamente cronachistica, seguendo ancora metodi di indagine storiografica che altri paesi europei si erano lasciati alle spalle, e non considerano l’aspetto politico56. Si aggiunga che, pur riferendosi ad avvenimenti storici, le opere fin qui censite rappresentano un genere ibrido, che non offre una visione critica degli eventi narrati. Gli anni tra il 1541 (in cui Francisco de Pedrosa pubblica il suo trattato militare) e il 1548 (in cui appare la prima opera di Pedro de Salazar sui conflitti in Germania) sono importanti anche per il cambio linguistico che si verifica in materia di edizioni di testi storico-militari. Se infatti l’Arte y suplimen50

Cfr. il già citato prologo delle Historie del Regno di Napoli. Parachévement des histoires du royaume de Naples, extraict de plusieurs bons historiographes & croniqueurs, divisé en deux livres, & aiousté à la traduction du sommaire de M. Pandolfo Collenucio, par Denis Sauuage de Fontenailles en Brie, A Paris, au Palais, en la boutique d’Arnould l’Angelier, 1553. 52 Pandulphi Collenutii iurisconsulti pisaurensis Historiae neapolitanae ad Herculem I Ferrariae Ducem Libri VI. Cui accesserunt, praeter provinciarum, urbium, oppidorum, praecipuarum arcium, principum, episcopatum, ducum, comitum, baronum, nobilium familiarum nomenclaturam, totius etiam regni Cosmographica tabula. Omnia ex italico sermone in latinum conversa. Ioann. Nicol. Stupano Rheto interprete. Ad beatum curiensem Rhetorum episcopum. Cum gratia et privilegio S. Caesareae Maiestatis, Apud Petrum Pernam, Basileae, 1572. Cfr. G. Masi, “Scampoli di sartoria testuale” cit., p. 309, nota 25. 53 Historia del reyno de Napoles traduzida de lengua toscana por Iuan Vazquez del Marmol (por Fernando Díaz, a costa de Juan de Medina, Sevilla, 1584). Il Catálogo Colectivo del Patrimonio Bibliográfico Español indica una seconda edizione sivigliana coeva: “por Fernando Díaz, a costa de Diego de Montoya, 1584”. 54 Pedìo, Storia della storiografia, cit., p. 10. 55 Sul Bruni, si veda Emilio Santini, “Leonardo Bruni aretino e i suoi Historiarum florentini populi liber XII”, Annali della R. Scuola normale superiore di Pisa, XXII, 1910, pp. 1-174. 56 Pedìo, Storia della storiografia, cit., p. 11. 51

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to rei militar del Pedrosa non è un testo storiografico, indica l’apertura della stampa in castigliano verso nuovi generi57. Questi soggetti sull’arte e l’educazione militare già avevano dei precedenti nella stampa partenopea, e non rappresentano quindi una novità editoriale rispetto ad alcuni dei temi affrontati –si pensi ad esempio all’Acquaviva e al Della Valle, le cui opere appaiono rispettivamente diciotto e venti anni prima del 1541–, ma nel caso di Pedrosa l’originalità risiederebbe proprio nella scelta linguistica diversa da quella finora utilizzata dalle tipografie napoletane nel trattamento di questo genere letterario. Il reale inizio di questo cambio linguistico in relazione al genere storico è inaugurato dalla Historia alemana di Salazar58. Nei sette anni che intercorrono tra il trattato del Pedrosa e questa prima opera di Salazar, troviamo un’unica pubblicazione in latino59. Altro dato su cui riflettere è la stampa della Copia de la lettera di sua maiestà cesarea scritta al vicerè di Napoli con la capitulazione fatta tra la maiestà cesarea et il re di Francia (s.n., 1544) che risulta fino a questo momento un unicum all’interno del corpus di testi storici napoletani, ma che in qualche modo rafforza l’intenzione di aderenza alla veritas storica, perché si tratta di una comunicazione ufficiale del sovrano60. Una varietà di documento a stampa che sarà riproposta a ridosso dei conflitti tunisini del 1550, e probabilmente prima della Historia africana di Salazar, con una anonima Copia d’vna lettra venuta d’Affrica, dall’armata cesarea, attribuita a Paolo Suganappo61.

Encarnación Sánchez García, “Apuntes sobre la lengua castellana en la Nápoles renacentista: la imprenta como testimonio”, discorso di apertura delle Giornate Internazionali Lingua spagnola e cultura ispanica nel Regno di Napoli tra Rinascimento e Barocco: testimonianze a stampa (Napoli, 14-15 maggio 2012). Ringrazio la prof.ssa Sánchez per avermi offerto la consultazione del suo intervento. 58 Ricordiamo che nel 1548 il tipografo Thomas de Çornoça pubblica a Venezia il Comentario del illustre Señor Don Luis de Avila y Çuñiga,[...] de la Guerra de Alemaña, hecha de Carlo V di Luis de Ávila y Zúñiga. 59 Alfonso Alvares Guerreiro, Incipit aureus et singularis tractatus de bello iusto et iniusto (Ambrogio Mançaneda, 1543). Edit16 (scheda CNCE 22131). 60 In realtà la pubblicazione delle lettere dei partecipanti alle battaglie è abbastanza frequente in questo periodo: si pensi ad esempio alla stampa nel 1535 della Copia di una littera dil s. don Ferando Gonzaga […] de la presa de Tunizi. 61 Edit16 (scheda CNCE 13221). Per la data e l’attribuzione del tipografo cfr. Pietro Manzi, La tipografia napoletana nel ’500. Annali di Giovanni Paolo Suganappo, Raimondo Amato, Giovanni De Boy, Giovanni Maria Scotto e tipografi minori (1533-1570), Olschki, Firenze, 1973, p. 43, n. 22. 57

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Nell’arco cronologico esaminato (1506-1550) si nota anche la reiterata partecipazione di alcuni tipografi nella realizzazione delle opere censite a partire dalla nomina del viceré don Pedro de Toledo (1532). Prima della sua ascesa al potere gli stampatori di opere storico-militari erano vari, e su un numero complessivo di tredici cinquecentine ascrivibili al genus storico, nell’arco di ventisei anni (1506-1529) abbiamo ben dieci differenti tipografi che ne assicurano la diffusione a stampa. Dall’inizio del governo del Marchese di Villafranca notiamo invece un incremento di questa produzione a stampa (sedici cinquecentine62) in un periodo di soli diciotto anni (1532-1550). Questa intensificazione coinvolge cinque stampatori: Giovanni Sultzbach (cinque edizioni); Paolo Suganappo (tre edizioni); Mattia Cancer (due edizioni); Augusto Nonis (una edizione) e Ambrogio Mançaneda (una edizione). Restano da attribuire quattro cinquecentine di cui si disconosce il nome dell’editore. Di questi, tre curano la stampa di opere in castigliano: Sultzbach, Suganappo e Cancer. Il corpus censito appare multiforme, e oscilla tra composizioni in verso e in prosa, in italiano e in latino, con una tardiva apparizione dello spagnolo. Questa doppia partizione si mantiene per quasi l’intera prima metà del secolo XVI, che rappresenta il momento in cui il genere storiografico si va consolidando63. Restano invece frequenti la contemporaneità degli eventi narrati e la testimonianza diretta dei partecipanti: il tutto avviene mediante le relazioni dei protagonisti (il poema epico del Cantalicio viene pubblicato sotto la giurisdizione del viceré Gonzalo Fernández de Córdoba64) che a volte corrispondono agli stessi autori delle opere (si pensi ad esempio al Britonio), 62

Si includono nel censimento entrambe le emissioni della Historia di Pedro de Salazar del

1548. Come osserva Encarnación Sánchez García (“Género histórico y recepción de modelos clásicos en la Nápoles del siglo XVI: algunos ejemplos”, in Paloma Bravo et al., La Renaissance des genres: pratiques et théories des genres littéraires entre Italie et Espagne (XVe-XVIIe siècles), éd. universitaires de Dijon, Dijon, 2012, p. 164): “El siglo XVI va a representar, en Nápoles como en el resto de Italia, la consolidación de la escritura de la historia: las obras se difunden gracias a la adopción –parcial– del volgare y al reconocimiento del esfuerzo teórico del Pontano. El Cinquecento es además el siglo de la codificación de los géneros y la consecuente clarificación que este esfuerzo clasificatorio aporta va a favorecer la adopción de la teoría aristotélica: la ars histórica se ocupa de la representación de la verdad, mientras que la ars poética se ocupa de la representación de lo universal, vehiculado a través de lo verosímil. La reflexión teórica se encargará de distinguir claramente el género literario de la historiografía del género literario de la épica”. 64 Sánchez García, Imprenta y cultura, cit., p. 25. 63

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mentre altre fanno pervenire le informazioni dalla corrispondenza –reale o fittizia– dei protagonisti (si pensi alle apparizioni delle missive del 1544 e del 1550) probabilmente utile anche alla lettura pubblica. Si notano infine la centralità della città di Napoli anche quando ci si riferisce alle gesta di un solo personaggio, come nel caso di Cantalicio. Anche i riferimenti alle cerimonie reali, come nel caso del Lega, potrebbero provenire da una tradizione memorialistica napoletana in volgare, già evidente nelle cronache di fine Quattrocento del Ferraiolo e del Notar Giacomo65. Una volontà partigiana che in parte sembrerebbe perdersi nelle opere di Salazar, indubbiamente più incline all’elogio della famiglia del viceré e alla politica del Toledo. Ciò che invece si evince chiaramente dall’esame del corpus censito è una combinazione di generi letterari diversi. Al contrario, le opere di Salazar possono essere inserite all’interno di una tipologia ben caratterizzata, che si deduce anche dal metodo di indagine dell’autore. 1.1 La storiografia in lingua spagnola sul Nordafrica Al principio del XVI secolo la regione della Barberia –attualmente identificabile con il Magreb– rappresentava un territorio che gli spagnoli consideravano adatto al prosieguo della Reconquista oltre il confine peninsulare, che seguiva la presa di Granada del 1492. Prima di questa data di enorme valenza storica, culturale e linguistica66, l’espansione verso il Magreb si era già manifestata con la conquista di Ceuta (1415), impresa che dà inizio a un filone narrativo in cui si offre il punto di vista cristiano sulla situazione del Nordafrica67. Una vera e propria politica estera verso questi stati, frazionati e spesso in lotta tra loro, iniziò sotto i Re Cattolici, e si distinse –come ricorda Diego Téllez Alarcia– per la pluralità di interessi oltre a quello esclusivamente territoriale: la lotta contro i corsari; il commercio nel Mediterraneo (il controllo delle rotte, la pesca, le imposte); le strategie militari (la vigilanza sulle 65

De Caprio, Scrivere la storia a Napoli, cit., p. 72. Si pensi alla scoperta dell’America, alla citata presa di Granada, all’espulsione degli ebrei dalla penisola e alla pubblicazione a Salamanca della Gramática de la lengua castellana di Elio Antonio de Nebrija. 67 Mercedes García-Arenal et al., Repertorio bibliográfico de las relaciones entre la península Ibérica y el norte de Africa (siglos XV-XVI) Fuentes y bibliografía, CSIC, Madrid, 1989, p. 18. 66

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comunicazioni sul versante Occidentale); la religione (liberazione dei prigionieri, evangelizzazione degli infedeli, guerra santa) che comprendeva anche l’idea di mantenere quanto la Reconquista aveva ideologicamente rappresentato68. La contemporanea scoperta dell’America in parte affievolisce l’interesse spagnolo per il Mediterraneo, a causa di una maggiore prospettiva espansionistica. La Corona di Spagna si affaccia al Nuovo Mondo con chiare intenzioni di conquista, mentre nel mare nostrum sembra attuare una politica di mantenimento territoriale e di protezione, dimostrando uno spiccato carattere di controllo dello status quo. In questo contesto i Regni di Napoli e Sicilia possedevano una certa libertà di azione, che si evince anche dal testo di Salazar69. Effettivamente Carlo V partecipò soltanto alla spedizione di Tunisi (1535) e a quella disastrosa di Algeri (1541), per poi stabilire una tregua di cinque anni con il gran Turco (1545-1550), che si interrompe con la battaglia e la conquista di Mahdia. Furono l’entrata in scena del corsaro Dragut e la sua conquista del bastione nordafricano a costringere il César a rompere questo armistizio –senza però calcare il campo di battaglia– a seguito delle numerose incursioni del pirata70. Nella prima metà del Cinquecento troviamo un discreto numero di relazioni militari e storiche, che danno notizia delle campagne militari intraprese da Carlo V. Si tratta più che altro di missive e di documenti ufficiali, di relaciones de sucesos che palesano un intento informativo e propagandistico della Corona, di cronache di conflitti che coinvolgono la Spagna e i suoi avversari nell’ormai mare alternum, come nel caso della conquista di Tunisi. Da uno spoglio dei cataloghi on-line di alcune biblioteche spagnole è emerso che nella maggior parte dei casi questi documenti non erano vere e proprie storiografie ma racconti di un evento isolato o incitazioni alla lotta contro il tur-

68 Diego Téllez Alarcia, “El papel del norte de África en la política exterior hispana (14741598)”, Tiempos modernos. Revista electrónica de Historia Moderna, I, 1, 2000. [http://www.tiemposmodernos.org/viewarticle.php?id=9&layout=html]. 69 Per questo aspetto si rimanda al Cap. 2.2. 70 Ipotesi già segnalata in Téllez Alarcia, “El papel del norte de África en la política exterior hispana (1474-1598)”, cit. Barbarossa si nascondeva ad Algeri, e da lì partiva per le sue spedizioni piratesche. Si temeva che Dragut potesse seguire le orme del suo predecessore sia come situazione logistica (Mahdia è tra l’altro più vicina alla costa italiana rispetto ad Algeri) sia come esito delle imprese militari. Il ricordo della fallimentare spedizione algerina del 1541 è un precedente storico ben impresso nella mente delle milizie imperiali.

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co, e più in generale contro gli infedeli71. Si deduce inoltre che alcune opere sugli eventi di questa prima metà di secolo furono composte a ridosso degli avvenimenti narranti ma pubblicate diverso tempo dopo, a dimostrazione di una fortuna del genere che si estende negli anni a venire. Ne sono un esempio il Diálogo sull’assalto a Gibilterra di Pedro Barrantes Maldonado (scritto nel 1540 e pubblicato nel 1566) o la traduzione in lingua spagnola del De Aphrodisio expugnato di Calvete de Estrella ad opera di Diego Gracián de Alderete (ed. latina del 1550, ed. castigliana del 1558), che conferisce maggiore diffusione allo scritto originale del cronista latino. Gli avvenimenti storici che in questa prima metà del secolo coinvolgono la Spagna e il Nordafrica sono numerosi, ma le opere che ne raccontano direttamente gli accadimenti rappresentano un nucleo abbastanza omogeneo nell’affrontare il genere storico, palesando intenti propagandistici anche quando si ponevano come obiettivo dichiarato l’aderenza alla veritas. Un’esaustiva enumerazione critica delle opere in lingua spagnola di tema nordafricano è stata fornita da Ana María Carabias Torres, che propone una divisione tematica delle relazioni rintracciate, suddividendole in narrazioni su attacchi turchi e cristiani, incitazioni alla lotta e resoconti sul continente africano72. L’importanza di questo aspetto della storia peninsulare, ovvero del rapporto con i popoli che vivevano oltre lo stretto di Gibilterra, è dimostrata tra gli altri studi dal censimento bibliografico a cura di Mercedes García Arenal, Miguel Ángel de Bunes Ibarra e Victoria Aguilar73. L’importanza strategica valore degli stati costieri nordafricani si palesa agli occhi della Corona di Spagna prima con la conquista di Granada (1492), poi in relazione alla forte spinta espansionistica ottomana (di fatto, gli eserciti di Solimano il Magnifico conquistano Belgrado nel 1521 e assediano Vienna

71 Ana María Carabias Torres, “Turcos contra católicos. Barrantes Maldonado y la deformación interesada de los hechos militares”, Tiempos Modernos, XIX/2, 2009, pp. 11-12. In questa sede sono stati consultati il Catálogo Colectivo del Patrimonio Bibliográfico Español, il catalogo della BNE e il catalogo del SIERS (Sociedad Internacional para el Estudio de las Relaciones de Sucesos). 72 Carabias Torres, “Turcos contra católicos”, cit., pp. 11-12. Da questo contributo si estraggono i dati sulle opere di Cristóbal de Arcos, Gonzalo de Arredondo y Alvarado, Pedro Barrantes Maldonado (per il solo Diálogo), Bernardo Pérez de Chinchón, Paolo Giovio, Andrés Laguna, Vasco Díaz Tanco, Francisco Álvarez e Andrés Cambino de Florencia. 73 García-Arenal et al., Repertorio bibliográfico, cit. In particolare si rimanda alla schedatura delle fonti storiografiche castigliane e portoghesi a partire dalla conquista di Ceuta (1415) e la presa di Larache (1610), pp. 48-72.

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nel 1529, –tornando a minacciarla nel 1532–, avvicinandosi anche via terra); si aggiunga che ancora nel 1529 il Barbarossa conquista il Peñón de Vélez de la Gomera, in mano aragonese dal 151474. Prima degli anni Venti non mancano missioni nei territori nordafricani: nel 1510 abbiamo la disastrosa spedizione di García Álvarez de Toledo a Djerba, a cui si allude nel Lazarillo de Tormes e che è ricordata anche da Garcilaso75. Questo rovinoso evento verrà ricordato nel 1552 dallo stesso Salazar nel prologo a don Pedro Álvarez de Toledo in una delle emissioni della Historia africana76. Fu tuttavia la caduta di Rodi del 1522 uno degli avvenimenti che per primo mosse la penna dei cronisti che parteciparono all’evento: tra gli altri Jacques de Bourbon, Jacopo Fontano, Juan Antonio de Foxá77. Sembrerebbe contemporaneo agli eventi il manoscritto II-2222 della BNE, in cui si conserva una Carta sobre el sitio de Rodas (f. 14r-v), scritta da Messina ma senza la

Josep Juan Vidal, “La defensa del reino de Mallorca en la época de Carlos V (15351558)”, in Martínez Millán (coord.), Carlos V y la quiebra del humanismo político en Europa (1530-1558), cit., pp. 542-543. 75 “En este tiempo vino a posar al mesón un ciego, el cual, paresciéndole que yo sería para adestralle, me pidió a mi madre, y ella me encomendó a él, diciéndole cómo era hijo de un buen hombre, el cual, por ensalzar la fe, había muerto en la de los Gelves, y que ella confiaba en Dios no saldría peor hombre que mi padre, y que le rogaba me tractase bien y mirase por mí, pues era huérfano”: Lazarillo de Tormes, ed. di F. Rico, Cátedra, Madrid, 1999, pp. 21-22. Tra le altre menzioni della battaglia, Rico segnala anche l’egloga di Garcilaso (II, 1226-1227) “¡Oh patria lacrimosa, y cómo vuelves/ los ojos a los Gelves...!” (che prosegue ai vv. 1232-1233 “El arena quemaba, el sol ardía,/ la gente se caía medio muerta [...]”), e il Diálogo del arte militar di B. de Escalante (Sevilla, 1583): “Por la flaqueza y mal consejo de los capitanes deshicieron y arruinaron nuestra armada católica y gentes, en la desdichada jornada de los Gelves” (vid. nota 43). 76 “Y començándolo digo que muy sabido es ser vós [Pedro de Toledo] hijo de aquel illustríssimo duque de Alva don Fadrique de Toledo, que es en gloria, grande servidor de la Casa Real de España, que grandes y maravillosas memorias dexó, y hermano de aquel no menos esforçado que generoso don García de Toledo su primogénito hijo, que por su grandeza de ánimo y esfuerço de coraçón, estimando en más su honrra que su vida, peleando como buen cavallero con los turchos y moros murió en Los Gelves, pudiendo honrrosamente salbar la vida, a cuya causa no ay hombre que antes no le deva aver embidia que manzilla, pues perdió la vida con la mayor y más alta honrra que nunca hombre generoso murió, y alcançó con su muerte lo que muchos señalados y valerosos capitanes con grandes travajos en sus vidas no pudieron alcançar, por donde siempre durará su gloria y su inmortalidad de fama y para in eterno su memoria.”. Trascrivo il prologo dall’emissione della Historia conservata nella BNCR (segnatura 69. 3.C.7), per cui si rimanda al cap. 2.2. 77 Ricardo González Castrillo, “Sobre la conquista otomana de Rodas”, Anaquel de Estudios Árabes, 18, 2007, pp. 117-135. 74

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menzione di un destinatario78. Lo stesso avvenimento è contenuto in una parte del ms. 1587 della BPR, in cui troviamo un romance (f.135r-v) che ai primi versi recita: “De la sangrienta vatalla / qu’en rrodas a subçedido, / se salía el Gran Maestre / congoxado y aflixido”79. Qualche anno più tardi sarà Cristóbal de Arcos a riprendere l’argomento, ne La muy lamentable conquista y cruenta batalla de Rodas (Sevilla, Juan Varela de Salamanca, 1526), ovvero la traduzione castigliana del De bello rhodio di Jacopo Fontano (Roma, 1524), in cui non mancano inserimenti arbitrari del traduttore80. Carabias Torres segnala che nel 1526 appare una edizione sivigliana di Diego de Torres, Relacion del origen y sucesso de los Xarifes y del estado de los reinos de Marruecos, Fez, Tarudante y los demás que tienen usurpados, data alle stampe dal tipografo Francisco Pérez81. In realtà sembrerebbe trattarsi di un refuso, poiché l’anno di edizione stride con gli altri dati in nostro possesso: l’opera –di orizzonte più vasto rispetto alle precedenti, poiché non descrive un unico avvenimento– fu sì stampata a Siviglia da Francisco Pérez, ma nel 1586. La Relación sembrerebbe degna di rilievo per la storiografia nordafricana del sec. XVI, e meritevole di una breve menzione: il Torres visse infatti nella corte del Xarife tra il 1546 e il 1554, e riscattava i prigionieri agli ordini di Juan III di Portogallo. Al suo rientro in patria compilò questa descrizione storico-geografica dei regni marocchini, basata principalmente sulla propria esperienza, nella quale includeva alcune osservazioni soggettive; la dedica al giovane re portoghese Sebastián insiste sulla conquista dei territori marocchini. La messa in circolazione è postuma, probabilmente – come sostiene Mercedes García-Arenal– a causa della disastrosa campagna di

Ivi, p. 118. González Castrillo segnala inoltre che “dicho documento presenta una singularidad especial en la que estriba su originalidad. Y es que sitúa la conquista otomana de la isla en el año 1520 atribuyéndola al sultán Selim I, muerto en septiembre de ese año, en abierta discrepancia con el resto de las crónicas que fijan tal acontecimiento a finales de diciembre de 1522 y por obra del sultán Solimán, el sucesor de Selim” (p. 119). La trascrizione completa della lettera si trova alle pp. 132-135. 79 Ivi, p. 135. 80 Ivi, p. 120. González Castrillo segnala anche un manoscritto della BNE di Diego de Soto y Aguilar, Historia de los tártaros, moros y turcos, con otras cosas particulares (ms. 2955), che contiene dati sui fatti di Rodi. 81 Carabias Torres, “Turcos contra católicos”, cit., p. 12, nota 45. 78

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Alcázar del 1578, in cui partecipò lo stesso Torres e morì Sebastián di Portogallo82. Gli anni a seguire offrono invece una serie di opere dai forti toni antiislamici, come quella di Gonzalo de Arredondo y Alvarado, Castillo inexpugnable defensorio de la fee (Burgos, Juan de Junta, 1528)83; dello stesso tono appaiono Las trobas di Pedro Barrantes Maldonado (1532), poesia lirica in lode agli spagnoli che combattevano contro il Turco, che racconta anche l’entrata in guerra del duque de Béjar. Il testo di Bernardo Pérez de Chinchón, Libro llamado Antialcoran (Valencia, Juan Jofré, 1532) si spinge ben oltre, opponendosi direttamente al testo sacro islamico. Quest’opera –di cui si conosce una ulteriore edizione di Salamanca del 1595, ad opera di Juan e Andrés Renaut– è divisa in ventisei sermoni in cui si ostentano le menzogne del “falso profeta” Maometto, e si rivolge in particolare ai musulmani convertiti al cristianesimo84. Non sembrerebbe un caso che queste esortazioni a combattere i turchi, nemici della fede, e ad andare in battaglia contro gli infedeli, siano precedenti alla fortuna editoriale dell’impresa di Tunisi e della conseguente conquista della città. Le successive celebrazioni, accompagnate dall’unico ingresso a Napoli di Carlo V –già entrato a Milano nel 1530– e dal suo passaggio in Italia, confermerebbero la consapevolezza del pericolo islamico, mostrando l’imperatore come unico difensore della fede cristiana85. Tuttavia si ricordi che la spedizione di Tunisi si ritenne necessaria per il pericolo rappresentato dalla vicinanza della città nordafricana con le coste italiane, come accadrà anche nel caso di Mahdia. Proprio nel 1535 si celebra la conquista con il viaggio trionfale del vincitore in Italia e con l’entrata di Carlo a Napoli; l’espugnazione dà anche avvio a una già documentata produzione editoriale in Italia, probabilmente proprio in vista della visita del sovrano86. Per le testimonianze in castigliano, si regi82 Diego de Torres, Relación del origen y suceso de los Xarifes y del estado de los reinos de Marruecos, Fez y Tarudante, edición, estudio preliminar y notas de Mercedes García-Arenal, prologo di Julio Caro Baroja, Siglo XXI, Madrid, 1980. 83 Castillo inexpugnable defensorio d[e] la fee, y concionatorio admirable para vencer a todos enemigos espirituales y corporales [...] y exhortación para ir contra el turco, y el vencer y anichilar la secta de mahoma. 84 Si vedano le pagine preliminari dell’edizione del 1595. 85 Su Carlo V in Italia cfr. Hernando Sánchez, El Reino de Nápoles en el Imperio de Carlos V, cit. 86 A questo proposito si rimanda al Cap. 1.

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stra il manoscritto Historia de Tunez y su conquista por el Emperador Carlos V87. Altro importante documento sulla conquista di Tunisi –il 20 luglio 1535 Carlo occupa la città– è rappresentato dalla Jornada de Carlos V a Tunez di Gonzalo de Illescas: la relazione sarà pubblicata alla fine del secolo, e farà parte della più corposa Segunda parte de la Historia Pontifical (Barcelona, Sebastian de Cormellas, 1595)88. Sulla conquista di Tunisi e La Goletta si segnala inoltre un manoscritto del secolo XVII di Alonso de Sanabria89, che contiene una biografia del Barbarossa e il racconto delle sue origini. Questo documento traccia un dettagliato profilo del pirata prima della vittoria di Carlo, quasi a esaltare il valore dell’impresa. Altra testimonianza della fama del Barbarossa si trova in un codice del XVI secolo di Francisco López de Gómara90 Sembra invece che si tacciano gli attacchi alle isole Baleari dello stesso anno. In particolare la risposta del Barbarossa alla conquista di Tunisi si concretizza nell’attacco di Mahón –1 settembre 1535– con una flotta di trenta imbarcazioni, in cui il corsaro dimostra di possedere ancora una buona capacità di offesa91. L’assalto a Gibilterra del 1540 è narrato da Pedro Barrantes Maldonado nel Diálogo entre Pedro Barrantes Maldonado y un cavallero estrangero (Alcalá de Henares, Sebastián Martínez, 1566). Ancora una volta si tratta di un testo distante dagli accadimenti –che comunque l’autore visse in prima persona– e che nella scelta della resa dialogata si offre come un unicum all’interno del corpus fin qui considerato92. L’autore del Diálogo tratterà la 87 BNE (MSS/19441). Censito in Miguel Ángel de Bunes Ibarra, La imagen de los musulmanes y del norte de Africa en la España de los Siglos XVI y XVII: los caracteres de una hostilidad, CSIC, Madrid, 1989, pp. 337-338. 88 Antonio Roldán Pérez, “Gonzalo de Illescas y la Historia Pontifical”, in Mariano Baquero Goyanes, Estudios literarios dedicados al profesor Mariano Baquero Goyanes, EDITUM, Murcia, 1974, p. 592. Il paragrafo è intitolato: “Quien fue el famoso cossario Hariadeno Barbaroxa, y la jornada que hizo contra el, nuestro Emperador Carlos V”. La Jornada è pubblicata anche in forma autonoma (RAE, Madrid, 1804). 89 Historia de Barbarroja y otras cosas de señores de estos reinos y sus orígenes y principios. BNE (MSS/6741), 90 La historia de Barbarroja o Crónica de los corsarios Barbarroja. BNE (MSS/6339). 91 Vidal, “La defensa del reino de Mallorca en la época de Carlos V (1535-1558)”, cit., pp. 562-563. Lo studioso segnala che dei prigionieri cristiani fuggiti da Algeri davano già nel 1531 le prime notizie di una intenzione del Barbarossa di saccheggiare le Baleari (p. 554). 92 Il dialogo letterario era abbastanza diffuso nel Cinquecento spagnolo, anche per quanto riguarda il tema storico, per il quale si ricorda di Alfonso de Valdés il Diálogo de las cosas

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vittoria del capitano generale d’armata Bernardino de Mendoza93 –che l’anno seguente fu anche ad Algeri– contro il turco rinnegato Carmami, e un sonetto di Eugenio de Salazar nelle pagine preliminari celebra il valore militare del condottiero spagnolo94. Sulla spedizione ad Algeri del 1541 abbiamo la Historia de Berbería di Diego Suárez, un manoscritto di 156 fogli95. Anche in questo caso si tratta di una composizione distante dall’avvenimento, perché l’autore nasce intorno al 1552. Questa spedizione fu come detto l’ultima apparizione di Carlo V in un conflitto nel Mediterraneo, e si fece su pressione della classe politica spagnola e a compimento della reiterata volontà della regina, morta nel maggio del 153996. L’esito della spedizione non giovò di certo alla propaganda, se si considera che il sovrano partì alla volta di Algeri contro il parere dei suoi capitani di galera, e che l’impresa aveva dei precedenti fallimentari nelle spedizioni di Diego de Vera (1516) e Hugo de Moncada (1519). Seguono quindi una serie di testi sulla popolazione turca, come la traduzione di Paolo Giovio, Commentario de las cosas de los Turcos (Barcelona, Carlos Amoros, 1543) che apparve già undici anni prima in italiano (1532). Il Libro del origen de los turcos e imperio de los otomanos di Andrés Cambino de Florencia97 si pone accanto a questa serie di scritture sulla cultura islamiacaecidas en Roma, altrimenti detto Diálogo de Lactancio y un Arcediano, scritto circa due anni dopo il Sacco ma pubblicato intorno agli anni Quaranta del Cinquecento. Cfr. Ángel Gómez Moreno, “El Diálogo de las cosas acaecidas en Roma y la sociedad española en los años del Emperador”, in José María Soto Rábanos (coord.), Pensamiento medieval hispano. Homenaje a Horacio Santiago-Otero, CSIC, Madrid, 1998, vol. I, pp. 497-512. 93 Della famiglia dei Condes de Tendilla e Marqueses de Mondéjar, Bernardino de Mendoza (Granada, 1501- San Quintín, 1557) fu capitano di galera nel Mediterraneo. Partecipò con Carlo V alla spedizione di Tunisi e divenne il primo governatore della Goletta (1535). Durante una battaglia con alcuni corsari algerini nel 1540 a Gibilterra perse parzialmente la mobilità delle braccia, a causa di un colpo agli arti superiori e alla testa. Morì nelle Fiandre a causa di alcune ferite riportate in battaglia. José Luis García de Paz, Universidad Autónoma de Madrid, pagina web http://www.uam.es/personal_pdi/ciencias/depaz/mendoza/bernard1.htm, consultata il 13 aprile 2013. 94 “En las empresas del fiero Marte/ noble, ingenioso y sabio cavallero/ mostraste siempre un coraçón entero/ de esfuerço lleno y militar arte./ Y agora veo a la Minerva darte/ y al dulce Apolo un lustre tal que espero/ desde el oriental gange al nuestro hibero/ loor se te apareja en qualquier parte./ Pues si tu fuerte braço con destreza/ mandando, y con valor la aguda espada/ fue siempre executor de la victoria,/ tu pluma tan despierta y bien cortada/ en prosa y verso augmenta tu clareza/ y donde quiera ya te adquiere gloria.”. 95 BNE (MSS/8594). 96 Vidal, “La defensa del reino de Mallorca en la época de Carlos V (1535-1558)”, cit., p. 573. 97 BNE (Ms. 17585).

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ca, e appare simile nell’argomento a un’opera in latino di Andrés Laguna, De origine regnum turcarum (Basilea, Winter, 1544). In ultimo segnaliamo che Vasco Díaz Tanco darà alle stampe la Palinodia de los turcos (Orense, en la impressión del propio auctor, 1547)98; nel prologo diretto a Felipe II, l’autore ammette di aver visto e letto a Bologna il testo italiano del Comentario de las guerras de los Turcos di Giovio, dedicato invece a Carlo V. Una menzione a parte merita invece il Tratado de las campañas de Carlos V desde 1521 hasta 1545, di Martín García Cereceda99. L’imponente opera dello scrittore di Cordova, che rimase manoscritta per diverso tempo, fu pubblicata in tre volumi nel 1873 dalla Sociedad de Bibliófilos Españoles a seguito del ritrovamento di un manoscritto nella Biblioteca de El Escorial100. Il Tratado è composto da un soldato dell’esercito imperiale, include nell’arco cronologico indicato alcune spedizioni in nord Africa, e non sembra possedere un grande valore letterario, anche a causa della presenza di numerosi italianismi101; è tuttavia motivo di merito l’abbondanza dei dati offerti e la curiosità nel soffermarsi su alcuni dettagli. Di particolare interesse è la sezione che descrive gli eventi del 1536, quando presso Muy, il 19 settembre dello stesso anno le truppe imperiali attaccano una torre “alta y redonda. Tenía pegado á sí esta torre un pequeño cuarto de casa, que también era fuerte, tanto ó más que la torre” (II, p. 196). L’ispezione rivelò la presenza di quattordici francesi, che tentarono di evitare la cattura rifiutando di scendere e impedendo l’accesso agli spagnoli. Carlo ordinó quindi di attaccarla, e aperto un piccolo varco “don Jerónimo de Urrea, caballero español, con una escala arremetió á la torre y entró por el portillo dentro en la torre. Tras de don Jeróni98

Vasco Díaz Tanco de Freganal, Libro intitulado Palinodia de la nephanda y fiera nacion del los Turcos y de su engañoso arte y cruel modo de guerrear y de los imperios, reynos, y provincias q se han subjectado y posseen con inquieta ferocidad. 99 Benito Sánchez Alonso, Historia de la historiografía española: ensayo de un examen de conjunto, CSIC, Madrid, vol. II, 1944, p. 69-70. 100 Martín García Cerezeda, Tratado de las campañas y otros acontecimientos de los ejércitos del Emperador Carlos V en Italia, Francia, Austria, Berbería y Grecia, desde 1521 hasta 1545, Sociedad de Bibliófilos Españoles, Madrid, 1873-1876, 3 voll. 101 Nella “Advertencia” contenuta nel vol. I della citata edizione del Tratado, Gregorio Cruzada indica che l’autore scrisse poco di quanto vissuto personalmente, e molto di quello che altri gli raccontarono (p. XII); aggiunge poi che “En este Tratado no hay que buscar bellezas literarias, aún cuando no pocas veces la frase de Cereceda es tan viril como el temple de su alma, y prueba que, en efecto, en sus juveniles años hizo algo más que hojear las obras de sus clásicos paisanos cordobeses [Seneca]. Tantos años en Italia influyen de tal modo en nuestro soldado, que no sólo palabras, sino giros mil italianos se escapan de su pluma en cada página.” (p. XIII).

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mo de Urrea quiso subir el capitán Maldonado y el maese de campo Garcilaso de la Vega” (Ibid.). La difesa dei francesi si attuò gettando una grande pietra verso gli spagnoli, ferendo mortalmente alla testa Garcilaso de la Vega, che morirà dopo qualche giorno (II, p. 197). Con la presa di Mahdia del 1550 si chiude questa metà di secolo. A precedere i resoconti sul conflitto nordafricano abbiamo il Diálogo di Pedro de la Cueva102, in cui i due interlocutori, Azevedo e Arellano, riprendono un tema legato alla conquista avvenuta quindici anni prima, secondo un genere letterario che aveva un antecedente in Barrantes Maldonado. L’opera di Pedro de la Cueva “soldado en La Goleta durante siete años [...] es una relación puntual de lo acaecido en el tiempo de su estancia, con el especial interés de reseñar con detalle cómo vivía la escasa guarnición y sus relaciones con los moros vecinos”103. Prima che Pedro de Salazar dia alle stampe la sua Historia africana, narrano l’evento altri documenti in lingua spagnola di diverso genere, ma coevi ai fatti storici. Si tratta di un pliego anonimo contenente un lungo romance e di cui non possediamo nessuna indicazione tipografica, ma sappiamo solo che “Fue embiado por un Soldado que se halló en la conquista, a otro amigo suyo que reside en Italia”104. Dello stesso anno è la relazione di Giovanni Lorenzo Otavanti, Las felicissimas nuevas de la victoria que su magestad ha auido de la ciudad de Africa, en diez de septiembre M.D.L.105. Tra queste relazioni e l’impresso napoletano di Salazar, abbiamo una ulteriore opera a carattere descrittivo di Francisco Álvarez, Historia de las cosas de Etiopía (Zaragoza, Agustín Millán, 1551).

102 Dialogo que trata de la rebelion del reyno [de] Tunez despues que su magestat lo gano (Sebastián Trujillo, Sevilla, 1550). 103 Sánchez Alonso, Historia de la historiografía, cit., p. 58. 104 Romance y relación verdadera de lo que passó en la conquista de la fortissima e inexpugnable Ciudad de Africa en Beruería, ganada por fuerça de armas por los soldados viejos españoles del Emperador y Rey nuestro Señor en el año de M.D.L. José Solís de los Santos, “Las relaciones de sucesos en la historiografía latina de Carlos V: Sepúlveda y Calvete de Estrella”, in Humanismo y pervivencia del Mundo Clásico, IV/3, 2009, p. 1334, informa anche di una ristampa dell’anno seguente “en la colección del sevillano Lorenzo de Sepúlveda: Romances nueuamente sacados de historias antiguas de la cronica de España compuestos por Lorenço de Sepulueda. Añadiose el Romance de la conquista de la ciudad de Africa en Berueria en el año M.D.L. y otros diuersos, como por la Tabla parece. En Anuers, En casa de Iuan Steelsio. M.D.LI. (Peeters-Fontainas 1965: núm. 1185, 609-610)”. 105 Segnalato in Solís, “Las relaciones de sucessos...”, cit., p. 1332.

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L’eco editoriale della conquista di Mahdia fu notevole, e coinvolse anche la produzione libraria in latino, come dimostrano le opere di Calvete de Estrella106 (1551) e di Orazio Nucula107 (1552). Sebbene la Historia africana sia stata inserita all’interno di un vasto repertorio bibliografico che riguarda le relaciones de sucessos in lingua spagnola e portoghese tra la penisola iberica e il Nordafrica nei secoli XV e XVI108, è importante sottolineare che il cronista spagnolo compose un’opera storiografica ben diversa da questi testi occasionali, pliegos sueltos in cui si raccontano degli avvenimenti allo scopo di informare e intrattenere il lettore109. Queste differenze si notano anche nei già citati resoconti in latino e in castigliano sulla conquista di Mahdia, che si limitano a una descrizione esclusiva dell’evento. Rispetto a questi altri autori e come si evince già dal titolo, Salazar aggiunge “muy nuevas cosas” alle quali conferisce ulteriore importanza, collocandole alla stregua di un corollario della singola battaglia. Si aggiunga in fine che, rispetto al corpus, sicuramente parziale, censito in questa sezione, la produzione tipografica dei fatti nordafricani del 1550 è assolutamente contemporanea all’evento e non rimane, come in altri casi, manoscritta. 1.2 La Historia al centro di un secolo di storiografia napoletana Una riflessione preliminare a proposito dell’opera di Salazar, anche rispetto al secolo di storiografia napoletana in cui è inclusa, dovrebbe avere come punto di partenza il titolo dell’opera stessa. In particolare l’impiego del lessema ‘historia’ sembra in qualche modo identificare una metodologia di composizione del testo e di lavoro storiografico. Il lemma, che si ritrova anche nei titoli di altre opere in castigliano dello stesso genere, preannuncia un modello classico già dall’etimologia. Il punto di partenza è l’accezione di “indagine, investigazione, ricerca” (dal greco ἱστορία / historía), ma anche “relazione verbale o scritta, racconto, esposizione, narrazione” comunicata da 106

Ioannis Christophori Calveti Stellae De Aphrodisio expugnato, quod vulgo Aphricam vocant, Commentarius. Antuerpiae, apud Martinum Nutium, 1551. 107 Commentariorum de bello Aphrodisiensi libri quinque auctore Horatio Nucula Interamnate. Colophn: “Romae apud Valerium & Ludouicum Fratres Brixienses. Annno (sic) Domini M.D.LII.”. 108 Si fa riferimento al già citaro Repertorio bibliográfico curato da García-Arenal et al. 109 Il genere delle relaciones de sucesos è stato così definito dal SIERS (Sociedad Internacional para el Estudio de las Relaciones de Sucesos).

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chi ha visto, da un testimone oculare (dal gr. hístor, genit. hístoros), e quindi anche da un diretto partecipante alle vicende raccontate. Un termine che indicava quindi la narrazione di un avvenimento che si è visto o che si è appreso da fonti attendibili110. Un richiamo alla relazione tra il senso della vista e la attendibilità del testo storiografico si ritrova anche in Gracián de Alderete, che nella dedica a Juan de Vega esordisce con una similitudine tra la verità della storia e l’occhio animale111. La plurivalenza della voce ‘historia’ –utilizzata ad esempio anche in alcune opere non propriamente storiografiche112– viene quindi orientata in favore di una categoria narrativa ben definita. Questa indicazione interna al titolo non appariva nelle precedenti storiografie edite nella capitale del Regno, ad eccezione di un riferimento nel Compendio delle historie del regno

110 Segnaliamo che anche Diego de Fuentes, Conquista de Africa (Zaragoza, 1562 e Amberes, 1570), compone un’opera “hecha sobre el detallado escrito de un testigo y en que muestra más rudeza que cultura de letrado. Él lo reconoce y lamenta –‘no pude por mi mal ser instruído...’– en un soneto que inserta al comienzo del libro”. Sánchez Alonso, Historia de la historiografía, cit., pp. 60-61. Anche García de Cerezeda si dichiara spesso “testigo de vista”, oppure afferma di aver appreso le notizie che riporta da fonti altrettanto attendibili, ovvero da altri testimoni oculari che presero parte agli eventi. 111 Diego Gracián de Alderete, La conquista de la ciudad de Africa en Berberia traducida de lengua latina en castellano por el secretario Diego Gracian. En Salamanca. En casa de Juan de Canoua, M.D.LVIII: “Polibio Megapolitano, excelente historiador que escrivió en los tiempos de Scipión Africano, dize que la verdad en la historia es como el ojo en el animal, porque bien ansí como si alguno sacasse los ojos al animal, todo el cuerpo quedaría inútil y sin provecho, assí también quitada la verdad de la historia todo el cuento della no valdría nada, de manera que con razón se podría llamar antes fictión o fábula que no historia”. 112 Si pensi a Pedro Burgos, Libro de la Historia y Milagros hechos a inuocacion de nuestra Señora de Montserrate (Pedro Malo, Barcelona, 1574), oppure alle novelle di Matteo Bandello, in castigliano Historias trágicas exemplares (Salamanca, 1589), probabilmente proprio a causa della dichiarazione dell’autore, secondo il quale le sue non sono favole ma storie vere, raccontate sovente da testimoni oculari. Si pensi anche a Francesco Balbi, Historia de los amores del valeroso moro Abinde Aracz y dela hermosa xarifa Aben çerases [...] vueltos en verso, Pacifico Da Ponte, Milano, 1593 (Edit16, scheda CNCE 3927), un poema in ottava rima che narra la leggenda del moro Abindarráez, ovvero una tra le più note e popolari del sec. XVI, che potrebbe aver tratto ispirazione da un episodio realmente accaduto durante la guerra di Granada. La leggenda rappresentò il tema prediletto di molti romances, e una redazione in prosa fu inserita da Antonio de Villegas in una miscellanea con il titolo di Inventario (Medina del Campo, 1565). Una seconda relazione in prosa si trova nella Diana di Montemayor. La storia appare inoltre in una delle commedie giovanili di Lope de Vega e ad essa si allude in un episodio del Quijote. Balbi elaborò questa storia d’amore di “un moro y una mora”, fondendo dati autobiografici utili alla ricostruzione della sua vita e che ampliano lo schema della narrazione tradizionale. Mario Cacciaglia, DBI, V, 1963, s.v. Balbi, Francesco.

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di Napoli di Pandolfo Collenuccio, che nel 1539 era però stampato a Venezia e solo nel 1563 fu pubblicato a Napoli113. Il Compendio è però una sorta di narrazione complessiva degli avvenimenti accaduti nel Regno, non un’opera a carattere monografico come è invece quella di Salazar. Abbiamo quindi una concezione classica della storiografia che ha in Erodoto e Tucidide due illustri modelli. I due autori occupano una posizione di rilievo tra gli esempi da imitare nella scrittura storica del Cinquecento, e sono due autori particolarmente influenti114. Entrambi gli scrittori si posero il problema dell’aderenza alla veritas, distinguendo ciò che avevano visto da ciò invece avevano solo sentito dire, ma la sostanziale differenza tra le loro metodologie risiede nella ricerca delle reali cause dei conflitti narrati, che Erodoto faceva risalire al mito mentre Tucidide attribuiva a ragioni politiche. Questa basilare contrarietà fa propendere nettamente verso il modello dell’autore della Guerra del Peloponneso, che inserisce fatti vissuti in prima persona e uditi da altri, vagliandone la veridicità e insistendo nella scrittura intesa come frutto di una profonda indagine attraverso la memoria privata e collettiva, anche di matrice orale115. Un altro aspetto peculiare di Salazar riguarda la componente monografica, che differisce dal modello annalistico – seguito ad esempio da Cereceda e da Sandoval– non solo nel trattamento di uno specifico tema, ma nel concentrarsi anche sulle vicende precedenti, guardando alle cause prime che hanno determinato la situazione oggetto di scrittura e a quelle successive, che ne sono diretta conseguenza: l’argomento è per questo affrontato nella sua totalità. Il metodo di indagine si concentra sugli aspetti attivi della storia, compiendo così una ricerca selettiva che converte la storiografia in una tipologia monografica in nome dell’ideale di imparzialità: una rigorosa descrizione dei fatti cui segue una riflessione politica che però non ritroviamo negli storiografi napoletani precedenti. Il racconto degli eventi storici è funzionale non alla lettura pubblica e al diletto dell’uditorio –come invece è proprio dei componimenti epico-lirici– ma a una lettura ben ponderata, che beneficiava della solidità delle argomentazioni e della paratassi.

Si tenga presente anche l’inedita Historia de bellis Italicis del Borgia. Sánchez García, “Género histórico y recepción de modelos”, cit., p. 165. 115 Erodoto e Tucidide, Storie – La guerra del Peloponneso, BUR, Milano, 2008, passim. 113 114

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Nel consolidarsi della storiografia napoletana del XVI secolo si rileva una maturazione consapevole nella scrittura del genere letterario: “Nella ricerca delle cause dei rivolgimenti si compiva la secolarizzazione della visione storiografica, e la ‘fortuna’, introdotta frequentemente come protagonista, veniva ormai raramente –e spesso solo per ossequio a un topos– ricondotta a imprescindibili disegni divini”116. In ambito iberico, la seconda metà del Cinquecento è il periodo in cui il concetto di storia e il problema della teorizzazione del genere letterario comincia a venire esposto in alcuni trattati pertinenti: punti saldi dell’attività dello storiografo sono la ricerca della verità e l’imparzialità nell’esposizione dei fatti117. Nel De Historiae institutione (Amberes, 1557), Sebastián Fox Morcillo sembra operare una scelta su alcuni modelli di scrittura grecoromani118; Juan Páez de Castro indicherà invece le doti, funzionali alla scrittura, che dovrà possedere lo storiografo119; sarà poi nel De conscribenda rerum historia libri duo (Zaragoza, 1591) che Juan Costa suggerirà i contenuti che avrebbero diversificato le cronache caroline da semplici resoconti120. I canoni indicati erano ovviamente già in parte presenti nelle opere anteriori: un profilo caratteriale dei personaggi è ben evidente nella Historia africana di Salazar, che, al contrario del De Aphrodisio expugnato di Calvete, non inizia con una descrizione geografica del territorio. Non sembrerebbe casuale che le segnalate affinità tra Salazar e Sandoval riguardino soprattutto la narrazione delle origini del corsaro Dragut, in linea con la necessità di offrire un profilo caratteriale del personaggio.

Tateo, “Storiografi e trattatisti, filosofi, scienziati, artisti, viaggiatori”, cit., p. 1012. Sui queste teorie cfr. Sánchez Alonso, Historia de la historiografía, cit., pp. 8-12. 118 “Refiérese siempre a los historiadores griegos y latinos, únicos que para él cuentan [...] Refuta a Dionisio de Helicarnaso, que entendía que sólo lo agradable debe incluirse; censura a Heródoto por insertar muchas fábulas, y a Livio por loar excesivamente al pueblo romano”. Ivi, p. 10. 119 “[...] gran tino para seleccionar lo que puede decir y lo que puede omitir, y elocuencia para procurar a la historia su misión aleccionadora, y dotes psicológicas para hacer retratos físicos y morales de los personajes, atribuyendo a cada uno los sentimientos que le corresponden, y vigorosa fantasía para describir dando la sensación de realidad”. Ivi, p. 11. 120 “La crónica de Carlos V no había de reducirse a la reseña de su tiempo, sino ir precedida de la descripción del país, divisiones de su historia, noticia de los lenguajes, cambios sucesivos de uso, trajes, etc., nociones de la fauna y flora, riquezas minerales, industrias, personas célebres en religión, letras, artes, armas, etc., extendiéndose, además, a los otros paises a que llegó la acción española”. Ibid. 116 117

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Nella creazione di un canone storiografico del XVI secolo, si faceva probabilmente riferimento alla compilazione in latino di una cronaca generale dell’Imperatore, che contenesse quegli elementi storici, geografici, etnici e culturali già descritti da cronisti precedenti, suggerendo una metodologia di scelta del materiale e di resa letteraria. Una modalità di indagine e di selezione delle fonti che, con le dovute differenze di stile, già seguiva García Cereceda –che dà anche alcuni riferimenti geografici dei luoghi che nomina– e che Sepúlveda dichiarerà esplicitamente nella corrispondenza con Diego de Neila121. Le due stampe di Salazar sono la coppia di opere in castigliano probabilmente più poderose pubblicate a Napoli durante il regno di Carlo V, ed entrambe si collocano in una posizione rilevante all’interno dell’editoria partenopea rinascimentale. Si tratta inoltre di un genere di scrittura diverso sia rispetto al precedente sia al successivo, e in particolare la pubblicazione del 1552 sui conflitti nordafricani “si por una parte es extraña a la tradición historiográfica napolitana –al ser ajeno Salazar a aquella tradición–, por otra se inserta bien en ella, al proponer desde la capital del Regno una modalidad temática nueva de la historia contemporánea”122. Non si può ignorare che la scrittura di testi storici nel Regno di Napoli avesse negli autori della prima metà del Cinquecento una forte componente cronachistica, che vede la predilezione per il racconto dei fatti interni ai confini, senza affacciarsi all’Europa, come invece avverrà con maggiore interesse nel XVII secolo. L’indagine dello storiografo spagnolo si costruisce indubbiamente su fonti orali –come egli stesso ricorda nel prologo della Hispania Victrix– su testimonianze dirette e su documenti ufficiali, nell’evidente intenzione di rendere al lettore una versione esauriente dei fatti, e che contenga anche le ragioni politiche del conflitto e la visione globale del contesto mediterraneo. Questo uso di testimonianze si ritrova anche nella storiografia regnicola precedente: in particolare, un secolo prima il Ferraiolo aveva indicato nel padre la fonte originale delle informazioni sull’entrata a Napoli di Alfonso I d’Aragona (1443), poiché il genitore fu spettatore dello storico ingresso123. Tuttavia, a differenza dell’autore della Cronaca, Salazar non si concentra unicamente sui fatti napoletani, ma dà ampio spazio a vicende politiche che 121

Cfr. p. lvii, nota 57. Sánchez García, “Género histórico y recepción de modelos clásicos”, cit., p. 176. 123 Franco Pignatti, DBI, XLVI, 1996, s.v. Ferraiolo. 122

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hanno luogo al di fuori dei confini del Regno, conferendo all’opera e ai fatti narrati un respiro più internazionale. Notiamo inoltre una differenza nel metodo storiografico dell’amplificazione attraverso la descrizione di luoghi e popoli, in cui “Geografia ed etnografia arricchiscono la scrittura storiografica anche per rendere più captante la narrazione”124: elementi che Tucidide rifiutava in nome di una analisi sulle cause dei fatti. Questo procedimento circostanziato, che come detto ritroviamo nel De Aphrodisio expugnato di Calvete e anche nella traduzione di Gracián, non è in Salazar così funzionale alla ricerca di una trama più densa, che sarà invece fornita dall’origine degli eventi e dalla loro cronologia. Lo storiografo attivo nel Regno di Napoli propende maggiormente verso la descrizione particolareggiata degli eventi e il gusto per la narrazione aneddotica. L’idea di una storiografia attendibile, basata sulla veritas, sembrerebbe palesarsi anche nella scelta di alcuni titoli: si consideri ad esempio la prosificazione in italiano di Sertorio Quattromani del De bis recepta Parthenope di Cantalicio, che si riallaccia a quanto detto sul modello di Tucidide nel rendere il titolo Le Historie delle guerre fatte in Italia da Consalvo Ferrando di Aylar, di Cordoua, detto il gran Capitano. Lo stesso dicasi per la traduzione del De bello neapolitano del Pontano, resa da Giacomo Mauro con il titolo Historia del Regno di Napoli. L’inclusione del lemma ‘historia’ sembrerebbe conferire alle due opere quel rimando semantico di cui si è parlato in precedenza, anche a livello di narrazione in prosa, distaccandosi ad esempio dal genere epico-lirico dell’originale latino, e di fatto confermando un ulteriore cambio nella scrittura storiografica regnicola. Al prototipo greco si aggiunga tuttavia la presenza di traduzioni in castigliano del XVI secolo di altri storiografi classici come Livio, di cui si registrano ad esempio Las decadas (Toledo, Juan de Villaquirán, 1516) o Las quatorze decadas (Zaragoza, Jorge Coci, 1520) tradotte in castigliano da Pedro de la Vega. Si noti inoltre la presenza, sempre in traduzione, di opere come la Historias de todas las guerras civiles que uvo entre los romanos, di Appiano (Alcalá de Henares, Miguel de Eguía, 1536) o La hystoria que escriuio en latín el poeta Lucano (Lisbona, Luis Rodríguez, 1541) tradotta in castigliano da Martí Lasso de Oropesa; la Historia imperial y Cesarea di Pedro Mexía (Sevilla, Juan de León, 1545) in cui si narrano la vita e le gesta 124

Tateo, “Storiografi e trattatisti, filosofi, scienziati, artisti, viaggiatori”, cit., p. 1014.

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degli imperatori romani a partire da Giulio Cesare, che vide due anni più tardi una seconda edizione, o il Libro de los comentarios de Gayo Iulio Cesar delas guerras dela Gallia, Africa y España tambien dela ciuil, tradotto in castigliano da Diego López de Toledo e stampato a Parigi nel 1549, ma distribuito ad Anversa. Di fatto Salazar in alcuni passaggi rimanda a Livio, che evidentemente conosce, e lo fa sia nel prologo sia quando, per bocca di Luis Pérez de Vargas, racconta la difficoltà che ebbero le truppe di Scipione nella campagna africana (XI 68-80). Anche in questo caso sembrerebbe trattarsi di ulteriori modelli di scrittura storiografica –usati ad esempio nella compilazione di opere italiane–, che tuttavia non entrano in conflitto con quelli greci di Erodoto e Tucidide. L’esempio di Livio potrebbe inserirsi in un ideale storiografico che pone al centro l’impero romano –di cui Carlo V era discendente– seguendone la formazione e il progresso. Manca quindi quella sorta di oggettività che caratterizzava il modello tucidideo, e che Salazar rivendica nel prologo della Hispania Victrix125. L’autore dichiara la possibilità di una assenza di distacco, proponendo al tempo un proposito di oggettività nella scrittura delle vicende contemporanee. I modelli latini sembrerebbero quindi accolti in maniera funzionale alla descrizione della grandezza dell’impero e della sua epopea. Più che come esempi di scrittura, le traduzioni sopra citate dovrebbero quindi inquadrarsi come testimonianze di una originaria grandezza imperiale, rispondenti alla ricerca di quei fasti che appartenevano al popolo romano e che vanno quindi rintracciati agli albori della passata magnificenza. Salazar sembrerebbe in parte allinearsi alla neutralità critica della storiografia napoletana precedente, limitandosi all’esposizione dei fatti. Il quadro che viene offerto nei primi capitoli della Historia africana serve a mostrare al lettore sia la questione mediterranea sia il problema della pirateria, offrendo un quadro politico europeo e le motivazioni religiose dei conflitti. Il fattore divino sembrerebbe concepito come giustizia superiore, che permette al cristiano di prevalere sulla “falsa” dottrina musulmana, e che rappresenta il garante del trionfo degli eserciti imperiali.

“Para dezir verdad, cosa de que yo siempre me he preciado y procurado (por la bondad de Dios) grande es el amor que yo tengo a mi nación, y desseo con estraña affición el augmento y grandeza della, mas no de tal manera que engendre en mi pecho odio contra las otras naciones para que, cegado con la passión, no vea, calle o dissimule, añada o quite a ninguna de las otras lo que no haría en la mía”. (f. ¶ 2). 125

2. LA HISTORIA DI SALAZAR NELLA NAPOLI DEL VICERÉ TOLEDO Durante il governo di don Pedro Álvarez de Toledo (1532-1553) la produzione libraria napoletana assume maggiore rilevanza rispetto agli anni precedenti. Tobia Toscano rileva questa fioritura editoriale dai primi anni Trenta fino al 1552, attirbuendone i meriti, più che al Toledo, al “ruolo centrale e di Vittoria Colonna [...] e, soprattutto, di Alfonso d’Avalos [...] che [...] sembra riemergere come animatore di una ‘corte’ aperta alla letteratura in volgare essendo egli stesso un ‘dilettante’ in poesia”1. I primi anni del governo del Toledo sono particolarmente densi di significato: nel rapporto tra storia e lingua va ricordata la sovrapposizione tra la scrittura del Diálogo de la lengua e l’entrata dell’Imperatore a Napoli nel novembre del 1535, dopo la vittoria di Tunisi (20 luglio 1535), che pone al Regno una questione della lingua castigliana2. Dopo Napoli, lasciata il 22 marzo del 1536,

1 Tobia R. Toscano, Letterati, Corti, Accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Loffredo, Napoli, 2000, p. 10. 2 Si ricordi che già nel 1535 Juan de Valdés sosteneva que “ya en Italia assí entre damas como entre cavalleros se tiene por gentileza y galanía saber hablar castellano” (Juan de Valdés, Diálogo de la lengua, ed. di Cristina Barbolani, Cátedra, Madrid, 1984, p. 119). Una questione della lingua che trova successive conferme nella pubblicazione nel 1560 del Paragone della lingua toscana e castigliana di Giovanni Mario Alessandri, probabilmente la prima gramamtica spagnola per italiani, per cui cfr. Riccardo Scrivano, “Libro spagnolo e editoria italiana nel secondo Cinquecento”, in Encarnación Sánchez García et al. (a cura di), Spagna e Italia attraverso la letteratura del secondo Cinquecento, Atti del Colloquio Internazionale di Napoli (21-23 ottobre 1999), L’Orientale, Napoli, 2001, pp. 29-42 (32). Sulla questione si veda ora Encarnación Sánchez García, “El Diálogo de la lengua a la luz de la identidad de Martio (Bernardino Marti-

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Carlo V è a Roma, dove nel suo discorso davanti a Paolo III e alla corte papale (aprile 1536) sceglie il castigliano come veicolo comunicativo3. L’attività governativa di questi primi anni di amministrazione del Marchese di Villafranca, importante riformatore culturale e politico del Regno, andrà proprio nella direzione di una continua manifestazione della grandezza imperiale4. A due anni dalla nomina del Toledo, nel 1534 il viceré dovrà affrontare il problema della pirateria: in particolare Khayr-ed-Din Barbarossa guidava una poderosa flotta patrocinata dal gran Turco, con cui attaccava le coste italiane e le navi che transitavano nel Mediterraneo5. La questione corsara procede in parallelo con quella francese, a causa dell’alleanza tra Francesco I, il Barba-

rano)”, in Ead., Rinascimento meridionale. Napoli e il viceré Pedro de Toledo (1532-1553), in c.d.s. 3 Il 5 aprile del 1536 il pontefice accoglie Carlo V a Roma, reduce appunto dalla vittoriosa impresa di Tunisi. Il cerimoniale di accoglienza trova il precedente nell’ingresso del 1469 di Federico III, quando sulla soglia pontificia sedeva Paolo II. A Roma viene rimossa ogni traccia del Sacco grazie all’imponente intervento urbanistico-architettonico di Latino Giovenale Manetti. Il corteo attraversa le antiche vestigia (valorizzate dal sacrificio di quelle medievali, persino con abbattimento di chiese) fermandosi in piazza S. Pietro. L’esibizione della città suggestiona Carlo, che viene solennemente esortato al prosieguo della lotta antiturca. Cfr. l’entrata di Gino Benzoni nell’Enciclopedia dei papi (Treccani, Roma, 2000, s.v. Paolo III). 4 Carlos J. Hernando Sánchez, “El virrey Pedro de Toledo y la entrada de Carlos V en Nápoles”, Investigaciones históricas: época moderna y contemporánea, 7, 1987, pp. 1-16. 5 Kheyr ed-dīn, noto ai cristiani come Barbarossa, fu il successore del fratello Arouj, che nel 1504 diede inizio al nuovo regime della pirateria dopo che i Re Cattolici avevano respinto i mori oltre Gibilterra. All’ingegno militare del fratello aggiunse la prudenza dell’uomo di stato: si dichiarò vassallo dell’impero ottomano, che annetteva Algeri (la base del pirata) ai domini del Sultano, e contò sulla protezione di un potente monarca. La distanza da Costantinopoli gli permetteva inoltre una certa autonomia di azione. Nel 1529 costrinse alla resa la fortezza del Peñón de la Gomera, che permise maggiore libertà agli sbarchi dei pirati. Nel 1534 attraversò lo stretto di Messina e saccheggiò Reggio Calabria, proseguendo verso nord. A Fondi tentò di catturare Giulia Gonzaga allo scopo di farne omaggio al Sultano, ma la donna fuggì prima del suo arrivo. Per questo “affronto” saccheggiò Fondi, lasciandola alla mercè dei suoi uomini. Fece quindi rotta verso Tunisi, conquistandola. Questi avvenimenti provocarono la spedizione di Carlo V del 1535, in cui la città fu riconquistata e il pirata messo in fuga. Carlo ordinò quindi ad Andrea Doria di catturare il Barbarossa. Gosse, Storia della pirateria, cit., pp. 25-44. Sulla figura del corsaro si vedano anche Encarnación Sánchez García, “Figura y genio del enemigo: los retratos de Barbarroja en el Museo de Paolo Giovio”, in Hélène Tropé (ed.), S’opposer dans l’Espagne des XVIe et XVIIe siècles. Perspectives historiques et représentations culturelles, Université Sorbonne Nouvelle, Parigi, 2014, pp. 215-232 e Miguel Ángel de Bunes Ibarra, Los Barbarroja, Alderabán, Madrid, 2004. Sulla formazione culturale dell’immagine del corsaro, si segnala la recente pubblicazione di Encarnación Sánchez García, La fama de Khayr-ed-Din Barbarroja en el Renacimiento: retratos literarios y artísticos, Isis, Istambul, 2013.

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rossa e Solimano6. In realtà si tratta di una problematica che andava progressivamente crescendo già a partire dagli anni Venti, e la precedente esperienza di Otranto (1480) aveva dimostrato che poco si poteva contare sull’appoggio di altri potentati cristiani, che avrebbero potuto cadere nella tentazione di approfittare degli attacchi turchi per indebolire il Regno7. La vittoria di Tunisi (1535) e la successiva entrata di Carlo a Napoli sono momenti di trionfo atti a saldare il rapporto tra la città e il suo sovrano, oltre che a esaltare le gesta dell’Imperatore impegnato a difendere i suoi domini. I tipografi napoletani contribuirono a propagare i successi militari, e di fatto –come sottolinea Toscano– il 1536 rappresenta un momento di ripresa dell’attività tipografica napoletana, in cui la produzione a stampa tocca il vertice massimo con 15 edizioni: la tipografia partenopea procedeva probabilmente in parallelo alle esigenze “dettate da occasioni ufficiali più che a programmi editoriali di medio periodo” 8. Questi avvenimenti rappresentano probabilmente il punto di partenza per orientare ogni forma artistica di rappresentazione degli eventi verso la magnificenza del monarca 9:

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Francesco I di Valois-Angoulême (1494-1547) fu protagonista di un continuo conflitto con Carlo V, che nel 1543 lo portò anche a stringere alleanza con i Turchi. A seguito di quella alleanza, in quegli anni Barbarossa si era stabilito nella baia di Tolone; la nuova fratellanza consisteva anche nell’addebitare alla Francia le spese dell’equipaggio. Come indica Gosse (Storia della pirateria, cit., p. 43) il corsaro di tanto in tanto comandava di attaccare il Re di Spagna, ma per la maggior parte del tempo se ne stava “pigramente occupato a vuotare le casseforti del re di Francia”. Kanuni Sultan Suleyman, Solimano II “Il Magnifico” (gran Turco), era un abile legislatore e stratega militare, oltre che un ottimo poeta. Governò per quarantasei anni fino alla morte, il 5 settembre 1566. 7 Giuseppe Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), in Id., Storia d’Italia, III/2, UTET, Torino, 2005, pp. 411-413. 8 Toscano, “Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi viuda”, cit., pp. 37-38, che aggiunge: “si potrebbe anche pensare che sui torchi del Sultzbach, da cui escono nello stesso anno 11 libri, abbiano avuto la precedenza le pubblicazioni a vario titolo occasionate dalla presenza a Napoli di Carlo V, reduce dalla spedizione di Tunisi, senza dimenticare che la stampa del Vocabulario di Fabricio Luna (J. Sultzbach), pure avviata a immediato ridosso della partenza dell’imperatore per Roma fosse poi completata non prima della fine di settembre.”. 9 Hernando Sánchez (“El virrey Pedro de Toledo” cit., p. 13) ricorda le parole del Parrino a proposito dell’entrata di Carlo V nella capitale: “Bastará dire, che l’architettura, il pennello, lo scalpello, l’invenzione, la Rettorica, la Poesia e quanto hanno di bello le Scienze, e l’Arti, fu tutto abbondantemente impiegato per celebrar le vittorie ed innalzare le lodi di questo Augusto Monarca”. Domenico Antonio Parrino, Teatro eroico e politico dei viceré del regno di Napoli, Napoli, 1692, pp. 159-160.

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linee di governo che ben si sposavano con gli orientamenti politici e i gusti letterari del viceré10. Nel 1541 appare la prima iniziativa editoriale in lingua spagnola ascrivibile al suo governo: il trattato militare di Francisco de Pedrosa, Arte y suplimento rei militar, stampato dal tipografo Giovanni Sultzbach. Non sembrerebbe un caso che proprio in quegli anni prendeva corpo le riforma cittadina voluta dal Toledo, che prevedeva un risanamento urbanistico e un miglioramento delle difese e delle fortificazioni. Pur non rappresentando un testo storiografico, l’opera del Pedrosa: “testimonia una apertura de la cultura impresa hacia nuevos géneros, de acuerdo con gustos que evolucionan al ritmo de los acontecimientos bélicos patrocinados o padecidos por el Emperador, pero que también dependen de orientaciones políticas y estratégicas de la Nápoles del virrey Toledo y que celebran todavía los grandes logros de los héroes napolitanos en Pavía”11. Questo manuale sull’arte della guerra, corredato da ricche e numerose illustrazioni di armamenti, è un prodotto tipografico di grande valore che, in un certo senso, smentisce quanto affermava Giustiniani sulla qualità dei testi a stampa partenopei contemporanei rispetto a quella degli incunaboli: per l’editoria napoletana il Cinquecento rappresenta infatti un momento in cui si moltiplicano gli stampatori del Regno, senza però riscontrare una miglioria della qualità tipografica12. L’importanza di questo trattato così poderoso va quindi considerata a partire dal contesto in cui appare, ma risiede anche nella sua relazione iconografica con il De re militari di Roberto Valturio (Verona, 1472). L’incunabolo in latino del riminese ebbe un notevole successo europeo, testimoniato dal volgarizzamento italiano di Paolo Ramusio (Verona, 1483) e dalle Carlos J. Hernando Sánchez, “Poder y cultura en el Renacimiento napolitano. La biblioteca del virrey Pedro de Toledo”, Cuadernos de historia moderna, 9, 1988, pp. 13-34. 11 Sánchez García, “Apuntes sobre la lengua castellana en la Nápoles renacentista”, cit. 12 Lorenzo Giustiniani, Saggio storico-critico sulla tipografia del Regno di Napoli, Vincenzo Orsini, Napoli, 1793, pp. 110-111: “Alcune delle nostre officine si videro ben fornite similmente di caratteri greci ed ebraici da farne intere edizioni. Le nostre getterie non furono certamente delle ultime, e più che altrove si mantenne gran pezza l’arte della stampa presso di noi. La carta incominciò a degradare da quella prima eccellenza: ma s’introdusse bensì la carta torchina, affinchè maggiormente risaltati fossero i caratteri sulla medesima; e non videsi affatto disusata l’usanza d’imprimersi alcune copie di libri in pergamena. L’uguaglianza dell’inchiostro, la vivacità del rosso, e l’esattezza del registro del torchino, si praticarono benanche in molte officine di questo secolo; ma la magnificenza delle prime edizioni andò a perdersi ben presto, e non più videsi quello impegno negli artigiani di volersi sempreppiù perfezionare nel lor mestiere. Essi incominciarono a far servire l’arte al loro interesse, e quindi ritroviamo di uno stesso tipografo edizioni buone, mediocri, e pessime.”. 10

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ristampe e traduzioni francesi del XVI secolo. Scritto a metà Quattrocento e dedicato a Sigismondo Malatesta, è possibile che nel secolo successivo il testo di Valturio circolasse fra i militari –o più che altro fra i cultori di testi antichi– senza una rilevante utilità pratica, poiché spesso le tecniche e i macchinari mostrati non erano molto adeguati al periodo: le illustrazioni sembrano infatti più radicate nella cultura medievale che rinascimentale13. Le affinità iconografiche dell’opera di Pedrosa rispetto al trattato di Valturio non riguardano la totalità delle illustrazioni ma buona parte di esse, che appaiono spesso composte: in certe xilografie della cinquecentina partenopea si includono elementi di più raffigurazioni del trattato veronese14. Certo è che le incisioni presentano leggere varianti, al contrario dei temi raffigurati, che sono invece gli stessi15. Come veterano della milizia, Pedrosa potrebbe aver conosciuto il testo del riminese durante una delle campagne militari nel nord Italia a cui partecipò; è altresì probabile che Sultzbach, prima di giungere a Napoli, potesse aver avuto rapporti con le tipografie veronesi o francesi, dalle quali avrebbe importato le incisioni per il trattato militare napoletano, che di fatto nell’editoria partenopea della prima metà del XVI secolo sono ad oggi un unicum16. L’esame dell’opera di Pedrosa non ha evdenziato nessun legame

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Ringrazio per il suggerimento e per il prezioso scambio di informazioni il prof. Oronzo Brunetti. 14 Sebbene le incisioni che ritroviamo degli incunaboli e nelle edizioni a stampa di Valturio provengano in gran parte dalla tradizione manoscritta, sembrerebbe che Pedrosa si basò su un’edizione a stampa, poiché alcune immagini affini alle due opere non si trovano nei codici del riminese. 15 Le xilografie inserite nelle stampe di Valturio sono state ipoteticamente attribuite a Matteo de’ Pasti, poiché come l’autore risiedeva a Rimini, alla corte di Sigismondo Malatesta. Francesco Scipione Maffei, Verona illustrata, Vallarsi-Berno, Verona, 1732, vol. III, p. 368. 16 Simona Pignalosa (che non menziona il trattato militare di Pedrosa) ipotizza he Sultzbach si trasferì a Napoli a causa della crisi delle officine nazionali in Germania, favorito dalla marcia delle truppe tedesche verso l’Italia. Simona Pignalosa, “Sultzbach, Giovanni”, in Marco Santoro (dir.), Dizionario degli editori, tipografi, librai itineranti in Italia tra Quattrocento e Seicento, Fabrizio Serra, Pisa-Roma, 2013, vol. III, p. 1317. Si consideri che anche il napoletano Vallo libro contiene un pregiato apparato iconografico, con il quale tuttavia non si riscontrano affinità evidenti come tra Valturio e Pedrosa. Sulla tematica del trattato e sulle peculiarità linguistiche cfr. Roberto Mondola, “Literatura militar en tiempos del virrey Toledo: el Arte y Suplimento de Francisco de Pedrosa (Nápoles, G. Sultzbach, 1541)”, in Sánchez García (dir.), Rinascimento meridionale, cit, in c.d.s.

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diretto con il viceré, ed è dedicato a un certo Joan de Joara, “capitán del gran Castilnovo de Nápoles”17. Sette anni più tardi rispetto all’Arte y suplimento, le leggi imposte dal Toledo misero un freno alla iniziale “libertà” concessa all’industria tipografica: prima di dare ai torchi un’opera bisognava ottenere l’approvazione ecclesiastica; il controllo sulla stampa passerà successivamente nelle mani dello stesso potere vicereale18. È possibile che le nuove norme determinarono un calo produttivo, ma Toscano sottolinea la parzialità di questa motivazione legata alla severità della censura, poiché l’attività tipografica napoletana della prima metà del Cinquecento soffriva più il “mancato passaggio dalla dimensione artigianale a quella industriale”19. Non è forse un caso che in questo contesto di riordinamento dell’attività tipografica appaia la prima pubblicazione storiografica in lingua spagnola, legata al successo di Carlo V nella campagna di Germania contro i luterani: la Historia de los successos de la guerra que la magestad del invitissimo don Carlos Quinto Emperador de los Romanos, y Rey de España, y Alemaña, hizo contra los Principes, y Ciudades rebeldes de Alemaña, y del fin que tuuo (Napoli, Paolo Suganappo, 1548), scritta da Pedro de Salazar. L’opera vide la luce una decade più tardi rispetto alle dichiarazioni di Carlo del 1536, e coincise con il viaggio del principe Felipe in Italia. L’eco editoriale dei conflitti in

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Probabilmente Pedrosa, soldato che aveva combattuto nel nord Italia (1521-1524) e che visse a Napoli al tempo di Gonzalo Fernández de Córdoba, ebbe come comandante lo stesso Joara. La dedica che apre il volume è una vera e propria lode del capitano Joara, definito “la más eficace y principal causa de ponerme en todo esto”, con chiara allusione alla scrittura del suo trattato. Come afferma Pedrosa nel prologo, fu Joara che lo incaricò di scrivere a proposito delle battaglie tra spagnoli e francesi in Italia, commissionandogli persino un’opera sul Gran Capitán “por no aver español ni otro ninguno que la quisiere escrivir bien sino mendosamente”. Di questo testo, che l’autore dice di aver composto dopo aver terminato i nove libri dell’Arte y suplimento rei militar, non si hanno riscontri concreti. 18 Giustiniani, Saggio storico-critico sulla tipografia del Regno di Napoli, cit., p. 111: “Il Vicerè D. Pietro di Toledo nel dì 15 ottobre del 1544 ordinò, che tutto ciò che voleasi stampare avesse prima dovuto mostrarsi al Cappellano Maggiore, aderendo forse alla Bolla di Leone X del dì 4 maggio del 1525 colla quale avea di già proibito lo stamparsi libri senza licenza dell’Ordinario. Indi lo stesso Vicerè nel dì 20 novembre del 1550 inculcò, che ci avesse voluta la sua licenza per istampare finanche le più picciole e volanti cose, e questa fu certamente una risoluzione miglior della prima”. 19 Toscano, “Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi viuda” cit., p. 39.

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terra tedesca si propagò anche a Venezia, con la pubblicazione nello stesso anno dei Comentarios di Luis de Ávila y Zúñiga e di Joan de Godoy20. Nella dettagliata relazione di Calvete de Estrella (1552)21, i successi militari di Carlo V precedenti il 1548 sono già celebrati nei giorni che seguono l’entrata a Genova dell’erede al trono –accolto anche dagli ambasciatori del Regno di Napoli e di Sicilia– che trova le commemorazioni di questi eventi su di un arco di trionfo: Estavan en entrambos lados d’el arco pintadas las immortales victorias y hazañas d’el Emperador don Carlos su padre. Al yzquierdo, que era al norte, estavan dos grandes matronas que representavan a Alemaña y Ungría, y en la una parecía el río Albis con esta letra GERMANICUS Germanico Significa la victoria que uvo el Emperador en Alemaña, y la prisión d’el elector Juan Federico duque de Saxonia. En la otra el Danubio con esta letra TURCICUS Turcico Donde se mostrava la vergonçosa huída d’el gran Turco Soltán Solimano Ottomano. [...] De la parte hazia el mediodía avía otra donzella pintada en hábito bárbaro, que representava a África con esta letra AFRICANUS Africano

20 Comentario del illustre Senor Don Luis de Auila y Cuniga ... dela guerra de Alemaña hecha de Carlo V ... e nel año de MDXLVI y MDXLVII, Thomás de Çornoça, Venezia, 1548 (Edit 16, scheda CNCE 3572); El primer comentario en la guerra de Alemaña, Venezia, Francisco Marcolini, 1552 (Edit 16, scheda CNCE 3574); El primer comentario en la guerra de Alemaña, Francisco Marcolini, Venezia, 1553 (Edit 16, scheda CNCE 3575). L’opera vide anche alcune traduzioni in italiano, sempre a Venezia: Brieue commentario dello illustre signor don Aluigi d’Auila, et Zuniga commandator maggior d’Alcantara; nella guerra della Germania fatta dal felicissimo et maximo imperadore Carlo V d’Austria, del MDXLVI et MDXLVII. Tradotto di spagnuolo in lingua toscana, Venezia, 1548 (Edit 16, scheda CNCE 3571); Commentario dello illustre signor don Aluigi d’Auila, et Zuniga, commendator maggior d’Alcantara, nella guerra della Germania fatta dal felicissimo, et massimo Carlo V imperator romano re de Spagna del MDXLVI et MDXLVII. Tradotto di spagnuolo in lingua toscana, corretto, et emendato per l’istesso auttore et aggiuntoui nel fine, il successo di Bohemia, Thomas di Zornoza, Venezia, 1549 (Edit 16, scheda CNCE 3573). Joan de Godoy scrisse invece i Comentarios de la guerra contra los rebeldes de Alemania, Venezia, 1548, di cui non si conosce il tipografo e che fu tradotta in italiano nello stesso anno e pubblicata sempre a Venezia nella tipografia di Comin da Trino (Edit 16, scheda CNCE 21406). 21 El Felicíssimo viaje del muy alto y muy poderoso príncipe don Phelippe, hijo del Emperador don Carlos Quinto Máximo, desde España a sus tierras de la baxa Alemaña: con la descripción de todos los estados de Brabante y Flandes. Escrito en quatro libros por Iuan Christóval Calvete de Estrella. En Anvers, en casa de Martín Nucio. Año de M. C. LII.

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Que significava la victoria y conquista de la nombrada ciudad de Túnez y de la fuerça de La Goleta. (f. 16v-17)

Napoli –che nel 1535 aveva celebrato l’entrata di Carlo V e la conquista di Tunisi– esalterà la recente vittoria in Germania attraverso la stampa e proprio grazie alla pubblicazione di Salazar, che consegnerà personalmente al futuro sovrano una copia del suo lavoro22. Come annuncia lo stesso storiografo, la Seconda parte (inedita) della Historia del 1548 avrebbe dovuto comprendere anche la rivolta napoletana dell’anno precedente, e, come si deduce dalla dedica a Felipe II che apre il manoscritto dello storiografo, avrebbe dovuto pubblicarsi intorno alla metà degli anni Cinquanta23. La seconda opera di Salazar appare quattro anni più tardi rispetto alla precedente ed è stampata da un altro tipografo: la Hystoria de la gverra y presa de Africa: con la destruycion de la villa de Monazter, y ysla del Gozo, y perdida de Tripol de Berberia: con otras muy nueuas cosas (Napoli, Mattia Cancer, 1552). Si tratta di un ampio resoconto dei nuovi eventi militari che derivano dalla politica nordafricana dell’imperatore, e che coinvolgono direttamente il Regno. Questa volta sono le flotte del pirata Dragut, successore di Kheyr ed-Dīn Barbarossa, a saccheggiare le coste peninsulari24. Entrambe le opere napoletane di Salazar sembrerebbero suggerire una particolare attenzione divulgativa degli importanti eventi che riguardavano il Regno, includendoli questa volta in un contesto europeo; altrettanto deducibile è lo sforzo dell’editoria napoletana in castigliano di abbinare la diffusione di opere di storia contemporanea –già evidente durante il precedente governo di Gonzalo Fernández de Córdoba25– con la necessità di 22

Si veda il cap. 2.1. La dedica “Al muy alto y muy poderoso Señor don Phelippe de Castilla, rey de Napoles, Ynglaterra, y Francia” evidenzia che la data di ultima stesura fosse posteriore al 1554, quando Felipe II era già succeduto al padre. Ringrazio José Solís per l’indicazione. 24 Draghut Rais fu uno dei pochi corsari turchi nato musulmano, e alla morte del Barbarossa ne raccolse l’eredità. Originario dell’Anatolia, come spiega anche Salazar, nacque in una città di fronte all’isola di Rodi e morì nel 1565, colpito da una scheggia durante l’assedio di Malta. Salazar racconterà la morte del corsaro nella Hispania Victrix del 1570. Tra i principali protagonisti della Historia de la guerra y presa de Africa, partecipò anche ad alcune spedizioni con lo stesso Barbarossa come suo luogotenente, tra cui la battaglia di Prevesa del 1538. Catturato una sola volta (1540) il ritorno in libertà coincise con il ritiro a Costantinopoli del Barbarossa, di cui gli fu affidata l’intera flotta. Di base ad Algeri, quando si accorse che la città non offriva più un buon riparo si spostò a Djerba e si impossessò di Mahdia, che i cristiani riconquistarono quando il corsaro era assente. Gosse, Storia della pirateria, cit., pp. 45-50. 25 Sánchez García, Imprenta y cultura, cit., p. 19-42. 23

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una propaganda politica che sostenesse un processo di integrazione europea e di protezione –in particolare dipendente dalla politica dei viceré di Napoli e Sicilia– delle posizioni raggiunte in Africa. All’interno della produzione a stampa della prima metà del XVI sec., le due opere di Salazar costituiscono il primo nucleo di testi ascrivibili al genere storico editi a Napoli in lingua castigliana. Nel trattamento di eventi contemporanei si riscontra una certa affinità con la tradizione storiografica aragonese, rispetto alla quale “se confirma el enfoque sincrónico [...] y se renueva también la vocación a la exaltación de la dinastía, que había sido tan connatural al método de los humanistas napolitanos de la segunda mitad del XV”26. I due testi di Salazar: demuestran además cómo la tradición historiográfica del humanismo aragonés, enraizada en la actividad de las academias, se diluye en tiempos del Toledo para dejar paso a una producción escrita por autores advenedizos, que proponen una narratio en la que la noticia de la actualidad se pone al servicio de la exaltación de la nueva dinastía, representada ahora por la figura del Emperador27.

In particolare, la Historia africana “recoge el reconocimiento de una amplificación del destino histórico del Regno, ahora principal baluarte de la frontera africana del Imperio carolino”28. La produzione a stampa partenopea in castigliano inaugura quindi un genus letterario destinato al successo negli anni a venire, che si manifesta e si valorizza –nel caso della Historia africana– anche grazie a un corredo iconografico in cui si raffigurano i territori occupati o le milizie imperiali29. 2.1 La figura di Pedro de Salazar Le informazioni biografiche su Pedro de Salazar ci giungono con numerosi errori dovuti in gran parte alla presenza di più omonimi nel XVI secolo, e su cui la critica è stata attenta a fare chiarezza, individuando e scartando quegli elementi che non sono certamente attribuibili al nostro storiografo. Gli studiosi che più di altri hanno illustrato la questione biografica sono José Sánchez García, “Género histórico y recepción de modelos clásicos”, cit., p. 175. Ivi, p. 177. 28 Ivi, p. 175. 29 Si veda il capitolo 2.2. 26 27

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Manuel Blecua e José Solís de los Santos: il primo segnala che a Salazar sono state attribuite sia opere che non scrisse mai, sia un matrimonio con una donna diversa dalla moglie; il secondo evidenzia invece la mancanza di fonti attendibili che permettano di dimostrare legami di parentela tra il nostro e altri Salazar suoi contemporanei, escludendo tra l’altro la carica di capitán che gli è stata spesso assegnata senza riscontri documentali30. Si aggiunga la recente apportazione di Valentín Núñez Rivera, che documenta la partecipazione di Salazar nella guerra contro la Lega di Schmalkalden (1547), aggiungendo che il nostro era sicuramente un soldato, pur non possedendo il grado militare di cui già Solís non rilevava traccia31. Dobbiamo tuttavia a Solís de los Santos una prima e scrupolosa indagine biografica sulla figura di Salazar (Madrid 1510 c. - Madrid 1576), inclusa all’interno del DBE. Lo studioso sottolinea il parco numero di notizie riguardo al personaggio, e segnala l’errata attribuzione delle origini granadine sostenuta da Nicolás Antonio32. Effettivamente esisteva un omonimo del nostro scrittore, un giurista di Granada del XVI secolo e autore del De usu et consuetudine: et de stilo ciriae regalis. et prius de usu et consuetudine (Granada, René Rabut, 1579) che, sia per ragioni cronologiche sia per le dichiarate origini andaluse, non può che essere un altro33. Pedro de Salazar fu storiografo e novelliere, anche se la sua produzione editoriale più vasta, e che fino ad oggi lo ha reso noto al pubblico, riguarda la Cfr. José Manuel Blecua Perdices, “Notas para la historia de la novela en España”, in Serta Philologica F. Lázaro Carreter, Cátedra, Madrid, 1983, vol. II, pp. 91-95: secondo l’attuale Presidente della RAE, la confusione aumentò quando José Antonio Álvarez y Baena ‘sposò’ Pedro de Salazar con doña María de Alarcón, figlia di Gabriel de Ocaña y de Alarcón e moglie di un omonimo giurista andaluso (Blecua rimanda al volume Hijos ilustres de Madrid, Madrid, 1789, vol. IV, p. 177). Cfr. anche José Solís de los Santos, “Salazar, Pedro de”, in DBE, 2013, XLV, pp. 220-222, che ipotizza che la carica di capitán probabilmente deriva dalla erronea lettura della Carta satírica del Bachiller de Arcadia, di cui si accennerà successivamente; lo studioso aggiunge inoltre che non esistono basi concrete per l’attribuzione del secondo cognome “Murdones”, che gli viene assegnato da uno specifico repertorio bibliografico non specificato, ma che sembrerebbe essere il già citato repertorio a cura di García Arenal, Bunes Ibarra e Aguilar Sebastián. 31 Pedro de Salazar, Novelas, ed. di Valentín Núñez Rivera, Cátedra, Madrid, 2014, p. 18. 32 Solís, “Salazar, Pedro de”, cit., p. 220. Si aggiunga che, come già segnalato da Solís, il nostro si dichiara “vecino de Madrid” nella dedica a Filippo II della Hystoria de la guerra y presa de Africa, per cui cfr. p. 11. 33 L’esemplare esaminato nella BCR (segnatura: H X 32) riporta nel frontespizio “Authore Licentiato Petro de Salazar advocato Garnatensi. (sic) Pincie oriundo”. Questa omonimia fu già segnalata e motivata da Blecua, “Notas para la historia de la novela en España”, cit., p. 92. 30

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prima delle due categorie: scrisse la già citata Historia alemana del 1548, di cui Blecua segnala una ristampa sivigliana del 1552 con un titolo diverso e ad opera del tipografo Domenico de Robertis34, e di cui esiste una Seconda Parte che si conserva ancora inedita in un manoscritto dell’Escorial35; la Hystoria africana del 1552, di cui sono state registrate tre diverse emissioni36; la Hispania Victrix (Medina del Campo, Vicente de Millis Godinez, 1570), che diversamente delle precedenti non presenta alcun simbolo reale sul frontespizio; di questa opera Blecua indica una ristampa del 1576, sempre a Medina del Campo37, e segnala l’esemplare di una ulteriore opera dal titolo De la vida del corsario Dragut, censita nel secondo volume della Bibliotheca Hispana Nova38. È poi recente l’indicazione di un ulteriore scritto dello storiografo, di cui però non abbiamo traccia, che Núñez Rivera ritiene possa rappresentare un manoscritto in fieri dell’autore: Las guerras de la ínsula de Chipre, y de las ciudades de Zguete [Szeged] y Gujula [Gyula] del reino de Hungría y del vencimiento de la armada turquesca39.

Ivi, p. 93. Lo studioso indica che il titolo dell’opera del 1548 è Historia y primera parte de la guerra que don Carlos V, emperador de los Romanos, rey de España y de Alemania, movio contra los principes y ciudades rebeldes del reino de Napoles y sucesos que tuvo, probabilmente sbagliando, poiché né si sono trovati riscontri di un simile titolo né sembra esistessero città ribelli alla corona spagnola nel Regno. Si aggiunga però che, nelle ultime righe del volume stampato da Suganappo, Salazar anticiperà gli argomenti della Seconda Parte, tra i quali la “alteración del reino de Nápoles”, riferendosi forse alle rivolte del 1547. Il titolo della riedizione sivigliana è invece Cronica de nuestro invictissimo Emperador Carlos V, per il quale cfr. Antonio Bohorques Villalon, Anales de Morón, ed. di Joaquín Pascual Barea, Universidad, Cádiz, 1994, p. XXVIII e Alexander S. Wilkinson, Iberian books, Brill, Leiden-Boston, 2010, p. 667. 35 Solís, “Salazar, Pedro de”, cit., p. 222, che indica la segnatura ms &-III-7. 36 Si rimanda al capitolo 2.2. 37 Blecua, “Notas para la historia de la novela en España”, cit., p. 93: “La obra de Pedro de Salazar apareció en 1570, pero trae una licencia de impresión fechada en Madrid, a 21 de mayo de 1567. He manejado el ejemplar de esta edición existente en la Biblioteca de la Real Academia de la Historia, sig. 4-1-4-259”. 38 Ibid., che indica a riguardo una nota di Nicolás Antonio (“opus hoc Gaspar Escolanus Petro Salazario attribuit, nobis hactenus invisum”). A proposito di uno scritto sul corsaro Dragut, probabilmente lo stesso indicato da Blecua, Solís de los Santos (“Salazar, Pedro de”, cit., p. 221) precisa: “Se debe descartar de la producción de Pedro de Salazar la ‘Historia de la vida y hechos de Dragud’, que le atribuyó Gaspar Escolano, pues lo que extrae este historiador valenciano de esa supuesta obra acerca del ataque pirata a Cullera (lib. X, cap. XXXVI) es un resumen de lo que narra nuestro autor en su Hystoria de la guerra y presa de Africa (fols. XXIII-XXIIII)”. 39 Salazar, Novelas, cit., p. 26, nota 40. Si prenda a riferimento la bibliografia delle opere di Salazar offerta dallo studioso a chiusura dell’introduzione. 34

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L’attività di novelliere sembrerebbe invece avere occupato meno il nostro storiografo; ciò nonostante, questa sua vena più creativa ha richiamato l’attenzione di una piccola parte della critica: fu Blecua che annunciò l’esistenza di una raccolta di novelle a imitazione delle italiane firmate da Salazar –di cui possediamo un unico manoscritto, e di cui l’autore già ci informa nel prologo della Hispania Victrix40– senza però fornire una edizione del testo41. È invece Valentín Núñez Rivera ad occuparsi attualmente dell’argomento e ad aver offerto l’edizione completa di questi racconti, attribuendo al nostro autore altri quattro Cuentos de exemplos fino a oggi anonimi e conservati in un manoscritto della BNE42. Non sappiamo se fosse realmente il figlio di Diego de Salazar43, ma è certo che Pedro sposò Aldonza Vázquez de Carrión, e dalla loro unione nacque Eugenio de Salazar44. Se la parentela fosse provata, significherebbe che questa famiglia si distinse nel XVI secolo per aver composto più generi di letteratura, con particolare interesse per la materia militare ma che fu spesso affascinata anche dalla poesia o dalla produzione letteraria italiana45. Ipotetica40 “Y assí recogido y recopilado, no teniendo ojo a otro que dezir y narrar simplemente la verdad, prosiguiendo en lo que antes de agora, que es servir, como serví, a V. M. con la historia de la guerra que movió la S. C. C. R. M. del emperador Carlos Quinto, vuestro muy amado y reverenciado padre, nuestro señor de buena y gloriosa memoria que de Dios goza, a los rebeldes al sacro imperio, y de la toma y presa de África, demás del libro intitulado de cuentos, lo puse en historia [...]”. Corsivi miei. 41 Blecua pubblicherà il solo prologo del manoscritto nelle pagine finali del già citato omaggio a Fernando Lázaro Carreter. 42 In Valentín Núñez Rivera, “Las Diez novelas de Pedro de Salazar y los Cuatro cuentos de ejemplos. Autoría común y estructura compartida”, Nueva Revista de Filología Hispánica, LVIII/1, 2010, pp. 59-93, l’autore sostiene: “A tenor de lo visto, en definitiva, se puede concluir que las desde ahora catorce novelitas de Pedro de Salazar constituyen el primer ejemplo en España –y no entonces las Patrañas de Timoneda, como se ha venido manteniendo hasta ahora–, de las colecciones de novelas cortas a la italiana, en este caso, con marco narrativo” (p. 93). Gonzalo Pontón (Prodigios y pasiones. Doce cuentos españoles del siglo XVI, Muchnik, Barcelona, 1999, pp. 101-112) pubblicò la sola novella IX. Per l’indicazione della raccolta completa cfr. p. l, nota 31. 43 Eugenio de Salazar, Cartas de Eugenio de Salazar, vecino y natural de Madrid: escritas á muy particulares amigos suyos, ed. di Pascual de Gayangos, Sociedad de Bibliófilos Españoles, Madrid, 1866, p. X. Questa ipotesi non ha un fondamento concreto e documentato, come fa notare Solís de los Santos nella già citata biografia di Pedro de Salazar, e come ribadisce Núñez Rivera nell’introduzione alle Novelas. 44 Solís, “Salazar, Pedro de”, cit., p. 220. 45 Basti pensare che Diego de Salazar tradusse il trattato Dell’arte della guerra di Machiavelli con il titolo Tratado de Re Militari: tratado de cavalleria hecho a manera de dialogo q[ue] passo entre los illustrissimos señores don Gonzalo Fernandez de Cordova llamado Gran capitan

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mente, la formazione di Pedro come storiografo e autore di cronache di guerra potrebbe essersi sviluppata anche grazie alle opere del presunto padre, traduttore del Machiavelli. Da questo punto di vista, il periodo napoletano trascorso sotto il viceré Pedro Álvarez de Toledo, e di cui sono parziale testimonianza le due edizioni del 1548 e del 1552 nella capitale del Regno, sembrerebbe rientrare in un più ampio discorso interculturale tra le due penisole. Malgrado nell’Archivio Storico di Napoli non abbiamo trovato traccia del periodo napoletano dello scrittore, esistono ulteriori prove del suo soggiorno italiano tra il 1551 e il 1552: ne sono testimonianza due documenti contabili redatti da Alfonso Sánchez, tesoriere del viceré Toledo46. Il primo, datato 10 ottobre 1552, certifica il pagamento per la redazione delle storiografie napoletane: A petro de sallazar ducati trenta nove et quattro et/ grani x correnti in parte de ducati trecento correnti li son/ comandati pagare ultra li altri ducati trecento correnti/ che li foro pagati per havere impresse le opere de li/ successi delle guerre fatte ultimamente in alema/gna et africa per quelle mandare alla Maesta Cesarea ad tale/ che li possa finire per liberanza del regno scrivan de/ ratione excepta a vii de aprile del presente anno quelli ho/ pagati in carlinj tusi et in suo potere resta la detta/ liberanza con la deduttione in dorso de epsa. (fol. 273v)

Il secondo, che riporta la data del 23 novembre del 1552, proverebbe che in quella data Salazar già aveva lasciato Napoli: A petro de sallaczar che impresse le opere delj successj/ de le guerre fatte últimamente in alemagna et africa/ [fol. 328] per quelli mandare a la Maesta Cesarea ducati sexanta correnti/ in parte di ducatj tricento correnti li son [...] y don Pedro Ma[n]riq[u]e de Lara [...], Miguel de Eguya, Alcalá de Henares, 1536, e che alcune delle già citate Cartas del nipote Eugenio trattano di eserciti o milizie. Per le opere in versi si pensi invece alla Navegación del alma e alla Silva de poesía di Eugenio, oppure, arrivando anche alle influenze letterarie e culturali italiane, a parte la già citata traduzione del Machiavelli, si ricordi che Diego de Salazar curò la resa in castigliano dei versi dell’Arcadia di Sannazzaro: Arcadia de Jacobo Sanazaro [...]; traduzida nuevamente en nuestra Castellana lengua Hespañola, en prosa y metro, como ella estava en su primera lengua Toscana, Juan de Ayala, Toledo, 1549 (nel prologo, la traduzione in prosa è attribuita a Pedro López de Ayala), oltre a occuparsi della traduzione del Filocolo di Boccaccio (si veda María de las Nieves Muñiz Muñiz, “Sobre la traducción española del Filocolo del Boccaccio (Sevilla 1541) y sobre las Treize elegantes demandes d’amours”, Criticón, 87-88-89, 2003, pp. 537-551). 46 BPR, ms 1597, Cuentas del reino de Nápoles, vol. II, fol. 273v e foll. 327v-328r. Ringrazio il prof. Carlos J. Hernando Sánchez per la preziosa segnalazione, e per avermi ceduto i documenti trascritti.

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comandati pagare/ per possere quelle finire per liberanza del Regio scri-/vano de ragione expeditta a vii de aprile del presente anno et/ sono ultra li altrj ducati tricento li foro liberati per/ altra librancza expedita a xvii de marczo 1551 prossime passato/ li quali ducati sexanta ho pagati de sua volunta al/ magnifico pero rodrigues et de sua volunta a Jose Gennaro [sic] / de ayrola in tari et carlini noui et minuti: In potere/ del quale magnifico pero rodrigues resta la liberancza/ con la deductione in dorso de epsa. (foll. 327v-328)

Il documento allude alla possibilità di terminare le opere sulle guerre in Germania e Africa, ed è possibile si riferisca alla Seconda parte della Historia alemana, poiché il colophon del libro pubblicato dal Cancer è datato 20 gennaio 155247. La riscossione del compenso dello scrittore viene però delegata a un certo Pero Rodrigues, probabilmente perché lo storiografo non si trovava più nella capitale. Altrettanto certo è che Salazar si trovasse a Napoli prima della data di pubblicazione della Historia africana, poiché nel prologo indirizzato al principe Felipe segnala degli errori di stampa all’interno dell’opera, dimostrando la sua presenza al termine della realizzazione tipografica del volume, ma prima di comporre il prologo48. I documenti contabili provano senza ombra di dubbio la relazione tra il Toledo e Salazar, che fu incaricato e finanziato dal viceré allo scopo di scrivere e stampare a Napoli due opere che dessero voce, nella lingua dell’Impero, alle imprese militari di Carlo V in Europa e in Africa. La mancanza di una prova che attesti la carica di cronista del Regno di Napoli relega nel campo delle ipotesi la teoria secondo cui il nostro storiografo ottenne una nomina ufficiale. Tuttavia, il compenso elargito a Salazar non si allontana molto da quello di altri umanisti che, prima di lui, furono accolti a corte: nel Quattrocento, Alfonso d’Aragona concedeva a Lorenzo Valla un corrispettivo di 300 ducati annui (1442 c.), nonostante l’umanista avesse declinato l’incarico di storiografo di corte (1438), ottenuto poi da Bartolomeo Facio; in seguito il Valla compose le Gesta Ferdinandi regis Aragonum (1445-1446) opera che gli valse le inimicizie del Facio49. L’importanza della produzione storiografica e cronachistica di Salazar – prima sotto Carlo V e poi sotto Filppo II, principale dedicatario delle sue ope47 “Fue impresa esta obra en la noble ciudad de Nápoles a veinte/días del mes de henero, año del nascimiento de nue-/stro Salbador Jesú Christo de mil y quinien-/tos y cinqüenta y dos años”. 48 Cfr., p. lxv, note 76 e 77. 49 Jerry H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, trad. di Cosima Campagnolo, Guida, Napoli, 1995, pp. 124, 129 e 243. Titolo originale: Politics and Culture in Renaissance Naples, Princeton University Press, 1987.

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re– riguarda in gran parte le imprese caroline, ma è al servizio del Rey Prudente che il nostro sembrerebbe voler essere ammesso: ne sono un possibile indizio i diversi toni dei prologhi delle sue tre opere storiografiche. Nel 1548 l’autore si rivolge a Filippo II premettendo che “Muchos de los que han escrito, han servido con sus obras a la S. C. C. Magestad del Emperador y Rey nuestro señor, vuestro muy amado padre”, per poi proseguire con un tono reverenziale e al tempo stesso propositivo, nel quale comunica al futuro sovrano l’iniziale titubanza nel donargli il volume in questione50. Nel prologo del 1552, dopo aver rammentato che, fin dai tempi antichi, illustri personalità come Vitruvio o Tito Livio usavano dedicare le proprie opere ai sovrani, o meglio “a aquellos que con el resplendor de su nombre le hiziessen haver mayor crédito y reputación”, Salazar ricorda al principe l’omaggio del 1548 a Genova, ribadendo nuovamente l’intenzione di servire la corona. È quindi possibile che nel 1552 Salazar stesse ancora tentando di proporsi per un futuro ingresso alla corte di Filippo II51. Un Salazar decisamente più maturo e consapevole del proprio ruolo di storiografo redige invece il prologo del 1570, in cui esprime il desiderio di trovare la verità storica dichiarando di avere consultato sia fonti europee sia arabe, senza essersi lasciato influenzare dall’amor patrio. Probabilmente lo storiografo spagnolo non riuscì neanche allora a essere nominato cronista reale, poiché il tono delle parole che chiudono il proemio non evidenzia più la precedente volontà persuasiva, pur mantenendo un atteggiamento di assoluta fedeltà alla Corona52. Dal prologo della raccolta di novelle si desume invece una sorta di abbandono della scrittura storiografica, che tradisce nuovamente il desiderio di servire l’ormai Re Felipe II, offrendo al sovrano del materiale diverso e for“No pocas vezes pensé ofrecerle esta hobra y servirle con ella, mas tornándolo a pensar muchas vezes detúveme de lo hazer, considerando el cuidado que desto havrán tenido los reales coronistas que por oficio tienen de escrivir las imperiales historias de Su Magestad; y bolviendo los ojos a toda la casa y progenie real, muy adelante de todos se ofreció a mi entendimiento la sereníssima persona de Vuestra Alteza [...] y también me fueron alas para levantar mi ánimo a servirle con esta obra”. 51 Lo suggerisce lo stesso autore nel prologo: “no contento ni satisfecho de parar allí, como desde entonces para siempre, yo mesmo propuse en mí de continuo ocuparme en su real servicio con el ánimo, lengua y manos, y con todos mis pensamientos, palabras y obras comencé a llevar adelante mi voluntad y desseo”. 52 “Suplico a Vuestra Real Magestad humildíssimamente, pues las otras mis obras a recebido con benignidad, con la mesma reciba agora ésta perdonando mi atrevimiento, pues continuo en mí queda muy mayor voluntad y desseo de le más servir”. 50

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nendo di fatto un possibile indizio sul perché la Seconda Parte della Historia alemana del 1548 non fu mai pubblicata: Bien pudiera seruir a Vuesa Magestad con la segunda parte de la guerra de Alemaña y con otros comentarios de otras guerras y batallas q[ue] vro. ynperial padre enprendió y acabó prósperamente por medio de sus exçelentes capitanes, de las quales, no con poco trabajo, me he ynformado y lo mejor que he podido las tengo para servi[ci]o vuestro, escritas; mas considerando que en la sazón presente V.M. tiene más nesçessidad de lecturas que le recreen que de leer las variedades y peligros de la guerra, a causa de aver sacado tan poco tienpo ha sus reales manos de la masa de tantas armas como estos pasados años ha tocado, determiné de servirle con la obra presente, ques de cuentos [...] Y çierto los cuidados de V. M. son de tanto peso y los negoçios que de vuestra real persona penden tantos y de tanto tomo que no sería justo darle más pesadunbre, y la que estas cosas le acarrean; y para sobrellevar tan pesados cargos como estos, conve / niente y aun nesçesario le es a tienpos onestamente recrearse, pues está claro que no se puede conseruar la vida 53 humana con el continuo trabajo [...] .

A parte la committenza del viceré Toledo, non abbiamo notizia certa di un incarico ufficiale della Corona Spagnola al nostro storiografo, che probabilmente non acquisì il titolo di cronista reale. Il valore delle sue historias è tuttavia evidente nelle testimonianze che si sono susseguite nei secoli, malgrado non manchino alcuni errori. Per diverso tempo si è creduto che la Historia alemana fosse il testo difeso nella assai nota Carta del Bachiller de Arcadia al Capitán Salazar, dai toni palesemente ironici e attribuita a Diego Hurtado de Mendoza, nella quale si allude ai denigratori del ruolo di storiografo dell’autore54. Sembrerebbe però che il destinatario della missiva non fosse il nostro cronista, ma un omonimo nativo di Granada che scrisse anch’egli un’opera sulla battaglia di Mülhberg, di cui oggi non sono giunti testimoni o che forse non fu mai composta55. La pubblicazione sivigliana della stessa opera nel 1552 ne conferma il successo: questa edi53 Trascrivo dal prologo pubblicato in Blecua, “Notas para la historia de la novela en España”, cit., p. 94. 54 È possibile che l’affermazione sui “mordazes detractores” che appare nel prologo della Historia africana abbia contribuito ad accreditare l’ipotesi che la Historia alemana fosse il testo difeso nella citata Carta del Bachiller de Arcadia. 55 Juan Varo Zafra, “Diego Hurtado de Mendoza y las ‘Cartas de los bachilleres’”, Castilla. Estudios de Literatura, 1, 2010, pp. 433-472. Cfr. in particolare p. 435, nota 2, e p. 438. L’errata notizia che “Contra esta historia escribió D. Diego Hurtado de Mendoza, una punzante sátira seguida de una supuesta réplica del Capitán Pedro de Salazar” si trova in Cristóbal Pérez Pastor, La imprenta en Medina del Campo, Sucesores de Rivadeneyra, Madrid, 1895, p. 165, nota 1.

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zione andalusa raccoglie, oltre al testo di Salazar, una copia del Comentario de Luis de Ávila y Çúñiga de la guerra de Alemaña (Venezia, Thomas de Gornoça, 1548)56, un accoppiamento che dimostra che il testo di Salazar è meritevole di inclusione all’interno di un canone storiografico. La Historia africana del 1552 fu invece citata da Juan Ginés de Sepúlveda nella Historia de rebus gestis Caroli V, in cui il cronista latino dell’imperatore inserisce lo storiografo di Madrid tra le principali fonti in lingua spagnola da cui attinse57. Nel ruolo di narratore delle gesta imperiali Salazar è lodato in alcuni componimenti contenuti nelle pagine preliminari della Hispania Victrix: si tratta di un sonetto58 composto dal tipografo Vicente de Millis Godínez “en loor de esta historia y de su autor”, e di una copla real59 composta da Juan de la Vega, escrivano de cámara che ne sottoscriverà la pubblicazione “en loor del author desta obra”. Nel primo caso, dopo aver sottolineato la veridicità dei fatti narrati, Millis Godínez apre la seconda quartina comparando Salazar a Omero per l’eleganza e a Cicerone per l’eloquenza, per poi proseguire così nelle terzine: Salazar lo escrivió el historiador por muy gran excellencia así llamado, es hombre de prudencia y gran valor que cosas muy notables ha cantado

Solís, “Las relaciones de sucessos...”, cit., p. 1340. Cfr. anche Solís, “Salazar, Pedro de”, cit., p. 221, in cui viene approfondita la questione: “En efecto, si bien en la edición sevillana se reproducen los primeros capítulos de la edición de Nápoles de 1548 junto con el mismo prólogo dirigido al príncipe Felipe, en la segunda dedicatoria anónima —pues el tipógrafo titular, Dominico de Robertis, había fallecido antes de 1550—, a Francisco de Guzmán, señor de La Algaba, se declara abiertamente el carácter compilatorio de esa edición a nombre de Salazar: ‘confiesso no fue más de recopilar y añadir sucesso y fin de las dichas guerras [...] no puedo enmendar por no ser yo el autor de las palabras, salvo recopilador de lugares, especialmente de la segunda parte, la qual toda añadí’”. 57 Solís, “Salazar, Pedro de”, cit. p. 221 e Id., “Las relaciones de sucessos...”, cit., p. 1335. Cfr. anche pp. 1319-1320, in cui si riporta una parte della lettera di Sepúlveda a Diego de Neila: “Además, no tenía empacho en leer a fondo las relaciones que elaboraban en campaña hombres esmerados y diligentes. Pues fueron muchos los que dieron a conocer los acontecimientos de la presente época; unos en relaciones breves y manuscritas; otros, bastante más extensas e impresas. Pero me disgustaría no mencionar a éstos: los que escribieron en latín, Paolo Jovio, Juan Sleidan, Galeazzo Capela; en español, Luis de Ávila, Antonio Ixart, Pedro de Salazar; en italiano, Guazzo y Mambrino Roseo, más Alfonso Ulloa. [...] a todos los cuales consulté atentamente y su labor de investigación y sus observaciones me sirvieron de alguna ayuda, pero, aun así, me topé en algunas obras con muchos asuntos que yo tenía mejor averiguados que ellos mismos, porque me habían llegado de fuentes más dignas de crédito”. 58 Schema metrico: abab cdcd efe fef. 59 Schema metrico: abab abcc. 56

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de guerras que al gran Carlo Emperador y por Philippe su hijo han ya passado.

Si sottolinea quindi l’eccellenza, il giudizio e la moderazione con cui lo storiografo raccontò le gesta dell’Imperatore, dichiarando poi, negli ultimi due versi del sonetto successivo, che “Solo Salazar es aquel que osa / poner la mano en cosa tan subida”. La copla di Juan de la Vega si collega al precedente paragone con Omero, e implicitamente loda anche il ruolo imperiale di Carlo V, paragonandolo ad Alessandro Magno, al quale il componimento si rivolge direttamente60. Il riferimento al Conquistatore macedone e al topos dell’invidia verso un eroe che possedeva un fine narratore delle sue imprese, nobilita il ruolo di Salazar, le cui doti narrative sono paragonate all’arte della pittura, probabilmente alludendo alla chiarezza, all’espressività e alla dovizia di particolari. La produzione manoscritta e a stampa di Pedro de Salazar denota una intensa attività letteraria, orientata prevalentemente verso il genere cronachistico e storiografico, per poi deviare verso la novellistica. La morte improvvisa del viceré Toledo nel 1553 ne interruppe bruscamente una ipotetica carriera di cronista del Regno di Napoli, e lo privò di una protezione prestigiosa. Il nostro autore fu di sicuro un “cronista de pluma fácil”, come lo definisce Blecua61, che si dedicò probabilmente al solo mestiere di scrivere con il dichiarato proposito di servire la Corona Spagnola, grazie anche a una “desahogada posición económica”62. Questo ultimo dato ci permetterebbe di ipotizzare che il soggiorno a Napoli, l’incontro di Genova con Filippo II nel 1548 (si veda il prologo della Historia de la guerra y presa de Africa), il soggiorno a Siviglia nel 1567 (da cui proviene la testimonianza di un lascito di cinquecento ducati al figlio Eugenio)63 e la possibile presenza a Medina del Campo, per dare alle stampe la Hispania Victix nel 1570, sono testimonianze o semplici indizi che suggeriscono l’idea di uomo dinamico e facoltoso, che potrebbe aver sfruttato i propri viaggi anche per raccogliere dati (da fonti scritte e testimonianze orali) da cui creare le sue opere. 60 “Grande Alexandro, que embidiaste tanto / del valeroso Achiles la ventura / porque gozó de aquel sonoro canto / que sus hazañas puso en tanta altura. / Quánto mayor tu dicha fuera, y quánto / más embidiar pudiera él la pintura / de tus famosos hechos y valores / si Salazar les diera las colores”. 61 Blecua, “Notas para la historia de la novela en España”, cit., p. 93. 62 Ibid. 63 Cristóbal Pérez Pastor, Bibliografía Madrileña, Tipografía de los huérfanos, Madrid, 1907, vol. III, p. 469.

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A questo proposito conviene citare il recente ritrovamento da parte di Valentín Núñez dell’“Inventario de bienes de Pedro de Salazar”: il documento non solo indica la data della morte dell’autore (1 maggio 1576), ma certifica il possesso di beni immobili e di diversi libri, oltre a un lascito di 22 doblones e 226 reales64. 2.2 Struttura e aspetti materiali della Historia L’esame dei testimoni della Historia ha portato alla luce un dato meritevole di riflessione: del titolo, in caratteri romani, si è rilevata la variante Historia de la guerra hecha contra la ciudad de Africa, in caratteri gotici65. Questa differenza genera alcune perplessità di natura puramente testuale: il titolo indicato sembrerebbe anteriore a quello che reca la variante “y presa”, poiché omette un’informazione basilare (l’espugnazione della città) che comunica l’esito vittorioso della campagna; l’aggiunta del sostantivo ciudad specifica ulteriormente il tema del libro e si allinea ai titoli di altre relazioni66. Dall’esame di alcuni degli esemplari rinvenuti si è riscontrato che questa discordanza di intestazione riguarda anche il frontespizio: la variante in lettere gotiche è accompagnata da due diverse immagini, a loro volta difformi dala portada in caratteri romani. Osservando i tre frontespizi constatiamo che alla variante “guerra y presa” si associa l’immagine dello scudo reale (Fig. 1), delimitato da due colonne e da un frontone, con il motto plus ultra privo delle colonne d’Ercole. Segue l’iscrizione della durata del privilegio di stampa. Il secondo e il terzo frontespizio sono invece associati alla variante “hecha contra la ciudad”. In un caso (Fig. 2) abbiamo l’aquila bicefala, già usata anche da Paolo Suganappo nella Historia del 154867, in cui invece troviamo le colonne d’Ercole con la massima latina di Carlo V. Questo testimone contiene un’altra differenza rispetto al precedente, ovvero l’iscrizione del nome dell’autore tra il titolo e l’insegna imperiale, e la sola dicitura “con privilegio”. Il terzo e ultimo caso discorda dagli altri, poiché presenta lo stemma del viceré Pedro de Toledo (Fig. 3). 64

Salazar, Novelas, cit., p. 16. Le varianti del titolo sono state rilevate in SBN e su Edit16. Le stesse sono segnalate nella citata biografia di Salazar offerta da Solís. 66 Per le altre opere storiografiche in lingua spagnola si rimanda al cap. 1.1. 67 Eduard Toda y Güell, Bibliografia Espanyola d’Italia dels origens de la imprempta fins a l'any 1900, Vidal-Güell, Barcelona, 1930, vol. IV, p. 15, n. 4541; Blecua, “Notas para la historia de la novela en España”, cit. p. 93; Solís, “Salazar, Pedro de”, cit. 65

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Fig. 1 - Historia de la guerra y presa de Africa, Napoli, Mattia Cancer, 1552 BNN – S. Q. LVI 6

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Fig. 2 - Historia de la guerra hecha contra la ciudad de Africa, Napoli, Mattia Cancer, 1552 BBR – 07 B-48/4/11

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Fig. 3 - Historia de la guerra hecha contra la ciudad de Africa, Napoli, Mattia Cancer, 1552 BNCR – 69.3.C.7

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Si tratta di uno scudo a scacchiera contornato da nove bandiere –tra le quali ne riconosciamo due con la mezzaluna turca– ed inserito all’interno di una cornice che occupa metà del foglio, e che nelle colonne laterali presenta la medesima decorazione del primo frontespizio68. Abbiamo infine sette blasoni nella parte inferiore. In questo ultimo caso si omette l’ultima linea del titolo (“con otras muy nuevas cosas”) e si indica la natura del privilegio di stampa (“con privilegio real”) che prima era probabilmente rappresentata dallo scudo reale o da quello imperiale. La presenza dei tre diversi frontespizi proverebbe l’opportunità di tre emissioni della stessa opera. Questa eventualità si conferma anche osservando la distribuzione del testo nei frontespizi delle ultime due emissioni che, se si esclude la già segnalata soppressione dell’ultima riga, corrispondono perfettamente. Si noti che la stessa problematica si verifica con la Historia alemana, dove abbiamo due emissioni differenti nel titolo e nel frontespizio, anche se si conserva sempre il simbolo dell’aquila imperiale69. L’emissione “ufficiale” sembrerebbe quella che riproduce lo scudo reale, in accordo con le dediche di Salazar a Filippo II –nominato qualche anno dopo re di Napoli–, ma soprattutto coerente con la decorazione dell’intera opera, ovvero con la cornice che contorna il testo e che richiama l’ornamento di apertura. L’inserimento del simbolo imperiale potrebbe invece rappresentare una emissione rivolta a un pubblico spagnolo che risiedeva nella penisola iberica70, oltre a sembrare funzionale all’identificazione del momento storico in cui si svolse il conflitto e del sovrano che ne prese parte71. 68 Una interpretazione dello stemma del viceré si trova in Carlos J. Hernando Sánchez, Castilla y Nápoles en el Siglo XVI: el virrey Pedro de Toledo. Linaje, estado y cultura (1532-1553), Junta de Castilla y León, Consejería de Cultura y Turismo, Valladolid, 1994, p. 42. 69 HISTORIA/DE LOS SUCCESSOS/DE LA GUERRA,/CHE LA MAGESTAD DEL INVITISSIMO/Don CARLOS Quinto Emperador de los Romanos, y Rey de Espana,/y Alemaña, hizo contra los principes, y ciudades rebeldes/de Alemaña, y del fin que tuvo./Compuesta por Pedro de Salazar vizino de la villa de Madrid/DIRIGIDA AL SERENISSIMO/Señor Don Felippe Principe de España con todas las particularidades/ansi en lo que toca a la Historia, como a la descrition/de toda aquella Tierra./CON PRIVILEGIO/EN NAPOLES. La seconda emissione, in caratteri gotici, è invece Historia y pri-/mera parte:/de la guerra: que don Carlos: Quinto: Emperador de los Roma-/nos: Rey de Espana: y Alemania: movio: contra los principes: y/ciudades rebeldes del reyno de Alemania: y successos que tuvo./Con previllejo de su Santidad: y del/Ecelentissimo viso Rey de Na-/poles: para en Español: y/Italiano. Edit16 (schede: CNCE 47690 e CNCE 77655). 70 Ringrazio per il suggerimento il prof. Tobia Raffaele Toscano. 71 Un segnale in questa direzione potrebbe provenire da un’altra cinquecentina del tipografo Mattia Cancer, data alle stampe due anni più tardi della Historia africana e che sul frontespizio reca ancora l’aquila bicipite: si tratta del De subfeudis baronum, & inuestituris feudorum, liber primus et

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Altro suggerisce l’alternanza degli scudi imperiale e reale nelle due Historias di Salazar (1548 e 1552), che si nota anche in alcune relaciones de sucesos de Inglaterra72: sembrerebbe plausibile ritenere che ci si preparasse ad accogliere Filippo II a re di Napoli già qualche anno prima della sua elezione, nel caso specifico rivolgendogli un’opera appartenente al genere letterario che aveva avuto fortuna in età carolina, come era quello della storiografia a fini propagandistici73. L’emissione contenente lo stemma di Pedro de Toledo differisce rispetto alle precedenti, perché contiene una dedica non più a Filippo II ma allo stesso viceré, lodato anche per aver governato il Regno di Napoli “justa y rectamente sin passión ni parcialidad, manteniéndole en tranquilidad y sossiego, paz y justicia con grande rectitud, y aver ennoblecido, aumentado y fortificado esta poderosa y muy noble ciudad, y guardádola y defendídola de las embasiones de los turchos enemigos del nombre de Jesú Christo, por donde para siempre con Dios y para con las gentes mereceréis”74. La dedica al Toledo è molto importante, perché evidenzia e conferma sia la volontà propagandistica sia la relazione tra il viceré e Salazar, che comincia a scrivere l’opera “tomando por escudo y amparo el favor de vuestra illustríssima persona [Pedro de Toledo] con que escudar y defenderme pudiesse”75. Una ulteriore disuguaglianza tra l’emissione indirizzata al Toledo e quella diretta a Felipe II è rappresentata dalla disposizione dei fogli preliminari: nella prima, il prologo si trova alla pagina che segue il frontespizio e anticipa la secundus, un’opera in latino di Marino Freccia pubblicata a Napoli (Mattia Cancer, 1544). Il Freccia (Ravello 1503 – Napoli 1566) era un esperto di diritto e consigliere di Carlo V. Il volume citato fu pubblicato successivamente anche a Venezia nel 1569 da Marco De Maria, tipografo di origini salernitane, nel 1579 da Niccolò De Bonis e nel 1590 da Niccolò De Bottis e Giacomo Aniello De Maria. Di queste tre nuove stampe, solo quella del 1579 conserva il simbolo imperiale. 72 Cfr. José Solís de los Santos, “Relaciones de sucesos de Inglaterra en el reinado de Carlos V”, in Manuel Fernández et al., Testigo del tiempo, memoria del universo. Cultura escrita y sociedad en el mundo ibérico (siglos XV-XVIII), Rubeo, Barcelona, 2009, pp. 640-698. 73 Per l’uso propagandistico del genere storiografico nel periodo di Carlo V si veda Kagan, Los Cronistas y la Corona, cit., pp. 93-140. 74 Trascrivo il passaggio del “Prologo dirigido al Illustrissimo Señor don Pedro de Toledo Marques de Vi-/llafranca Visorrey, lugarthenyente, y Capitan General del Reyno de/Napoles: por Pedro de Salazar vezino de Madrid” dal testimone conservato nella BNCR (segnatura: 69.3.C.7). Un ulteriore esemplare della stessa emissione si trova alla BUSa (segnatura: ANTICO 5 B 78). 75 Nel prologo, a proposito dell’esito futuro della sua opera, l’autore aveva fatto allusione a possibili “mordazes detractores, que con ingenio viperino y lengua serpentina, como han de costumbre, a lo malo alaben, ençalcen y sublimen, y a lo bueno contradigan, reprehendan y vituperen”, ammonendoli con un rimando a Isaia (5 20): “desventurados de vosotros que a lo bueno vituperáis y a lo malo alabáis”.

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“Tabla de los capítulos” inserita nella cornice ornamentale alla pari del testo dell’opera, diversamente dalle altre emissioni. Chiude la tavola dei capitoli una indicazione di alcuni errori di stampa, già indicati (con alcune varianti) nel prologo dedicato al principe Felipe76. Troviamo poi l’indicazione di alcune lettere “bueltas al revés”, realmente presenti in tutte le emissioni esaminate (f.F3r), che rappresenta un esame attento del proprio testo da parte di Salazar: d’altra parte, lo storiografo non manca di segnalare l’anomalia, dimostrando scrupolo nella realizzazione tipografica77. A prescindere da queste difformità, le tre emissioni dell’opera non divergono nell’impianto narrativo. Segnaliamo tuttavia che il testimone conservato nella BNE è sprovvisto dell’ultima carta (f.X6): questa incompletezza non solo priva l’esemplare del colophon, ma palesa l’evidenza di una correzione, poiché in posizione centrale e nella parte bassa di quella che è diventata l’ultima pagina (f.X5v) riporta “Fin de la historia”, compreso nella cassa di scrittura, oltre all’omissione di una parte del prosieguo del testo (“Y al Paxa”) che avrebbe introdotto il periodo del foglio successivo. La “Tabla de los contenidos” si trova quindi alla fine dell’opera78. La Historia si produce in settanta capitoli distribuiti su due colonne a caratteri gotici, contornate e divise tra loro da una cornice ornamentale che raffigura motivi di foglie d’acanto. Si tratta senza dubbio di un’opera tipografica di prestigio – che corrisponde alla committenza vicereale–, che anche per queste caratteristiche si distacca da quelle edite da Suganappo (1548) e da Millis Godínez (1570), che rispettano la medesima ripartizione del testo ma sono prive della cornice orna76 L’emissione della BNCR, al termine della Tavola dei capitoli: “En esta obra van algunas faltas de letras, y unas por otras/y otras bueltas al revés por culpa y falta de los im-/pressores: y specialmente en la hoja noventa/y nueve do dize mil Moros de/paz: se a de entender que a de/dezir ciento y no mil.”. L’emissione della BNN, all’interno del prologo: “que por confiar la impressión de componedores y correctores italianos, hizieron en ella algunos errores poniendo unas letras por otras y corrompiendo algunos nombres y partes: porque por dezir Bassa dixeron Baxa, y en la hoja noventa y nueve por poner cien moros de paz pusieron mil, y no ciento.”. 77 L’errore, che si è ricostruito in questa sede, coinvolgeva alcune lettere (qui evidenziate in corsivo) della frase “causas a ello se movía”, e si trovano alla fine del foglio indicato (XI 168). 78 Di questo testimone della BNE (segnatura: U/2199) si è esaminata la riproduzione digitale in rete su http://bibliotecadigitalhispanica.bne.es/ (si ringrazia il prof. José Solís de los Santos per averne indicato la localizzazione e la variante). Un primo confronto testuale è stato invece effettuato con una copia parziale della emissione della BBR (segnatura: 07 B-48/4/11). L’emissione della BNCR (segnatura: 69.3.C.7) non presenta varianti testuali eccetto che nei fogli preliminari. Si aggiunga che l’esemplare della BCR (segnatura: X XI 20) sembrerebbe restaurato, poiché è mutilo delle carte G1.6, O1 e X6 sostituite da carte manoscritte.

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mentale. L’opera è poi arricchita da un apparato illustrativo, comprensivo di quattro immagini che ritraggono le roccaforti nordafricane di Mahdia (fig. 4) e Monastir (fig. 5) o la disposizione delle milizie imperiali durante l’assedio (fig. 6), a supporto di quanto descritto dal narratore. Questa ricchezza iconografica mancava nella Historia alemana e non si ripeterà nella Hispania Victrix del 1570, ma è presente ad esempio nel De Aphrodisio expugnato di Calvete de Estrella o nella relazione di Nucula, nonché nel testo napoletano di Francisco de Pedrosa. In ambito cronachistico partenopeo, questa caratteristica illustrativa era propria della Cronaca figurata del Ferraiolo, ma con le dovute differenze: oltre a un numero inferiore di raffigurazioni, non sembra che l’uso delle immagini avesse la medesima funzione in entrambi gli autori. In Salazar le immagini non sono così dettagliate, e non sembrano aggiungere informazioni supplementari rispetto al testo, ma semplicemente lo supportano graficamente. Il paragone con il Ferraiolo deve dunque considerarsi in modo superficiale, poiché sembrerebbe che la Cronaca sia stata se non altro parzialmente concepita sulla base delle figure79.

Fig. 4 -

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Historia de la guerra y presa de Africa, Napoli, Mattia Cancer, 1552, BNN (S. Q. LVI 6) – Al-Mahdia (África) (f.D2v)

De Blasi e Varvaro, “Napoli e l’Italia meridionale”, cit., p. 258.

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Fig. 5 -

Historia de la guerra y presa de Africa, Napoli, Mattia Cancer, 1552, BNN (S. Q. LVI 6) – Monazter (f.E3v)

Fig. 6 - Historia de la guerra y presa de Africa, Napoli, Mattia Cancer, 1552, BNN (S. Q. LVI 6) – Schieramento dell’esercito imperiale (f.Hv e f.O2v)

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La storia della campagna nordafricana ha come tema principale l’inseguimento del corsaro Dragut ad opera del capitano genovese Andrea Doria, del viceré di Sicilia e di García de Toledo, che si svolse lungo le coste del Mediterraneo80. Il profilo del corsaro è introdotto dopo una enumerazione di altri pirati, probabilmente noti al lettore dell’epoca e presentati da Salazar con i rispettivi epiteti; tra questi si riconoscono el Judío, probabilmente Sinan “l’ebreo di Smirne”, corsaro noto per essere sospettato di magia nera “perché sapeva fare il punto in mare per mezzo della balestra”, ed evidentemente dotato di eccellenti competenze nella navigazione81; Cachadiablos, forse il corsaro Aydin, un cristiano rinnegato noto agli spagnoli come “Terrore del Diavolo”82; Carmami, un renegado che partecipò all’assalto turco di Gibilterra del 154083. Il tentativo di cattura di Dragut si concluse positivamente il 15 giugno 1540, anno in cui per la prima volta Giannettino Doria e Berlinghieri Requesens (Berenguel Dolmos)84, generale delle galere siciliane, fanno prigio80

I 56. Gosse, Storia della pirateria, cit., p. 33. Dal trattato di Martín García Cerezeda si apprende che si chiamava Sinan de Arrexe, e si deduce che nacque nel 1485, poiché l’autore lo include tra i corsari che affiancavano Barbarossa nel 1535, durante l’attacco alle coste Tunisine. Martín García Cerezeda, Tratado de las campañas y otros acontecimientos, cit., vol. II, p. 23. Come indica Encarnación Sánchez (La fama de Khayr-ed-Din Barbarroja, cit., p. 63), il valore del corsaro è provato anche dall’inclusione negli Elogia virorum bellica di Paolo Giovio (1575). 82 Della sua attività piratesca sappiamo che già nel 1529 salpò da Algeri e saccheggiò le Baleari. Si diresse poi a Oliva (Valencia) imbarcando circa duecento famiglie di moriscos che sapeva disposte a pagare ingenti somme di denaro a chi le aiutasse a fuggire dalla Spagna. Fu intercettato e attaccato dalla flotta del generale Portundo mentre si dirigeva a Formentera. Tuttavia la marina spagnola esitò nell’intenzione di non uccidere i prigionieri, e i corsari ne approfittarono per attaccare per primi e vincere lo scontro uccidendo Portundo. Gosse, Storia della pirateria, cit., pp. 33-34. Anche egli si trovava con Barbarossa durante lo sbarco delle flotte imperiali a Tunisi nel 1535, all’età di cinquanta anni: nacque quindi nel 1485. García Cerezeda, Tratado de las campañas y otros acontecimientos, cit., vol. II, p. 23. 83 Lo nomina anche Barrantes Maldonado nel suo Diálogo entre Pedro Barrantes Maldonado y un cavallero estrangero: en que cuenta el saco que los turcos hizieron en Gibralta. Y el vencimiento y destruycion que la armada de España hizo en la de los turcos. Año 1540. Il corsaro fa parte di quei personaggi che conoscevano le terre cristiane e per questo guidavano spesso gli assalti alle loro città. Carabias Torres, “Turcos contra católicos”, cit., p. 19. 84 Giannettino Doria, erede e luogotenente di Andrea Doria, unico discendente maschio del ramo familiare, morì prematuramente nella congiura dei Fieschi (1547). Sorta di alter ego di Andrea, è presente nelle monografie sull’ammiraglio in modo sintetico. Questo marginalismo ha impoverito i dati biografici: mancano un luogo e una data di nascita certi (probabilmente Genova, tra il 1510 e il 1520), e notizie sicure sulla giovinezza. La sua ascesa fu favorita da varie circostanze: il bisogno di Andrea di assicurare la continuità dello status quo alla classe dirigente 81

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niero il pirata presso il golfo di Girolata e lo incarcerano a Genova, salvo poi liberarlo –come riporta il nostro storiografo– a seguito del pagamento di un riscatto di tremila ducati85. Salazar include questo episodio nel Primo capitolo, quasi a voler riassumere le vicende che portarono all’offensiva dei Regni: si aspira a dare un quadro complessivo in cui ogni dettaglio contribuisce a legittimare le azioni dell’impero. L’attacco ai presidi africani del Mediterraneo ha proprio lo scopo di porre un freno alle continue incursioni del corsaro turco sulle coste italiane. Gli argomenti all’interno dell’opera sono ordinati secondo una dispositio meticolosa, che a livello macrostrutturale è organizzata in un’attenta sequenza di capitoli, all’interno dei quali sono accuratamente inserite ricche digressioni. Di fatto, degli eventi trattati si offre un’ampia premessa, si descrive altrettanto ampiamente l’accadimento principale e se ne illustrano le dirette conseguenze, che se si considera la breve distanza tra l’anno degli eventi e quello della stampa dell’opera, rappresenterebbero gli esiti più immediati della vittoria in territorio tunisino. Le vicende belliche si svolgono prevalentemente nella regione costiera del Sahel tunisino, nei pressi del golfo di Hammamet, dove dopo una lunga battaglia la marina imperiale conquista il bastione portuario di Mahdia (Algenovese, gli impegni ambiziosi di familiari come Antonio, o la sopravanzata età di altri come Francesco e il conte Filippino. Partecipò alla spedizione che Andrea condusse da Messina contro l’armata di Solimano I a Cefalonia (1537) e alla grande e sfortunata spedizione contro il Barbarossa (1538). Nell’estate del 1540 alla guida di 21 galere di Andrea (in quel momento in Sicilia), sorprese la flotta di Dragut nel golfo di Girolata (Corsica), riuscendo a catturare 9 degli 11 vascelli e lo stesso corsaro, nonché a liberare duemila prigionieri. La fama del Doria crebbe, e l’anno dopo, nella rovinosa spedizione di Algeri guidata dallo stesso Carlo V, il genovese fu lodato per aver messo in salvo le truppe imperiali in ritirata. DBI, XLI, 1992, s.v. Doria, Giannettino (Giovanni). Don Berlinghieri Requesens morì a seguito della battaglia di Djerba del 1560, durante la prigionia a Costantinopoli. Salvatore Salomone-Mariono, Dei famosi Uomini d’arme siciliani fioriti nel secolo XVI, Virzl, Palermo, 1880, p. 31. 85 Sulla liberazione del corsaro esistono dati contrastanti: Giuseppe Buonfiglio Costanzo (Prima parte dell’Historia siciliana Nella quale si contiene la descrittione antica, & moderna di Sicilia, la guerre, & altri fatti notabili dalla sua origine per sino alla morte del Catolico Rè Don Filippo II, Bonifacio Cera, Venezia, 1604, p. 466) sostiene che “molti vogliono, che Dorgutto fosse stato ricattato per favore de Lomellini, li quali hebbero da lu in ricompensa la pescagione de’ coralli à Tabarca in Barberia”. Un secolo dopo, Filippo Casoni (Annali della Repubblica di Genova del secolo decimo sesto, Casamara, Genova, 1799, vol. II, pp. 139-140) indicava che il riscatto per liberare Dragut era probabilmente stato pagato dalla famiglia Sopranis di Genova, che prestò il denaro ai berberi in cambio dell’isola di Tabarca. Secondo Gosse (Storia della pirateria, cit., pp. 45-50) il corsaro trovò la libertà a seguito dell’intercessione di Giovanni Della Valletta, che venti anni dopo avrebbe difeso Malta, in qualità di Gran Maestro dei cavalieri di San Giovanni, dagli attacchi di Dragut stesso.

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Mahdiyya) –conosciuto come Afrodisio nelle cronache latine– al tempo chiamata África, in cui il pirata si era insediato86. Il corsaro Dragut, vero protagonista della Historia africana, riuscirà però a evitare la seconda cattura, proseguendo nei suoi assalti lungo le coste tirreniche. La narrazione, con prevalenza di periodi paratattici, è caratterizzata da una scansione cronologica che corrisponde in prevalenza a un calendario cristiano. Il tempo dell’azione è quindi dettato da riferimenti che il lettore ha il compito di decifrare: il Domingo de Ramos (Domenica delle Palme), il Corpus Christi (sessanta giorni dopo la Pasqua), la bíspera de Sanct Juan (24 giugno), il domingo día de Sanct Pedro y Sanct Pablo (29 giugno)87, il día de la Magdalena (22 luglio), il día de Santiago (25 luglio), il día de la Assumpción (15 agosto), el día de Nuestra Señora de Septiembre (8 settembre, giorno della Natività), il día de Sanct Nicolás Tolentino (10 settembre), la hora del Ave María (il tramonto). Ancora al lettore spetta la ricostruzione della cronologia degli eventi in altri passaggi che risultano ambigui, come l’indicazione “quinze días después que África se ganó”: secondo il testo di Salazar, il giorno dovrebbe essere il 25 settembre. Stando però a quanto affermato nel Cap. XLIII (“Otro día de cómo África se ganó que fue juebes onze de septiembre. [...] por la bondad de Dios y con su divino favor, el miércoles diez del presente la ciudad de África por su gente de guerra avía sido ganada”), il secondo mercoledì dopo il 10 settembre dovrebbe corrispondere al 24. L’affermazione “otro segundo miércoles, quinze días después que África se ganó” appare contraddittoria poiché, a meno di un errore nell’indicazione del giorno, sembrerebbe riferirsi proprio al 25 settembre, che cadeva di giovedì. Altra peculiarità dell’opera è la ricchezza di dati che sembrerebbe provenire dalla lettura di documenti ufficiali. Ad esempio, alla richiesta del Doria di sostegno militare ai regni di Napoli e Sicilia, Salazar informa dettagliatamente di una provvigione di armamenti provenienti da Castelnuovo e 86 III 20. Sull’etimologia, Diego Gracián de Alderete, La conquista de la ciudad de Africa en Berberia, Juan de Canova, Salamanca, 1558, ff. B3r-v: “Dizen que África (según los moros tienen por sus historias) la fundó Mahgdí, el primer pontífice siquier Califa del Caruán en el seno de Adrumentino, y de su nombre se llama Mahadian. La qual ciudad, muchos años después que los Christianos la ganaron, la cobró Abdul Mumene rey de Marruecos ciudad de Berbería llamada Tingitania, y aun agora ay no lexos de África algunos rastros de pueblo antiguo que muchos piensan ser Aphrodisio, otros piensan que fue Rhuspina o Leptis la menor, tan grande es la variedad y differencia de los escritores y choronistas en las cosas y lugares antiguos.”. 87 All’inizio del Cap. XVII si dice chiaramente che il sabato di San Pietro e Paolo è il 28 giungo.

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Sant’Elmo88. Questa accuratezza di informazioni, che si ripete spesso quando si danno a conoscere gli eserciti cristiani o si narra l’organizzazione di un imminente attacco, sembrerebbe indicare che Salazar avesse accesso ad atti ufficiali, dai quali probabilmente attingeva senza lesinare informazioni89. Si nota quindi una sorta di parafrasi di questa documentazione che potrebbe provenire da quel rafforzamento degli interessi del cronista “non solo per il contenuto dei documenti ma anche per gli aspetti procedurali e performativi, relativi al rituale previsto per la lettura pubblica dei documenti emanati dall’autorità” che avviene con l’incorporazione del Regno di Napoli alla Corona Cattolica90. In questa metodologia di scrittura, l’autore sembrerebbe allinearsi alla produzione storiografica anteriore in volgare, che come detto si limitava spesso a fornire la sola narrazione dettagliata degli avvenimenti. Non è da escludere l’utilizzo di altre fonti più aderenti al genere epicolirico: in particolare lo stratagemma delle navi legate tra loro per abbattere le mura della città (Cap. XXXVIII) era già apparso nell’anonimo Romance del 1551 sulla conquista91: El primero de setiembre comiença la batería hazia la mano derecha a un cantón que se hazía avía un gran turrión de argamassa muy antigua parte dél en el arena parte en el agua y la marina. A este tiran fuertemente este baten a porfía; también baten por el lado un través que junto avía temiendo que en el assalto 88

XIII 99-128. Sánchez Alonso segnala che sia la Historia de la guerra y presa de Africa sia il De Aphrodisio expugnato di Calvete “parecen haber sido escritas a base de relaciones ajenas, no por recuerdos del autor”. Sánchez Alonso, Historia de la historiografía española, cit., p. 60. 90 De Caprio, Scrivere la storia, cit., p. 112. In particolare si veda l’es. 50 della cronaca di Notar Giacomo, che ricorda nelle modalità di resa le relazioni dettagliate di Salazar sulle citate provvigioni provenienti da Castelnuovo e Sant’Elmo. 91 Di questo anonimo pliego suelto di 24 fogli esiste una riproduzione digitale su Google libri e sul sito della Münchener Digitalisierungszentrum [http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/ 0004/bsb00047621/images/] da cui trascrivo, che riproduce l’esemplare conservato nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (Res/Eur. 38). 89

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gran estorvo les haría. Baten también la cortina que al lado izquierdo caía pero aqueste batir fuerte poco provecho hazía si no dieran juntamente otra gruessa batería por la mar de dos galeras que juntas atado avían: esto fue por invención e industria de don García que encima dellas dos juntas puso gruessa artillería diez cañones reforçados que al soltar la mar tremía. Pero estos no tiraron hasta el tiempo que se vía que la batería de tierra algún effecto hazía. Cayó medio turrión de manera que podía aunque con muy gran trabajo subir el infantería. (vv. 649-684)

A tale proposito si ricordi che nei Sonetti per la presa d’Africa Luigi Tansillo aveva indicato un precedente uso della tecnica delle navi legate durante una festa a Messina in onore di Antonia de Cardona, celebrata il 26 dicembre del 1538: il ponte che si installò sulle due imbarcazioni servì ad allestire un palcoscenico su cui si svolse la rappresentazione teatrale dei Due pellegrini dello scrittore partenopeo92. Il singolare espediente è indicato anche da Calvete, e riappare nella traduzione di Gracián de Alderete nel 155893: anche il testo di Gracián indica che 92

Luigi Tansillo, Rime, introduzione e testo a cura di Tobia R. Toscano, commento di Erika Milburn e Rossano Pestarino, Bulzoni, Roma, 2011, vol. II, pp. 346, 491 e Luigi Tansillo, L’Egloga e i Poemetti, introduzione e note di Francesco Flamini, Vecchi, Napoli [Trani], 1893, p. 31, dove è citato il testo latino di Francesco Maurolico (Miscellanee I, 398) che contiene la relazione della festa e la notizia della rappresentazione della commedia di Tansillo. 93 “La fación deste ingenio era tal: juntó dos galeras quitados los mastiles y armazón por los lados, y púsolas frontero de la cerca, afirmándolas con quatro áncoras por los cantos para que no las levantassen las ondas. Después las mandó cubrir de un tablado de madera muy rezio de guisa que pudiessen bien sostener quatro pieças gruessas de artillería y assestolas frontero de la cerca, por el lado ceñidas de un valuarte de çarços y estacas y cestones de tierra desde popa a popa a proa, de fuerte que desde las fenestras o saeteras para los tiros que havía dexado abiertas, quando

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l’idea di García de Toledo proviene dal ricordo di “una cierta máchina, o ingenio que havía echo el tiempo passado en Mezina, para un torneo de mar en una fiesta, y sin más esperar pensó de lo experimentar luego a la hora” (f.Hr)94. L’uso di fonti scritte e di documenti ufficiali non sembrerebbe l’unico modo di indagare dello storiografo: il frequente uso delle forme dizen o se dize, o l’impiego di frasi come según algunos afirman (o dizen), che accompagnano spesso la narrazione assieme ad altri interventi autoriali, parrebbero suggerire una documentazione di tipo orale, basata su quanto riportato dalle testimonianze di alcuni partecipanti alle vicende: si tratterebbe dunque di una relazione basata su testimonianze dirette. Questa metodologia di indagine ci è suggerita anche nel prologo della Hispania Victrix:

las hizo pudiessen tirar las pelotas seguramente con los tiros, y que las galeras juntamente con esta máchina se pudiessen fácilmente mover y acercar a la parte que quisiesse”. Cito da Gracián de Alderete, La conquista de la ciudad de Africa en Berberia, cit., f.Hr-H2r. Sull’episodio cfr. anche Juan Ginés de Sepúlveda, Historia de Carlos V (Libros XXVI-XXX), ed. critica, traduzione, introduzione filologica, note e indice a cura di José Solís de los Santos, studio storico e note a cura di Baltasar Cuart Moner, in Juan Ginés de Sepúlveda, Obras completas XIV, Ayuntamiento, Pozoblanco, 2010, p. 41, nota 176. 94 A proposito dello stratagemma, Cesáreo Fernández Duro, Armada española, Museo Naval, Madrid, 1972, vol. I, p. 283: “Parece haber sido de D. García de Toledo la idea de mejorarse por la mar formando una batería sobre las dos galeras Brava y Califa, después de desembarazarlas de palos y remos y de unirlas con perchas y tablones sólidamente. Sobre la plataforma que constituían se montaron nueve piezas gruesas, con parapetos y pavesadas para reparo de la gente, y así que estuvo presta, se fondeó con cuatro anclas arrimada al muro, rompiendo el fuego al mismo tiempo que lo hacían las baterías de tierra y todas las galeras el 8 de Septiembre, día de la Virgen”. Un antecedente simile si trova nella Naturalis historia di Plinio (III 101) in cui lo scrittore riferisce del progetto di Pirro e Varrone di costruire un ponte di navi che unisse Otranto e Valona, il cui riferimento è ripreso in Francisco de Araujo, Historia de los mártires de la ciudad de Otranto, Egidio Longo, Napoli, 1631, la cui edizione (Academia del Hispanismo, Vigo, 2015) è stata curata da Roberto Mondola, che ringrazio per l’indicazione. Anche Erodoto (Storie, VII, 34-36) parla di un’idea affine quando narra l’impresa di Serse sull’Ellesponto. Il ponte di navi è descritto e illustrato anche nel trattato militare di Francisco de Pedrosa, Arte y suplimento rei militar del 1541: “Con maderos y tablones clavados por cima tanto quanto estén muy bien firmes y fixos al caminar de cavallo y de toda manera de gente a pie: y si la puente por ser luenga trama demasiadamente: y está con aquello no muy firme ni costante: pa el remedio: de tal temblor se deven hazer: todos los aterraderos que serán necesarios: con gruesas sogas de cáñamo a la puente ligándola a los estremos muy bien: de la una y la otra rripa del Río y en el medio a dos o tres partes ancoradas y en la supirior parte dell agua: muy bien ligadas las áncoras con graves cuerdas: y aterradas en el fondo terreno del Río: ya en este caso de fabicar puentes de madera en los Ríos muy llana y clara filosophía es: que el madero seco mejor nada en ell agua que el verde” (fol. 105).

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Soy hombre, y como tal puedo por ignorancia engañarme: pero no quiera Dios que sea por ninguno de los dichos amor y odio: por esta causa no fiándome de informaciones que se me dieron de los successos de las guerras que tuvo el Xarife rey de Marruecos, y del Therudante, con los reyes de Fez y Velez, y del cerco de la ciudad de Orán, y assaltos del castillo de Maçalquivir, y la edificación de la inexpunable fuerça del Peñón y, la toma y presa dél, y el largo sitio que los turcos tuvieron a la isla de Malta, y los conbates que la dieron, hasta ser socorrida y descercada por la real armada de Vuestra Magestad, procuré también informarme de personas authénticas y fidedignas que a ellas se hallaron presentes. (f. ¶ 2)

Salazar dimostra quindi prudenza nell’affermare quanto ha appreso, senza schierarsi e riportando sovente opinioni altrui95: un metodo che lo accosterebbe a un modello di cronista moderno, e lascerebbe presumere che non partecipò direttamente alle vicende africane. Tuttavia l’uso di fonti orali non costituisce una peculiarità dello storiografo spagnolo: Chiara de Caprio fa notare che già verso la fine del Quattrocento esisteva una memoria cittadina collettiva, tramandata oralmente, che si poneva in relazione con la comunicazione politica ufficiale96. La studiosa aggiunge anche che la frequenza del verbo ‘dire’ non è necessariamente una spia di fonti orali, ma al contrario può indicare una genericità della fonte di informazione, il suo carattere di congettura, o il distacco del cronista rispetto a quanto sta riportando97. Si nota inoltre la presenza del discorso diretto –una delle caratteristiche della narrazione epica– che di norma coinvolge i capitani cristiani e ottomani durante i consigli di guerra o mentre si rivolgono agli eserciti per spronarli alla battaglia. Si cerca pertanto di trasmettere un punto di vista che sembri attivamente partecipe delle vicende, ma che soprattutto coinvolga il lettore proiettandolo all’interno degli episodi. Un espediente che, anche se in misura proporzionalmente minore, ritroviamo anche nel Tratado di García Cerezeda e nella Historia di Prudencio de Sandoval y Rojas, e le cui finalità potrebbero nascondere un intento di istruzione morale. Questa possibilità era stata teorizzata nel secolo precedente da Lorenzo Valla: l’umanista sottolineava il valore delle orazioni nei testi storici a causa della loro maggiore valenza filosofica, la cui funzione

L’autore non disdegna in altri passaggi l’intervento diretto, come nel caso della fuga del corsaro ormai circondato dalla marina genovese, in cui Salazar assolve il Doria dichiarando che le intenzioni del pirata non erano state comprese da nessun membro della flotta (L 74-77). 96 De Caprio, Scrivere la storia, cit., p. 98. 97 Ivi, p. 99. 95

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deriva dall’essere frutto dell’invenzione dello scrittore, e non dall’essere realmente avvenute, al fine di offrire una precettistica morale98. A proposito di Sandoval, occorre segnalare la presenza di un’eco della Historia africana nella Historia de la vida y hechos del Emperador Carlos V. In particolare, si riscontrano analogie nel racconto sulle origini del corsaro Dragut99: Salazar (I 56-67) Y entre los cossarios, que (sic) más atrevido se mostrava después de Barbarroxa fue Dragut, natural de la Notolia, que es en la Asia Menor, de un pequeño lugar llamado Charablac, frontero de una ciudad de tres mil vezinos llamada Estancoy, y de parentela de villanos, viles, raezes y pobres, que de niño pequeño se dize salió de su tierra navegando por la mar, en servicio de un arráhez de su patria; y visto por Barbarroxa, que gran sodomita se dize era, pareciéndole bien le rescibió por suyo con fin de cometer con él el pecado nefando, y fin de días que dél se sirvió, le dio una fusta y patente de Capitán general, para que los cossarios turchos que armasen le obedeciessen como a él, que General del gran Turcho era, y mandándole hiziesse todo el mal y daño que en las tierras, bassallos y confederados del Emperador pudiesse, a fin de hazerle grandes molestias y bexaciones.

Prudencio de Sandoval (XXX 16) Fue Dragut natural de la Notolia, que es en la Asia Menor, de un pequeño lugar llamado Charabalac, frontero de una ciudad de tres mil vecinos, llamada Estrancoy, y de parientes villanos, viles, soeces y pobres. Que de niño salió de su tierra navegando por el mar en servicio de un arráez de su tierra, y vino a poder de Barbarroja, que se sirvió de él en muy malos y torpes oficios, y cuando ya era hombre le dio una fusta y patente de capitán general, para que los cosarios turcos que armasen le obedeciesen como a él.

Una simile affinità, che potrebbe anche derivare da un uso di fonti comuni, si ripete nel resoconto dello sbarco della marina imperiale sulle coste nordafricane, dove una medesima porzione di testo appare in entrambi gli storiografi con varianti poco sostanziali:

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Ferraù, Il tessitore di Antequera, cit., p. 5. Si evidenziano in corsivo le difformità tra i due testi.

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Salazar (XVII 45-55) Y como don García los vio, mandó a don Alonso que con los arcabuzeros se fuesse acercando a ellos, y más arcabuzeros y soldados para reforçarle, para que travasse con ellos escaramuça. Y començando a ir la manga para ellos, Caidali, que en una hermosa yegua alheñada la cola iva, mandó retirar los turchos y moros hasta un cercado de viñas que toda la montañeta ceñía, por donde estavan muchas higueras y árboles fructales, y tomándola como por amparo se hizo allí fuerte, mostrando ánimo de pelear y ofender y defenderse, y mandó disparar escopetería y flechas contra los christianos de que hirieron a algunos. Y don Alonso, que para ellos iva, mandó hazer lo mismo contra ellos, y disparando arcabuzería se començaron a travar.

Prudencio de Sandoval (XXX 30) [...] y como don García los vió, mandó a don Alonso que con los arcabuceros se fuese acercando a ellos, y fue enviando más arcabuceros y soldados para reforzarle y que trabase con ellos escaramuza, y comenzando a ir la manga para ellos, Caidali, que iba en una hermosa yegua, alheñada la cola, hizo retirar los turcos y moros hasta un cercado de viñas que toda la montaña ceñía, por donde estaban muchas higueras y árboles de fruta, y tomándola como amparo se hizo allí fuerte, demostrando ánimo de pelear, y mandó disparar las escopetas y flechas contra los cristianos, y lo mismo hizo la infantería española contra ellos, y comenzáronse a trabar.

Di fatto, il libro XXX della Historia di Sandoval y Rojas indugia a lungo sulla vicenda di Mahdia, probabilmente per l’importanza della conquista ma anche per l’abbondanza di materiale storiografico a riguardo: a partire dall’entrata di Dragut nella città (XXX 20) e dalla descrizione del bastione tunisino (XXX 21), il racconto della battaglia si sviluppa in ben ventiquattro capitoli, arrivando fino al XLVI del Trentesimo. Questo dettagliato resoconto rappresenta il frutto di un meticoloso spoglio delle fonti, tra le quali l’opera di Salazar include un considerevole numero di informazioni. Questi dati rappresentano un’ulteriore prova non solo del valore di Salazar e del riconoscimento di cui ha goduto, ma anche della ricezione delle sue cronache da parte di più illustri storiografi. Il prestigio dell’opera è confermato anche in età moderna, quando Cesáreo Fernández Duro cita lo storiografo di Madrid a conclusione del suo capitolo sulla battaglia di Mahdia100. Tornando al testo della Historia africana, osserviamo che nonostante fin dal titolo si evidenzi la vittoria degli eserciti cristiani, che conquistano impor-

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Fernández Duro, Armada española, cit., vol. I, p. 284.

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tanti baluardi saraceni, la cronaca degli accadimenti sembrerebbe rispettare quell’intento difensivo che caratterizzò la politica anti-turca degli spagnoli: operazioni belliche orientate a contenere l’espansione dell’impero ottomano, non a reprimerla101. Di fatto Salazar ci informa che Dragut, uno dei più temibili nemici dell’imperatore Carlo V, è liberato dopo soli quattro anni di prigionia e sotto le pressioni di un altro corsaro, il Barbarossa, al servizio di Solimano il Magnifico, a sua volta alleato con Francesco I di ValoisAngoulême. Si aggiunga poi che il César, e come lui anche il gran Turco, occupa un ruolo marginale nella narrazione degli eventi, e che Salazar rende noto che la decisione di attaccare Mahdia non proviene direttamente dall’imperatore, informato della scelta per mezzo di una lettera di Andrea Doria102. All’interno della medesima porzione di testo è Salazar ad affermare per bocca del Doria che le scorrerie di Dragut “de ninguna manera se podrían atajar si no era ganando la ciudad de África [...] para lo desarraigar de allí”, con evidente intenzione di non lasciare al pirata un prezioso presidio militare così vicino alle coste siciliane, “porque donde Dragut mayores daños avía hecho era en aquella isla, por ser la primera por do venía quando de Los Gelves con su armada salía a hazer daño en los christianos” (XXXI 52). L’attacco alla città di Mahdia, di cui il corsaro si era in precedenza impossessato, sembrerebbe quindi funzionale alla protezione delle coste italiane, non alla cattura del saraceno, fatto di cui per altro i viceré sono consapevoli103. La cronaca della campagna tunisina parrebbe quindi un tributo al prezioso ruolo militare svolto dai Regni di Napoli e Sicilia e dai loro reggenti, come tra l’altro lo stesso Salazar dichiara nel prologo a Pedro de Toledo. Personaggi come García Álvarez de Toledo104 e Juan de Vega105, e con loro i 101 Felipe Ruiz Martín, “Política antiturca de España en el reino de Nápoles durante el siglo XVI”, Archivum: Revista de la Facultad de Filología, III/1, 1953, pp. 3-30, in cui si precisa che “De esos gestos defensivos contra los turcos realizados por España, ocupa un lugar preeminente por su significación y trascendencia la conquista de Nápoles. Porque los Reyes Católicos decidieron la incorporación a su monarquía del país apenino meridional para evitar que fuese sojuzgado por los otomanos” (pp. 5-6). 102 Cap. XIII. 103 XXXI 75-83. Cfr. anche il discorso di García de Toledo in favore dell’attacco alla fortezza nordafricana in XI 30-62. 104 Figlio del viceré Pedro de Toledo, Salazar ricorda il valore dell’omonimo antenato (I duca d’Alba) nel prologo della terza emissione della Historia africana (BNCR): “por su grandeza de ánimo y esfuerço de coraçón, estimando en más su honrra que su vida, peleando como buen cavallero con los turchos y moros murió en Los Gelves, pudiendo honrrosamente salbar la vida, a cuya causa no ay hombre que antes no le deva aver embidia que manzilla, pues perdió la vida con la

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capitani di galera, occupano un ruolo chiave, fino a divenire i veri artefici della conquista. Allo stesso modo si rende omaggio anche al valore di altri personaggi, come ad esempio l’alcaide general de La Goleta Luis Pérez de Vargas, morto in battaglia e celebrato nei capitoli che intercorrono tra l’attacco e la conquista (Cap. XXVIII-XXXI), o il capitano nizzardo Juan Moreto, che si lanciò all’inseguimento delle navi corsare lungo le coste francesi (Cap. XXXV-XXXVI)106. Le successive perdite dell’isola di Gozo e di Tripoli (Cap. LXIV-LXX) – la prima caduta con facilità in mano ai turchi, la seconda consegnata senza opporre resistenza–, divengono un inevitabile termine di paragone tra due atteggiamenti antitetici: quello combattivo e volto al sacrificio, che anima l’azione bellica, e quello arrendevole e teso a evitare vittime dei governanti dei territori nordafricani107. La relazione sulla battaglia di Mahdia indugia spesso sulle perdite umane degli eserciti cristiani, in una sorta di propensione al sacrificio e al martirio dovuta a un forte senso di appartenenza religioso e alla completa devozione all’imperatore Carlo. Al contrario, la resa di Tripoli e la consegna delle chiavi della città agli eserciti turchi (Cap. LXVII) palesa un tradimento degli ideali cristiani e della fedeltà alla Corona. Il marichal Chambarí, al quale era stata affidata la città di Tripoli, viene duramente condannato per il suo atteggiamento rinunciatario verso il conflitto bellico e

mayor y más alta honrra que nunca hombre generoso murió, y alcançó con su muerte lo que muchos señalados y valerosos capitanes con grandes travajos en sus vidas no pudieron alcançar, por donde siempre durará su gloria y su inmortalidad de fama y para in eterno su memoria.”. 105 Si tratta del viceré di Sicilia, che ebbe anche egli un ruolo importante nella scrittura di testi storici e al quale Gracián dedica la traduzione del De Aphrodisio expugnato. 106 Luis Pérez de Vargas fu un soldato spagnolo che iniziò la sua carriera intorno al 15101512, e nel 1534 è già Capitano del Tercio de Nápoles. Partecipò con la sua compagnia alla presa de La Goletta e di Tunisi (1535), e a quella di Algeri (1541). Nel 1544 è nominato governatore de La Goletta, che fortificò; lì impose la pace tra il jarife di Kairouan e il Re di Tunisi, obbligando entrambi ad armarsi contro i turchi. Nella conquista di Mahdia fu chiamato in causa da Juan de Vega, e nella battaglia morì il 25 luglio del 1550 (qui descritta al cap. XXVIII). Juan Luis Sánchez Martín, “Pérez de Vargas, Luis”, in DBE, XLI, 2013, pp. 326-327. Su Juan Moreto non abbiamo trovato notizie biografiche. 107 La colpa della perdita dell’isola di Gozo è attribuibile –secondo le parole di Salazar– ai peccati dei cristiani, che per questo vengono puniti. In questo passaggio lo storiografo attribuisce alla fede religiosa le ragioni dei conflitti. Juan de Homedes y Coscón, conosciuto anche col nome di Jean de Homedes (1477 c. – 6 settembre 1553), Gran Maestro dell’Ordine di Malta dal 1536 al 1553, difese Malta dai continui attacchi dei corsari turchi, ma sotto il suo regno, nel 1551, i cavalieri persero la loro fortezza di Tripoli in favore degli ottomani, comandati dal corsaro Dragut.

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perché optò per la consegna della città, una soluzione che lo macchia di infamia e lo consegna alla memoria storica privo di gloria108. La missione di recupero della città libica –proposito con cui si chiude la Historia– sarà così affidata a un’armata composta dalle flotte spagnole, napoletane e siciliane che, unitamente alle navi di altri imprecisati domini imperiali, potesse “dar la batalla a la [armada] del Turcho, y salir con la victoria mediante el divino favor”109. Quanto fin qui indicato sembrerebbe evidenziare una sorta di aspirazione encicolpedica di Salazar, mosso dal desiderio di voler inserire ogni elemento, anche il più apparentemente distante, nella prospettiva secondo cui gli avvenimenti coevi sarebbero altrettanto utili alla comprensione del tema trattato. Nel caso di Salazar, la storiografia sembrerebbe prediligere un uso pieno delle fonti. Assieme alla dispositio scelta dallo storiografo, questa metodologia storiografica avrebbe consentito anche una consultazione episodica dei contenuti, che il lettore avrebbe potuto visionare previamente attraverso la “Tabla de contenidos”. In tal senso, l’esempio offerto riguardo all’intertestualità con Sandoval sembrerebbe testimone esemplare di questa ipotesi. 2.3 La lingua A livello grafico-fonetico, nella lingua della Historia si segnalano alcune peculiarità, come la presenza privilegiata della ‘s’ liquida (es. spañoles, speravan, special), che potrebbero essere in gran parte attribuite anche a un compositore della tipografia napoletana. Riconducibili probabilmente all’influenza italiana sono anche l’uso anti-iatico dell’h (es. proveher, vehe108 LXVII 72-91. Il rapporto tra la vita e la morte è qui rappresentato da un elogio del martirio, secondo il quale la gloria eterna si ottiene con il sacrificio religioso. La scelta di non morire è disdicevole perché non ci si espone alla morte e non si ottiene la gloria eterna. Una vicenda affine avvenne nel 1555, quando Alonso de Peralta consegnò Bugia agli algerini: “En los veintidós días de trinchera abierta temió Peralta por la vida de las mujeres y los niños, y dio oídos á la oferta de conceder pasaje libre para España á todas las familias, sólo cumplida con su persona y 20 más de su elección. Hizo entrega de las llaves el 27 de Septiembre; el 4 de Mayo del año siguiente caía su cabeza en la plaza de Valladolid por no haber cumplido las obligaciones de soldado.”. Fernández Duro, Armada española, cit., vol. I, p. 287. L’episodio raccontato da Salazar si ricollega a uno simile occorso nel 1570 a San Clemente, che abbandonò la nave a seguito di un abbordaggio del pirata Ochali, al quale consegnò tre galere tra cui l’ammiraglia. L’ordine fu profondamente umiliato e San Clemente fu processato, condannato a morte e strangolato in cella. Gosse, Storia della pirateria, cit., p. 51. 109 LXVIII 98-99.

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dor, reprehenden); l’alternanza dei grafemi t/d in finale di parola (es. ciudad/ciudat e utilidad/utilidat)110; l’alternanza di gn/gñ (es. insigne/insigñe), o dei grafemi nn e ñ (es. anno/año) per il fonema palatale /ɲ/. Della stessa natura sembrerebbe invece l’uso del gruppo ch per il fonema /k/ (es. Turchos). Nelle forme verbali composte di ser e haber si nota invece la tendenza a concordare il genere del participio con il complemento diretto al femminile, nella forma di ablativo assoluto (es. dada sepultura; desembarcada la infantería). Accompagna questi fenomeni l’unica occorrenza del lessema iñoráis al posto di ignoráis, che tuttavia non sembrerebbe avere la medesima provenienza dei casi precedenti. È in fine scarsa la presenza di alcune forme di seseo (es. dessernido; dasio). Appaiono inoltre delle particolarità grafiche come la presenza dell’h nelle preposizioni semplici (hen e ha) o l’uso della m nella preposizione en seguita da b o p (em poder, em bien, em persona, em poco/s, em paz, em balde, em breve, em busca) che nell’edizione si è deciso di normalizzare secondo criteri moderni. È plausibile che questa peculiarità grafica delle preposizioni potrebbe non riguardare l’autore, poiché nella Hispania Victrix non si riscontrano le medesime occorrenze, così come non è segnalata nell’edizione delle novelle. Aggiungiamo che questi fenomeni che prevedono l’h iniziale si manifestano solo in alcune sezioni della cinquecentina, alternandosi alla norma opposta111. Si attesta inoltre la presenza di alcuni cultismi (es. palatio, Phelipín). Riguardo al lessico si attestano i seguenti latinismi: in eternum; interesse; longe (nell’accezione di lejos). Altrettanto rilevante è l’occorrenza di forme lessicali che rimandano alla semantica dell’etimo latino: germán (dall’etimo [frater] germanus)112; ocurrido (da occurrere)113; querito (da queror, nell’accezione di querido)114; sota (da subtus, nell’accezione di debajo); sitiada (nell’accezione latina di situare); vista (nell’accezione di intento)115.

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Le occorrenze di questo fenomeno sono limitate ai soli due casi portati a esempio. Ricordiamo che Salazar dichiara nel Prologo la collaborazione di correttori e compositori italiani, accusandoli di aver compiuto degli errori di stampa. 112 In questo caso Salazar offre una interpretazione del lessema: “‘Germán, germán’, que en nuestra lengua spañola dize ‘hermanos, hermanos’”. 113 Autoridades. Occurrir. “Prevenir, anticiparse o salir al encuentro. Viene del Latino Occurrere, que significa esto mismo. […] Le toman algunos por acudir a alguna parte”. 114 La forma querito è attestata nel Corde (consultato il 5 giugno 2015) come forma di queror (A. de Palecia, Universal vocabulario en latín y en romance, 1490). 115 Autoridades. Vista. “Significa también intento ú propósito. Lat. Intuitus. Intentio”. 111

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Si segnala inoltre l’attestazione delle seguenti forme desuete, di arcaismi o di lessemi semanticamente distanti dall’accezione più usuale: artizar, nell’accezione di fare qualcosa con artificio, con ingegno116; brocatí, lessema non individuato nei repertori lessicografici e nelle banche dati consultate, che dal contesto (“tafetán brocatí”) sembrebbe alludere alla qualità del tessuto de brocado; conjelarse, secondo l’accezione di detener un proceso; en derecho, come locuzione en derechura; ensolvió, per cui Autoridades indica l’accezione reducir; Hospitaler, per espitalero117; inremediables per irremediables, forma attestata tra il XV e il XVII sec.; irresiones per irrisiones, di cui non abbiamo rintracciato ulteriori attestazioni; librar118; pluvo, come forma al pretérito di placer119; quisto (participio irregolare desueto di querer, dal latino quaesĭtus); resplendor per resplandor120; seguimento per seguimiento121; surgir, nell’accezione di aparecer; trayo, forma arcaica di traigo, in uno stadio precedente allo sviluppo della g alla prima persona del singolare122. Il lessico è arricchito da lessemi appartenenti al campo semantico militare: almirallo123; ataraçanal124; cavallero125; conserba126; despalmado127; en116 La voce è attestata in Juan de Flores, Grimalte y Gradisa (1495) e Alfonso de Valdés, Diálogo de Mercurio y Carón (1529). Si consideri anche la possibilità di un errore per atizar, nell’accezione di fomentare e aumentare l’odio. 117 NTLE. Hospitalero. “[...] VOC. GEN. S. XIV: blasto, spitalero [...] VALDÉS 1535: C.[...] vocablos españoles que no tengan latinos que les correspondan. [...] COVARR. 1611: espitalero, el que tiene cargo del espital y de dar recaudo a los pobres enfermos. El principal que tiene el gouierno le llaman administrador en Castilla”. 118 Autoridades. “Significa assimismo despachar, expedir ù dar algun orden. Lat. Ordines expedire.”. 119 La forma pluvo proviene da placuit, e come altri verbi nella forma del pretérito soffre l’influenza di habui>huvo. Vicente García de Diego, Gramática histórica española, Gredos, Madrid, 1970, p. 248. 120 Arcaismo attestato, secondo il Corde (consultato il 5 giugno 2015), con maggior frequenza tra il XIII e il XV sec., e con minori occorrenze fino al XVII sec. 121 Il Corde (consultato il 4 giugno 2015) attesta una sola occorrenza successiva (“iré en su seguimento”) in Calderón, Andrómeda y Perseo (1680). 122 García de Diego, Gramática histórica española, cit., p. 245. 123 Antonio de Nebrija, Vocabulario de romance en latín (Sevilla, 1516), a cura di Gerald J. Mac Donald, Castalia, Madrid, 1973, s.v. Almiralle: “en aravigo interpretatur rex”. 124 Diccionario de la lengua castellana, en que se explica el verdadero sentido de las voces, su naturaleza y calidad, con las phrases o modos de hablar, los proverbios o refranes, y otras cosas convenientes al uso de la lengua [...], ed. della RAE, Imprenta de Francisco del Hierro, Madrid, 1726, vol. I, s.v. Atarazanal: “Lo mismo que Atarazana. Es poco usado”; s.v. Atarazana: “Oficina junto al mar, donde se fabrican navíos, galeras y otras embarcaciones, y se labran y

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castillados, secondo l’accezione di fotrificados; espaquís128; esquilaço129; estado130; galápago131; lienço132; peto, inteso come la parte frontale della corazza, dall’italiano ‘petto’; real133; torre del omenaje134; vergantín135. Oltre alla presenza di alcuni lessemi che sembrerebbero contaminati dall’italiano (es. inconprehensíbiles; fiumara; Germania136), si rilevano alcuni rari casi di mancato dittongamento (es. esforço, Porto). Ancora a livello lessicale si registrano alcune voci che provengono dalla trascrizione di termini arabi appresi oralmente. Un primo caso si attesta nel lessema estafarla (III 60), dall’arabo istaghfar Allāh (egli chiede perdono a Dio). tienen todos los pertrechos que son necessarios para la navegación, que por otro nombre se llama Arsenal. [...] lo más probable (según los PP. Alcalá y Guadix, y Juan Lopez de Velasco) es que venga del Arábigo Darsenaa o Daracinaa, que vale Casa de oficio: aunque Covarr. apunta que nace del verbo Atarazar, que es cortar, porque en la Atarazana se cortan las maderas para la fábrica de los navíos”. 125 DRAE. Caballero. “Obra de fortificación defensiva, interior y bastante elevada sobre otras de una plaza, para mejor protegerlas con sus fuegos o dominarlas si las ocupase el enemigo”. 126 DRAE. Conserva. “Compañía que se hacen varias embarcaciones navegando juntas para auxiliarse o defenderse, y más comúnmente cuando alguna o algunas de guerra van escoltando a las mercantes”. 127 DRAE. Despalmar. “Limpiar y dar sebo a los fondos de las embarcaciones que no están forradas de cobre”. 128 Modernamente espahí, per cui cfr. DRAE: “Del fr. spahi, este del turco sipahi, y este del persa sepāhi. Soldado de caballería turca. Soldado de caballería del ejército francés en Argelia”. 129 Secondo il Diccionario marítimo español di Martín Fernández de Navarrete (Imprenta Real, Madrid, 1831): “Cierta especie de navíos que en Levante se usan”. 130 DRAE. Estado. “Medida longitudinal tomada de la estatura regular del hombre, que se usaba para apreciar alturas o profundidades, y solía calcularse en siete pies”. 131 DRAE. Galápago. “Máquina antigua de guerra, consistente en un barracón de madera transportable y cubierto por el techo con pieles, usado para guarecerse la tropa mientras se aproximaba a los muros enemigos”. 132 DRAE. Lienzo. “Porción de muralla que corre en línea recta de baluarte a baluarte o de cubo a cubo”. 133 Autoridades. “Se llama la principal galera de testas coronadas y Reinos independientes. [...] Lat. Triremis regia.”. partesana: Autoridades. “Arma ofensiva, especie de alabarda, de la qual se diferencia en tener el hierro en forma de cuchillo de dos cortes, y en el extremo una como media luna. Era insignia de los Cabos de Esquadra de infanteria. Covarr. dice se llamó assi por ser arma de que usaban los Parthos”. 134 Secondo Autoridades, la torre de homenage era una parte della fortezza in cui il signore faceva pubblico giuramento di fedeltà, assicurando impegno e valore nella difesa in caso di attacco nemico. Anche se già nel XVI sec. il termine indicava tutte le torri della muraglia, Salazar sembra far riferimento a un’unica torre, secondo un’accezione più arcaica del sintagma. 135 DRAE. Bergantín. “Del fr. brigantin o del cat. bergantí, y estos del it. brigantino. Buque de dos palos y vela cuadra o redonda”. 136 Le tre attestazioni di “Germania” si oppongono alle dieci di “Alemania”.

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Salazar non sembra rispettare la semantica originale poiché nell’interpretazione “Dios es y Dios será” si allontana dal reale significato. Una ulteriore attestazione di estafarala apparirà nel secolo successivo nella Topographía e historia de Argel di Diego de Haedo, che rispetto a Salazar appare più aderente alla derivazione araba indicata137. Altro caso meritevole di considerazone riguarda il lessema Falande (III 64), che potrebbe corrispondere sia al nome di uno spirito sia a un grido evocativo. Non è da escludere la possibilità che Salazar alluda a un testo di divinazione prezioso e di pregevole fattura, che descrive foderato in seta, adornato da un disegno della mezzaluna turca e chiuso da trecce argentate. L’invocazione Falande sembrerebbe suggerire che il testo menzionato potrebbe corrispondere a una deformazione dell’arabo Fa’l-nama, un libro di profezie che, specialmente in Iran e Turchia, veniva utilizzato come supporto alle decisioni da prendere, poiché si credeva ne prevedesse l’esito138. Tuttavia il contesto in cui appare il lessema (una richiesta di previsione sull’esito della battaglia) suggerisce ulteriori interpretazioni, lasciando intendere che l’esclamazione indichi la chiamata in aiuto di uno spirito dal nome affine al citato testo sacro. Effettivamente nel prosieguo del rito la previsione favorevole è scandita dalle parole Heidra falande (III 76), che Salazar traduce con “bien ha respondido para do quieres ir”, alludendo alla previsione di una sorte propizia per il corsaro, successivamente smentita dalla storia. La trascrizione di Heidra sembrerebbe riconducibile all’arabo Ḥaḍara (si è presentato) o Ḥaḍrah (la [sua] presenza), che identifica anche un titolo di rispetto o nobiliare. Si dimostra affine anche il caso del lessema belerbeith, variante grafica di beglerbei (voce attestata anche nel Viaje de Turquía) che proviene dal turco beylerbeyi, per cui si nota anche la vicinanza grafica con l’italiano beler-

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La resa in castigliano di Salazar sembrerebbe riconducibile a una invocazione che fray Diego de Haedo (Topographía e historia de Argel, Diego Fernández de Córdova y Oviedo, Valladolid, 1612, f.B2) collega al rituale della circoncisione: “Ila, Ila Ala Mahamet hera curra Ala etc.” (“Dios es, y Dios será, y Mahamet es su mensagero”). La scelta di Salazar potrebbe tuttavia tradire anche un legame biblico, quando Dio rivela il proprio nome a Mosè: “Io sono colui che sono [...] Dirai agli israelti: Io-Sono mi ha mandato a voi” (Esodo, 3 14), in cui il nome di Dio è la sua vera essenza (Dios es) e che rispetta la parziale identità sonora dell’invocazione musulmana (Ila/Ala vs io sono/Io-Sono, hayàh/Jhwh nel testo ebraico). 138 Sul Fa’l-nama cfr. The Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1991, vol. II (C-G), p. 760.

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bei139. È possibile che Salazar stia tentando di ricreare il suono del lessema turco (beylerbeyi) appreso oralmente, utilizzando la grafia occidentale. Lo stesso dicasi per alfaquí, dall’arabo al-faqīh, ovvero un esperto di diritto islamico (figh)140, o per sophí alterazione occidentale dell’arabo ṣàfawī, gentilizio della dinastia musulmana sciita che regnò in Persia (Ṣafavidi). Un procedimento affine si riscontra anche nella resa dei seguenti antroponimi arabi: Cidalfa o Cidealfa, probabile trascrizione di Sidi Alfa (14631542) capo religioso e politico di Kairouan, che aveva combattuto le dominazioni turca e spagnola141; Hametalfa, probabile trascrizione in castigliano di Ahmed ben Alfa, indicato come singore di Kairouan nel 1550142; Muley Haçen, trascrizione di Mula’y al-Hasan al Hafsī, re di Tunisi. La stessa metodologia di resa nel testo scritto si osserva nel caso di alcuni dei seguenti toponimi: Achadia, probabilmente per l’Arcadia, la regione meridionale del Peloponneso; Aragoça, probabilmente Ragusi, in Dalmazia; arrabal de Chaia per il borgo di Chiaia; Asparlonga, che indicherebbe Sperlonga; Betheten, probabilmente Ventotene; Cabo Bono per la penisola di Capo Bon, in Tunisia; Cabo de Marthín per Cap-Martin, sulla costa francese vicino Nizza; Cabo Galo per Capo Gallo, a Palermo; Cabo Páxaro per Capo Passero, estrema punta sud-orientale della Sicilia, in provincia di Siracusa; Cala de Sanct Pablo per la Baia di San Paolo, fra la Punta di Koura e Salmonetta, nell’isola di Malta; Çaragoça de Cecilia per Siracusa, al tempo così chiamata in spagnolo; cavo de Milena, probabilmente Capo Miseno, punta estrema della penisola flegrea, tra il golfo di Pozzuoli e il canale di Procida; Chandia per l’isola di Creta, che nel XVI secolo chiamata Candia143; Cher139

Il lessema italiano è attestato in Carlo Saraceni, Delle historie de suoi tempi di Natale Conti. Parte Prima. Di latino in volgare nuovamente tradotta da M. Giovan Carlo Saraceni, in Vinetia, Appresso Damian Zenaro, 1589, f.O2, e in Id., I fatti d’amore famosi, successi tra tutte le nationi del mondo, da che prima han cominciato a guerreggiare sino ad ora, Parte Seconda, in Venetia, Appresso Damian Zenaro, 1600, f.bb2v. 140 Giovan Battista Pellegrini (Gli arabismi nelle lingue neolatine, Paideia, Brescia, 1972, I, p. 51) attesta la presenza del lessema in Spagna a partire dal 1300, segnalando le accezioni di teologo e giureconsulto. 141 Nouri Boudali, Défense et indépendance, s.n., Tunisi, 1977, p. 13. 142 Secondo Charles Monchicourt, “Etudes kairouanaises”, Revue tunisienne, 13-16, 1933, p. 75, si tratterebbe di un errore di Salazar, poiché lo studioso indica che al tempo della conquista Ahmed ben Alfa non ricopriva la carica indicata dallo storiografo, occupata da Mohamed ben Abi Taieb. 143 “Creta Isola, che da Occidente ha il mare Adriatico, da Settentrione, il mar di Candia, et da Oriente il mar Carpatio, da Ostro, il mare Africano. Hoggi è detta Candia.”. Dione Cassio

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chelo per il promontorio del Circeo; Chúcar per il fiume Júcar, in Spagna; Columbrara, che indicherebbe la fortezza della Colombaia di Trapani, posta su di una piccola isola all’estremità orientale del porto della città; Cotrón per Crotone, per cui si attesta anche la forma volgare “Cotrone” da cui probabilmente deriva il toponimo usato da Salazar144; Espartavento per il capo di Spartivento, a sud della Sardegna; Gijar, probabilmente Jijel, sulle coste algerine a est di Bugia; Iscla per Ischia; isla de La Lampadosa per l’isola di Lampedusa; isla de Montechristo per l’isola di Montecristo, nell’arcipelago toscano; isla de Pontio Pilato per Ponza, dove Pilato fu esiliato; isla de Rústica o Lústrica per Ustica; Izfaquez per Sfax, in Tunisia, sul canale che separa il continente dalle isole Kerkenna145; La Calibia per Kélibia, sulla costa tunisina, nei pressi di Capo Bon; la Faviana per Favignana, una delle egadi, a largo di Trapani; La Iaza per Ajaccio; La Mahometa per Hammamet; La Mantea, probabilmente Amantea, nella provincia di Cosenza a nord di Tropea; la Previça per Prevesa; las Conejeras per l’isola Conigliera, appartenente al gruppo delle Kuriat, un arcipelago a pochi chilometri da Monastir; Lentín per Leontino, attualmente Lentini, tra Siracusa e Catania; Liorna per Livorno; mar Mayor per il Mare Maggiore, con cui si identificava il Mar Nero; Marsimexet per Marsamxett o Marsamuscetto, porto a nord de La Valletta, a Malta; Modón per Modone (Methoni) nel Peloponneso; Panthanalea per Pantelleria146; Pomblín per Piombino; Pucílico (sic) per Posillipo; Porto Farín per Porto Farina, città costiera nordafricana situata tra Biserta e Tunisi; Querquenes per le Isole Kerkennah, di fronte a Sfax sulla costa tunisina; Rijoles, probabilmente Oriolo Calabro, in provincia di Cosenza; Sancto Victo, probabilmente San Vito lo Capo, geograficamente vicino a Ustica e Palermo, nella provincia di Trapani; Thalamón per Talamone; Vijela, probabilmente Veglie, nella provincia salentina di Lecce; Zumbano, probabilmente Zembretta, piccola isola montagnosa tra Capo Bon e la più grande isola Zembra.

Niceo, De’ fatti de’ romani dalla guerra di Candia fino alla morte di Claudio imperatore, tradotto di greco in latino per Guglielmo Xilandro d’Augusta, e novamente nella nostra lingua ridotto per M. Francesco Baldelli, Gioliti, Venezia, 1585. 144 Bernardo Giustiniani, Historie cronologiche dell’origine degl’ordini militari..., Combi, Venezia, 1692, parte Prima, p. 272. 145 Il lesema potrebbe alludere anche agli abitanti di Sfax, poiché è usato nella forma “los izfaquez”. 146 Il toponimo si registra anche in Alfonso de Ulloa, La historia de l’impresa di Tripoli di Barbaria, Francesco Rampazetto, Venezia, 1566.

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Per quanto riguarda la costruzione del periodo, il pronome complemento è spesso anteposto al verbo (es. por le desarraigar; por se aver), e la congiunzione davanti alla vocale i è sovente cambiata in e o resa con la nota tironiana. Notiamo quindi l’alternanza tra l’aggettivo mucho e l’avverbio muy anteposti a sostantivo (es. mucho rico/muy rico; mucho costosa/muy costosa), e l’usuale impiego nel XVI sec. del possessivo nella forma pronominale (es. en las otras sus galeras; un su capitán): a questo fenomeno si associa l’uso dell’articolo determinativo anteposto all’aggettivo possessivo (es. los del su consejo; la nuestra isla). L’uso della preposizione en a seguire il verbo ir (es. fue en Tholón; fueron en el lugar) è invece accompagnato dall’alternanza tra le preposizioni en e a anteposte al verbo llegar (es. llegó en ella; llegava a ella). Il complemento diretto è sovente preceduto dalla preposizione de (es. curar de los heridos), mentre il soggetto agente delle costruzioni passive – modernamente introdotto da por– è spesso preceduto dalla preposizione de (es. informado de). Il complemento di termine –modernamente privo di preposizione a precedere il verbo all’infinito– è introdotto dalla preposizione de (es. determinado de ir). Nella morfologia dell’imperfetto si registrano due casi di vocale protonica influenzata dallo yod (tinié e dizié). Un tratto caratterizzante nella scrittura dell’opera sembrerebbe l’uso frequente della formula fin de seguita da una quantità di tempo (es. fin de quarto de hora) o di spazio (es. fin del mismo mar). Anche se in occorrenze minori, la formula è usata ancora per indicare la conclusione di un’azione (es. se travó escaramuça que gran rato duró, fin de la qual murieron; fin de muchos paresceres que consigo mismo tomó). 2.4 Il tipografo Mattia Cancer Il tipografo, editore e libraio bresciano Mattia Cancer sviluppò la propria attività a Napoli tra il 1529 e il 1578147. Originario di Bione, si trasferì nel capoluogo campano tra il 1526 e il 1527, lavorando sia autonomamente sia in Il prospetto dell’editore presente su Edit16 non riporta una data precisa dell’inizio delle attività del tipografo, ma si limita a dire che iniziò due anni dopo l’arrivo a Napoli. Al contrario, Fernanda Ascarelli (La tipografia cinquecentina italiana, Le lettere, Firenze, 1996, p. 34) segnala il 1532 come data di inizio del mestiere editoriale, indicandone la fine nel 1576. Le date qui riportate si desumono da quelle della prima e dell’ultima pubblicazione del tipografo censite da Edit16. Altri dati sul tipografo si trovano in Pietro Manzi, La tipografia napoletana nel ’500. Annali di Mattia Cancer ed eredi (1529-1595), Olschki, Firenze, 1972. 147

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società con altri artigiani: Giovanni Sultzbach (1529-1535), Antonio De Jovino (1533), Domenico Gallo (1554)148, Tommaso Riccione (1556-1557), Raimondo Amato (1559?) e Giovanni Battista Cappelli. Nel 1538 la sua officina si trovava presso la Chiesa di S. Maria del Carmine, nel 1542 era al Lavinaio e dal 1552 alla Vicaria vecchia; sappiamo inoltre che nel 1555 la libreria era in piazza degli Armieri. Nel 1579 compare la sottoscrizione degli eredi, dato che ne suggerirebbe il ritiro dall’attività in quell’anno149. Nel suo saggio sulla tipografia napoletana, Lorenzo Giustiniani osserva che il laboratorio del Cancer era ben fornito, e che l’eleganza dei materiali si rispecchiava anche nelle scelte di alcune combinazioni di colore. Il profilo delineato è quello di un abile tipografo, che si adattava al gusto e al potere dei committenti che si rivolgevano a lui per stampare le loro opere. Questa disposizione verso la grandezza dei mandatari generò probabilmente una difformità di esecuzione nella qualità delle opere che componeva150. La produzione libraria del Cancer fu abbondante: si conta una media di quasi quattro libri ogni anno, all’interno di un ciclo produttivo che toccò i punti più alti nel decennio tra il 1550 e il 1560, ovvero il periodo delle collaborazioni con Domenico Gallo e Tommaso Riccione. In questo periodo si registrano 93 testi pubblicati rispetto a un totale di 167 censiti nel periodo che lo vide attivo151. In un momento non certo florido per l’ambiente tipografico napoletano, la ripresa del mercato lo vide interprete di prestigio: nel 1551 i suoi torchi dan-

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Ascarelli, La tipografia, cit., p. 34. Per quanto riguarda la fine della professione di stampatore, Edit16 registra nel 1578 la pubblicazione di Pietro Follerio, Breues annotationes ad pragmaticas regni aeditas super bono regimine vniuersitatum et terrarum. Per illustrissimum Perafannum proregem regni, satis vtiliter, & vnicuique ipsarum accomodatae. Auctore domino Petro Follerio, Neapoli, apud Mattheum Cancrum : ad istantiam nobilis Iacobi Anelli de Maria bibliopolae Neap., 1578. Sempre Edit16 registra le seguenti varianti del nome sulle sue edizioni: Mattio Cancer; Mattheo Canzer; Mathia Canze; Mactias Cancer; Matheo Canze; Mathaeus de Cansis Bionensis; Matheus Bionensis; Mathias Brixiensis; Officina Canzeana; Matthias Cancer. 150 Giustiniani, Saggio storico-critico sulla tipografia del Regno di Napoli, cit., pp. 237-238. 151 Per questi dati si fa riferimento al censimento di Edit16. Si tenga presente che solo in due casi si tratta di ristampe: Pietro Follerio, D. Petri Follerii iuris Caesarii et pontificii acutissimi interpraetis patritii Sancti Seuerini originarii Parthenopaei Celeberrima praxis criminum..., Neapoli, apud Ioannem Dominicum Gallum, 1554 (Neapoli, excussum tipis Matthiae Cancer, sumptibus n. Io. Dominici de Gallis, sub die secundo Octobris 1554), e Girolamo Balduini, Vera, germanaque expositio in prologum primi post. Arist. dilucidata, ac in ordinem redacta per Io. Thomam Zancham, Neapoli, apud Mathiam Cancrum, 1555, entrambe nuovamente data alle stampe nel 1556. 149

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no nove edizioni su un numero totale di sedici in tutta Napoli, ripetendosi nel 1553, quando nella capitale del Regno se ne danno quindici152. La produzione libraria dei quasi cinquanta anni di attività del Cancer accoglie prevalentemente testi in latino (65%) e in italiano (34%), lasciando uno spazio apparentemente esiguo all’editoria in lingua spagnola (1%), i cui unici due volumi provenienti dai suoi torchi, e fino ad oggi censiti, vedono la luce entrambi nel 1552153. Tuttavia questa ristrettezza diviene un dato significativo se si contestualizza la produzione in castigliano del Cancer con quella napoletana, sempre in spagnolo, della prima metà del secolo. Allo stato attuale delle ricerche, dal 1500 al 1553 –poco prima dell’elezione di Filippo II a Re di Napoli– nella capitale del Regno si stampano sei opere in castigliano154: di queste edizioni, due provengono dai laboratori di Mattia Cancer. Per ciò che riguarda i generi letterari di questa produzione in castigliano (la letteratura, l’arte militare e la storiografia) le stampe del tipografo bresciano ne abbracciano due (letteratura e storiografia), e nel caso dei Versos di Juan de la Vega il tema storico è spesso uno spunto per costruire un componimento poetico. Stando a quest dati, sembrerebbe che un terzo delle opere napoletane in lingua spagnola della prima metà del XVI sec. provenga dai torchi di Mattia Cancer. Limitandoci invece al periodo di don Pedro de Toledo (15321553), il laboratorio del tipografo bresciano avrebbe prodotto la metà delle stampe in castigliano edite a Napoli. Tornando alla produzione complessiva dello stampatore, l’evidente disparità tra il numero di edizioni nelle tre lingue del Regno non si rispecchia nei generi in cui questi testi sono inclusi. Si nota una predilezione per la materia religiosa e giuridica ma anche per gli argomenti letterari e filosofici, seguiti 152 Sui dati della produzione libraria napoletana nel 1551 e nel 1553 cfr. Toscano, “Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi viuda”, cit., p. 39. 153 Si tratta di Pedro de Salazar, Historia de la guerra y presa de Africa, e di Juan de la Vega, Versos. 154 La Propalladia è il primo di questi libri e si pubblica nel 1517 per poi essere ristampato nel 1524, sempre da Juan Pasqueto e con l’aggiunta di una commedia; seguono il trattato militare di Francisco de Pedrosa Arte y suplimento rei militar (Juan Sultzbach, 1541); la Historia de los sucessos de la guerra contra los Principes, y Ciudades rebeldes de Alemaña (Paolo Suganappo, 1548) e la Historia de la guerra y presa de Africa (Mattia Cancer, 1552) di Pedro de Salazar; i Versos di Juan de la Vega (Mattia Cancer, 1552). Per queste opere si fa riferimento al catalogo EDISNA realizzato nell’ambito del Prin 2008 “Editoria e cultura in lingua spagnola e d’interesse ispanico nei Regni di Napoli e di Sicilia tra Rinascimento e Barocco (1503-1707): catalogazione e approssimazione critica” (protocollo n. 200827ZT4H) coordinato dalla prof.ssa E. Sánchez García dell’Università di Napoli “L’Orientale”.

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in fine dal genere storico155. Da questa ripartizione per argomenti emerge un dato altrettanto interessante: rispetto alla prevalenza del latino nei testi di carattere giuridico, religioso e medico-filosofico (che non fa registrare nessuna stampa in volgare), la lingua classica non è impiegata nei testi di genere musicale e linguistico (dove non si è registrato nessun caso) e letterario e storico (due sole pubblicazioni in latino). È importante sottolineare che le uniche stampe in lingua spagnola che uscirono dai torchi del Cancer appartengono a questi ultimi due generi, che, pur non rappresentando il cardine della linea editoriale del tipografo, si includono in due tipologie che si distribuiscono a un pubblico più eterogeneo e amante della diversione: la letteratura per il suo essere narratrice di una realtà fittizia, la storia (contemporanea) per informare il lettore di ciò che accadeva nei territori della Corona e oltre i suoi confini. Inoltre, entrambe le opere sono dedicate al viceré Toledo, e se nel caso di Salazar abbiamo prova del mecenatismo del vicario, per Juan de la Vega potremmo ipotizzare una condizione affine alla precedente, dato il tono celebrativo del suo canzoniere. Se nel panorama editoriale napoletano in lingua spagnola la pubblicazione dei Versos di Juan de la Vega potrebbe rappresentare una sorta di collante tra il genere letterario e quello storiografico –si pensi alle due citate edizioni napoletane della Propalladia e alla presenza di componimenti sulla conquista di Mahdia nel canzoniere napoletano– la Historia africana conferma l’apertura della cultura a stampa partenopea in castigliano al genere storiografico, già inaugurato dalla tipografia di Paolo Suganappo nel 1548 da un’altra opera di Salazar. Per il Cancer non si trattava di un vero e proprio esordio in ambito storiografico, poiché già nel 1529 aveva stampato, in collaborazione con Giovanni Sultzbach, il De bello Neapolitano di Camillo Querno156. Sei anni dopo, nel 1535 e nel 1536 si registrano altre due stampe a carattere storico: Il glorioso triomfo di Giovanni Domenico Lega157, e il Carlo Cesare V Affricano di Pompeo Bilintani, che tratta della presa di Tunisi e che fu pubblicato nello stesso anno anche a Venezia, città natale dell’autore, dal tipografo Francesco Bindoni158. Sono attribuiti ancora al Cancer i Sonetti per la presa d’Africa di

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La divisione per argomenti è mia. Edit16 (scheda CNCE 47537). 157 Edit16 (scheda CNCE 23660). 158 Ibid. (schede CNCE 6074 per l’ed. veneziana e CNCE 6075 per l’ed. napoletana). 156

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Luigi Tansillo (1551)159. Si noti anche che questi ultimi tre libri sono di interesse ispanico, e che, come per Salazar, il volume del Bilintani fa parte di quelle pubblicazioni sui conflitti nordafricani. L’edizione della Historia africana si pone a metà dell’attività editoriale del Cancer, in un momento in cui la stessa si presentava assai florida e vivace rispetto al resto della città. Se la stampa dell’opera del Bilintani nel 1535 seguiva un copioso filone editoriale, che narrava il trionfo dell’imperatore Carlo a Tunisi, l’edizione di Salazar del 1552 rappresenta un unicum all’interno della produzione a stampa napoletana, già direttamente controllata dal viceré Toledo, poiché è la sola pubblicata a Napoli ad affrontare il tema della conquista nordafricana, che a livello storiografico ebbe un’eco immediata che si propagò in Europa anche negli anni a venire. 2.5 La Historia di Medina del Campo Dopo la morte di Pedro de Toledo, Salazar resta definitivamente in Spagna: come detto in precedenza, nel 1567 è a Siviglia, mentre nel 1570 si trova probabilmente a Medina del Campo. Proprio nella città più rappresentativa del commercio librario, il nostro storiografo fa stampare nello stesso anno, ma con una licenza del 1567, la Hispania Victrix, che già dal titolo segnala un netto cambio di direzione in favore di una storiografia più orientata a esaltare la patria che il sovrano160. Questa opera sembrerebbe cercare l’incontro con un’idea di historia pro patria che Kagan identifica durante il regno di Felipe II161; inoltre, al contrario di quelle napoletane, la Historia di Medina del Campo presenta un frontespizio privo di segni di ufficialità162, possibile testimonianza del fatto che l’autore fosse ormai uscito da un’ambiente editoriale vicino alla corona.

159 Tobia R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia a Napoli nella prima metà del Cinquecento (1503-1553), Ente Regionale per il Diritto allo Studio universitario “Napoli 1”, Napoli, 1992, pp. 64-65 e p. 137. 160 Per questi dati si rimanda al cap. 2.1. 161 Sul concetto di historia pro persona e historia pro patria cfr. Kagan, Los Cronistas y la Corona, cit., passim. 162 Il medesimo frontespizio si trova ad esempio in Miguel de Cifuentes, Glosa de Miguel de Cifuentes sobre las leyes de Toro : quaderno de las leyes y nuevas decisiones hechas y ordenadas en al ciudad de Toro, sobre las dudas de derecho que continuamente solían y suelen ocurrir en estos reynos, Matheo y Francisco del Canto, Medina del Campo, 1555.

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La scomparsa del viceré Toledo nel 1553 priva probabilmente il nostro autore di quella protezione di cui godeva nella penisola italiana, ma il periodo napoletano sembrerebbe renderlo un umanista più consapevole e maturo. A proposito dell’attrazione dei letterati iberici verso l’umanesimo italiano, fu all’epoca di Carlo V che molti umanisti spagnoli entrarono in contatto con la cultura letteraria italiana e la diffusero, ed è in quel clima culturale che si trovava il nostro storiografo e novelliere; i letterati che figuravano nelle colonie militari imperiali, installate nei grandi centri politici ed economici italiani, ne recepirono e diffusero la cultura umanistica163. Una prova di questa maturità letteraria del nostro scrittore potrebbe giungere anche dalla sovrapposizione tra la composizione delle novelas e il contatto con la tipografia dei Millis Godínez, famiglia che giocò un ruolo importante nel commercio dei libri italiani tra la Francia e la Spagna, e che tra i suoi componenti annoverava tipografi, librai e traduttori di opere italiane: è questo il caso di Vicente, traduttore delle Horas de recreación di Ludovico Guicciardini164. La Hispania Victrix include gli avvenimenti storici accaduti tra il 1546 e il 1565, e include più genericamente delle altre e fin dal sottotitolo il valore religioso degli eventi: “guerras succedidas entre Christianos y Infieles assí en mar como en tierra”. Le due date sono particolarmente significative per la Corona di Spagna e coinvolgono sia Carlo V sia Filippo II: nel 1546 Carlo sconfiggeva i luterani in Germania, mentre nel 1565 le truppe del Rey Prudente respingevano l’assedio ottomano all’isola di Malta165. Nella Historia di Medina del Campo, questa prima data non rimanda però all’argomento della Historia del 1548, ma indica l’inizio di un conflitto che coinvolge esclusivamente gli Ottomani. In realtà si deve segnalare che il primo riferimento cronologico che appare nel testo della Hispania Victrix è il 1556 (f.A2r), anno in cui Salarráiz (altro protagonista della monografia del 1552) riconquista la città di Bugia (Algeria), e che secondo le parole di Salazar rappresenta un momento di presunta onnipotenza ottomana: “Ya les parecía a los infieles que todo era suyo, y que no avía tierra ni castillo que cercassen que se les resistiesse” (f.A2v). L’arco temporale indicato dal cronista si comincia a comprendere verso il Sesto capitolo, in cui l’autore si concede un lungo exJean-Michel Laspéras, La nouvelle en Espagne au Siecle d’Or, Castillet, Perpignan, 1987, pp. 31-44. 164 Ivi, p. 38. 165 Un primo tentativo fallimentare dei corsari di impossessarsi dell’isola di Malta avvenne già nel 1544. Questi tornarono ad attaccarla anche nel 1565, nuovamente senza successo. 163

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cursus su alcuni conflitti interni agli stati africani verificatisi proprio nel 1546. Oltre a identificare l’anno dell’attacco ottomano a Malta, la seconda data rappresenta un momento di grande importanza per la cristianità, che Salazar non si lascia sfuggire: la morte del corsaro Dragut durante l’assedio (cap. 170166). Lo storiografo attribuisce questo episodio alla volontà divina di eliminare un pericoloso persecutore della cristianità con le seguenti parole: queriendo ya Dios quitarse de por medio en esta guerra un grande perseguidor suyo, que muy mucho le avía desservido, y por escusar otros muchos daños que viviendo podían recebir los Christianos permitió, que andando Dragut (lunes a los diez y ocho de Iunio) reconociendo sus baterías, que una pelota de una de sus pieças que estava apuntada para abaxo diesse en el repecho del fosso y levantó una piedra que le dió en la cabeça y le molió el turbante y rompió los caxcos, y le hizo saltar la sangre por la boca y narizes y oidos, y que viniesse a morir dello de aí a quatro o cinco días privado de todos sus sentidos.

Questo episodio simboleggia per Salazar una sorta di chiusura del cerchio, ed è un prezioso raccordo con la Historia del 1552, dove nei primi capitoli si dava notizia della formazione del corsaro e dell’inizio delle sue scorrerie lungo le coste del Mediterraneo167. In particolare, la notizia della morte di Dragut permette a Salazar di mettere un punto finale su quanto aveva lasciato in sospeso nella cronaca sulla presa di Mahdia, che ricordiamo si conclude senza comunicare la decisione di un attacco conseguente alla conquista turca di Tripoli. Proprio dalle vicende nordafricane raccontate nella Historia africana l’autore riprende il racconto nella Hispania Victrix, in cui nel Primo capitolo –come anche nella cronaca del 1552– fornisce un preambolo molto generale in cui dà a conoscere la situazione del Mediterraneo e i nomi di vari corsari, arrivando in ultimo a nominare Dragut. Se però nel 1552 il cronista informava di una prima cattura del pirata, ora ricorda al lettore, per altro già ben informato, la sconfitta inflittagli dalle milizie dei viceré di Sicilia e Napoli e dalla marina di Andrea Doria nella battaglia di Mahdia.

Il capitolo è erroneamente indicato con il numero 169 all’interno del testo ma correttamente nella “Tabla de los capítulos”. 167 Si rimanda a questo proposito al cap. 2.2. 166

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Nella Hispania Victrix ci sono di fatto molti indizi che alludono alla conclusione definitiva di un conflitto tra cristiani e ottomani: la dichiarazione di una Spagna vincitrice fin dal titolo dell’opera si riferisce senza dubbio all’esito trionfante della lotta per la supremazia militare e dello scontro religioso tra i due imperi, il cui culmine è rappresentato proprio dalle vicende del 1565168. La data di pubblicazione coincide inoltre con la battaglia di Lepanto, che segna il momento in cui i corsari non disponevano più di una protezione imponente come quella dell’impero ottomano169. La Hispania Victrix si pone quindi sia come naturale prosieguo della Historia africana sia come sua logica conclusione. Se infatti l’edizione napoletana sui conflitti nordafricani narrava principalmente l’inseguimento del corsaro Dragut, l’opera di Medina del Campo comunica la fine delle incursioni del pirata grazie a un presunto intervento divino, che in qualche modo ripara alla inutile cattura del 1540 da parte di Giannettino Doria lungo le coste della Corsica. Se quindi il libro pubblicato da Mattia Cancer anticipava una serie di opere appartenenti a un genere di notevole successo nella seconda metà del Cinquecento170, il testo offerto ai torchi di Millis Godínez permette a Salazar di essere identificato come lo storiografo che più dettagliatamente raccontò dal principio alla conclusione le vicende storiche che coinvolgevano la Corona di Spagna e il corsaro Dragut. La Historia di Medina del Campo si pone quindi sulla scia fortunata di un filone tematico ben definito, seguendo le opere che tra il 1552 e il 1570 hanno trattato il medesimo argomento, come ad esempio la Destruycion de Affrica di Baltasar del Hierro (Sevilla, Sebastián Trujillo, 1555 e 1560) o la Conquista de Africa di Diego Gracián (Salamanca, Juan de Canova, 1558) traduzione del De Aphrodisio expugnato di Calvete de Estrella –per altro nuovamente pubblicata in latino dal medesimo tipografo nel 1566–, fino ad arrivare alle due edizioni della Conquista de Africa di Diego de Fuentes (Zaragoza, Agustín Millán, 1562 e Amberes, Philippo Nutio, 1570)171. In lieve ritardo rispetto all’arco cronologico indicato, ma a conferma del notevole interesse che il tema sucitava, si colloca il Libro tercero y segundo 168 Sull’argomento si segnala la recente pubblicazione di Rolando Fabrini, L’assedio di Malta 1565, Sensibili alle Foglie, Roma, 2012. 169 Gosse, Storia della pirateria, cit., p. 54. 170 Sánchez García, “Género histórico y recepción de modelos clásicos”, cit., p. 175. 171 Dati estratti da ibid. e da Solís, “Las relaciones de sucesos en la historiografía latina”, cit., pp. 1343-1347.

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volumen de la Primera parte de la descripcion general de Affrica di Luis de Mármol y Carvajal (Granada, Rene Rabut, 1573) che torna sulla conquista del baluardo tunisino. Nel 1570 Salazar compie però un’operazione diversa rispetto agli altri storiografi qui nominati, poiché non solo fornisce una cronaca degli eventi ma crea un ampio quadro storico che tenta di far luce sulla totalità della politica africana dell’Impero, dando spazio agli interventi militari di Ferdinando il Cattolico, Carlo V e Filippo II, e confermando una apertura verso una storiografia nazionale, ma sempre ristretta alla politica anti turca. Anche la stampa in lingua italiana si allinea ai citati storiografi iberici, senza tralasciare gli importanti avvenimenti maltesi; ne è testimonianza La Historia dell’impresa di Tripoli di’Barbaria di Alfonso de Ulloa (Venezia, Francesco Rampazzetto, 1566)172. L’opera si pubblica immediatamente dopo le vicende che racconta, e si dimostra eterogenea nel trattare gli eventi e nel loro inserimento in un contesto geografico direttamente visibile. Questa componente cartografica, che in modo differente Salazar aveva inserito nel libro del 1552, non si ritrova nella Hispania Victrix, che tuttavia si affianca tematicamente al testo di Ulloa, come ad esempio la definitiva riconquista del Peñón di Vélez de la Gomera (Marocco) da parte di García de Toledo (1564). Al contrario di Salazar, Ulloa include solo gli eventi di stretta attualità, e conferma così il forte interesse editoriale italo-spagnolo per il genere storiografico, che anche a Venezia e grazie al rilevante ruolo occupato da Ulloa, soddisfa le esigenze di un pubblico sempre più curioso e desideroso di conoscenza verso quegli eventi contemporanei che riguardavano direttamente i territori in cui questi libri erano pubblicati173. Al contrario di Ulloa, lo storiografo di Madrid riferisce anche della politica africana dei Re Cattolici, spiegando ed esempio il passaggio di dominazioni del Peñón di Vélez de la Gomera (1508), che rappresenta la prima conquista compiuta direttamente dalla Corona Spagnola sotto Ferdinando il Cattolico174.

172 La Historia dell’impresa di Tripoli di’Barbaria, della presa del Pegnon di Velez della Gomera in Africa, et del successo della potentissima armata Turchesca venuta sopra l’isola di Malta l’anno 1565. La descrittione dell’Isola di Malta. Il disegno dell’Isola delle Zerbe, & del Forte, fatto vi da Christiani, & la sua descrittione. 173 Sulla figura di Alfonso de Ulloa, si veda Antonio Rumeu de Armas, Alfonso de Ulloa, introductor de la cultura española en Italia, Gredos, Madrid, 1973. 174 Emilio Meneses García (a cura di), Archivo Documental Español. Correspondenica del conde de tendilla I (1508-1509), RAH, Madrid, 1973, vol. XXXI, p. 234.

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Questa pubblicazione in terra spagnola, che abbiamo constatato poter rappresentare quasi una Seconda parte della Historia africana, tende ancora una volta a dare un quadro globale degli avvenimenti, e potrebbe contribuire a delineare una gerarchia ben definita delle opere di Pedro de Salazar, che per seguire il genere storico e la tematica nordafricana sembrerebbe aver lasciato da parte sia il prosieguo della Primera parte de la guerra de Alemania (per altro già annunciato nel Primo libro, e che apparirà come edizione pirata nel 1552 a Siviglia) sia il libro di novelle, già ultimato nel 1567 e probabilmente già pronto in quella data per essere consegnato a un tipografo175.

175 Si rimanda ai citati contributi di Solís per la Historia de Alemania e di Núñez per le novelle, indicati al cap. 2.1.

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3. EDIZIONE Dei testimoni rinvenuti della Historia di Pedro de Salazar, tutti stampati nel 1552 e senza varianti di rilievo, ad eccezione dei fogli preliminari, si offre l’edizione diplomatico-interpretativa di quello conservato presso la BNN (SQ LVI C6)1. I criteri adottati intendono conservare i tratti grafico-fonetici che potrebbero essere caratterizzanti della lingua spagnola durante il Regno di Napoli, ma anche fornire un testo che non ostacoli la mera lettura2. Le peculiarità grafiche della cinquecentina, unite allo stile dell’autore, poco avrebbero agevolato il lettore moderno; questa edizione intende quindi rivolgersi non a un pubblico di soli ispanisti ma anche di storici, poiché offre una dettagliata relazione della lotta per la difesa del Mediterraneo che coinvolse la Spagna e i Regni di Napoli e Sicilia, opposti prima agli attacchi dei corsari e poi a quelli di Solimano il Magnifico. 1 Da una consultazione del Catálogo colectivo del patrimonio bibliográfico español, eseguita nel maggio 2012, risultano otto esemplari in Spagna: BPLM (di cui non si fornisce la segnatura), BHV (Z-8/112), BNE (R/864), FLG (Inv. 3346), RAH (5/1615 e 1/1261), RAE (14II-32), BHUC (BH FG 2037). A questi si aggiungano i due esemplari della BPR (III/3360 e VII/265) e quello della BBR (07 B-48/4/11). Il catalogo Opac Sbn segnala altri quattro testimoni in Italia: BNN (SQ LVI C6), BNCR (69. 3.C.7), BCR (X XI 20), BPP (PAL 11797) e BUSa (ANTICO 5 B 78). Si è inoltre rintracciato un ulteriore esemplare nella BBM (2 P.o.gall.). Ho confrontato l’esemplare della BNN con quelli della BBM, BBR, BCR, BNCR e BNE. Per le variazioni del prologo cfr. p. xliv; per la diversa disposizione della Tabla de capítulos cfr. p. lxv, e la nota 76. Un esempio di errore congiuntivo nei testimoni esaminati è in ivi, nota 77. 2 Le indicazioni seguite in materia di ecdotica applicata ai testi medievali e dei secoli XVI e XVI sono quelle di Alberto Blecua, Manual de crítica textual, Castalia, Madrid, 1983. In particolare ci si riferisce ai capitoli “La transmisión impresa” I e II (pp. 171-200) e al capitolo “Dispositio textus” (pp. 137-145).

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3. Edizione

3.1 Criteri di edizione I principali interventi di modernizzazione sono: (1) scioglimento delle abbreviazioni (non si segnalano i grafemi ottenuti dall’eliminazione dei compendi). La nota tironiana è resa in ‘y’ o ‘e’ nel caso sia seguita da una ‘i’. (2) unione e separazione di parole secondo i criteri grammaticali e sintattici moderni. Negli scioglimenti viene sempre segnalata l’aggiunta in corsivo (es. sobrello > sobre ello; antel > ante él; entrellos > entre ellos); la medesima indicazione grafica si adotta negli interventi effettuati sul testo. Si mantengono intere le forme composte dalla preposizione de e dal pronome o aggettivo dimostrativo (deste, daquesta), e dal pronome soggetto él, che per evitare ambiguità sarà reso con accento (dél). (3) interventi sulla punteggiatura, sugli accenti e sull’uso dei segni diacritici secondo criteri moderni. Si accenta anche il pronome personale soggetto nós. (4) regolarizzazione dell’uso delle lettere maiuscole e minuscole secondo i criteri attuali. (5) eliminazione della h nelle preposizioni en e a. (6) ripistino della n nella preposizione en quando appare nella foma em; l’intervento è segnalato in corsivo (es. em poder > en poder; em brebe > en brebe) Si è scelto invece di conservare i seguenti fenomeni grafici: (1) alternanza dei grafemi: b/v (es. bida/vida); ç/z (es. coraçon/corazon)3; f/h in posizione iniziale di parola; l/li/ly/ll per il fonema palatale /l/ (es. lievan/llevan); ni/ny/ñ/gn per il fonema palatale /ɲ/ (es. Alemanya/Alemaña; anno/año)4; sc/sç/c/ç (es. merescer/mereçer; padesce/padece); s/ss (es. pasion/passion); s/x (es. escelencia/excelencia); t/d in finale di parola (es. ciudat); x/j e g/j per i fonemi affricati palatali sordo e sonoro (es. muger/mujer; dixo/dijo). Presenza o assenza della h ortografica nel verbo haber. Oscillazione nb/mb, np/mp (es. nonbre; conponían): il compendio di nasale implosiva si scioglie con ‘n’ e si segnala in corsivo. (2) presenza di: s liquida (es. stavan); gruppi labiovelari qua, qüe e gua in accordo con l’etimologia (es. quantidad, cinqüenta, gualardón); forme di seseo, çeçeo o zezeo; vocali geminate in accordo con l’etimologia (es. fee). (3) cultismi: ph, th, ct, pt, gn (es. prophético, sancto). Si sono invece compiuti interventi di regolarizzazione grafica secondo l’uso moderno nei seguenti casi: oscillazione i/j/y (si adotta la ‘i’ in caso di valore vocalico); alternanza ∫/s (es. ∫eñor>señor); oscillazione u/v: si trascrive 3 4

Si aggiunge la cedilla nei gruppi ca/co, nel caso ne siano sprovvisti. Si ripristina il grafema ñ in assenza della tilde sulla n.

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attenendosi al solo valore fonetico; presenza di consonanti geminate in qualsiasi posizione (es. ffin; a rriesgo; illustres; a ssí; a ccuya)5; nella coniugazione del verbo haber si ripristina l’h solo nei monosillabi omografi, al fine di scongiurare casi di ambiguità semantica e sempre segnalando l’aggiunta in corsivo (es. e>he; a>ha).

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Questa scelta si fonda su un principio di coerenza di edizione e sulla assenza di valore fonetico di alcune consonanti doppie. Cfr. Pedro Sánchez Prieto Borja, Cómo editar los textos medievales (Criterios para su presentación gráfica), Arco Libros, Madrid, 1998, p. 148 e 156.

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3. Edizione

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Historia de la guerra y presa de Africa

Frontespizio della Historia de la guerra y presa de Africa, BNN – S. Q. LVI 6

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Pedro de Salazar

H I S T O R I A

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LA GUERRA Y PRESA DE AFRIca: con la destruición de la villa de Monazter, y isla del Gozo, y pérdida de Trípol de Berbería: con otras muy nuevas cosas.

Con Privilegio por diez años

Historia de la guerra y presa de Africa

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INDICE

PRÓLOGO ...................................................................................................11 CAPÍTULO I ................................................................................................13 Cómo muchos cossarios que han corrido las mares de algunos años a esta parte han hecho intolerables daños y males en los christianos navegantes y moradores en las tierras marítimas. CAPÍTULO II ..............................................................................................23 Cómo el príncipe Andrea Doria fue en busca de Dragut y lo que en el viage hizo. CAPÍTOLO III ............................................................................................31 Cómo Dragut se apoderó de las villas de Monazter y Cuça y lo que en ellas proveyó. CAPITOLO IIII ...........................................................................................37 Cómo Dragut entró en la ciudad de Africa con consentimiento de los africanos, y lo que les pidió y la respuesta que le dieron. CAPÍTOLO V ..............................................................................................45 Cómo Dragut tuvo consejo como se apoderar en la ciudad de África y la diligencia que para ser señor della hizo, y como fue jurado por señor, y lo que en ella mandó hazer para fortificarla. CAPÍTULO VI .............................................................................................55 Cómo Dragut bolvió a correr la mar y lo que en Polença, villa del reino de Mallorca, le sucedió. CAPÍTULO VII ...........................................................................................57 Cómo el príncipe Andrea Doria partió de Génova a Nápoles para ir en busca de Dragut y lo que sobre ello hizo. CAPÍTULO VIII ..........................................................................................63 Cómo se travó escaramuça entre christianos y alárabes, y como el príncipe mandó ir a reconoscer a África y él mismo hizo la misma diligencia, y lo que sobre ello passó y del consejo que tuvo. CAPÍTULO IX .............................................................................................67 Cómo el príncipe Andrea Doria con el armada del Emperador ganó por fuerça de armas la villa de Monazter.

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CAPÍTULO X ..............................................................................................75 Cómo Dragut llevó el viage del reino de Valencia y el daño que en el lugar de Sanct Juan hizo y el que él en Cullera rescivió. CAPÍTULO XI .............................................................................................79 Cómo el armada partió de Monazter a La Goleta, y la plática que el príncipe Andrea Doria sobre ganar la ciudad de África con todos los cavalleros huvo, y lo que sobre ello se acordó. CAPÍTULO XII ...........................................................................................85 Cómo Luis Pérez de Vargas con su embaxada embió al xarife al señor de Queruán, y lo que con el negocio, y cómo don García llegó en Nápoles y hizo la suplicación de lo por que iva al visorrey su señor. CAPÍTULO XIII ..........................................................................................89 Cómo el visorrey de Cecilia, vista la carta del príncipe Andrea Doria, se determinó de ir a la conquista de África en persona, y como se començó a proveher para ello y lo que scrivió al Emperador, y el socorro que para ello el visorrey de Nápoles embió. CAPÍTULO XIIII ........................................................................................95 Cómo el príncipe Andrea Doria vino en Trápana por recoger gente y municiones en Cecilia para contra África, y del socorro que en ella entró. CAPÍTULO XV............................................................................................99 Cómo el príncipe Andrea Doria embió a La Goleta por Luis Pérez de Vargas, y lo que viniendo en el viage le suscedió, y cómo el armada llegó cerca de África y del acuerdo que se tuvo, y la noticia que el Emperador tuvo de cómo la ivan a cercar, y lo que sobre ello al príncipe y visorreyes de Nápoles y Cecilia mandó escrevir. CAPÍTULO XVI ........................................................................................103 Cómo vista el armada por Hesarráiz en la mezquita mayor mandó juntar los turchos y moros y la plática que les hizo, y lo que sobre la guarda de la ciudad se proveyó. CAPÍTULO XVII.......................................................................................107 Cómo el armada del Emperador tomó tierra y puso cerco a la ciudad de África, y lo que aquel día suscedió.

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CAPÍTULO XVIII .....................................................................................111 Cómo Hesarráiz puso guarda en la ciudad y puertas della, y la orden que para ello tuvo. CAPÍTULO XIX ........................................................................................113 Cómo se començó a sacar el artillería de las galeras y lo que Hesarráiz proveyó, y cómo llegó Luis Pérez de Vargas y se plantó artillería para batir la ciudad. CAPÍTULO XX..........................................................................................119 Cómo de África salieron turchos a hazer daño en el campo del Emperador, y lo que sobre ello suscedió. CAPÍTULO XXI ........................................................................................123 Cómo de África salieron dos renegados y los avisos que dieron, y el consejo que sobre ello el visorrey y don García tuvieron, y lo que con el parescer del príncipe se acordó. CAPÍTULO XXII.......................................................................................129 Cómo el visorrey, don García y Luis Pérez tuvieron consejo, y lo que se proveyó con la voluntad y parescer del príncipe Andrea Doria, y lo que a seis soldados suscedió yendo a África. CAPÍTULO XXIII .....................................................................................133 Cómo yendo ciertos soldados desmandados a África, se vieron en peligro con turchos cossarios, y cómo escaparon. CAPÍTULO XXIIII ...................................................................................137 Cómo se truxo al campo el Emperador de La Goleta y otras partes artillería y municiones, y lo que visto por el visorrey y don García proveyeron. CAPITULO XXV .......................................................................................139 Cómo de la ciudad de Africa salieron turchos y moros a hazer daño en el campo y lo que les suscedió. CAPÍTULO XXVI .....................................................................................145 Cómo Dragut tuvo noticia del cerco de África y como se determinó de la ir a socorrer, y de lo que para ello acordó y hizo. CAPÍTULO XXVII....................................................................................151 Cómo los embarcadores que Dragut embió al Queruán y Túnez dieron sus embaxadas a Hametalfa y Hamida, y lo que les respondieron y proveyeron.

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CAPÍTULO XXVIII ..................................................................................155 Cómo el día de Sanctiago se travó escaramuça entre la gente de guerra del campo con Dragut y sus turchos y moros, y lo que en ella suscedió. CAPÍTULO XXIX .....................................................................................163 Cómo don García fue a socorrer al visorrey y cómo Hesarráiz mandó salir gente de la ciudad en favor de Dragut y lo que con ella suscedió, y cómo Dragut se retiró al repecho de do avía salido. CAPÍTULO XXX .......................................................................................167 Cómo Dragut tuvo consejo con sus capitanes y turchos de lo que para tornar a combatir haría, y cómo acordó alçar su campo y el sentimiento que en África por ello se hizo; y cómo el visorrey mandó llevar los heridos y enfermos a Trápana y se enbió por gente y municiones a la Lombardía, Florencia, Génova y Luca. CAPÍTULO XXXI .....................................................................................173 Cómo se dieron las cartas que el Emperador escrivió al príncipe Andrea Doria y al visorrey y don García, y lo que vistas proveyeron. CAPÍTULO XXXII....................................................................................177 Cómo Calabrón y Halí Mamyn, a quien Dragut embió a Thajora y a la Chefalonia por socorro, dieron sus embaxadas, y lo que Morataga y Mostafaran proveyeron. CAPITULO XXXIII ..................................................................................179 Cómo Dragut llegó en los Gelves y de una plática que el xeque Çalac le hizo, y lo que Dragut le respondió y determinación del xeque. CAPITULO XXXIIII.................................................................................183 De cómo los arráezes de las fustas y vergantín que uvieron el baxel con los vinos y provisión de don García se desavinieron y dividieron, y por qué causa. CAPÍTULO XXXV ....................................................................................187 Cómo un capitán niçardo llamado Moreto, con una galera salió a correr la mar y lo que en ella le suscedió. CAPÍTULO XXXVI ..................................................................................193 Cómo continuando Moreto su navegar hizo otras presas con que mucho más interesó.

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CAPÍTULO XXXVII .................................................................................197 Cómo Marcho Centurión recogió la gente y municiones porque iva, y bolvió con ello al canpo y se sentó la batería contra la ciudad y lo que más se probeyó. CAPÍTULO XXXVIII ...............................................................................201 Cómo se hizieron ciertos ingenios para minar la ciudad, y cómo se plantaron otras baterías y la batieron. CAPÍTULO XXXIX ..................................................................................209 Cómo se acordó por el visorrey de Cecilia y el príncipe Andrea Doria y don García entrar la ciudad de África. CAPÍTULO XL ..........................................................................................213 Cómo el exército se puso en orden para entrar la ciudad de África, y cómo a los turchos y moros Hesarráiz hizo una plática y proveyó de guarda las baterías, y el visorrey y don García hizieron dos contemplativas oraciones a la gente de guerra. CAPÍTULO XLI ........................................................................................219 Cómo se ganó por fuerça de armas la ciudad de África y lo que sobre ganarla suscedió. CAPÍTULO XLII .......................................................................................231 Cómo el visorrey mandó bendezir la mezquita mayor para enterrar las personas de cargo que en la batalla murieron. CAPÍTULO XLIII .....................................................................................235 Cómo el príncipe Andrea Doria entró en África y se despachó correo al Emperador, haziéndole saber cómo se avía tomado, y assí a otras partes, y cómo se embarcaron y fueron para los Gelves dexando guarda en la ciudad, y cómo murieron los maestros de campo don Hernando y Hernán Lobo. CAPÍTULO XLIIII....................................................................................239 Cómo llegó a noticia de Dragut la pérdida de África y el sentimiento que por ella hizo y en lo que se determinó. CAPÍTULO XLV .......................................................................................245 Cómo en Cecilia, Nápoles, Roma, Florencia, Génova y en toda Italia hizieron alegrías por la toma de África, y lo que el príncipe y el visorrey y don García proveyeron, y cómo Juan Osorio dio las cartas que llebava al Emperador y al príncipe, y lo que sobre todo se probeyó, y la guarda que se puso en la ciudad.

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CAPÍTULO XLVII ....................................................................................255 Cómo el embaxador del Rey de romanos rescibió la carta del Emperador y dio noticia de la toma de África al gran Turcho, y cómo el gran Turcho hizo su sanjaque a Dragut. CAPÍTULO XLVIII ..................................................................................259 Cómo el Gran turcho respondió al Emperador a lo que sobre la toma de África le embió a dezir y su respuesta; y cómo el visorrey de Cecilia le embió a suplicar embiase a mandar al príncipe Doria con el armada la fuesse a proveer. CAPÍTULO XLIX .....................................................................................265 Cómo el príncipe uvo algunos navíos de turchos y mandó reconoscer el canal de la Cántara, y lo que sobre ello Dragut hizo. CAPÍTULO L .............................................................................................267 Cómo por una mañosa astucia y ardid que Dragut usó escapó del peligro a que estava y uvo por suya la galera patrona de Cecilia, y lo que el príncipe proveyó. CAPÍTULO LI ...........................................................................................271 Cómo viéndose Dragut libre del príncipe Andrea Doria lo embió a hazer saber al Turcho, el qual se determinó de embiar su armada para tomar a África, Malta y Trípol de Berbería. CAPÍTULO LII..........................................................................................275 Cómo siendo el Emperador evisado de cómo el Turcho armava y a qué fin, mandó poner buena guarda en sus reinos y tierras y la provisión que acerca dello se hizo. CAPÍTULO LIII ........................................................................................281 Cómo los venecianos embiaron a pagar sus guarniciones y cómo Dragut, pensando aver el dinero que llebavan, combatió un galeón y lo que suscedió. CAPÍTULO LIIII ......................................................................................285 Cómo el armada del gran Turcho fue junta en Constantinopla y lo que sobre la orden que avía de llevarse acordó. CAPÍTULO LV ..........................................................................................289 Cómo llegó al paxá la orden de lo que avía de hazer y cómo se avía de governar; el qual tuvo consejo con Salarráiz y Dragut y a lo que se determinaron y proveyeron.

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CAPÍTULO LVI ........................................................................................291 Cómo el gran Maestre de la Religión puso guarda en Malta y lo que proveyó para el Gozo y Trípol. CAPÍTULO LVII .......................................................................................295 Cómo el visorrey de Cecilia embió por la gente que al visorrey de Nápoles y embaxador del Emperador embió a pedir, y cómo le llegó gente spañola y lo que proveyó para África y lo que sobre ello suscedió. CAPÍTULO LVIII .....................................................................................301 Cómo el armada turchesca paresció a vista de tierra de christianos y cerca de la ciudad de Rijoles del reino de Nápoles, y lo que por el paxá se embió a hazer saber al visorrey de Cecilia. CAPÍTULO LIX ........................................................................................305 Cómo el visorrey de Cecilia respondió al paxá sobre lo que le embió a pedir, y cómo el paxá dio por rota la tregua. CAPÍTULO LX ..........................................................................................309 Cómo don Sancho de Leyva llegó en la ciudad de África y lo que en ella proveyó; y cómo el armada partió de Rijoles y llevó la vía de Armine, y lo que suscedió en Cotrón; y cómo robó y saqueó el castillo de Augusta de Cecilia y quemó y abrasó toda la tierra. CAPÍTULO LXI ........................................................................................313 Cómo el armada turchesca llegó en Malta y el paxá reconosció el castillo y la ciudad, y los consejos que tuvo y lo que proveyó. CAPÍTULO LXII .......................................................................................319 Cómo el paxá con el armada tomó tierra en la isla del Gozo y lo que en ella hizo, y cómo començó a combatir la villa. CAPÍTULO LXIII .....................................................................................323 Cómo el gran Maestre mandó llamar los cavalleros de la orden para la guarda de Malta y de las otras tierras de la Religión, y lo que sobre ello proveyó Su Sanctidad. CAPÍTULO LXIIII....................................................................................327 Cómo los turchos entraron la villa del Gozo y la resistencia que por quatro cavalleros y gozianos se hizo, y cómo al fin todos se perdieron.

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CAPÍTULO LXV .......................................................................................330 Cómo el gran Maestre embió otro socorro a Trípol de Berbería, y cómo llegó en Malta un cavallero francés y le visitó y lo que le dixo, y cómo fue en busca del armada. CAPÍTULO LXVI .....................................................................................335 Cómo el paxá con el armada llegó a Trípol y la reconosció y puso cerco para combatirla, y cómo Morataga le fue a visitar y le embió bastimentos. CAPÍTULO LXVII ....................................................................................341 Cómo Mos de Chambarí tractó partido con el paxá y le entregó la fuerça de Trípol. CAPÍTULO LXVIII ..................................................................................347 Cómo Mos de Aramón echó en la isla de Malta a Chambarí y los que más llebava, y cómo Chambarí se presentó ante el gran Maestre y lo que él proveyó contra él y contra otros, y de una carta que el rey de Francia le embió. CAPÍTULO LXIX .....................................................................................351 Cómo el Rey de romanos embió su Capitán general con gente de guerra a conquistar algunas tierras de su reino de Ungría que estavan en poder del gran Turcho. CAPÍTULO LXX .......................................................................................357 Cómo sabida por el gran Turcho la renunciación de la Trasilvania hecha por la reina en el reino, uvo mucho enojo dello, y lo que acordó y proveyó.

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Historia dirigida al muy alto y muy poderoso señor don Philipe de Austria, príncipe de España y de las dos Cecilias, por Pedro de Salazar, vezino de Madrid. Prólogo

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Muy alto y muy poderoso señor, costumbre fue de los antiguos, muy continuada hasta nuestros tiempos, que aquellos [sic pro aquello] que conponían, o en prosa o en verso, y lo desseavan sacar en luz, lo dedicassen a personas que pudiessen hazer juizio dello o a amigos que lo desseassen leer, o verdaderamente a aquellos que con el resplendor de su nonbre le hiziessen haver mayor crédito y reputación. Y assí Vitruvio escrivió un libro de architectura al emperador César Augusto, y Diofanes filósopho otro de agricultura a Dutero rey y Policrato, y Tito Livio historias y cosas de guerras a otros ínclitos príncipes. La qual costunbre agora y antes de agora guardando yo, elegí a vuestra alteza por el más esclarescido príncipe que oy bive, y por aquel en quien más que en otro ninguno, como se sabe por cosa notoria, resplandescen las heroicas virtudes. Y por esto en Génova le presenté una parte de los esclarescidos triunfos que el gran César nuestro señor huvo de los poderosos y bravos germanos en aquella ferocíssima guerra que les movió, no solamente por haver incurrido en la inobediencia de su Emperador y señor, mas aun también en aquella maldita secta enemiga de la doctrina de Jesú Christo que fray Martín Luthero havía sembrado en la Germania, mostrándose como legítimo señor dellos, no menos desseoso de su salud espiritual que de la corporal, para los reduzir a la fe con la qual, mediante el divino favor, los restituyó al verdadero christianismo. Los quales yo, como entonces a vuestra alteza dixe, escriví no tanto porque no conosciesse que sobrepujava mis fuerças y ingenio, quanto por le servir. El qual no contento ni satisfecho de parar allí, como desde entonces para siempre, yo mesmo propuse en mí de continuo ocuparme en su real servicio con el ánimo, lengua y manos, y con todos mis pensamientos, palabras y obras comencé a llevar adelante mi voluntad y desseo. Y assí haviendo entendido las guerras y cosas después acá sucedidas, y entre ellas el progresso de la última guerra africana y la gloriosa vitoria por los valerosos capitanes de su Magestad conseguida, le recogí y puse en historia con otras cosas que por la mar y en la tierra hasta la entregación de Trípol de Berbería a los turcos en aquella conyuntura passaron, aunque no dudando, como no dudo, sino que, como nunca faltaron

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para otras obras, menos falten para ésta mordazes detractores, que con ingenio viperino y lengua serpentina, como han de costumbre, a lo malo alaben, ençalcen y sublimen, y a lo bueno contradigan, reprehendan y vituperen. De los quales con mucha razón se puede verificar aquel prophético dicho de Esaías que dize: desventurados de vosotros que a lo bueno vituperáis y a lo malo alabáis. Mas no mirando, magnánimo señor, yo la malicia de los tales sino que a vuestra alteza servía, y que puesta debaxo de su esclarescido nombre y amparo ninguno osaría de tratarla, aunque lo desseasse, sin temor alguno passé mi intención adelante hasta sacarla a la luz, comoquiera que por confiar la impressión de componedores y correctores italianos, hizieron en ella algunos errores poniendo unas letras por otras y corrompiendo algunos nombres y partes: porque por dezir “Bassa” dixeron “Baxa”, y en la hoja noventa y nueve por poner “cien moros de paz” pusieron “mil”, y no “ciento”. Mas sin embargo desto, conosciendo yo la gran benignidad de Vuestra Alteza, y creyendo que en esto mirará mi intención, me determiné de servirle con ella. Por lo qual le suplico la reciba, y acepte este mi pequeño servicio con aquella grandeza de ánimo y generosidad de coraçón que en tan alta y real persona, como Vuestra Alteza es, se conosce, teniendo respeto a la gran voluntad con que yo se la ofrezco, y me queda de le siempre servir.

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CAPÍTULO I

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Cómo muchos cossarios que han corrido las mares de algunos años a esta parte han hecho intolerables daños y males en los christianos navegantes y moradores en las tierras marítimas. Sabida y muy notoria cosa es los grandes e intolerables daños que los cossarios infieles turchos de muchos años a esta parte han hecho en la christianidad, corriendo los pélagos Rodiáthico y Egeo, y las mares Océano y Mediterráneo y Adriático hasta el cavo de Sancta María y estrecho de Gibraltar con galeras, galeotas, fustas y otros navíos de armada, assí por los mares como en las tierras marítimas de la costa de los reinos de Nápoles, Cecilia, Mallorca, Menorca y España, y de las señorías de Venecia, Génova y Sena y ducado de Florencia, y en las tierras de la Sancta Iglesia Romana, metiendo los christianos a sangre y fuego, rovando y captivando hombres, mugeres y niños, y passándolos a vender a Turchía y Berbería, donde les davan muchos trabajos y grandes tormentos tan rezios, tan duros, tan ásperos y malos, que teniéndolos muchos por insufribles, faltándoles la constancia y fortaleza que devían tener al amor de Jesú Christo nuestro verdadero Dios, vinieron a renegar la sancta fee cathólica; y otros muy pequeños niños que por su muy tierna e innocente hedad no avían podido tener noticia de quién era, ni entendido su sanctíssima doctrina y sacratíssima muerte y passión, vinieron a ser perfectos turchos y moros, y bivir y morir en la perversa secta mahomética. Y declarando los que mayores daños de quarenta años a esta parte han hecho, començando desde el principal que fue Barbarroxa, diremos que de un pequeño cossario que era con las tiranías, rovos y males que como malo iniquo y perverso hizo, vino a ser mucho rico y poderoso, y señorear las provincias de Argel y las Sirtes e intitularse rey dellas, y con maneras y cabilaciones a tiranizar forçadamente el reino de Túnez y tomar otro nuevo título dél, hasta que la Sacra Cesárea Cathólica Magestad del invictíssimo César don Carlos, quinto emperador de los Romanos y rey de España nuestro y de Alemania y de las dos Cecilias, y archiduque de Austria y conde de Flandes y de Tirol, y señor de otros poderosos señoríos, por el grande amor y christiana charidad que a sus súbditos y naturales tuvo, y en general a todos los christianos, y con inmenso y alto zelo de servir a Dios, por su propria y real persona y con su armada, el año de mil y quinientos y treinta y cinco, con mucha cavallería e infantería española, italiana y alemana, y aparatos de

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guerra, passó a Túnez por le desaraigar de allí, por se aver puesto en parte y passo donde él y los otros cossarios podían hazer mayores daños, por tener más cerca la guarida donde salvar las presas que hiziessen assí como en Argel; y aunque le representó la batalla no le osó aguardar y le desamparó el reino. Del qual hizo merced a Muley Haçen, moro con que le juró por señor y quedó por su basallo, y obligado a le dar parias cada un año, y, para seguridad dello, apoderado en las fuerças de La Goleta y Bona, donde dexó sus alcaides y guarniciones. Y de allí fue a Cecilia y Nápoles por el agua, y por tierra a Roma, donde el papa Paulo Tercio de nuevo le tornó a dar la corona del imperio con la autoridad y cerimonias que tal auto requería. Y siempre este cossario Barbarroxa, aunque huido de Túnez, desde Argel, donde bolvió assí por su persona como por sus capitanes, quando con veinte, quando con treinta y quarenta belas corría la mar; y lo mismo hazían otros muchos cossarios turchos, como fueron El Judío, Cachadiablos, Moxthederáix, Hojá, Calán, Muterráiz, Hamorat, Celiarréix, Trovali, Tophimami, El Corceto, Caraçahino, Daliamat, El Copo, Cufarréis, Morataga, Carmami y Dragut Aráiz. Y desde quando más reinaron y mayores fuerças tuvieron fue desde el año de la encarnación de nuestro señor Jesú Christo de mil y quinientos y veinte y uno acá, que el gran Turcho ganó la isla de Rodas al gran Maestre frey Phelipo Viulelma francés, porque faltó la mucha resistencia que las galeras de la Religión les solían hazer. Y assí, de allí adelante más osada y desenfrenadamente corrieron las costas y hizieron mayores daños por la mar y en la tierra. Y entre los cossarios, que [sic] más atrevido se mostrava después de Barbarroxa fue Dragut, natural de la Notolia, que es en la Asia Menor, de un pequeño lugar llamado Charablac, frontero de una ciudad de tres mil vezinos llamada Estancoy, y de parentela de villanos, viles, raezes y pobres, que de niño pequeño se dize salió de su tierra navegando por la mar, en servicio de un arráhez de su patria; y visto por Barbarroxa, que gran sodomita se dize era, pareciéndole bien le rescibió por suyo con fin de cometer con él el pecado nefando, y fin de días que dél se sirvió, le dio una fusta y patente de Capitán general, para que los cossarios turchos que armasen le obedeciessen como a él, que General del gran Turcho era, y mandándole hiziesse todo el mal y daño que en las tierras, bassallos y confederados del Emperador pudiesse, a fin de hazerle grandes molestias y bexaciones. Y con algunos turchos cossarios que estonçes armaron començó a correr la mar, siendo como general obedecido. Y como a esta sazón un provehedor de venecianos

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llamado Pascalico con algunas galeras corría el mar Adriático, con un ardid de guerra que contra él usó, le tomó la una parte dellas fin del mismo mar y le siguió pensando aver las demás; y sintiendo el Pascalico la pérdida mucho, dio buelta a Corfo, donde se puso en salvo. Y hecha por Dragut esta presa fue a los Gelbes, donde conosciendo que no las podía sustentar las mandó deshazer, y de la mejor madera y clavazón hizo quatro galeotas y las armó bien, y con ellas y la fusta que Barbarroxa le dio, y otros seis cossarios que con seis navíos con él se juntaron, que por todos fueron onze, salió a correr la mar. Con los quales y su mucha sagacidad se hazía mucho temer por el mucho mal que hazía. Y sintiéndose mucho dello Andrea Doria, vezino y senador de Génova a quien el Emperador avía admitido en su servicio y señalado por su Capitán general y Almirante de la mar, y hecho merced en el reino de Nápoles del principado de Melfo y dándole título dél, mandó a Juanetín Doria su sobrino y lugartheniente de sus galeras, que con diez dellas y de Anthonio Doria, a quien de poco acá el Emperador hizo merced de la villa de Sancto Estéphano, una de las del condado de Fiesco, que le fue aplicada con las otras del estado, por lo que en Génova en su deservitio el conde conmetió, de que le dio título de marqués, que todas se pagan del sueldo del Emperador, llevasse la vía de Mecina y se juntase con las galeras de Cecilia, y fuessen en busca de Dragut y le siguiesse hasta lo aver en su poder y se lo llevar. El qual se embarcó en la galera capitana, y siguiéndole los capitanes de las otras llegó en Mecina donde dio el mandado del príncipe a don Berenguel Dolmos, General de las galeras de Cecilia por el Emperador. El qual juntó onze galeras y con las que llebava Juanetín, que fueron por todas veinte y una, y embarcaron en ellas quatrocientos y cinqüenta soldados españoles que en Mecina stavan alojados, y postrero día del mes de mayo de mil y quinientos y quarenta alçaron belas y salieron del puerto en busca de Dragut, llevando su viaje a Palermo; y de Palermo fueron a Trápana, y de allí al cavo de Carboneros en Cerdeña; y del visorrey de Cerdeña tuvieron noticia iva la buelta de Córcega, y sin sosegar fueron en su seguimento [sic] al Puerto de Giralata, que en Córcega es entre Calbi y La Iaza, a la parte de una tierra fuerte llamada el Bonifacio. Y llegaron martes quinze de junio del mismo año donde Dragut estava descuidado, y mucha de su gente en tierra partiendo la ropa que avía robado, y los christianos captivos que avía avido, y mucha quantidad de plata labrada en cálizes, patenas y ioyas y canpanas de iglesias. Y holgándose mucho de le aver hallado fueron contra él; y como él vio el armada y la reconoció por del

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Emperador, por las armas imperiales de la galera capitana, mandó recoger sus turchos a sus galeras y galeotas y fustas, a fin de pelear y huir por salvarse. Mas esto no huvo lugar porque Juanetín y don Berenguel y los otros capitanes con sus galeras los acometieron muy rezio, jugando su artillería de tal manera que no sólo los turchos que stavan en tierra no osaron bolver a los navíos, mas muchos de los que en ellos estavan, temiendo morir se arrojaron al agua y salieron a tierra. Y assí los unos como los otros, que eran hasta seiscientos, se fueron a asconder a las montañas de Córcega pensando salvarse y no ser captivos ni muertos, y los que en los navíos estavan començaron a huir cada uno por su parte por se salvar. Y fin de quarto de hora que Dragut, y con él tres capitanes de tres galeotas, pelearon y murieron de ambas partes diez soldados, y quinze fueron muy mal heridos, se rindió, y los otros navíos ecebto una fusta y una galeota que se les fue por ser mucho más ligeras que ninguna galera. Y apoderado Juanetín de Dragut y de los turchos que en las galeras y galeotas estavan, los echó a la cadena y al remo, y dio libertad a los christianos captivos, mandando cada uno reconociesse su hazienda y la tomase. Los quales, assí honbres como mugeres y niños, derramando muchas lágrimas de plazer, las rodillas en tierra, las manos plegadas, los ojos altos al cielo y los coraçones a él inclinados, con grande deboción dieron muchas gracias a Nuestro Señor, por el grande bien y merced que les avía hecho en los aver sacado de tanta tribulación y dolor, y de los trabajos que en el captiverio pensavan passar. Pues como Juanetín partió de Génova, recelándose el príncipe por alguna vía Dragut se le fuesse, se embarcó y a su gente en las otras sus galeras y fue en su seguimento; y llegado en Cecilia, y sabido su viage, se detuvo por aquella costa para, si Dragut bolviesse atrás, averlo en su poder. Pues como Juanetín y don Berenguel hizieron la presa de Dragut, porque los turchos que a las montañas se avían huído no se salvassen, Juanetín proveyó se pusiesse gran diligencia por los corços de los aver, y avidos embiasen el aviso al príncipe Andrea Doria, y con todos los christianos y Dragut, que con gran dolor y muy lastimado iva de verse tan presto de un cossario poderoso, afrentado, abatido, deshonrado, necessitado, pobre y menesteroso, y al fin esclavón y cargado de hierros, fue en busca del príncipe, restituyendo los christianos en los lugares do eran vezinos, y llegado do el príncipe estava le presentó a Dragut. El qual lo rescivió con gran alegría, y mandó tener a buen recaudo en una galera sin prisiones, ni ocuparle en el remo ni en ninguna de las otras cosas que los forçados suelen hazer, y partió la presa entre don

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Berenguel y los otros capitanes, y los seiscientos turchos que a las montañas de Córçega avían huído, porque la hambre que los aquexó los hizo descubrir y venir a poder de los corços, de que le avisaron, y mandó bolver por ellos a Juanetín, con orden de cómo dellos avía de disponer. Sabida por Barbarroxa la prisión de Dragut le pesó mucho dello, y por lo bien que le quería trató con Andrea Doria por sus personas le pusiesse en libertad, prometiéndole rescate por él. El qual lo suspendió por muchos días y començó a correr la mar, por asegurarla del mismo Barbarroxa y de otros cossarios que la corrían y las tierras de la costa, trayéndolo contino en su armada, que fue ocasión de que supiesse muchos puertos y passos en la mar para hazer daño en los christianos. Y como nunca faltavan cossarios, no sólo él convenía con sus galeras la corriesse, pero era muy necessario corriessen assimismo los capitanes de las galeras de España, Nápoles y Cecilia, y del Papa y de otros señores, según eran muchos los cossarios y muchas las partes por do corrían y tenían bien qué hazer en las guardar. Y andando el príncipe en esta asegurança tomó a Corón y Castilnovo y al Pedracho con sus castillos en el golfo de Pedracho, quatro millas de la gran ciudat de Lepanto de Turchía, que en poder de turchos estavan. Y como durante ésto el rey de Francia don Francisco de Angulema se confederó y hizo liga con el gran Turcho, para contra el Emperador y para le hazer grandes daños, desde Constantinópola le embió a Barbarroxa con ciento y cinqüenta belas reales, para aquel efecto. El qual, siendo en el puerto de Tolón de Francia, tornó a tratar la libertad de Dragut, y, con la buena diligencia que en negociarlo puso y la cobdicia demasiada de Juanetín, fin de quatro años que estuvo captivo el príncipe le dio la libertad, y a un renegado y otros dos turchos con él por tres mil ducados, y con que se dixo hizo promesa de no hazer daño en tierras de la señoría de Génova o bolver a la prisión, que por ningún dinero un tal cossario, que tanto mal sabía, podía y desseava hazer, no se devía dar, considerando que quien daño y pérdida de su enemigo ha rescibido, por todas vías y formas ha de procurar de se satisfazer, aunque aventure la vida y pierda la hazienda. Pues como Dragut en libertad se vio fue en Tholón y rindió las gracias a Barbarroxa, y le rogó le diesse con que poder tornar a correr la mar para restaurar sus daños, ofreciéndole sienpre reconoscerlo por señor. El qual lo rescibió bien, y como lo conocía y tenía por velicoso, valiente y para mucho, creyendo dél haría gran daño en la christianidad y haziéndole jurar sobre su Alcorán le sería obediente y se llamaría su capitán, y le acudiría con el quinto

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de lo que interessasse, le admitió su ruego. Y bolbiéndose a Costantinopla con el armada del gran Turcho saqueó en el senés una tierra llamada El Especia, y allí en la mar halló una galeota desarmada que avía sido de un Capitán de las Galeras del Papa llamado Bartolomeo Corço, la qual dio a Dragut proveyéndola de artillería y armas, y sus amigos de remeros christianos esclavos. Y de allí Barbarroxa fue a la costa de Nápoles haziendo por do iva todo daño; y special lo hizo en las islas de Iscla y Lípar, que las saqueó y destruyó, y en Calabria un lugar llamado Cariati; y llegado a Corso dio licencia a Dragut que se quedasse con nueva patente de Capitán general de los cossarios, y juntándose algunos con sus navíos con él bolvió a correr la mar. Y como iva con desseo de hazer en los christianos el daño possible, como hombre tan malo, tan ambicioso, tan cruel y tan ajeno de toda piedad y bondad como era, començó a hazer grandes crueldades passando muchos a cuchillo, y a otros captivando, y forçando hermosas donzellas y dueñas, y llevándolas a perpectua servidumbre, sin que se le pudiesse estorvar por los capitanes de las galeras del Emperador. Y dentro de quatro años en la isla del Gozo, cerca de Malta, combatió una galera llamada La Alana de un hijo de un gentil hombre ginovés, capitán de dos galeras llamado Cigala, que venía rica de las corredurías que contra infieles avía hecho, assí en la mar como en lugares de la costa de Berbería, en la qual por fuerça se apoderó y le tomó por prisionero sin le querer dar por ningún rescate, a fin de que si le prendiessen salvar la vida con él. Y assí huvo otras naos gruesas cargadas de trigo y de otras cosas de mucho valor, con que armó y juntó quatorze navíos bien armados; y conociéndole por capitán que tan bien se sabía valer y aprovechar, se juntaron con él otros turchos cossarios con sus galeotas y fustas, que por todas fueron hasta veinte y seis, y tomando soberbia de se ver assí pujante, usando de ingratitud, que por ninguna cosa deviera, no quiso reconoscer a Barbarroxa aunque le embió a llamar, ni guardar el juramento hecho de no hazer daño en tierras de la señoría de Génova, diziendo averlo hecho por fuerça estando en prisión. Y satisfízole tanto del mal tratamiento y daños rescibidos que es gran lástima de pensarlo, y por ser libre de subjeción, assí del gran Turcho como de Barbarroxa, casó con una hija de un turcho de Modón llamado Saraibat que avitava en los Gelbes, que era mucho rico y stimado, que le dio una gran dote y una grande suntuosa y bien fabricada casa en que cabían los esclavos de cinco galeras, en la ribera de la mar doze milias del lugar de Guadezuil, donde el xeque Çala, señor de los Gelbes, tenía su

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palatio y desde allí salía con su armada a hazer daño en los christianos. Y por se lo estorvar don García de Toledo, Capitán general de las siete galeras que en Nápoles el Emperador tiene para la guarda y seguridad de aquella costa, hijo de don Pedro de Toledo, marqués de Villafranca, visorrey y Capitán general del mismo reino, el año de mil y quinientos y quarenta y siete, con las galeras y con él don Berenguel Dolmos, que con las de Cecilia se vino allí a juntar por mandado de Juan de Vega visorrey de Cecilia, navegaron en busca de Dragut y anduvieron todo el berano corriendo la mar por muchas partes, sin que lo pudiessen aver; y fueron en su busca a los Gelves porque tuvieron nueba llebava aquella vía. Y como no pudieron alcançarlo, le mandaron quemar algunos navíos que le hallaron en los secaños y echaron alguna infantería en tierra para travar escaramuça con algunos moros que a la costa avían ocurrido, de que mataron y hirieron algunos y murieron dos soldados christianos. Y no pudiendo hazer más por entonces bolvieron en Nápoles y Cecilia, y Dragut hizo presa de muchos captivos. Y no contento con ella, como el año adelante de mil y quinientos y quarenta y ocho tuvo nueva que don García con las galeras avía partido de Nápoles, y don Berenguel con las de Cecilia, y el príncipe Andrea Doria con las suyas por el sereníssimo príncipe de España don Phelipe, para lo passar en Italia por mandado del Emperador, para que desde allí fuesse a Alemania y Flandes para que los alemanes flamencos y borgoñones le reconociesen y jurasen por señor, y él conociese los que le avían de ser bassallos, salió de los Gelbes y llevó la vía de Nápoles, y llegó hasta cerca de Puçol de Nápoles ocho millas, y puso en grande alteración los lugares de la costa por la falta del favor que de las galeras solían tener, aunque para guardarlos el visorrey avía embiado algunas compañías de soldados a Puçol y a otros lugares. Pero todo esto temía muy poco Dragut, porque como quisiesse podía echar en tierra quantidad de turchos, que para hazer salto en un pequeño lugar podía salir con él a su salvo. Y sin sosegar, porque no supiessen dónde quería dañar, fue una noche a la villa de Castellamar de mil y quinientos vezinos con castillo que diez y ocho millas de Nápoles está; y a medianoche echó quinientos turchos en tierra y captivó muchos hombres, mugeres y criaturas, de que causó gran dolor; y entre ellos una hermosíssima donzella de hedad de quinze años, hija de padres onrados defuntos, que en poder de un su tío estava, a la qual jamás quiso rescatar, aunque en Próxita alçó vandera y estuvo rescatando todos los que se rescatar pudieron, dándole personas particulares que no la tenían deudo por no la ver en su poder mil ducados por

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su rescate. Y stando tratando desto, una galera de la Religión llamada La Catalineta, que traía el viage de Nápoles con alguna parte del thesoro que sacavan cada año de Frantia, que era veinte mil ducados, para pagar los comendadores de la orden, fue descubierta del castillo de Iscla, y sabiendo donde Dragut stava, porque se desviase de topar con él, el alcaide del castillo mandó jugar tres pieças de artillería y hazer tres ahumadas, las quales hazen quando hay nueva de fustas o armada de turchos. Y pensando el capitán de la galera que la salva le hazían para que seguro podía ir, en señal de salva le mandó responder con una pieça de artillería y prosiguió su navegar. Y sintiéndolo Dragut conoció que alguna novedad avía, y con gran presteza apercivió sus turchos y avisó sus remeros, y púsose en orden de pelear. Y como el capitán con gran descuido y sin recelo de enemigos navegava por el cavo de Milena, a las espaldas del Mar Muerto, onze millas de Nápoles, fue a dar entre el armada de Dragut; y reconociéndola y su perdición, a fin de salvarse la mandó guiar a tierra; mas por mucho que sobre ello se trabajó no pudo efectuarlo, porque furiosamente con su armada Dragut le siguió y alcançó, y fin de algún rato que la combatió murieron y fueron mal heridos algunos cavalleros y soldados, y la entró y se apoderó della y del oro, y otras cosas ricas que llevava. Y despojados todos los mandó poner al remo, puesto que muchos antes que llegassen a combatir a nado se salvaron. Y assí hizo otros daños y males, y con mucha ganancia que este año huvo fue para Túnez a visitar a Hamida, nuevo y tirano rey de aquel reino que a Muley Hacen su padre avía deseredado y mañosamente hecho quitar la vista de los ojos, matando primero por engaño su alcaide del Alcaçava, como esto a tienpo conveniente se declarará. Y como cerca de Túnez fue saltó en tierra y fue a besar las manos a Hamida, el qual, que ya con él por cartas se avía comunicado, le rescivió con alegre rostro y hizo buen tratamiento. Y por que le presentó la donzella que en Castellamar huvo ricamente ataviada, teniendo en mucho el presente por la gran hermosura della le dio algunas pieças de artillería y municiones, vizcochos y otras cosas para proveher sus navíos. Y ofreciéndosele para en lo que menester le huviesse, se partió dél para los Gelves, y en ellos llegado repartió la ganancia avida entre los capitanes que con él ivan, con que todos fueron muy contentos. Y como el príncipe Andrea Doria supo los grandes males y rovos que avía hecho, el año de mil y quinientos y quarenta y nueve, que fue otro año adelante, el principio del mes de mayo partió de Génova para Nápoles con

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veinte galeras, con fin de lo buscar y matar o prender y deshazer su armada, arrepentido por lo aver por dineros rescatado por los muchos males y daños que avía hecho y de cada día hazía. Y como al puerto de Nápoles llegó y se hizo salva de su capitana galera, fue rescibido como General y Almirante de la mar, vaxando las galeras sus estandartes y jugando su artillería en señal de salva, y de Castilnovo lo mismo. Y el visorrey lo salió a rescibir y llevó al jardín del parco a posar, puesto que no quiso quedar en él por la fin y voluntad que de aver a Dragut llevava.

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CAPÍTULO II Cómo el príncipe Andrea Doria fue en busca de Dragut y lo que en el viage hizo.

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Como el príncipe Andrea Doria iva con gran voluntad y desseo de hallar a Dragut, y sabía que topándole avía de hazer por resistírsele y no se dexar prender, por la mucha diligencia que se avía traído y traía en buscarle, por la noticia que tuvo de lo bien armadas que traía sus galeras y navíos con muchos escopeteros y flecheros de afrenta, mandó adereçar las treze galeras de Nápoles para que fuesen con él, y pidió al visorrey las mandasse proveher de infantería española, con fin de que topándole le pudiesse subjetar. El qual conociendo quánto aquello convenía efectuarsse, mandó al capitán don Alonso Pimentel que con los arcabuzeros de su compañía y un oficial de cada una de las otras que estavan en Nápoles, se embarcasen en ellas, assí soldados arcabuzeros como coseletes, y publicado por bando por los atambores so graves penas los soldados fueron recogidos y embarcados. Y a diez de mayo a prima noche el príncipe mandó soltar una pieça de artillería de su galera capitana, y tocar tronpetas y alçar áncoras y belas, y salió del puerto y començó a navegar, siguiéndole todas las galeras que eran las cinco del reino, y dos de don García, y seis de Anthonio Doria, y llevó el camino de Cecilia derecho a la ciudad de Palermo. Y como llegó al puerto mandó hazer salva y baxar a su capitana el estandarte, y recogidas las diez galeras de Cecilia por él armadas, assimismo de españoles que por todas eran quarenta y tres, fue el viage de Trápana y passó por junto a la ciudad. Y fue a la Faviana y a La Goleta donde saltó en tierra con los capitanes y oficiales y muchos soldados, y estuvo allí dos días, y fin dellos se bolvió a embarcar y llevó el camino de Porto Farín, tierra de Bervería. Y allí mandó hazer leña y se proveyeron de bastimentos que los moros les truxeron a vender, y partiose otro día; y porque le tomó una grande borrasca, en la qual se temió perder porque la tormenta se iva aumentando, mandó a sus marineros endereçar la vía a una montaña gruessa llamada el Zumbano, y juntar todas las galeras hasta que la mar sossegó, y después navegó para Cabo Bono, que es otra tierra junto a una montaña y muchos aduares y lugares pequeños a la redonda, donde mandó tomar agua y, para que con seguridad se hiziesse, saltar en tierra quinientos arcabuzeros. Y como por lo alto de la montaña las guardas de los alárabes y moros avían descubierto las galeras, temiendo los christianos

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querían hazer daño en tierra, tocaron arma a la qual ocurrieron quinientos hombres de cavallo y muchos de pie; y vinieron ascondidos por detrás de la montaña y, llegando a coger el agua, dos de cavallo arremetieron a la fuente y lançearon un soldado y hirieron dos. Y como los arcabuzeros los vieron, dispararon los arcabuzes contra ellos, y los alárabes dieron a huir y los demás se descubrieron por la montaña sin osar baxar a defender el agua. Y cogida, el príncipe mandó llevar el viage de Monezter, que es una villa çercada con castillo de dos mil vezinos con dos arrabales y tierra del rey de Túnez, aunque no le obedeçían, puesto que quando el Emperador ganó el reino le dexó restituido en ella, ni le querían reconoscer señorío ni pagar bassallage, assí ésta como la ciudad de Africa y la villa de Cuça, y otras tierras de que se embió a quexar al Emperador. El qual embió a mandar al príncipe Andrea Doria y a don Hernando Gonzaga, su visorrey de Cecilia que a la sazón era, fuessen con la infantería española, que tenía en guarnición en aquel reino, a lo restituir como su vassallo; y obedeciéndolo Andrea Doria, por el mes de mayo del anno de mil y quinientos y quarenta y uno fue desde Génova con sus galeras a Nápoles, y juntándose con él don García de Toledo, y Pedro Francisco Doria con las galeras de Anthonio Doria, llevando en ellas ocho vanderas de infantería española que el visorrey de Nápoles le mandó dar, fue la vía de Cecilia, donde don Hernando, que de su ida y mandado del Emperador avisado stava, mandó que las catorze vanderas de infantería de la guarnición del reino con cinco más, que Morales maestro de campo avía traído de Ungría, de que señaló por Maestro de Campo a don Alvaro de Sande, se embarcasen en las galeras de Cecilia y de la Religión y en quinze naos, y junta el armada navegaron contra Monazter. Y aunque allí los moros les representaron, la batalla no se la osaron dar, antes desanpararon la tierra, y los christianos la entraron y no hallaron en ella cosa que de provecho fuesse, porque los moros avían alçado sus haziendas y sus mugeres y hijos. Y dexando esta villa fueron contra la Mahometa, que está en la marina bien murada y con fuertes torreones de quatrocientos vezinos, y la rindieron y fueron de allí a la villa de La Calibia, que es fuerte de dozientos vezinos. Y mostrándose allí don García animosíssimo y esforçado cavallero, la entraron y tomaron por fuerça de armas, y mataron todos los moros porque pelearon hasta morir, y captivaron todas las mugeres, muchachos y criaturas, y la saquearon. Y assí se rindieron los izfaquez y otras tierras y la ciudad de Africa, porque los africanos se dieron de su voluntad sabiendo ser aquélla la del Emperador, sin tentar ninguna manera de defensa, que la pudieran bien hazer.

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De la qual y de las otras tierras ya dichas pusieron en possessión a Muley Haçen, que por no hazer al propósito desta historia y estorvar largo processo lo dexaremos de particularizar. Pues como el príncipe llegó junto a Monazter al la hora del alva, a la parte de castillo fuerte mandó poner las proas de las galeras en tierra y començó a hazer como que quería mandarla batir. Y visto por los moros que le avitavan, con temor que huvieron se juntaron y tuvieron consejo cómo se librarían de rescibir daño, y acordaron de procurar la paz por todas las vías y formas possibles, y para señal dello alçaron en el muro una vandera blanca. Y conosciendo el príncipe el fin para que alçado la avían, embió a la villa un gentil hombre informado de lo que les avía de dezir. El qual, para ser por embaxador conoscido, llevando una pequeña vandera en la mano con una cruz colorada, saltó en tierra y fue para ella, y los moros le havrieron la puerta. Y siendo ante el governador y ciudadanos les dixo: «Aquel alto y poderoso Dios os salve y guarde, honrados moros. El príncipe Andrea Doria, Capitán general y Almirante de la mar de la magestá del Emperador de los Romanos, dize que bien sabéis que sois bassallos del rey Muley Haçen de Túnez, a quien de derecho devéis reconoscer por señor y no a otro ninguno, y que contra el juramento a él hecho os le havéis rebelado y no le obedescéis, que de su parte y por su mandado os embía a mandar le juréis de nuevo por rey y señor, y a Muley Búcar su hijo, pues noticia tenéis con quánta maldad, iniquidad e ingratitud Hamida, su hijo mayor, le tiene desheredado, y que, si assí lo hazéis, haréis lo que devéis y lo que es voluntad de su Magestad. Y no le obedesciendo os allanará de manera que, quando lo queráis hazer, no os dará lugar a ello, porque a ningún vezino y morador desta villa, hombre, muger ni criatura, por pequeña que sea, dexará de mandar passar a cuchillo». Oída la enbaxada del príncipe, los moros rogaron al embaxador aguardasse para llevar su respuesta, y se apartaron y trataron dello. Y aviendo sobre ello platicado, acordaron que para estorvar el daño que aparejado les estava, aunque contra su voluntad hiziessen lo que el príncipe de parte del embaxador les mandava. Y assí lo dieron por respuesta al embaxador, el qual bolvió al príncipe y se la dio, y él mandó avisar a Muley Haçen dello, el qual mandó a Muley Búcar que con ocho moros fuesse a la villa y se apoderasse della, y hiziesse jurar por señor. El qual con los moros se desembarcó, y los moros de la villa le rescibieron bien, mostrando alegrarse con su vista, y le juraron y llevaron al castillo, y quedó pacífico en ella. Y aviendo estado allí el príncipe día y medio tratando este negocio, viéndolo hecho mandó alçar

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belas y tornó a navegar, y fue aquel día a las Conejeras doze millas de allí, y mandó echar áncoras. Muley Búcar, que en Monazter quedó, como el príncipe con las galeras se fue dexando su alcaide en el castillo y governador en la villa, con tres moros tomó la posta y fue a la villa de Cuça, diez y ocho millas de allí (a la parte de Poniente, villa muy fuerte y bien cercada, con un buen castillo y de mil y quinientos vezinos) y habló los ciudadanos, rogándoles quisiesen por señor al rey Muley Haçen su padre, y a él en su nonbre, pues Monazter lo avía hecho, reconosciendo lo que buenos, fieles y leales vassallos a su señor devían. Los quales le rescibieron bien y se juntaron para tratar dello; y como avía muchos que a Muley Haçén querían mal, no quisieron en ello venir, aunque otros eran de opinión lo jurassen, diziendo que juntamente lo devían hazer. Y sobre ello començó a aver algún rumor entre ellos, de manera que Muley Búcar con los suyos, temiendo le matassen, tornó a tomar la posta y bolvió en Monazter. Y como los de la parcialidad contraria de Muley Haçen ido le vieron, escrivieron a los de Monazter lo mal que lo avian hecho en tomar a Muley Haçen por señor, y rogándoles a Muley Búcar echasen de la tierra. Con que los moros de Monazter se començaron a alterar; y vista la alteración por Muley Búcar, mandó embarcar en una fragata dos de sus moros y que fuessen en busca del príncipe, y a su padre, que con él iva, le avisasen de lo que passava. Los quales se embarcaron y pusieron en la navegación toda diligencia y llegaron a las Conejeras, donde el príncipe estava quando mandava alçar áncoras para navegar, y dieron noticia a Muley Haçen de lo a que ivan. El qual sintiéndolo mucho, con gran tristeza y llorando passó a la galera del príncipe y se lo dixo, y que temía los moros le matassen su hijo, y le rogó pusiesse remedio en ello. El qual mandó tornar a navegar la vía de Monazter y, como junto a la villa llegó, embió a llamar a Muley Búcar. El qual fue a él y le informó de lo passado, después que le avía dexado en la possessión de la villa. Y por scusarse los moros le embiaron a dezir que ellos mantenían y guardarían el juramento que avían hecho al Rey y no lo pensavan quebrar, y que, pues no le avían quebrado, le suplicavan no les mandasse hazer ningún daño. Y oído esto por Muley Haçen, a su intercesión, porque por ellos al príncipe rogó e intercedió, no se trató de más de que Muley Búcar se embarcasse y fuesse con él por entonces. Y porque venían la buelta de Monazter dos mil árabes a cavallo y quinientos moros de pie, y convenía proveher de agua las galeras, porque dellos no se rescibiesse daño, el príncipe mandó saltar marineros en tierra para tomarla, y trezientos arcabuzeros para defender que no se lo estorvasen. Y llegando los

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árabes y moros por tras de los jardines de Monazter, començaron a travar escaramuça con los christianos, tirando escopetazos y flechas. Y los arcabuzeros disparando en ellos escaramuçaron tres horas hasta que el agua se cogió, fin de lo qual fueron muertos siete arcabuzeros y heridos en mayor quantidad, y de los árabes muchos más. Y el agua cogida, el príncipe mandó embarcar los arcabuzeros y alçar belas y navegar a La Goleta, donde saltó en tierra y estuvo dos días y dos noches; y fin dellos, aviéndose proveído de carne y otros mantenemientos que los moros truxeron a vender, navegó hasta Porto Farín treinta millas de Túnez, y desde allí despachó un gentil hombre ladino en el algaravía a Hamida rey de Túnez con su mensage. El qual fue en Túnez, y haziéndole acatamiento le dixo: «Poderoso señor, el alto y poderoso Dios os mantenga y guarde de mal. Andrea Doria, príncipe de Melfo, Capitán general y Almirante de la mar de la Sacra Cesárea Cathólica Magestad del christianíssimo César don Carlos, dize que por su mandado biene a os comunicar cierto negocio a vos complidero y muy necessario, assí para vuestra quietud y sosiego como para el bien y salud deste reino; y para ello él se ha desviado de La Goleta y venido en Porto Farín, que de merced os pide queráis ir al puerto y que, con seguridad vuestra y suya, él saltará en tierra y os comunicará, y sabréis quál sea la voluntad de su Magestad». Hamida le oyó y mandó aposentar y proveher de lo necessario y llamar los de su consejo, y les dixo la embaxada del príncipe. Los quales, aviendo en su presencia sobre ello comunicado, le dixeron que de su parecer no se devía ver con él, porque con alguna mañosa maña o cautelosa cautela no le prendiesse o hiziesse otro daño o afrenta. Y pareciéndole a Hamida bien, mandó llamar un moro viejo, que avía pocos días que de Valencia a Túnez avía venido, al qual mandó que acompañado de otros moros fuesse al príncipe con su embaxador que le avía embiado, y de su parte le presentasse un gentil cavallo y una muy hermosa yegua, y quantidad de aves y bacas, carneros, terneras y otras cosas. El qual con ello y los moros y embaxador, avisado de lo que al príncipe avía de dezir, fue en Porto Farín el día de sanct Juan, y llegando a la lengua del agua se apeó, y tres moros con él, y embarcados en una fragata de las galeras fueron a la capitana del príncipe, y haziéndole reverencia, la cabeça muy baxa, en lengua española el moro le començó a dezir: «Escelente señor, Hamida rey de Túnez mi señor dize que, aviendo entendido lo que con vuestro embaxador le avéis embiado a dezir, holgará

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hallarse con salud para poder venir a se ver con vos, pero que esto no ha lugar por su indispusición, y que pues por esto comberná cesse la vista. Lo que a él queríades comunicar me lo digáis a mí, para que yo se lo vaya a referir y os pueda responder; y porque aquel cavallo y yegua tiene por buenos, os ruega los rescibáis con más aquel presente de provisión con que refresco toméis», y mostróselo porque a la lengua del agua estava. El príncipe le dixo: «A Hamida diréis que pues la vista que yo pido escusa, que sepa que la voluntad de su Magestad es, y assí se lo embía a mandar, resciba a Muley Haçen su padre en el reino, y se lo restituya para que en su vida como rey y señor lo possea, pues sabe de derecho es suyo, y le pague las parias que su padre cada año le solía pagar del tiempo acá que el reino possee; y que haziéndolo assí le perdonará el atrevimiento y desacato que cometió, y que de lo contrario se terná por desservido y proveherá y mandará como su padre se restituya. Y por el presente que a mí me embía le rindo las gracias por tener dello memoria». Con esta respuesta el moro se despidió dél y bolvió con los moros en Túnez, y a Hamida lo dixo. El qual lo comunicó a los del consejo, los quales comunicado el negocio y sabida su voluntad que su padre no reinase, pues le avía desheredado, le dixeron que para conplir con el Emperador de su parecer devía responder al príncipe, que, si su padre quería ir a Túnez, él holgaría rescibirle y tenerle por padre y señor, servido, acatado, obedescido y estimado, como la razón lo requería, pero que restituirle la corona no lo haría, porque todo el reino stava tan mal con él que se rebelaría y sería ocasión a que ambos fuessen desheredados; y que quanto a las parias que pedía, puesto que él no era bassallo del Emperador como su padre lo avía seido [sic], por le tener por amigo holgaría de le dar cada un año seis mil doblas por buen amor, y no por vía de bassallage y tributo. Y paresciéndole bien a Hamida, mandó al mismo moro bolviesse al príncipe y se lo dixesse. El qual partió y fue en Porto Farín y le dio la respuesta, de que el príncipe fue muy contento. Y pareciéndole sería perder tienpo tratar dello, recogido el cavallo y yegua y las otras cosas que Hamida le embió, despidió el moro, y fin de siete días que allí estuvo, mandó alçar áncoras y belas y bolvió a navegar la buelta de Cerdeña y Córcega en busca de Dragut, y en la villa y puerto de Calvi de Córcega tuvo lengua andava por la isla haziendo daño, y yendo más adelante tuvo otra nueva iva a Mallorca y fue lo siguiendo, y en Mallorca tuvo lengua que avía despalmado en Ibiça y que llevava el viage de

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Bervería. Y fue siguiendo hasta Ibiça, y allí se avisó de un patrón de una fragata que llevava la vía de los Gelves y dio la buelta a Cerdeña siguiéndole; y en Cerdeña tuvo noticia avía robado un lugar en Córçega, y fue en su busca por toda la isla. Y como no le halló y se tornó a dezir bolvía a Bervería, mandó que tres galeras llevassen a Muley Haçen a Trápana, y porque se publicava el rey de Francia le avía prometido favor y se le dava, sospechando el príncipe iva la buelta de Francia para se arrimar y guarescer en algún puerto della, por le atajar el passo mandó navegar la vía de Génova. Y en Génova tuvo noticia iva la vía de Isladeras camino de Barcelona, y con gran diligencia a remo y bela le fue siguiendo, y en Villafranca de Niça le certificaron más la nueva; y siguiéndole se levantó una tormenta que le hizo perder el viage derecho y bolber la buelta de Pomblín, y allí perdió lengua del, sin que más le pudiesse descubrir por ninguna parte. Y henojado de no le aver podido hallar, aviendo hecho tanta diligencia bolvió en Génova y los capitanes con las galeras en Nápoles y Cecilia, y Dragut en los Gelves.

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CAPITOLO III Cómo Dragut se apoderó de las villas de Monazter y Cuça y lo que en ellas proveyó.

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Como Dragut supo lo mucho que seguido era del príncipe Andrea Doria y de los otros generales de las galeras del Emperador, y que al Emperador tenía muy enojado con los daños, robos y males que en sus tierras y vassallos avía hecho, creyendo tenía por amigo a Hamida, rey que de Túnez se llamava, y confiando en él le daría favor para qualquier cosa que intentasse, porque assí él tanbién se pensava favorescer dél para cosas que le podrían susceder, especial que tenía por capital enemigo a Hametalfa, señor del Queruán, porque se tratava casamiento entre una su hija con Muley Mahmet su hermano, y para aquel, que obediente hijo a Muley Haçen era, procurava aver el reino y que por aquello Hametalfa le daría todo favor para restituir a su padre en la corona real de Túnez, para que después Muley Mahmet quedasse rey y señor del reino. Aunque hasta allí Hametalfa avía sido a Muley Haçen enemigo por passiones que avían tenido, pensó dónde se enseñorear en tierra fuerte que estuviesse seguro del Emperador, y cada que alguna presa con sus galeras y vaxeles por la mar hiziesse guardarse. Y con este mal desseo y ambición que de señorear y mandar tiranamente tuvo, començó a artizar e imaginar en qué tierra fuerte se apoderaría, que estando en ella al Emperador no teniesse. Y como avía mucho por la mar navegado, y sabía las fuerças que en la mayor parte de la Berbería avía y quién las mandava y señoreava, veniéndosele a la memoria que la ciudad de Africa, que antiquíssima ciudad del reino de Túnez era, que los moros Mehedía antiguamente solían llamar y continuo llamavan, era tal como él desseava por la aver bien visto en el tienpo que un sobrino de Barbarroxa hijo de su hermana, llamado Cancherivi, que por el gran Turcho, a quien se avían los africanos encomendado y dado por no obedescer al rey Muley Haçen, la governava y avía estado a su sueldo como soldado. Al qual Cancherivi, por las tiranías, robos y cohechos que les hizo, le echaron por fuerça, y a su muger y hijos y turchos que con él estavan, de la ciudad; y quedando señores de sí, sin querer reconocer al rey Muley Haçen su señor ni a otro superior ninguno, aunque por Muley Haçen avían sido requeridos tornasen a obedecerle no lo quisieron hazer, ni menos a Hamida su hijo, quando en Túnez se enseñoreó, ni al señor del Queruán, por mucho

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que lo avían procurado. Y estava sobre sí hecha señoría sin querer obedecer ningún príncipe ni señor, rigiéndose y governándose por cinco principales ciudadanos llamados Hajá Hamet, Brambarac, Bayada, Hameyza y Herruzmehudí. Y sabiendo tenían discordias entre los africanos, y que la ciudad era en dos parcialidades, a fin de engañarlos se carteó con él Brambarac, que era cabeça principal de la una, diziendo que, si lo quería por amigo, a todo su poder le ayudaría y echaría sus contrarios de la ciudad como en ella entrada tuviesse, y le dexaría en el dominio della y a sus parientes, amigos y valedores pacíficos. Vista la carta por Barbarroxa la comunicó en secreto a todos ellos, y los persuadió a que tuviessen por bien Dragut entrasse en la ciudad por pacífica paz, y que como dentro fuesse se comunicarían y darían la orden que para lo que les avía escripto se ternía, y de una conformidad vinieron en ello. Y assí Branbarac lo escrivió en respuesta a Dragut, el qual muy alegre dello, pareciéndole que con sus mañas, formas, cavilaciones y cautelas podría traher a efecto su desseo, teniendo sus galeras y navíos y de otros cossarios hasta treinta y seis armados, y con toda provisión y a punto de poder navegar en los Gelbes. A mediado de hebrero de mil y quinientos y cinqüenta recogió sus capitanes y turchos, y con ellos se embarcó; y siendo en la mar mandó hazer una diabólica cerimonia y mala superstición que siempre que quería navegar costumbrava hazer, en que los turchos tienen grandíssima fee y certidumbre, y fue que mandó al alfaquí que llevava en su galera echase suertes si señorearía a Africa o no. El qual, mandando a todos tener silencio, fue a la proa de la galera, y en presencia de todos se despojó de sus ropas, y por un pequeño moço con agua de la mar fue lavado todo de la cabeça a los pies, y diziendo él muy quedo ciertas oraciones en su ley y a tiempos rezio, que todos le entendían, «¡Estafarla, estafarla!», que en nuestra castellana lengua quiere dezir “Dios es y Dios será”. Siendo bien lavado, por la cruxía bolbió a la popa rezando, y vaxó un libro que en un palo alto estava ligado y guardado como cosa de mucha estima llamando «Falande», las cubiertas del qual eran de seda colorada, guarnecido con medias lunas de oro y cairelado de lo mismo a la redonda, que se cerrava con trenças de plata. Y lo desató y llevó con gran reverencia como un contemplativo christiano sacerdote un libro de los Sacros Sagrados Evangelios, y fue ante Dragut y se hincó de rodillas y le besó y tocó a las narizes, y dio siete golpes con él en la frente y se lo puso en las manos. El

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qual, puesta la mano sobre él, juró por Alá y Mahomad y su Alcorán de guardar lo que el libro le dixesse; y hecho el juramento, estando todos los turchos con el gran silencio como defuntos, el alfaquí tomó el libro de mano de Dragut y se levantó, y a la parte del Levante alçó los ojos, y sin mirarlo le havrió por do el demonio, que semejantes cosas guía, lo quiso havrir. Y desde donde havrió leyó hasta siete hojas y siete renglones, y acabándolos de leer dixo «Heidra falande», que quiere dezir “bien ha respondido para do quieres ir”. Y oyéndolo Dragut se alegró mucho, y los capitanes y turchos, mas es de saber que como a estos malventurados, que por vassallos el demonio tiene, los trahe tan creíbles en esto, que como la suerte caiga al contrario de la intención do piensan llevar, no parten de allí hasta que otras dos vezes las tornan a hechar. Y si corresponder vayan a tal o tal parte, y que hallaran tal y tal navío con tal gente, y tomaran tal tierra, y que se guarden de llegar a tal parte, porque están allí galeras de christianos, y hallarlo por verdad; y por esto lo crehen, y todos estos avisos les da como aquel que sabe lo que passa por el mundo, por su mucha antigüedad y subtilidad, porque no se le salgan del lazo donde metidos los tiene, aunque Dragut no tenía mucha razón de dar tanto crédito a Falande, porque se dize quando Juanetín Doria y don Berenguel Dolmos le prendieron en el Puerto de Giralata en Córcega como allí llegó, mandó echar suertes, y le respondió que en aquel puerto haría presa. De que quedó muy contento, y dando las gracias a su Mahomad, que las pudiera bien escusar, porque la presa se ensolvió sobre él, como ya avemos dicho. Y assí cada uno de los turchos lleva otro libro consigo, y llegando a qualquier parte toda su fee y bien aventurança es echar suertes. Y si le corresponde que en el navío que va no le suscederá bien, lo dexa y se pasa a otro. Y assí andan haziéndose contino adevinos y agoreros dando entero crédito al demonio cuyos son. Pues con mucho regozijo Dragut con sus turchos llevó el camino de Monazter, que estava de allí quarenta millas, porque sabía stavan temerosos del Emperador por aver llegado allí con galeras el príncipe Andrea Doria, y hecholes jurar por señor al rey Muley Haçen y Muley Búcar su hijo, con quien mal estavan, porque se dezía era moro cruel y avía hecho en el reino crudas justicias y muchas fuerças y violencias. Y pareciéndole sería bien apoderarse primero en aquella villa y en la villa de Cuça por ser cercanas de África, y que, teniéndolas por suyas, con África se podría intitular Rey, y poco a poco conquistar el Queraván y el reino de Túnez, y hazerse señor del y quedar muy poderoso. Y con esta intención navegó hasta llegar a Monazter,

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llevando consigo un su sobrino hijo de su hermano, llamado Hesarráiz, y otro turcho anciano de la Notolia llamado Caidali, que hallándose en servicio del gran Turcho en algunas de las guerras que contra los christianos y el Sophí avía tenido, avía hecho cosas señaladas por donde era por su persona estimado. Y llegando a Monazter embió su embaxador al Governador y ciudadanos mandándoles le entregasse la villa y fortaleza y jurassen por señor, y que si assí lo hiziessen los manternía en paz y justicia y defendería de christianos, y que si lo contrario hiziessen se apoderaría della contra su voluntad, haziendo los daños en ellos possibles. Y como la embaxada les fue dada, avido por el gobernador y moros su consejo, tuvieron por bien ser perjuros e ir contra el juramento que a Muley Haçen y Muley Búcar su hijo avían hecho, y acordaron tomarle por señor. Y venidos en ello le salieron a rescebir y llevaron a la villa y aposentaron en el castillo, y hizieron muchos presentes y lo juraron por señor, y él juró de los mantener en paz y justicia y defender de enemigos. Y fin de tres días que allí estuvo mandó poner en la torre de omenage del castillo una vandera colorada y blanca, con una media luna azul al medio della, y señaló por alcaide y governador para guardar el castillo y mantener en justicia los moros un turcho llamado Caidehamat, y dexó con él quinze turchos; y despedido del pueblo se embarcó y llebó el viage de Cuça, que estava de allí veinte y quatro millas. Y junto a ella llegado, haziendo la diligencia que en Monazter, los de Cuça, por temor que le tuvieron, le rescibieron y juraron contra su voluntad por señor, y assí quedó allí por algunos días tomando parescer con Hesarráiz y Caidali cómo irían a la fuerte ciudad de Africa. Y como llegó a noticia de Hametalfa, que en el Queraván stava, y de Hamida rey de Túnez de cómo en Cuça y Monazter se avía apoderado, y sospechando quál fuesse su intención y voluntad, a cada uno dellos les pesó mucho porque, como le tenían por mal cossario, temieron que con sus mañas y cabilaciones los desheredase por enseñorear y ensalçar assí. Y por poner en ello remedio, Hamida escrivió a Luis Pérez de Vargas, alcaide y general de La Goleta, diziendo que él sabía que Dragut avía tomado las villas de Monazter y Cuça, y se dezía quería apoderarse de la ciudad de Africa, y que si en ella se apoderava sería otro Barbarroxa y haría muchos y muy grandes desservicios y enojos al Emperador. Los quales con todas sus fuerças y a todo su poder le devían storvar, y para que con mayor brebedad se hiziesse el estorvo, que a él, como amigo y servidor que del Emperador era, le diesse

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algunos christianos de los que en La Goleta tenía, y que con ellos y otros sus basallos procuraría echarle de allí y forçar a los africanos no le rescibiessen; y que, si no lo hazía, escriviría al Emperador que por su causa Dragut se avía enseñoreado en Africa, y héchole los desservicios que le hiziesse, por donde no se hallaría bien dello y perdería su gracia y las mercedes que le avía de hazer. Vista la carta por Luis Pérez le respondió que si él quería conosciesse dél ser verdadero servidor del Emperador, que mandasse poner en libertad todos los christianos que captivos tenía en su reino, pues como Rey y señor lo podía mandar, y se los embiasse, y que quando hecho lo huviesse, no sólo le daría gente de La Goleta para el efecto que se la pedía, pero lo haría saber al Emperador, para que más complidamente lo proveyesse, y sabía lo provehería por el servicio que reciviría dando la libertad a los christianos, por ser muchos sus bassallos de sus reinos, tierras y señoríos; y que como esto dexasse de complir, crehería eran palabras lo que le escrivía y se le daría poco scriviesse al Emperador lo que quisiesse, porque bien sabía el Emperador tinié entendido la voluntad y afición con que le deseava servir, y que por aquello no perdería las mercedes que le huviesse de hazer; y que si no se las hiziesse, él se tenía por muy contento y bien remunerado con las que hasta allí le avía hecho, y con estar en servicio de un César tan poderoso que le era harta gratificación. Vista la respuesta por Hamida, teniendo por de mucho valor los captivos que estavan en poder de xeques y personas poderosas, acordó dissimular el negocio y no hablar más en él, doliéndole mucho pensar que Dragut por mañas se apoderasse de Africa, según cauteloso y mañoso era, que por fuerça creído tenía él ni otro más poderoso la pudiesse por suya aver.

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CAPITOLO IIII Cómo Dragut entró en la ciudad de Africa con consentimiento de los africanos, y lo que les pidió y la respuesta que le dieron.

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Pues como Dragut tomando consejo con Hesarráhiz quedó sobre cómo se apoderaría de Africa, acordaron que se procurasse tomarla por pacífica paz, negociando entrarla por buenas maneras y con industria de Brambarac y los de su parcialidad, pues ya con él sobre ello estava carteado, porque de otra manera por impossible lo tenían, y que, quando por bien no pudiessen, pensarían en otra cautela. Y acordados en esto, Dragut mandó dexar otra su vandera en una torre del castillo de Cuça, como en Monazter, y señaló por alcaide y governador della a Caidali, y dexole acompañado con veinte turchos y moros. Y despedido de los de la villa se embarcó con los suyos y llevó el viage de Africa, que de allí estava treinta y seis millas, llevando en sus navíos mucha quantidad de arroz y de otras cosas para tener que presentar y dar a los ciudadanos sus amigos y ganar por tales los que no lo eran; y como junto a Africa llegó, embió a pedir licencia a los governadores para entrar dentro. Los quales con interceder, Brambarac y otros se la concedieron para él y doze turchos que meter quisiesse, los quales señaló que fuessen Hesarráhiz y el Copo, y Carmamí y otros hasta el número, y mandó meter en la ciudad el arroz y otras cosas, y lo mandó repartir entre los amigos y enemigos para mejor hazer su efecto. Y fin de ocho días que visitándolos y comunicándolos en sus casas anduvo, y atrayéndolos con ruegos y dádivas e induziéndolos a unos para que rogassen e intercediesen por él a otros, para que lo que en la ciudad propusiesse se le otorgase y concediesse y estorvasen toda contradición, rogó a los governadores y ciudadanos se juntasen para le oír cierta plática que les quería hazer; y viniendo ellos en ello fueron juntos en la mezquita mayor, donde solían tener sus importantes acuerdos. Y sabido por Dragut aconpañado de Hesarráiz y del Copo y Carmamí, y de los otros que con él avían entrado y de algunos de la ciudad, fue para la mezquita y en ella muy cortés y amorosamente los saludó, y ellos le rescibieron con alegre semblante y hizieron sentar, y a Hesarráhiz y a los que con él ivan. Y como fueron sossegados con blandas, dulces, amorosas y suabes palabras por los ganar por amigos, para después con fuerça y tiranía subietarlos por bassallos, Dragut les començó a dezir assí:

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«Conociendo yo, honrados africanos, el valor de vuestras personas y la mucha bondad y virtud que ay y mora en vos, en el poco tiempo que en esta ennoblecida insigñe y antequíssima ciudad moré, quedé aficionado y desseoso de buscar cómo os servir, teniendo por cierto que qualquier servicio, por alto y estimado que por mí os fuesse hecho, dél y de mucho más érades merecedor. Y porque assí de mí lo conociéssedes desde quando poderoso me hallé, con todas mis fuerças he procurado proveheros de mantenimientos y otras cosas que os han sido necessarias como visto avéis. Y de cada día, por el grande amor y voluntad y afición que os he cobrado, terné mucho mayor miramiento del que hasta aquí, para en pago y satisfación de lo qual quiero de vos que como a un vezino y natural ciudadano, y como a un bueno y verdadero amigo, en vuestra ciudad me rescibáis, para que con mi casa, mugeres, hijos, criados y servidores pueda en ella morar, gozando del título de africano, porque con él me mucho satisfaré. Y resciviendo de vos este beneficio, os prometo de os guardar, amparar y defender de qualesquier príncipes christianos, turchos y moros o alárabes, si henojar os querrán, y sobre ello aventurar mi persona y las de mis parientes y amigos, y gastar mis riquezas, joyas y thesoros como muy cierto (ofreciéndose en que mostrarlo) lo veréis». Como por todos Dragut fue oído se miraron unos a otros, y para tomar su acuerdo le rogaron les diesse aquel día de término para le responder. Y por él concedido, con los suyos salió de la mezquita, y los governadores y ciudadanos quedaron en ella y començaron a tratar del negocio poniendo los casos que resciviéndole en la ciudad les podría susceder. Y comunicándolo Hajá Hamet, uno de los cinco que la señoría governavan, hombre viejo y anciano a quien por muy sabio, principal y rico tenían les dixo: «Señores, pues aquí todos nos avemos juntado para tratar de lo que toca al bien y utilidat universal de todo el pueblo y particular de nuestra salud y quietud, y de nuestras mugeres y hijos, y para conservar nuestras haziendas que con trabajo adquerimos y ganamos, y estar más en servicio de Halá y de nuestro sancto propheta Mahomad, justo es que cada uno diga lo que en este caso siente. Y por esto yo soy determinado dezir lo que se me alcança debaxo de mejor parecer». Oído por los otros governadores y ciudadanos, sabiendo ser el más antiguo le dixeron lo dixesse. El qual invocando y llamando el nombre de Alá para que le diesse gracia para les poder su intención dezir, y a ellos libre entendimiento para le entender y obrar lo que les dixesse su plática y razonamiento, començó assí:

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«Amigos y hermanos míos, oído avéis la plática que Dragut nos ha hecho y lo que por ella nos ha pedido y rogado, y assí avéis entendido quál sea su voluntad y desseo, que es de avezindársenos en nuestra ciudad, rogándonoslo agora con dulces y halagueras palabras, y que la principal cosa con que nos quiere a ello mover para atraher assí y ganar nuestra voluntad es con dezir nos guardará de enemigos. A esto digo que nosotros al presente no los tenemos de quien nos devamos temer ni recelar christianos, moros ni turchos, porque desta ciudad no salimos a ofender a ningún príncipe ni señoría. Y puesto que nuestros passados guerrearon y conquistaron muchas tierras de España y la Italia, ya es cosa tan antigua y está tan olvidada que no se piensa en ello para fin de conquistarnos, y primero que en ella entrar le consintamos con turchos tales y tan malos como trahe, por ser como todos son gente ommicida, facinorosa y aparejada para todo mal hazer, lo devemos mucho considerar y mirar con muy claros ojos, no sólo con los corporales mas habriendo los del entendimiento, para no rescibir engaño, fuerça ni violencia, considerando muy particular las cosas por menudo. Y la primera que a la memoria se me ofrece es deziros que notorios, públicos y manifiestos os son sus tratos, y porque fáciles son para los retener en la memoria, os los quiero dezir y declarar aquí: quanto a lo primero digo que clara y patentemente vemos que su oficio es ser cossario público, y que con él ha henojado a muchos príncipes, señores y señorías muy poderosos con los grandes y terribles daños que en sus basallos y tierras ha hecho, especial en las del Emperador de los Romanos, rey de España, príncipe tan poderoso, belicoso y animoso como noticia tenéis, pues os consta por su propria persona con poderosa armada passó en este reino de Túnez contra Barbarroxa un tan poderoso Rey, que con tener cien mil peones y quinze mil hombres de cavallo y artillería, y municiones en grandíssima abundancia, no le osó aguardar y le convino desamparar el reino e ir huyendo dél; pues si siendo tan poderoso y favorescido no le pudo resistir y le temió, ¿quánto más le devemos nosotros temer no lo siendo? Assimismo os es notorio que el gran Turcho vino sobre la ciudad de Viena del Archiducado de Austria y la tuvo cercada con seisciento mil geníçaros y espaquís, y la mejor gente de Turchía, assí de pie como de cavallo, y la batió muy rezio. Y socorrida por el Emperador con pérdida de diez y ocho mil turchos de cavallo y de otra mucha gente de guerra, le alçó el cerco y se retiró, y bolvió a sus tierras con grandíssimo daño, mengua y afrenta que recibió. Pues bien sé que no igñoráis [sic] que por fuerça de

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armas ganó la muy fuerte villa de Dura al duque de Clebes y Julies, que con injusto título le tenía tiranizado el ducado de Güeldres, donde tenía la mayor parte de su fuerça de gente de guerra y mayor sperança de no ser perdido ni despojado; y porque los ciudadanos no cumplieron su mandado y se le resistieron los mandó passar a cuchillo, a cuya causa puso tanto terror y temor en todo el estado que se le rindió, y el mismo duque por no ser desheredado de su proprio patrimonio. Pues ¿qué diré de la prisión que sus capitanes hizieron de un príncipe de tan gran potencia como el rey de Francia, y de la guerra que él movió contra el poder de la Germania siendo tan poderosa? ¿Qué emperador, qué rey, qué príncipe o qué señor ay oy tan poderoso que la osara intentar, constándole como a él le constava? ¿Quánto grande era su poder de gente de guerra, soldados veteranos muy bien armados de quien él se avía servido, y de artillería y arcabuzería que todo lo podía muy bien pagar y sustentar por muchos días? ¿Y quánto en breve juntó un poderoso exército de gente de cavallo y de pie de artillería y cosas necessarias de guerra, con que deshizo el campo de la liga y rebeldes, y de puro temor y miedo se le rindieron tantas poderosas e imperiales ciudades y villas, y prendió en batalla al poderoso duque de Sasonia, de toda la Alemania y Boemia, querido y amado, ayudado y socorrido assí con gente como con dineros? Pues ¿qué os podré dezir de las otras cosas que ha hecho si no que sería nunca acabar? Considerad, oh africanos míos devotos de Alá, amigos de Mahomad, que reciviendo a Dragut en nuestra ciudad, siendo como es fuerte, el Emperador pensará lo admitimos en ella para que desde aquí le salga a hazer mayores daños y se buelva a guarir, y que admitiéndole y consintiéndole dentro en ella entra toda nuestra perdición y destruición para in eternum, porque claramente le probocamos y llamamos a que nos haga justa guerra, pues su enemigo y desservidor aquí le acogemos, y estonces veríades cómo nos iría, porque, por aver a él, a todos procuraría total perdición y daño hasta nos traher a perpectua perdición y servidumbre y nos hazer perpetuos esclavos, y a nuestras mugeres y hijos, sin que ningún socorro para dexarlo de ser nos bastasse, y esto primero con muchas muertes y daños en nós rescibidos. Y los que bibos quedássemos nos veríamos deshonrados, abatidos, tenidos en poco y menospreciados, y a nuestros ojos, sin que remediar lo pudiéssemos, forçar nuestros enemigos nuestras mugeres y hijas, y robar y saquear nuestras casas y haziendas; y harían renegar a muchos nuestra sancta fee, con que demás de perder los cuerpos perderían las ánimas. Y de todos estos daños seríamos nosotros la

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causa por rescibir a Dragut, y dellos Alá y Mahomad nos pedirían estrecha qüenta y cargarían grandíssima culpa y darían rezio y grave castigo. Y esto, africanos hermanos míos, ninguna dubda tengáis dexará de ser, porque como la voluntad de Dragut es inclinada a hazer mal a los christianos y está muy obstinado en su mal bivir, siempre hará en ellos inrreparables daños y grandes desacatos, irresiones [sic] infinitas o, por más claro dezir, muchas burlerías a sus iglesias y monasterios donde se celebra el culto divino que los christianos adoran, con que escandalizará de cada día más al Emperador. Y jamás cessará de hazer esto hasta que la muerte le ataje o la vida le quiten. Y desto devemos tomar exemplo pues, probablemente lo vemos, que por star Barbarroxa en Argel apoderado, y desde allí salir a hazer mal y daño en sus tierras y bassallos, y bolber a fortalecerse y balerse dél, a ella passó en persona y con su poderosa armada contra él y contra aquella ciudad para storvar aquellas estorsiones y vexaciones; y que no lo efectuasse no nos devemos maravillar, pues es cosa muy clara y sabida los turchos y moros que dentro stavan, bivían, moravan y avitavan en toda la provincia no fueran parte para se lo resistir y estorvar, si milagrosa y maravillosamente Alá y nuestro Mohamad no se lo defendieran, con la tormenta que en la mar enviaron, que su armada rompió, destroçó y desbarató y alexó de la playa y puso en entera perdición. Y si esto así no fuera, pregunto os me digáis qué fuera de todos los avitadores de la ciudad y provincia, y en qué pararan y en cúyas manos y poder vinieran, por ventura bastaran sus fuerças y armas para resistírsele o aprovechárales sus amigos, esfuerços y fortificaciones para defendérsele, no por cierto ni tal se deve creher ni pensar, por mucho que sobre ello se trabajaran. Considerad tanbién que ya que en la ciudad a Dragut reciviéssemos con título de amigo y vezino, tengo tan mal concepto del que poco a poco metiendo turchos dentro y ganando a algunos de los que aquí estamos por amigos, que por dádivas o por afición se suelen ganar, bastaría a alçarse con nuestra ciudad y hazernos sus vassallos perpectuos y para traherlo a efecto forçado sería fuesse contra la voluntad de los más. Y como con fuerça se uviesse de hazer, estonces veríamos nuestro error, porque muchas cabeças de las que aquí estamos andarían por tierra, y nuestra ciudad en sangre vañada. Y después que en ella apoderado se viesse, nos impondría tales crímines y excessos, tales culpas y pecados, y de tal forma y manera nos caluniaría con sus mañas y cavilaciones que nos acabase de quitar a todos las vidas y haziendas. Y pues esta sola ciudad nuestra tan estimada en la Berbería y tan

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nombrada entre los Romanos, y en mucho tenida entre los christianos, ha bastado a dar nombre a toda la Berbería hasta el Egipto y es llabe y passo della, por lo que al alto Alá y a nuestro propheta Mahomad devéis, os ruego y conjuro ayáis piedad de vos mismos. Y si de vos aver no la quisiéredes, la ayáis de vuestras mugeres y hijos, y de toda la nación Barbaria; y no quepa en vuestros coraçones meter en la ciudad un hombre por quien toda la vida África llore, ni os determinéis acerca desto a hazer ninguna cosa impensada ni impetuosamente, porque quien no guarda la palabra y juramento que siendo prisionero da, como en casos de guerra se usa, es tenido por infame y fementido, y tal éste es, pues jurando y prometiendo al príncipe Andrea Doria, que lo tenía en prisión, no hazer daño en las tierras de la señoría de Génova no lo cumplió, dando una frívola, vana e iniqua razón, diziendo que con temor y forçado lo hizo. Y porque qualquier cosa que nos prometiesse y jurasse, lo mismo haría con nosotros que con él, quanto más que dando nosotros la causa a que el Emperador nos ganasse esta ciudad, damos ocasión a que toda la Berbería se quexe de nós viendo su perdición, porque como el Emperador, que belicosíssimo es, gane la puerta teniendo como tiene cerca della algunas de sus tierras con guarniciones de gente de guerra española, como son en Cecilia, Cerdeña, Mallorca, Córcega y Nápoles, de cada día nos embiará con sus capitanes a conquistar. Por tanto en esto pensad muy sin passión y sin parcialidad, no teniendo otro respecto que al servicio de Alá y Mahomad y al bien de la república, y a que las cosas que honesta y buenamente se han de dessear han de ser vida para bivir, salud, gloria, paz y fin de buenos desseos, porque con esto hallaréis el descanso y la quietud y reposo. Y teniendo este bueno y sancto zelo, bien creo que no sólo no permitiréis que un tal como Dragut entre tanto bueno y virtuoso como en esta ciudad ay se admita, pero lo espeleréis y alançaréis de vos, para ser loados de sabios y virtuosos, y quedar sin enemigos y en gracia de los de nuestra sancta ley, porque muy gran vergüença y empacho oy día han de tener los honbres virtuosos de tener amistad y tratar y conversar con los malos y viciosos, especial quando se tienen por incorregibles y dellos no se espera emienda como de Dragut; porque la verdadera amistad no puede entrar sino entre los buenos, y ha de ser libre, inclinada y pronta a toda felicidad o infelicidad; y ésta no la podemos con él tener, porque faltándole la virtud, aunque la tuviéramos la devíamos desligar por quedar libres dél. Por tanto lo que he dicho es mi parecer, y por tal lo declaro y afirmo mayormente pues él no quiere ni trahe ningún hombre de virtud en su compañía, y assí no

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haréis ningún error y seréis ayudados y socorridos de Alá y Mahomad, que vuestros spíritus alumbrarán y guiarán a su sancto servicio». Y dicho esto dio fin a su plática. Como por todos Hajá Hamet fue oído, y tenían gran concebto assí de su saber como de su bondad, y le tenían en estima de que conocía mucho en las estrellas, y en muchas cosas que avía dicho avía salido verdadero, movió las voluntades y coraçones de los africanos; y dándole entero crédito, los que buena voluntad a Dragut tenían se entiviaron y le fueron contrarios y lo contradixeron. Y siendo de su opinión los del común, por mucho que Brambarac con engañosas, fraudalosas y cautelosas palabras encubiertas con dulçuras hermosas y muy apazibles, como malo y falso, renzilloso rebolvedor y sembrador de discordias y enemistades, quiso atraer la ciudad a que lo admitiessen, contradiziendo el dicho de Hajá Hamet no fue parte para ello; antes allí se determinó en que por ninguna vía en ella quedasse ni le rescibiessen, antes se le embiasse a dezir con quatro principales ciudadanos, que allí eligieron, que la ciudad holgara rescivirle en ella, mas que por algunas justas causas que se le ofrecían no lo podían hazer, y por ello le rogavan los perdonasse y se servisse della en otras cosas que menester le hiziesse, que en ella hallaría toda voluntad y muy buenas obras. Y assí los elegidos fueron a él y se lo dixeron. El qual lo sintió mucho que rescivir no le quisiessen; pero dissimulando para que no se lo conosciessen, les respondió que, pues aquello era voluntad de la ciudad, fuesse mucho de norabuena, que no por aquello dexaría él de la servir en todo lo que pudiesse, como hasta allí avía hecho, y les agradescía el ofrecimiento que le hazían. Y despidió con buenas palabras los ciudadanos y se comunicó con Barbarroxa, el qual le dixo lo que en el ayuntamiento avía passado y la contrariedad que avía tenido, y que pues la ciudad lo avía tan mal mirado para con él, holgaría se apoderase della por fuerça. Y prometiéndole Dragut gratificárselo bien si hazer se pudiesse, el Brambarac, que mal moro engañoso, falso y traidor era, por hazer mal a aquellos que por enemigos tenía, quiso hazer mal y daño grande a sí y a todo su linage y naturaleza, como si enemigo le fuera. Y desseoso de gozar lo que Dragut le prometía le dixo: «Señor, despedios de la ciudad y embarcaos, y llevá el viage de los Izfaquez, y yo me iré secretamente con vos y os daré orden cómo havréis la ciudad». Y aunque paresciéndole a Dragut impossible poderla ganar por fuerça, por su gran fortaleza y porque cada noche la belavan, dixo que era muy

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contento y embió a mandar al patrón de su galera le resciviesse en ella, y con gran secreto fue una mañana y se embarcó; y Dragut se despidió de los governadores y ciudadanos mostrando regozijo en el rostro, y con descontento dellos salió de la ciudad con los suyos, y embarcado mandó alçar belas y començó a navegar el viage de los Izfaquez.

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CAPÍTOLO V Cómo Dragut tuvo consejo cómo se apoderar en la ciudad de África y la diligencia que para ser señor della hizo, y cómo fue jurado por señor, y lo que en ella mandó hazer para fortificarla.

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Navegando Dragut, a Brambarac que en su galera llebava le dixo: «Amigo mío, pues me dixistes daríades orden cómo yo pudiesse aver a África por mía, mucho os ruego me digáis cómo lo tenéis pensado para que haya efecto». «Señor –dixo Brambarac– mi parecer es sigáis este viage que lleváis hasta los Izfaquez, y de aquí a tres días bolváis la vía de la ciudad y lleguéis de noche a ella, que yo os mostraré troneras por la parte de la mar por do entréis; y como el tercero día, que digo bolváis, cabe la guardia a los de mi linage y parcialidad, y por la parte do yo os mostraré seguramente podréis entrar sin rescivir ningún daño. Y yo entraré delante de vos para ser conoscido, y con vuestros turchos y su favor muy fácil os será ganarla». Paresciéndole bien a Dragut, le dixo: «Si assí sucede como dezís, seréis de mí bien gratificado. Y ninguna dubda os quede sino que siempre os terné mucho miramiento y daré todo favor, demás de lo que de presente os daré». Y aviéndole hecho este ofrecimiento, llegando junto a los Izfaquez le mandó passar a una galeota y amainar y echar ánchoras a su armada y juntar a Hesarráiz, al Çopo y Caramamí, y otros capitanes y turchos, y les dixo: «Conoscido, amigos y hermanos míos, tenéis que nuestro continuo exercicio es hazer mal y daño en los christianos, capitales enemigos nuestros, assí por acrecentar nuestra sancta fee como por onrar nuestras personas y aumentar nuestras haziendas. Y esto no lo podemos sin grandes trabajos y muchos y muy crescidos peligros hazer, porque nuestra conquista es en tierras del más poderoso príncipe de los christianos que es el Emperador de los Romanos, a quien no sólo nosotros tememos pero aun el gran Turcho, siendo tan poderoso príncipe que ninguno le iguala, le teme: no por la grandeza de su imperio, largueza de sus reinos, poder de sus muchos señoríos, riqueza de sus muchos thesoros, pero témelo por ser de suyo muy animoso y belicoso, y rey de las Españas que es oy la gente de más esfuerço y destreza de armas y de más valor, y que a todas naciones sojuzga, y con ella podría aver subietado el mundo y ser monarca dél, si no huviera sido tan

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piadoso. Y témenlo todos los reys africanos moros por las grandes cosas que como valeroso capitán con sus spañoles ha hecho, acompañándole y dándole continuo favor la fortuna que paresce tiene hecho pacto con él de siempre le ser felicíssimo en todas sus cosas, porque en las guerras por él hechas alcança las victorias, y en las que sus capitanes por su mandado emprenden vençen y triumphan de sus enemigos. Y por esto devemos le temer, y a su gran Capitán y Almirante de la mar el príncipe Andrea Doria, cuyo prisionero yo fui, que tan temido y nombrado es assí por el valor de su persona como por el mucho poder que consigo trahe, porque ninguna vez sale a correr la mar que no lleve consigo treinta o quarenta galeras de españoles e italianos y con mucha artillería, del qual nos combiene sienpre huir para no nos perder. Y por lo mucho que nos persigue conviene tengamos una guarida muy fuerte y segura donde nos valgamos y estemos seguros dellos, y ésta ninguna podemos aver assí como África, la qual yo he procurado ganar por amor, teniendo por cosa impossible ganarla por fuerça. Y pues este amor y voluntad para nos admitir en ella le ha faltado, convenir nos ha la ganemos por fuerça y maña de qualquier manera que podamos, y para ello tenemos el juego hecho como a muy poca costa y con menos trabajo la alcancemos, y será assí que, como sabéis, yo tengo comigo el moro africano Brambarac, uno de los cinco governadores della, que mi amigo es. El qual me ha certificado mostrarme por do podamos entrarla por la parte de la mar por algunas troneras. Pensad lo que sobre este negocio os parece devemos hazer». Oído por Hesarráhiz y los demás començaron a tratar del negocio, considerando los inconvenientes que se les podría seguir sobre ello; y pensando quánto les importava tomar la ciudad, acordaron en que se aventurasse lo possible sobre averla, y que para asegurarla bolviessen el viage della y passassen a medio día por donde de los ciudadanos pudiessen ser vistos, y se alexassen tanto que de vista los perdiessen, porque pensando iva delante se assegurarían, y que bolviessen la noche del mismo día a la parte donde Branbarac dezía y procurassen averla. Pareciéndole bien a Dragut lo aprovó, y mandó bolver el viage de África a vista de la ciudad, y passó desviado della de manera que pudo ser visto y conoscido, y navegó hasta que de vista la ciudad le perdió; y como fue la noche que obscura hazía, dio la buelta a la ciudad y llegó una hora antes del alva a la parte que Brambarac dixo, y sin hazer ningún rumor ni ser sentidos de las guardas y velas de la ciudad saltó en un pequeño batel con Brambarac y Hesarráhiz, armados de sus coraças y con sus celadas en las cabeças y sus

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alfanges en las manos, y yendo Brambarac por guía fueron para las troneras que les avía dicho. Y llegando a ellas reconoscieron avía unas a medio estado de hombre, y otras más altas de estado, y otras de menos, y que por unas cabía un hombre y por otras dos. Y paresciéndole se podía complir su desseo bolvieron a la mar, y mandó llegar los navíos a la lengua del agua las proas en tierras, y desembarcar quinientos turchos con sus escalas, para que con gran brevedad entrassen la ciudad por muchas partes. Y juntando a las troneras mandó entrar delante a Brambarac que hablasse los moros de su parcialidad que por allí hazían la ronda, para que no se alterassen ni les hiziessen resistencia. El qual entró, y assí Hesarráhiz por una tronera; y como fue conoscido por quién era, fue bien rescibido dellos, porque antes que de África partiesse los avía dexado avisados de lo que iva a hazer, y de consentimiento dellos era Dragut fuesse señor de África; y como se hablaron dixeron que entrassen turchos con toda brebedad, porque el alva venía y no fuessen sentidos de las otras guardas que la ciudad belavan y con resistencia lo defendiessen. Oído esto por Hesarráiz bolvió a havisar dello a Dragut, el qual con mucha alegría fue y entró por la mesma tronera, y por ella y por algunas de las otras entraron pocos a pocos cinqüenta o más turchos, y los otros anduvieron la ciudad al rededor y subieron por las escalas al muro y se apoderaron dél y de algunos torreones. Y como Dragut fue dentro con sus turchos apoderado como avemos dicho, mandó tocar sus tronpetas, clarines y gaitas y començó a ir a la casa del ataraçanal donde se pensava hazer fuerte. Y como los clarines, tronpetas y gaitas se oyeron con estruendo de armas, porque también se jugó alguna artillería de las galeras, las guardas que la ciudad velavan contrarios de la parcialidad de Brambarac reconoscieron los enemigos, y a grandes bozes començaron a dezir: «¡Armá, armá! ¡Traición, traición!», y disparar escopetas y saetas en Dragut y sus turchos, y ellos en ellos, y començaron a pelear unos con otros y caer muertos y heridos de ambas partes, ayudando a Dragut el mesmo Brambarac con los de su parcialidad. Como en la ciudad se oyó la grita y trápala y son de trompetas, los governadores y ciudadanos se lebantaron a mucha prisa y armaron y ocurrieron do era el rebato y andava la pelea, y se juntaron con la guarda y pelearon favoresciéndose unos a otros. Mas como los torreones y muros les avían ganado, hallándose perdidos se començaron a retirar a la mezquita mayor, y a la hora que el alva fue bien clara Dragut, a pesar de los que estorvárselo querían, con los turchos entró la ciudad maltratando los que le

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hazían defensa y metiendo a saco todo lo que en las casas hallavan. Y como la ciudad estava muy desproveída de defensas y ocupada de contiendas, los principales dieron a huir temiéndole, descolgándose por los muros y otras partes por do podían; y con el favor que Dragut tuvo de los traidores la ciudad se rindió, suplicándole con grandes llantos dueñas y donzellas cessasse su ira, mitigasse su enojo y placasse su furia. El qual aviéndolas conpassión mandó retirar los suyos y que ninguno peleasse ni saqueasse más, a pena de la vida, y retraer todos los moros a la mezquita mayor, dexando primero las armas y a Hesarráiz con dozientos turchos tuviesse buena guarda en los torreones del castillo y del rebellín y puertas de la ciudad. Y con dozientos turchos a la hora de las ocho de la mañana fue para la mezquita do los moros ciudadanos estavan recogidos, y entró entre ellos y les dixo: «Ninguna dubda, africanos amigos, tengo maravillados estéis de la nueva alteración en esta ciudad suscedida, de la qual y de los daños en vosotros rescibidos principalmente sois los culpados, pues rogándoos piadosa y amorosamente (lo que os convenía) que me quisiéssedes rescibir en esta ciudad, menospreciándome lo rehusaste como si yo fuera algún robador o malhechor. Por lo qual, aunque deviera tomar entera vengança por la injuria que en ello me hizistes, tengo por bien perdonárosla; y no sólo hazer este general perdón pero mandaros bolver todo lo que os ha sido saqueado por mis soldados como a mis fieles amigos, con tanto que juréis de oy más obedescerme y me ser muy obedientes como a verdadero señor; y a mis governadores y personas que yo señalaré en mi lugar, sin que contra ellos mováis ninguna manera de rebelión. Y haziendo assí no sólo me obligaréis a que os ame y quiera como a mí propio, pero demás terné muy especial cuidado de proveer, honrar, aumentar y fortificar esta noble ciudad de tal manera que ningún príncipe, por poderoso y de gran potencia que sea, pueda enojaros ni ofenderos, y que biváis muy alegres y contentos de averme conoscido. Assí que ¡determinaos en hazer lo que digo!, que yo mandaré proveer en cómo todos seáis restituidos y desagraviados, y de mí muy contentos y satisfechos». Como Dragut por los africanos fue oído le pidieron media ora de término para tomar su acuerdo, y siéndoles por él concedida rogaron a un moro llamado Hamor Judey les dixesse su parescer. El qual muy dolorosamente de ver en el estado que la ciudad veía les dixo: «Según en lo que agora, hermanos míos, nos vemos, ¿qué consejo puedo yo dar que provechoso no sea? Mas pues la fortuna ha querido tratarnos de

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tal manera que los nuestros naturales africanos nos ayan venido y metídonos sota el poder de nuestro capital enemigo, forçado es la obedezcamos y roguemos no nos ponga en otro mayor trabajo, que harta merced Alá nos hará si aquí han fin. De mi parescer, pues me le pedís, es nos conformemos con el tiempo en que nos vemos, y que, considerando que en las manos de Dragut está quitarnos las vidas y haziendas, pues no podemos hazer lo que queremos, que hagamos lo que él quiere y que le tomemos por señor nuestro, aunque contra nuestra voluntad sea, y le obedezcamos como en todo nos manda por evitar mayores daños, pues más paresce juizio de Alá que fuerça ni maña de honbres humanos avernos tomado nuestra ciudad, aunque con traición aya sido; y cierto creo que Alá y Mahomad están de nós ofendidos por no los aver reverenciado, servido y honrado como devemos, pues tal han permitido. Y si lo queréis muy claro ver, mirad quán profundos son sus juizios, con quánta clemencia nos han sufrido, con quánta vondad nos han llamado, con quánta paciencia nos han esperado a que seamos buenos; y viendo nuestra obstinación, y que avemos contra nosotros provocado el rigor de su justicia, nos han embiado este Dragut para que nos domeñe y baxe nuestra sobervia, porque sepamos no avemos de ser señores de nosotros, pues por mucho que procuramos de nos desviarle le tenemos tan junto y con tanto daño nuestro quanto véis. Y pues esto es assí, yo no sabría deziros más de lo dicho si no que sea obedescido». Como por todos Hamor Judey fue oído, considerando bien lo que dixo y vista la razón que para ello tenía, acebtaron en que lo que dezía se hiziesse, y assí lo dieron por respuesta a Dragut; y luego sobre su Alcorán le juraron por señor y de serle fieles y muy obedientes vassallos, y pagarle libremente sus tributos, pechos y derechos, y le besaron la mano y él les juró sus fueros, usos, costunbres y leyes, y de no ponerles ningunas nuevas impusiciones. Y hecho salió de la mezquita y mandó tocar sus tronpetas, atanbores y gaitas, y publicar por vando general que qualquiera que uviesse saqueado algún oro, plata, joyas, dineros o ropas de los ciudadanos lo restituyesse luego a pena de la vida, y sepultar con mucha honra los principales muertos y curar de los heridos, por los quales en la ciudad se hizo mucho llanto y sentimiento. Oído el vando por los turchos, restituyeron la ropa y ascondieron los dineros y joyas y cosas de valor negando averlo avido. Y fin de cinco días que la ciudad se pacificó, Dragut la anduvo y passeó muy de espacio, aconpañado de Hesarráiz y de otros turchos. La qual miró mucho más que hasta allí, y vio que estava sitiada y fundada sobre una roca, aunque no alta,

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estrecha y larga dentro de la mar, que en gran manera la fortificava y que en la cerca avía de treinta en treinta passos un fuerte torreón, y que la cintura de la tierra era el ancho de mar a mar. El qual mandó compasar y halló que tenía dozientos y sesenta passos desde do començava a entrar hasta el fin de la tierra, todos cercados de un muro alto y en él seis gruesos torreones, los quatro quadrados y los dos redondos en igual grado altos, partes de los quales los africanos llamavan “castillo”, porque antiguamente solian ser casa real de los reyes de África, y vio en el segundo torreón quadrado, que estava a la vanda del Lebante, la puerta principal donde de aquella ivan a otras seis puertas sobre las quales estava fundada una bóbeda y edificios altos y muy fuertes al qual llamavan “torre del omenaje”. Las quales puertas van de una a otra haziendo bueltas hasta la puerta más cercana a la última, que dizen la “puerta de Orlando”, la qual es grande y ancha, y de allí a la postrera por un callejón de bóveda de sesenta passos que da en la última puerta que sale a la calle principal de la ciudad. Y ay de la primera puerta a la barbacana siete passos, y a la segunda dentro del rebellín quatro; y más delante la tercera, entrando en el torreón, tres, y de aquella a la puerta que llamavan “falsa” dos; y de la falsa a la quinta cinco; y de la quinta a la sesta, que es la de Orlando, dos; y desde allí van por el callejón dicho a la última y a la barbacana, que ancha y fuerte es, aunque no tan alta como el muro principal que llaman rebellín. La qual tiene un andén por de dentro, por do se puede andar, y nueve torreones de estremo a estremo conpassados por tal forma que, donde viene a ser el muro del lienço principal, entre un torreón y otro está opuesto un torreón del rebellín, por manera que en cada dos torreones del muro vienen tres del rebellín libres los unos de los otros, que ninguno a otro haze ningún impedimento. Y para salir por el rebellín al campo tiene la puerta en el Torreón, la boca de la qual sale a la vanda del Lebante; y por esta sola puerta podían entrar y salir de África por no aver otra ninguna, porque todas se mandavan por aquélla, y todas las puertas bien guarnescidas de hierro a maravilla mucho fuertes; y mandó conpassar todo el contorno della en el qual se halló cinco mil y trezientos y quarenta passos, y assí vio a la vanda del Lebante el ataraçanal, y lexos dél la mezquita mayor bien adornada; y en el estremo de la tierra que cae dentro del mar una montañeta que sojuzgava la ciudad, y también que, aunque no avía puerto en la mar, tenía buena playa que, echadas, áncoras aferravan, y que a manera de puerto para seguridad de los navíos tenía una cadena de hierro con una piedra grande, con que se cercava parte della cayendo la piedra. Y aviéndolo todo muy a su plazer

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passeado, y visto cada cosa por sí, maravillado por su gran fortaleza, con grande alegría y regozijo de verse en la possessión de tan rica y stimada joya estuvo gran rato contemplándola y mirándola desde lo alto de la montañeta: la hermosura de torres que la cercavan, la lindeza de torreones que la adornavan, la grandeza y forteza de muros que la fortificavan, el agua de la mar que en ella batía, aquella magestad y grandeza en que se veía con señorearla, paresciéndole que todos los príncipes del mundo, juntos con gruessos exércitos sobre ella, no se la podrían ganar. Y como tanto contento y alegre se vio, baxando los ojos en tierra con una manera de jatancia y vanagloria, atribuyendo más a sí y a sus mañas el averse enseñoreado en ella que al favor de su Mahomad, començó a dezir: «Gloria a ti, alto y muy poderoso Alá, por tantos bienes y mercedes como de cada día me hazes, y a ti, bienaventurado sancto propheta Mahomad, por el cuidado que de rogar por mí tienes. En reconoscimiento desta gran merced a tu intercessión rescibida, prometo de honrar mucho esta tu sancta mezquita; y pues casa me diste donde seguro de mis enemigos pueda morar, sin temor que della me echen, desde aquí prometo como fiel vassallo y servidor tuyo hazer tantos y tan rezios males en tus enemigos y desservidores, que en toda la christianidad sea tan nombrado y temido que, doquiera que mi nombre oyan, tiemblen y treman de mí». Y assí estuvo por gran rato el tirano, que a ninguno habló haziendo esta promessa. Y hecha, bolvió a mirar la ciudad loándosela mucho Hesarráiz y Caidali, el Çopo y Caramamí, y otros sus privados turchos, diziéndole que quien tal ciudad como África señoreava, en breve se podía hazer rey y señor de la provincia. Lo qual él holgava mucho oír, y dello se ufanava pensándolo ver. Y acabando de ver la ciudad, y que vio tenía mil y quinientos vezinos y para otros tantos sitios despoblados, quedó con intención de poblarla de turchos por más al seguro señorearla; y como hombre sagaz, plático y sabio en guerra y fortificaciones de pueblos, paresciéndole que haziendo en la montañeta un castillo era señor libre de la ciudad, sin que en ningún tiempo los africanos se osassen contra él revelar, ni enemigos que se la fuessen a conquistar le podrían despojar della con armada por mar ni exército por tierra, antes que de allí se partiesse le dexó designado y la orden y forma que avía de tener, y quántos torreones y torres avía de llebar para que, aunque por alguna vía la sitiassen y cercassen poniéndole el cerco en una montañuela allí vezina, que estava seiscientos passos de la ciudad y dozientos y sessenta de lo alto della hasta el llano, y dozientos y quarenta de la punta del llano al

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muro de la ciudad, no pudiessen danificarla. Y mandó que desde otro día se començassen a havrir los cimientos para que con toda diligencia se hiziesse, y señaló por maestro de la nueva obra un veedor de su armada llamado Mahemet, a quien por ábil para semejante cargo tenía. Y dada la orden baxó de la montañeta muy contento a su casa, que “palacio” mandó llamar, y estuvo en la ciudad algunos días, en los quales comunicó los más principales moros, procurando atraerlos a su amor con buenas y halagueras palabras por ganarles las voluntades, las quales tenía malas de aver, porque no stava en su gracia, antes por el daño que en ellos avía hecho le tenían grande enemistad, aunque mostrar no se la osavan por no ser poderosos para ello. Como comunicado los uvo, prometiéndoles bolvería presto a visitarlos y dado a Brambarac, que en la ciudad le metió, muchas dádibas y hecho largas promessas para que, por averle hecho del todo señor della pensasse le quería mucho, en público mandó a Hesarráiz tuviesse mucho miramiento en que él y sus cosas fuessen muy bien tratados y mirados. De que él quedó muy contento y de toda la ciudad en general muy mal quisto, ecebto de los traidores que con él fueron, que de buena gana le apedrearan si no temieran rescibir castigo por ello. Pues como ya Dragut en África se vio apoderado, paresciéndole que los naturales della de grado o por fuerça le avían de tener, obedecer y servir por señor, a su sobrino Hesarráiz constituyó y ordenó por alcaide y governador de la ciudad, mandándole que con dozientos y cinqüenta turchos quedasse en la guarda della; y amonestole que hiziesse buen tratamiento a los moros porque le quisiessen y amassen, y porque no dixessen ni se quexassen començava a señorearlos y mandarlos con rigor. E con secreto le mandó que a Brambarac, que la ciudad le avía vendido, porque otra vez no la tornasse a vender, por qualquier leve delicto que cometiesse le mandasse dar rezio y grave castigo, el qual no fuesse menor que quitarle la vida, porque aunque de su traición estava contento por averle redundado en tanto provecho, no estava pagado ni satisfecho dél, temiendo que quien su propia tierra y naturales avía vendido, toda otra qualquier maldad y alebosía sin temor ni verguença cometería. Y con Hesarráiz mandó quedar otro su capitán llamado Mayhenet, porque sabía si en la ciudad alguna rebolución o alteración suscediesse, o contra ella fuessen enemigos, por ser muy valiente le sabría bien servir, y que Mahemet su veedor, a quien avía señalado por maestro de las obras del castillo que en la montañeta mandava hazer, recogiesse las rentas de la ciudad y pagasse los

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turchos que dexava de guarnición, y que uno de sus clarines quedasse en ella y sacassen de sus galeras una media culebrina y otras pieças de artillería de bronze, que acompañassen y reforçassen seis cañones de bronze turchescos, y un sacre y dos culebrinas, y otras muchas lombardas de hierro grandes y pequeñas, que estavan en la ciudad, y munición de pólvora, mecha y cuerda y armas como fueron archos, flechas, lanças y scopetas, para que la ciudad quedasse muy bien proveída y mucho más fuerte y guardada. Y proveyó de artilleros y de lo que más conveniente le pareció; y esto proveído, mandó a Hesarráiz que con gran cuidado todas las noches hiziesse hazer vela a la ciudad y guardasse los torreones, rebellín y puerta principal della, y de día estuviesse muy recatado y avisado. Y por llebar mayor seguridad de que los africanos no se le revelassen, mandó embarcar en su armada veinte y cinco de los principales y de sus hijos, y hizo plática a los demás diziendo cómo les dexava por su governador y alcaide a Hesarráiz, al qual le mandava obedeciessen y acatassen como a su propia persona. Y esto dicho se despidió dellos y de todos sus turchos, y dexando mandado a Mahamet con gran diligencia procurasse se hiziesse el castillo, se embarcó.

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CAPÍTULO VI Cómo Dragut bolvió a correr la mar y lo que en Polença, villa del reino de Mallorca, le sucedió.

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Embarcado, Dragut mandó alçar velas y llebó el viaje del reino de Cecilia con pensamiento de complir lo a Mahomad prometido, haziendo todo el mal y daño en christianos a él possible; y con buen tiempo y viento que a su propósito tuvo la entró, tentando hazer daño en los lugares della. Mas como los halló muy apercebidos, avisados y guardados con gente de guerra que el visorrey Juan de Vega avía puesto en ellos para guardarlos, sin hazer daño ninguno passó a la isla de Mallorca, y una noche al medio della llegó media milla de una villa de mil vezinos llamada Polença, quatro millas de la ciudad de Alcúdia y en contorno de otros lugares do avía gente armada que podía bien pelear; y echó en tierra dos capitanes con quinientos turchos, y les mandó la entrassen y captivassen todos los que pudiessen aver, y la saqueassen y robassen y pusiessen fuego. Los quales con fin de hazer lo que les mandó fueron para la villa, y como don Juan Marraxa, visorrey del reino, estava avisado de que Dragut estava dentro de la isla, avía juntado la gente de las guardas y algunos de cavallo y otros de arcabuzeros, y andava sin sossegar día y noche donde las guardas le avisavan los navíos ivan, por estorvarle el daño que pensava hazer. Y llegó cerca de Polença a tiempo que Dragut echava los capitanes y turchos en tierra, y, sabiendo de las guardas que huyendo ivan cómo eran desembracados, mandó avisar el lugar, y como cerca de los capitanes turchos llegaron les salió al encuentro y començose una brava escaramuça disparándose arcabuzería y scopetería y flechas por ambas partes con gran furia; de que començaron a caer algunos muertos y otros muy mal heridos, y a la grita y bozes que andava salieron muchos de Polença bien armados en socorro del visorrey, y dieron tal mano a los turchos que, por bien que peleavan, les hizieron mucho daño. Y sintiendo Dragut el disparar de los arcabuzes y escopetas conosció que gran resistencia los turchos avían hallado; y para que con menos peligro pudiessen efectuar a lo que ivan, no pensando que el visorrey por allí viniesse a hazer la resistencia, echó otro capitán en tierra con otros cien turchos, mandándole fuesse a forçarlos de más y ayudar a hazer la presa. Los quales fueron camino de Polença, y a buen poco trecho toparon los turchos que a más andar se venían retirando a la mar, cayendo muertos y mal heridos en tierra. Y dándoles socorro el capitán con los cient

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turchos que a socorrerlos íva, les aprovechó mucho y ayudó para que con menos daño se pudiessen retirar, porque todos juntos descargaron en los christianos de que en ellos hizieron harto daño de aquella rociada. Mas a esta coyuntura llegó más gente de la ciudad de Alcúdia y de otros lugares en favor del visorrey, y apretáronlos tanto que por fuerça les convino retirarse a los navíos por la mucha prisa que el visorrey con la cavallería y gente de las guardas y del lugar socorro y peones que traía les dava. Y como Dragut vio sus turchos que recibían daño con la noche que clara hazía, mandó juntar los navíos muy junto a la lengua del agua y echar los esquifes y barcas para recojerlos y embarcarlos muy presto. Y llegando, peleando unos por anticiparse a embarcar antes que otros, se ahogaron algunos; y como la prisa era mucha y junto al agua, el visorrey con los suyos los lanceava y matava, y hazía en ellos gran estrago; y ayudando a los turchos los otros que en los navíos stavan, fin de gran rato que gran daño padecieron se embarcaron quedando algunos mal heridos que fueron captibos por no poderse embarcar; y con gran dolor de lo mal que le avía suscedido, Dragut mandó alçar velas y començó a navegar, hallando menos cinqüenta turchos que quedavan muertos y captibos, y llevando mal heridos sessenta. Y el visorrey con la gente de las guardas y cavallería bolvió a Polença, donde halló muchos llantos de mugeres, unas llorando a sus maridos, otras sus padres y hermanos, pensando que muertos fuessen, que con su llegada todas se pacificaron. Y como fue el día halló menos quinze hombres de los que avía llevado, y algunos del lugar y muchos muy mal heridos, a los quales mandó curar y a los muertos dar sepoltura; y estuvo allí algunos días mandando seguir la costa de la mar a las guardas, para tener aviso si Dragut en otro lugar quisiesse hazer daño irlo a resistir; pero él fue tan mal tratado que no lo tentó, y mandó echar sus suertes, y respondiole Falande fuesse a la costa de Valencia, que allí sería aprovechado; y curados los heridos mandó a sus marineros endereçar para ella el viaje y començó a navegar. Pues como el visorrey de Mallorca tuvo nueba Dragut era fuera de la isla, mandando que las guardas de la costa tuviessen buena guarda y como dél supiessen le avisassen, partió de Polença a la ciudad de Mallorca, que estava de allí nueve leguas, a do residía con el consejo del reino, del qual y de todos los mallorquines fue muy bien recebido y en mucho más estimado, sabiendo el mal y daño grande que en Dragut y los suyos avía hecho, paresciéndoles le pornía algún temor a que no los persiguiesse y fatigasse tanto como lo continuava muy ordinariamente hazer de que avían rescebido muchos daños.

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CAPÍTULO VII Cómo el príncipe Andrea Doria partió de Génova a Nápoles para ir en busca de Dragut y lo que sobre ello hizo.

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De como Dragut se apoderó en la ciudad de África y con que fin, y lo que en Mallorca le avía sucedido, el príncipe Andrea Doria tuvo noticia, y con grandíssimo desseo de remediar el daño que a la christianidad avía hecho por averle puesto en libertad, embió a pedir a don Hernando de Gonzaga, governador de Milán, quatro vanderas de españoles. El qual se las enbió con Hernán Lobo, Maestro de Campo que dellas era, que estavan alojadas en el marquesado de Malespina; y embarcadas en sus galeras se embarcó y començó a navegar la vía de Nápoles, y en el camino recogió a Juan Jordán Ursino con las tres galeras del duque de Florencia, porque el duque le mandó se juntasse con él y fuesse a servir en aquella jornada al Emperador. Y teniendo desto noticia nuestro muy Sancto Padre el Papa Julio Tercio, que avía muy poco que la corona avía recebido por fin del Papa Paulo nuestro muy Sancto Pontífice, y constándole de los grandes daños que Dragut avía hecho y hazía en los christianos, y quánto poderoso de navíos andava y los daños que podía hazer, y que la intención del Emperador era por todas las vías y formas a él possibles fuesse preso o muerto y deshecha su armada, para que con mayor fuerça fuesse, mandó a Juan Carlo Esforcia prior de Lombardía, nieto del Papa Paulo, que como Capitán general de las tres galeras de la Sancta Iglesia Romana servía, con ellas fuesse con él y en todo le obedesciesse como a Capitán general y Almirante de la mar del Emperador. El qual cunpliendo su mandado se juntó con ellas al armada y juntas navegaron, y llegando en el Puerto de Nápoles el príncipe mandó hazer salba de su capitana galera, y de la mesma manera fue rescebido de los castillos de Castilnovo, Sanct Elmo, Castil del Obo y galeras que estavan en el puerto; y diziendo al visorrey la voluntad que de ir en busca de Dragut llebava, y la gente que para tal efecto avía menester, mandó a los capitanes don Bernaldino de Córdova y Melchior Çumarraga se embarcassen con sus compañías, y algunos sargentos y cabo desquadras con ellas, ecebto de la del capitán Balcáçar. Y porque Andrea Doria no quiso quedar en el palatio se partió a Puçol, y embarcados los soldados y don García de Toledo y el marqués Anthonio Doria, domingo a los diez de mayo, a prima noche el príncipe mandó soltar una pieça de artillería y tocar sus trompetas y clarines,

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y llebando quarenta galeras començó a navegar la vía de Puçol, yendo en su seguimiento todos los cavalleros y capitanes ya dichos con muy buena orden con sus galeras. Y assí fueron hasta llegar a la ciudad de Puçol a la hora del alba, donde se desembarcaron y fueron a visitar al visorrey. Y hecha la visita se tornaron a embarcar, y continuaron la navegación hasta Iscla, diez y ocho millas de Nápoles, donde estuvieron aquella noche; y otro día, lunes por la mañana, tornaron a navegar y passaron el faro de Mecina, y fueron a la isla de Rústica donde hizieron leña, y de allí fueron la buelta de Sancto Victo, donde estuvieron una noche, y de allí partieron día de la Assumpción a Palermo; y llegando cerca don Berenguel Dolmos y fray Claudio de Sangl, gran Hospitaler, Capitán general de las quatro galeras de la Religión, soltando una pieça de artillería de la capitana del príncipe mandaron hazer salba de sus galeras, y del castillo de Palermo se hizo lo mesmo; y llegando a la ciudad el príncipe mandó que dos galeras fuessen a tomar vizcocho para proveer el armada, y don Berenguel con sus galeras por dos vanderas de infantería spañola que el visorrey le mandava llevar en ellas, las quales estavan en guarda de las tierras de las marinas, y él passó doze millas a delante de Palermo, al cabo mesmo de donde avía salido el día de la Assumpción de mañana; y otro día tornó a passar por Sancto Victo y fue a Trápana, y estuvo allí aquella tarde, y poniéndose el sol navegó la vía de la Faviana, que es una isla despoblada, y a la hora que el sol salía fue en ella. Y por aguardar allí a don Berenguel, que avía ido por la gente de las marinas, mandó echar áncoras y hazer leña y proveer de agua las galeras; y saltaron en tierra muchos cavalleros y soldados, y anduvieron a caça de conejos, que por ser muchos se caçavan la mayor parte a manos, y fin de dos días que allí estuvo llegó don Berenguel con las galeras en que ivan Hernando de Vega, hijo mayor del visorrey de Cecilia, y don Álvaro de Vega, su hermano y Maestro de Canpo del tercio de la infantería spañola de aquel reino, con las dos vanderas y las dos galeras con el vizcocho, y junta toda el armada fueron cinqüenta y tres galeras; a toda la qual juntamente mandó alçar velas y navegar para la isla de la Faviana, y siendo en ella mandó dar fondo a las galeras, y el armada surta hizo juntar en su galera a don García de Toledo y a don Hernando de Vega y don Álvaro de Vega y al prior de Lombardía y al gran Hospitaler y a Juan Jordán Ursino y a don Berenguel Dolmos y al marqués Anthonio Doria y a Phelipín Doria, conde de La Escovara, y al General de las galeras de Mónaco y a Marcho Centurión y al capitán Cigala y a los otros capitanes de galeras y a Hernán Lobo y a los capitanes de

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infantería del tercio de Nápoles, Melchior de Çumarraga y don Bernaldino de Córdova y a Bernal Soler, del tercio de Cecilia, y Amador de doña María, y Pagán y Moreruela del tercio de Malaspina, y otros capitanes, cavalleros y gentiles hombres, assí spañoles como romanos y florentines. Y siendo todos juntos les propuso diziendo assí: «La causa para que, cavalleros, somos todos juntos en esta armada es para estorvar que Dragut, turcho y gran cossario, enemigo y desservidor del nombre de Jesú Christo y del Emperador nuestro señor, que en los christianos ha hecho y haze grandíssimos males, y daños no passe adelante. Y para esto conviene y es muy nescessario hagamos el viaje de manera que con él nos topemos para romperle su armada y prender o matar su persona, porque trayéndolo a efecto haremos muy notable servicio a Dios y a Su Magestad, y demás conseguimos y ganamos grande honra y interessamos mucha riqueza. Pensad la vía que más acertada para esto llevaremos, y sobre ello me dad vuestro parecer». Oído por todos lo por el príncipe propuesto, començaron a tractar del negocio, y fin de rato que se comunicaron, el marqués Anthonio Doria le respondió: «Como yo, escelente señor, tenga entendida la voluntad de vuestra escelencia y el fin para lo que nos avemos juntado, y el universal bien que a los christianos redundaría de hazer tal efecto, paresciéndole a vuestra escelencia, me parece a mí el armada deve mandar ir el viaje de La Goleta para tomar allí lengua de Dragut, y, aviéndola, seguirle sin descansar». Oído lo dicho por el marqués, casi por todos o por la mayor parte fue aprovado su parecer, diziendo al príncipe ser de la mesma opinión. Mas como los juizios de Dios sean inconprehensíbiles, y todas las cosas se muevan por su mano y ninguna sin su voluntad, estando ya enojado y dessernido de las tiranías y iniquidades de Dragut, por començarle a castigar quiso mover los coraçones y intenciones del príncipe y de todos estos cavalleros a otro fin del que llebavan pensado. Y fue assí que aviendo oído don García todo lo que se avía platicado y no dado ningún parescer lo contradixo, y endereçando su plática al príncipe le habló diziendo: «Puesto, escelente señor, que el marqués y estos cavalleros ayan dicho su parecer y a mí no me parezca mal, vuestra escelencia deve considerar que Dragut es cossario y muy plático en su oficio, y que andándole siguiendo se nos irá como otras vezes ha hecho sin que podamos averle, y esto sería andar perdiendo el tiempo sin poder estorvar los daños que muy a menudo haze. Y

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que esto sea assí, muy claro tenemos dello noticia, pues se sabe donde anochece jamás amanece y haze sus saltos muy a su salbo y seguro. Y para más a su propósito hazerlos se ha mañosa y cautelosamente enseñoreado en la ciudad de África, siendo, como por cosa notoria se sabe es, en la Berbería una tan insigne, fuerte y poderosa ciudad; y de averse allí apoderado, bien podrá vuestra Escelencia y estos cavalleros pensar quál sea su intento; y porqué de los efectos que de su morada allí se pueden conseguir serán muy notorios los dexaré de dezir, mas de traerle a la memoria que será para hazer muy mayores daños teniendo la casa más cerca. Para remedio de todo esto es mi parescer se saqueen las villas de Monazter y Çuça, y assí los Izfaquez, que la proveen de algunos bastimentos; y estorvándole que de allí no le vayan la necessitaremos de hambre, y poniéndola en esta estrecha necessidad procúrese cercarla y tomarla; y siendo rendida mucho más serviremos a Dios y al Emperador nuestro señor que en seguir a Dragut. Y si esto con tiempo no se haze, para mí tengo por cierto dará grande fastidio como hasta aquí y muy mayor que lo ha hecho, y assí como lo ha dado Thúnez y Argel; y pues esto toca a todos en general y a cada uno en particular, assí para servir a Dios y al Emperador como para nosotros ganar honra a vuestra excelencia, suplico pesadamente este negocio se mire por lo muy mucho que conviene». Aviendo el príncipe y los demás oído el parescer de don García y tratado algún tanto dello, lo instaron y contradixeron casi todos, y especial y con mayor instancia el prior de Lombardía y el gran Hospitaler diziendo que no convenía tentar semejante cosa sino seguir el fin para que todos se avían juntado, y que aquél se llebasse adelante antes que andar a saquear tierras. Aviéndolo todo bien entendido, el príncipe se resumió en que llebassen el viaje de La Goleta y que allí se tornaría a tractar y determinaría, y mandó alçar áncoras y navegar la derecha vía; y començando a navegar le puso Dios estorvo para que no pudiesse seguir ni continuarla, por ser como era de ir por la mar en busca de Dragut, porque luego le sobrevino tan mal tiempo que, rompiendo remos y velas de algunas galeras, passaron el golfo del Hierro y fueron a Cabo Bono, donde estuvieron tanto que fueron necessitados de agua, y les convino ir a hazerla a La Calibia; y en ella llegados, para asegurar los marineros que le avían de hazer que no recibiessen daño de los alárabes y moros de la tierra, allí mandó desembarcar alguna quantidad de gente. Y como los de la villa, de temor del armada que avían descubierto, la avían desanparado y andavan por el campo, de algunos que andavan desmandados que sobre seguro se acercaron a los christianos, supieron cómo Dragut era

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salido de África y avía dexado en ella dozientos y cinqüenta turchos de guarda debaxo del govierno de Hesarráiz su sobrino, y que los turchos y moros estavan discordes y mal contentos los africanos, porque dellos rescibían algunas fuerças y malas obras. Y sabido por don García, tomó mayor ocasión de tornar a presentar al príncipe sobre el negocio platicado. Pues como el agua se cogía por los marineros y los alárabes de por aquella tierra, que, temiendo los christianos la querían entrar y hazer daño en ella, estavan con mucha quantidad de moros juntos con fin de que, si daño hazer quisiessen en los lugares de la comarca, resistirlo, como estavan ascondidos do no podían ser vistos, viendo hazer el agua, con un admirable presteza llegaron algunos de cavallo y lançearon y mataron dos marineros y dieron a huir; de que el príncipe uvo grandíssimo enojo, por lo qual mandó entrar la villa y saquearla y captibar los que en ella hallassen, y pegarle fuego. Y ordenando los capitanes los soldados en esquadrón, la entraron y dieron saco sin que hallassen quién se lo resistiesse ni ningún moro ni mora que captibar; y haziendo el daño que pudieron bolbieron con la ropa a las galeras, y hecho, el príncipe mandó salir marineros a coger agua para provisión de la gente. La qual alárabes y moros ocurrieron a defender, y sobre cogerla y defenderla se travó escaramuça que gran rato duró, fin de la qual murieron tres soldados y dos marineros, y huvo algunos heridos y muertos, y heridos otros alárabes y moros; y haziéndose ya noche y el agua cogida, los soldados y marineros se retiraron a las galeras, y los alárabes y moros al campo do tenían sus mugeres y hijos.

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CAPÍTULO VIII Cómo se travó escaramuça entre christianos y alárabes, y cómo el príncipe mandó ir a reconoscer a África y él mismo hizo la misma diligencia, y lo que sobre ello passó y del consejo que tuvo.

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Otro día de como lo que avemos dicho passó, el príncipe con el armada siguió el viaje de África hasta llegar a tiro de cañón della, y viendo por una montaña avaxo vaxar muchos alárabes a cavallo mandó desembarcar algunos capitanes y quantidad de soldados de todas las compañías, y que con él los travassen escaramuça, y como fueron en tierra y llegaron cerca unos de otros la començaron, disparándose por ambas partes arcabuzería y escopetería; y anduvo muy trabada y rebuelta gran rato de que se rescivió assí en unos como en otros daño, y fatigados los alárabes del que havían rescevido y de lo mucho más que rescevían, se retiraron y suvieron la montaña ariva, y siendo en ella estuvieron ya quanto juntos comunicándose, y como comunicado se huvieron, alçaron vandera de paz y, dando a entender querían hablar, los christianos vaxaron de la montaña el camino de la marina. Y visto por don García mandó salir a tierra a uno de los suyos ladino en la lengua de los alárabes, para que supiesse dellos lo que querían. El qual con otra vandereta en la mano por llevar seguridad fue para ellos y se lo preguntó. Los quales le dixeron que querían hablarle, y buelto con la respuesta a don García mandó bolver a ellos el intérprete y les dixesse fuessen para él dos alárabes; y siéndoles dicho señalaron entre todos los que irían, y aquellos fueron para la mar, y apeados de sus cavallos se embarcaron en una barca y fueron a la galera capitana de don García. Y después de le aver saludado, en su lengua y secta le dixeron que, si el Emperador tenía voluntad de ganar a África, nunca mejor tiempo avía tenido ni tal oportunidad jamás como estonces se le ofrecería, porque ellos, que capitales enemigos de Dragut, que en ella estava apoderado, eran, a fin de que le desheredasse y desarraigase de allí, le servirían con seis mil honbres de cavallo, porque mucho más holgarían que aquella antigua y excelente ciudad estuviesse por suya, aunque ajeno de su ley y condición fuesse, que verla señorear a un tan malo y perverso cossario, ladrón y tirano como Dragut. Oído por don García los mandó llevar al príncipe, para que se lo dixessen. Los quales, viéndose ante él le hizieron su acatamiento y dixeron lo mismo que a don García. El príncipe les dixo que, para que él les diesse crédito a

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que sería assí lo que le dezían, que a dos personas quales él señalasse llevassen algunos dellos a reconoscer a África, y, para que tuviesse seguridad se los bolverían libres como se los entregasse, le dexassen algún principal dellos por rehenes. Oído por los alárabes le respondieron que los principales alárabes serían dello contentos y que irían a se lo hazer saber, y le bolverían con las rehenes. Y assí se despidieron del y salieron a tierra, y a los otros alárabes dixeron lo que el príncipe les pedía. Los quales se determinaron en ello y embiaron doze alárabes para que, con los que el príncipe diesse, fuessen al reconoscimiento de África, y otro por principal, para que en rehenes quedasse. Y assí fueron hasta la lengua del agua donde el alárabe que por rehenes íva por otros fue entregado al príncipe, con juramento en su ley era de los principales y a quien mucho estimavan, y bolverían las personas que se les diesse a su poder. Y esto hecho, el príncipe mandó saltar en tierra los capitanes don Bernaldino de Córdova del tercio de Nápoles, y Amador de doña María del tercio de Malaspina, y los avisó de lo que passava y mandó ir con los alárabes y hazer el reconocimiento. Los quales se embarcaron en una fragata y salieron a tierra, y por los alárabes fueron vestidos de su mismo traje, y con sus espadas ceñidas cavalgaron en dos cavallos que les dieron, y en medio dellos los llevaron porque no fuessen conocidos de los turchos y moros por christianos, y fueron la buelta de la montañeta de África; y llegando cerca vieron hasta ochenta turchos escopeteros a la halda della que Hesarráiz, aviendo descubierto el armada, avía mandado salir allí para que no se llegassen los christianos a reconocer la ciudad. Y como a los alárabes con quien tenían capital henemistad vieron, sabiendo su continuo oficio era robar y ser espías, temiendo lo que podría ser començaron a disparar su escopetería contra ellos; y como por aquella parte do ivan a reconoscerlos los començaron a apretar, dieron buelta a la montañeta y fueron a la otra parte de la marina, y llegáronse todo lo que más pudieron cerca de África y reconocieron la muralla y torreones, y en general la ciudad toda ser muy fuerte, aunque no se atrevieron los alárabes a llegar tan cerca que pudiessen reconoscer si avía fosso junto al muro, temiendo el daño que de la ciudad les podría hazer con el artillería. Y reconocido esto, y que en la montañeta podría star sentado campo contra la ciudad sin que della se le pudiesse hazer daño, y que hazer lo pudiesse sería en muy poca quantidad, dieron buelta do avían dexado el armada y llegaron dos horas de noche a ella; y restituidos a los alárabes sus cavallos y bestidos se embarcaron en la fragata en que avían a tierra salido

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que aguardándolos estava, y fueron a la galera capitana del príncipe y le dixeron todo lo que avían reconocido, y que los alárabes les avían dicho en la montañeta avía pozos de agua dulce para proveher al campo si allí se sentasse, y que donde avía tan onrada y animosa gente, como la que en las galeras íva, se podía bien acometer la empresa de cercar a África, porque tenían por cierto la ganarían. El príncipe los oyó bien, puesto que no les respondió ninguna cosa; y como la relación del reconoscimiento de África tuvo, mandó soltar las rehenes y pensó en lo que sobre ello haría, y fin de muchos paresceres que consigo mismo tomó, acordó ir a reconoscer la ciudad; y con este presupuesto mandó alçar áncoras y navegar para ella la víspera de Pascua de Spíritu Sancto antes del alva siguiéndole toda el armada, y, ya el día claro, fue a passar por una milla della reconosciendo lo que podía. Hesarráiz, que sospechoso estava de que la ida de los alárabes no avía sido en balde ni de misterio carescía, siendo sospechoso de lo que era, estuvo con los turchos en los torreones que a la parte de la mar caían, y como vio el armada mandó jugar contra la capitana del príncipe, que delante iva una media culebrina, y dio la pelota en la popa, aunque no le hizo daño, mas diole otra en el fogón, que passó con él hasta el gallinero matando cinco esclavos remeros y dexando heridos diez soldados y marineros; y assí dio otro cañonazo en una de las galeras de la Religión, y sin hazer ningún movimiento el príncipe siguió su viaje, aunque enojado y con mucho coraje por el atrevimiento que contra él los turchos avían tenido y por el daño que le avían hecho, de que mucho contra ellos se indignó; y assí navegó hasta que se alexó en parte que el artillería de la ciudad no pudiesse ofender el armada, y allí mandó dar fondo y juntar en su galera a don García y Hernando de Vega y don Álvaro de Vega y al Prior de Lombardía y al Gran Hospitaler y a todos los otros cavalleros y gentiles hombres con quien en la Fabiana avía tenido consejo sobre buscar a Dragut, a los quales dixo: «Agora, cavalleros, que visto avéis la fuerça de África, quiero entender de cada uno de vos me digáis qué es lo que os ha parescido». Oído lo que el príncipe dixo, començaron a tratar del negocio; y paresciéndoles a algunos ser mucho fuerte y dubdando que aunque la cercasen la pudiessen aver, tuvieron más diversos paresceres que hasta allí, y dixeron al príncipe que de su consejo no se devía semejante cosa, como era cercarla, intentar, porque no combenía se intentase cosa que no se saliesse con ella, porque para la toma de África era muy necessario mucha más

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quantidad de gente de guerra, artillería y municiones de la que en las galeras llevavan, y que antes que a tan ardua cosa se determinassen, se avía de pensar muy pesadamente el sucesso y fin que ternía, porque puesto caso que los turchos y moros estuviessen, como se dezía, en discordia, al fin eran de una ley, y viendo cercada su ciudad se conformarían para defenderla. Pesándole mucho a don García de la grande contradición que para efectuar su desseo hallava, por lo que allí avía oído dixo al príncipe: «Aunque yo, excelente señor, sea de contraria opinión de la que estos cavalleros, no por esso dexaré de dezir lo que en este negocio siento. Y por tanto digo que embiando a La Goleta por quatrocientos soldados que Luis Pérez para semejante empresa dará, si a mí fuera el proveher deste negocio no lo dexara por ninguna cosa de acometer, porque por muy cierta ternía la victoria; y aviéndola como no la dubdo, estorvar se han los daños grandes que, en las tierras y bassallos del Emperador, Dragut puede hazer, y los grandes gastos en que de cada día le porná». Oído por el marqués Anthonio Doria lo dicho por don García, paresciéndole bien lo aprovó, y diziendo que tratándose con el señor del Queruán que no les fuesse contrario, y tratando él lo mismo con los alárabes con quien era mucha parte, se podría la empresa emprender, porque era muy gran caso en tierra de enemigos tener las espaldas seguras. Como el príncipe huvo bien a todos entendido, puso silencio en el negocio diziendo que en La Goleta como acordado estava se determinaría.

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CAPÍTULO IX Cómo el príncipe Andrea Doria con el armada del Emperador ganó por fuerça de armas la villa de Monazter.

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Como el consejo que el príncipe Andrea Doria con los cavalleros y capitanes tuvo se feneció, los mandó bolver a sus galeras, y a sus marineros alçar belas y navegar la vía de Las Conegeras, donde estuvo todo aquel día; y a la noche, según algunos afirman, por persuasión de don García y del marqués Anthonio Doria mandó navegar el viage de Monazter, que estava de allí treinta y siete millas. Y rebelado al rey Muley Haçen, quebrándole el juramento de obedecerle por señor a él y a Muley Búcar su hijo tenían hecho, entregando la fuerça de la villa de Dragut y obedeciéndole por señor, con fin de lo meter a fuego y sangre. Y para este efecto fue en amanesciendo a vista de la villa, y como della fue descubierta el armada, temiéndole muchos moros con sus mugeres, hijos y haziendas, la desampararon y se fueron a lugares de la comarca y al campo por estar más seguros. Siguiendo el príncipe su viage a medio día, las tiendas puestas en las galeras, llegó cerca de Monazter y mandó tomar tierra a algunos capitanes y soldados, avisándoles de cómo era su voluntad destruir la tierra. Y començando a salir de las galeras, ocurrió a los resistir Cayde Hamat, general que allí Dragut con los pocos turchos en el govierno de la villa avía dexado, y alguna quantidad de moros con él, y junto con ellos llegaron al mismo efecto algunos alárabes a cavallo; y porque, juntos, turchos, moros y alárabes eran muchos, y mucha la resistencia que podían hazer, el príncipe mandó desembarcar nueva gente de las galeras para pelear con ellos; y començando a tomar tierra los soldados y disparar su arcabuzería, los alárabes se començaron a retirar a la canpaña, y Cayde Hamat con los turchos y moros en la villa, y se entraron en el castillo. Pues como la infantería fue desembarcada, y los tercios estavan juntos y rebueltos, proveyendo don García en ello como hombre prudente, sabio y de guerra, los mandó dividir unos de otros, y que cada soldado se juntasse a su vandera. Y assí Hernán Lobo se apartó con sus quatro vanderas a una parte, y Hernando de Vega y don Álvaro de Vega con las suyas a otra, y don Bernaldino de Córdova y Çumarraga y los otros oficiales del tercio de Nápoles con las otras. Y los tercios divididos, don García proveyó que Hernán Lobo con sus vanderas se pusiesse en esquadrón a trezientos passos de la villa, a la parte del Poniente entre unas higueras; y a otros trezientos passos dél se pusieron

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Hernando de Vega y don Álvaro de Vega en otro esquadrón con los suyos entre unos jardines, y don Bernaldino y Çumarraga y los demás con la otra infantería a trezientos passos de don Álvaro, junto a una pequeña torre cerca de la mezquita, hazia la marina. Y estando en orden, el príncipe salió de su galera en una barca a tierra con doze gentiles hombres, y entró por los esquadrones y los anduvo mirando; y paresciéndole bien la orden que tenían, mandando que Hernán Lobo con sus vanderas arremetiesse él primero a la villa para que sus soldados fuessen aprovechados, porque avían estado alojados en el marquesado de Malspina, tierra esterelíssima, y avían passado mucho trabajo, bolvió a su galera. Como Cayde Hamat y los turchos y moros vieron los esquadrones a manera de aremeter, con gran temor que huvieron començaron a comunicar entre ellos qué forma ternían para salir del peligro en que estavan; y aviendo platicado sobre ello, vinieron en que tomasen medios saludables para quedar en su tierra aunque con pérdida de sus haziendas; y para traherlo a efecto mandaron poner una vandera blanca encima del muro para señal de tratar la paz. Y vista por el príncipe, con uno de sus gentiles hombres ladino en su lengua aráviga embió su embaxada al governador y principales de la villa, mandándoles, si las vidas querían salvar, se rindiessen sin tentar ninguna manera de defensa. Y siéndoles dada le respondieron que no eran dello contentos, y que antes morirían que de su voluntad rendirse a ser captivos. Y sabida la respuesta por el príncipe, embió a dezir a don García proveyesse lo que combenía para entrar y tomar la villa y se apoderar de los que dentro stavan. El qual oyéndolo, a la infantería de Nápoles hizo una plática diziéndoles: «Hermanos, compañeros y amigos míos, mucho os ruego que como buenos y leales españoles me guardéis la campaña, y si algún rebés de enemigos nos viniere a ofender, peléis con ellos y les pongáis tanto miedo y temor que no nos puedan dañar sin tener ningún respecto al interesse que entrando esta villa os podría venir, porque yo os prometo, a fee de cavallero, de os hazer gratificar y reconpensar lo que aquí podríades aver en otra cosa». Y tantas y tan buenas palabras les dixo que le prometieron conplirlo sin desmandarse del esquadrón ni moverse de donde stavan sin su licencia. Y dexando con este cargo los capitanes Çumarraga y don Bernaldino, fue a la infantería de Malaspina, donde Hernán Lobo con ella estava y les dixo: «Hermanos, la onra de España, que tanta obligación todos tenemos de conservar y acrecentar, poca necessidad ay de encomendarla a tantos y tan

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buenos soldados como aquí estáis más de deziros que, cumpliendo con la deuda de vuestras onras, hagáis vuestro dever sin temer a estos moros de poco, que todo su esfuerço consiste en dar grita y huir. Y pues rendir no se nos han querito [sic], conviene por fuerça los ayamos por esclavos. Por esso, cada uno haga lo que como bueno deve». Y diziéndolo dixo: «¡Sanctiago, y a ellos!». Hecha la plática, todos los atambores de los tercios y trompetas de las galeras tocaron arma, y Hernán Lobo con sus vanderas arremetió a entrar la villa; y llegando a las murallas, como eran de tapia y de altor de no más de una pica, y en ella muchos agujeros hechos, asiendo unos los pies y manos en ellos y ayudando los otros con alabardas desde avaxo, desviados de la parte do era el castillo sin que hallasen ninguna resistencia la començaron a subir por allí, porque los turchos y moros estavan ençerrados en él y muchos otros, dexando sus mujeres y hijos dentro, dieron a huir y se salieron por otra puerta de la villa, demás de los que aquella mañana con sus mugeres y hijos se avían salido. Como los soldados fueron sobre el muro, por él fueron hasta la puerta de la villa y la avrieron, y por ella y por agujeros que con las alabardas en el muro hizieron. Y ayudándose unos a otros con cuerdas, muy en brebe fueron dentro; y un italiano llamado Anthonio de la Calce, alférez del marqués Anthonio Doria, con su vandera en la mano, siguiéndole algunos italianos soldados de las galeras y marineros, y assí spañoles como italianos, pusieron gran diligencia en saquear la villa. Y saqueada, don García mandó tornar a dezir a los turchos y moros del castillo se le rindiessen, si salbar querían las vidas, y que haziendo lo contrario los mandaría passar a cuchillo. Los quales respondieron que de ninguna manera lo harían. Oído por don García, mandó sacar quatro pieças de artillería de sus galeras y, porque en ellas no llevan ruedas para plantarlas en tierra, con gran diligencia mandó cortar algunos olibos y de los pies dellos hazerlas y, hechas, plantarlas contra un torreón fuerte del castillo donde al medio dél stava la vandera roxa y blanca con la media luna azul, que Dragut allí avía mandado poner, y començarlo a batir reziamente. Y el príncipe mandó que su galera capitana y don Berenguel con las de Cecilia y las otras batiessen otro fuerte torreón del castillo que caía a la parte de la marina, y assí se començó a batir por dos partes con gran furia; y fue tan a prisa la batería que se le dava que el cañón de cruxía de la galera de Sanct Ángelo del marqués de Terranova se havrió, y la galera por medio, y cayó en la mar la gente y ropa. De lo qual la gente escapó por el

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gran socorro que de las otras galeras tuvo, aunque con pérdida de la ropa, el castillo se batía por mar y por tierra, andando don García con una celada en la cabeça y mangas de malla y un cuero de ante y espada y rodela, con gran diligencia proveyendo en todo lo conveniente, mandando mudar y jugar el artillería contra otras partes del castillo, para hazer mayor daño en él y atemorizar más los que dentro estavan a que se le rindiessen, y poniendo buena orden assí en la infantería que estava dentro de la villa como en la de fuera para quando conviniesse arremeter. Y jugando el artillería, derrivó a pedaços la vandera roxa y blanca con la media luna, que en la torre stava, sin que del castillo hiziessen ninguna defensa, porque aunque tenían dos lombardas de hierro no tenían pelotas ni munición de pólvora para cargarlas, ni artilleros que las supiessen jugar. Y una poca pólvora que tenían la guardavan para defenderse con ella, disparando algunas pocas escopetas que tenían para quinze turchos y sesenta moros que dentro stavan. Batiendo el artillería de las galeras el torreón de la marina, hizieron un portillo por donde ya podían entrar, y en el torreón que don García hazía batir por ser mucho más fuerte, aunque se avía hecho otro, no era tal qual combenía para arremeter por él, y por esto le mandó batir muy más rezio que en todo el día hasta la noche. Y como la batería cessó, y los turchos y moros que dentro stavan no speravan otra cosa que la muerte y al mejor librar ser captivos, era grande el sentimiento que hazían mostrándolo en sus continuas oraciones, que hazían por aplacar y amansar la ira y saña de su Mahomad, y en sus dolorosas palabras, començando a dar grandes alaridos y hazer grandíssimos llantos quexándose de su triste ventura, porque assí a poder de sus enemigos los avían traído, y llamando por nombre a los que los avían desamparado dexando sus padres, mugeres y hijos, hermanos y deudos dentro del castillo, diziendo grandes improperios y denuestos dellas, y dándoles gran valdón, llamándolos de ribaldos, covardes, hombres de poco, viles, sin virtud, sin charidad, sin fee, sin amor, sin verdad y sin bondad, enemigos de Alá y de Mahomad y de su propria carne, naturaleza y tierra. Y tantos gritos se oían de mugeres y criaturas que, a los verdaderos christianos que los oían, aunque infieles, considerando que al fin próximos eran, movían gran conpassión. Y como fue otro día se tornó más a batir y se hizo la batería para poder arremeter, y don García, por más animar los soldados, les dixo: «Agora, amigos, parezca quién sois y ayamos la victoria contra estos infieles», y mandó tocar arma a los atanbores y entrar el castillo.

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Y diziendo Hernán Lobo «¡Sanctiago, y a ellos!» arremetió con los capitanes Moreruela, Amador y Pagán y sus soldados a entrarlo por la muralla al torreón que avían batido las quatro pieças de don García. Como Cayde Hamat oyó tocar el arma y cesar la batería y arremeter contra el torreón, començó a esforçar los turchos y moros, los quales dexando el llanto y sentimiento que hazían para lo resistir se dividieron en dos partes, la mitad a la una por do los ivan a entrar y la otra mitad a la otra, y començaron a disparar su escopetería en los spañoles con gran grita y alarido, y ellos, desde el muro donde avían suvido, arcabuzería contra ellos, y los unos por entrarle y los otros por defenderle se començó rezia batalla, y començaron a caher muertos y heridos de los christianos en quantidad, por la grande resistencia que en sus enemigos hallaron, porque demás de la escopetería, que poca era, disparavan muchas flechas; y como por el muro ivan muy estrechos y a gran peligro, y eran reziamente combatidos, caían el muro abaxo que estava tres picas en hondo hasta la tierra, y cayendo eran hechos pedaços. Y como don García vio la mucha resistencia que los turchos y moros hazían, y el daño grande que los soldados rescivían, tornó a animarlos a grandes bozes, y lo mismo hazían Hernán Lobo, Moreruela, Amador y Pagán, y assí peleavan y morían animosamente haziendo algunas muertes en los turchos y moros. Por el torreón de la marina arremetió don Álvaro de Vega con sus dos vanderas y Anthonio de la Calce con la suya, siguiéndole algunos soldados y marineros de las galeras; y subieron sobre una tapia de altor de una pica, de que al rededor, a manera de barbacana, el castillo estava cercado, y se descolgaron en tierra junto a la puerta dél, que gruessa y muy rezia y guarnecida de hojas de hierro a manera de llamas de tiempo antiguo era, que cerrada y abestionada por de dentro con tierra estava; y para poder entrarla un marinero griego de Corón con un ingenio derrivó una piedra de encima del quicio y entró por él dentro, y entrehavrió la puerta por do entraron pocos a pocos en el patio del castillo. Y como los turchos y moros la vieron avierta, teniendo por más cierta su perdición que hasta allí, dispararon la escopetería y flechas con más corage, y las mugeres y niños continuavan su triste llanto. Y como don Álvaro con los capitanes y soldados de Cecilia, y Anthonio de la Calce con los italianos fueron en el patio, començaron a disparar el arcabuzería contra los que por allí ocurrieron a defender la entrada, y muy presto mataron a Cayde Hamat, que los muchos animava, y veinte turchos y moros, que eran los que la mayor resistencia hazían, y algunas mugeres

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viejas, que les ayudavan a cargar las escopetas, sin quererlas matar ni herir, llevándolas de camino las pelotas de la arcabuzería a quien no perdonavan. Y peleando anduvieron una larga hora fin de la qual murieron cinqüenta soldados y fueron otros muchos muy mal heridos; y los moros que quedavan, teniéndose del todo por perdidos, alçaron vandera pidiendo misericordia y que libres los dexassen salir con sus mugeres y hijos y sin sus haziendas, y entregarían el castillo. Y porque ya, como avemos dicho, avían muerto cinqüenta soldados y herido otros muy mal, el príncipe no lo quiso conceder, sino que los matassen o rindiessen por captivos. Y oyendo los moros tan triste y dolorosa nueva para ellos, y viendo les conbenía morir o venir en el captiverio, como gente desesperada y sin sperança de más bivir, con sus lanças y alfanges tornaron a pelear y resistir sus enemigos; y morían animosíssimamente, mas los spañoles se dieron de presto tan buena maña que, aunque con daño, captivaron algunos pocos y todas las mugeres, niños y criaturas; y viendo Anthonio de la Calce la parte por do avían peleado libre de enemigos, porque no avía ya quién la resistiesse, subió al torreón y puso en él su vandera. Como algunos moros principales estavan en una torre hazia la marina, no les avían podido entrar ni ellos se avían querido rendir, y a grandes bozes llamavan a don García, diziendo que a él y no a otro se querían dar. Y sabido por él fue a la torre, y mandando desviar los soldados los rescivió en prisión y se apoderó dellos y de sus bienes y de la torre del omenage del castillo. Los soldados que no les cupo parte del saco, que desseosos de saquear andavan, porque unos avían avido mucho y otros nada, se matavan sobre robar unos a otros, y sobre la defensa desto murieron algunos y fueron despojados, y otros que se querían apoderar de los esclavos y joyas fueron muertos por los possehedores, y otros, con cobdicia de aver algunos esclavos, se demandaron de la villa a correr el campo, los quales fueron lanceados y muertos por los alárabes y moros que a buen recaudo con fin de coger los demandados andavan. Y finalmente en la toma de la villa y correduría fueron muertos ochenta soldados y heridos en mayor quantidad; los que sanos de heridas y con alguna riqueza quedaron fueron contentos, y los demás, por lo aver trabajado y no poder aver cosa alguna, desconsolados. Y los del tercio de Nápoles, por no aver tenido licencia para entrar en la villa, por la encomienda que de la guarda del campo se les avía hecho, muriendo con desseo de ver el regozijo de la fiesta y no lo poder gozar, y los heridos quexándose del dolor que las

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heridas les causavan, los quales fueron mandados llevar a curar a las galeras y enterrar los muertos. Y la victoria avida el príncipe mandó entrar toda la infantería en la villa donde aquella noche se alojó. Y assí por agora los dexaremos, ganado Monazter y alojádose en él, por contar lo que a Dragut suscedió.

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CAPÍTULO X Cómo Dragut llevó el viage del reino de Valencia y el daño que en el lugar de Sanct Juan hizo y el que él en Cullera rescivió.

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Con gran pesar iva Dragut por el daño que en Polença del visorrey de Mallorca avía rescivido, y con muy mayor fuera si supiera lo suscedido en Monazter y como, teniendo dello noticia, los ciudadanos de Cuça, temiendo el armada del Emperador, como contra su voluntad en su villa admitido le avían, se revelaron contra él queriendo matar a Caidali, que por alcaide y governador avía dexado dentro. El qual temiéndolo, por las aparencias que dello vio y avisos que dello tuvo, con los veinte turchos y moros que con él avían quedado desamparó la villa y se fue a África con su muger y hijos que a Cuça avía llevado, donde por Hesarráhiz fue rescevido y bien tratado, informado de lo que passava. Pues navegando Dragut, y llevando mayor desseo que nunca de hazer daño en los christianos, fue hasta entrar por la costa del reino de Valencia, y la noche del primero día de Pascua de Spiritu Sancto llegó una legua de Alicante, junto a un lugar de dozientos vezinos llamado Sanct Juan, y echó mil turchos en tierra mandándoles captivassen y robassen lo que hallassen en él. Los quales llevaron el camino del lugar, y como tan gruessa armada como la que él llebaba avían descubierto las guardas de la costa, por las ahumadas de fuego que avían hecho, los del lugar estavan ya avisados y ausentados dél con el dinero, oro, plata, joyas y ropa que avían podido llevar, ecepto algunos pocos enfermos y gente pobre que no se avían podido ir. Y yendo los turchos con el mayor silencio que pudieron, entraron en el lugar y captivaron treze personas que hallaron, y saquearon gran quantidad de arroz y ropa en valor de treinta mil ducados y se lo llevaron en los navíos. Y segundo día de Pascua, dos horas ante del alva, llegó a una milla de otro lugar de cinqüenta vezinos llamado Cullera, ribera de un río llamado Chúcar, en el qual está una puente de madera que llega al lugar, y junto a él una montañuela que está entre Valencia y Gandia, de Valencia cinco leguas y tres de Gandia, y una legua delante de Cullera un lugar de mil vezinos llamado Pego, de donde suele salir quantidad de gente armada que a los cossarios costumbra hazer defensa y daño. Y como llegó a la costa de la mar que de Cullera estava una milla, dos horas antes que amaneciesse echó en tierra dos capitanes con trezientos turchos, mandándoles no dexassen en el

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lugar hombre, muger, criatura ni hazienda que no le llebassen, y matassen los que se les pusiessen en alguna defensa, y fuego al lugar. Los quales con gran desseo de lo efectuar, porque no menos mal que él desseavan a los christianos, fueron en el lugar sin ser sentidos, y entraron las casas y tomaron todos los hombres con sus mugeres en las camas, y sus hijos y criados, y maltratándolos los despertaron y començaron a ligar con cuerdas las manos, dando los pobres hombres y tristes mugeres y sus hijos grandes gemidos de dolor, conosciendo en poder de la gente que estavan viendo captivos los querían llevar. Y como ligados los tuvieron, les havrieron sus arcas y sacaron las taças de plata y joyeles que de lo mismo les hallaron, que las mugeres casadas, desposadas y donzellas, a las gargantas traían, y lo mejor de su ropa, y pegando fuego en lo que no podían llevar; y haziéndoles llevar su propia hazienda a cuestas, començaron a salir del lugar para bolber al armada. Los tristes captivos ivan con gran dolor derramando muchas lágrimas de la aflición que en sí sentían, y pidiendo a Dios socorro, y como Dios omnipotente siempre tiene memoria de aquellos que como buenos y fieles suyos le sirven, conosciendo y sabiendo los coraçones e intenciones y entrañas deste pueblo ser sanos y limpios, porque bivían del trabajo y sudor de sus manos sin ningún mal vicio ni deleite, oyendo su missa ordinaria y las vísperas de los domingos, y de su sacratíssima y gloriosíssima Virgen y madre puríssima de bondad llena, Sancta María nuestra señora, fue servido de oír los clamores que a él ivan dando, pidiendo su favor para salir de tan triste tribulación y de embiárselo como de tan poderosa, piadosa, benigna y divina mano como la suya es, porque llebándolos como dezimos estos turchos enemigos y deservidores suyos con tanta crueldad y tiranía a perpectua servidunbre, proveyó que antes que con la presa saliessen, ocurriessen allí algunos de los escuderos, arcabuzeros y valesteros que tenían cargo de la guarda de la costa. Y oyendo los dolorosos llantos a tal hora, luego conoscieron lo que era; y por estorvar que con su intención los turchos no saliessen, fueron a gran prisa a tomarles el passo de la puente, para que no se les fuessen; y llegando a ella se acordaron en que en ella quedassen dies arcabuzeros que tuviessen cargo de guardarla porque no les viniessen a hazer daño más turchos de la marina, temiendo que, si les tomavan las espaldas, se perderían y que los demás aguardassen los que la presa traían para quitársela. Y estándolos aguardando con la luna, que muy clara hazía, los vieron venir, y con gran diligencia y osadía, como si muchos más fueran, començaron a disparar contra ellos arcabuzería y vallestería; y como los turchos venían

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descuidados del sobresalto y embaraçados con la presa, antes que se desembolviessen cayeron muertos y muy mal heridos quinze dellos; y como salteados se vieron, pensando todavía salvarla, la tomaron en medio, y poniéndose en orden a manera de esquadrón, ciento y cinqüenta en vanguardia y los otros en retaguardia, començaron a pelear y caminar disparando su escopetería y flechas en los christianos, haziendo en ellos una sanguinolenta escaramuça sobre la defensa del passo de la puente y sobre passarla, haziendo assí los unos como los otros su dever, y andando muy rebueltos y travados cayeron muertos y muy mal heridos muchos de ambas partes. Y como la trápala y grita y tiros de arcabuzazos y escopetazos sonavan mucho y muy a menudo, fueron hoídos assí por gente de cavallo de Valencia y Gandia, que por mandado del duque de Calabria, Visorrey del reino, andavan con gran cuidado y diligencia en guarda de la costa después que avía tenido la nueva de Dragut, como por Dragut, que una milla de Cullera a la lengua del agua avía quedado. El qual, temiendo no le suscediesse daño como en Mallorca, echó otro capitán con dozientos turchos en tierra, mandándoles fuessen a socorrer los turchos que se sentía peleavan, y que a ningún christiano que armas tuviesse la vida perdonassen. Y la gente de Valencia y Gandia ocurrió do la grita andava, que media milla della estavan, y como llegaron, juntándose y reforçándose los christianos començaron a hazer gran daño en los turchos de tal manera que les combino desamparar la presa para reforçarse y pelear, y encendiose la escaramuça y fue muy más dura y peligrosa. Y assí combatían haziéndose todo el mal y daño que podían. Y andando assí peleando, llegó otra quantidad de gente de pie y de cavallo de Pego al socorro, diziendo a grandes bozes: «¡Sanctiago, Sanctiago!». Y los demás començaron a apellidar: «¡Valencia, Valencia! ¡Gandia, Gandia!». Y como entraron de súbito y muy furiosos y desseosos de hazerles el daño que los turchos pensavan hazer a ellos, hizieron mucho estrago en ellos, dándoles tantos arcabuzazos, lançadas, golpes de espada y atravesándoles passadores por los cuerpos, que era cosa maravillosa; y derribando muchos dellos sin que les bastasse su orden, esfuerço ni buen pelear, y en el entretanto que unos peleavan otros, cortaron las ligaduras a los hombres y mugeres de Cullera, y las mugeres con sus hijos dieron a huir, y los hombres cobrando las espadas y alfanges de los christianos y turchos muertos, començaron a pelear ayudando a los que tan buen socorro les avían dado, y por tomar enmienda de quien tanto mal les avía hecho y pensava hazer.

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El capitán y los dozientos turchos, que de la mar Dragut a hazer el socorro embió, llegaron hasta cerca de la puente, y viendo ocupado el passo della dispararon la escopetería y flechas contra los que estavan en la guarda, para desocuparla y passar a dar el socorro a sus amigos, y los de la guarda a disparar en ellos su arcabuzería para resistirles. Y tanto hizieron que les defendieron el passo y nunca se la pudieron ganar. Y guardada la puente y peleando los christianos hasta media ora después del alva, todos los trezientos turchos fueron muertos y captivos, y algunos dellos por los vezinos de Cullera, a quien ligados llevavan, y los otros dozientos que al socorro avían llegado, hallando tanta resistencia en la puente y viendo tanta gente de christianos junta, no osando más aguardar muy tristes se bolvieron para Dragut y le dixeron lo que passava. El qual sintiéndolo mucho y acrecentando en mayor pena y dolor los embarcó, y mandó alçar belas y tornó a navegar la buelta de do avía venido. Y llegando a la playa romana descubrió una gruessa nao arragocesa que llevava mucha mercaduría, y los patrones della para su guarda y defensa sesenta arcabuzeros sin otros marineros y passajeros con armas para poder bien pelear, sin que iva bien artillada y proveída de municiones, de pelota y pólvora; y furiosamente con toda su armada tomándola en medio la combatió dos días y dos noches, haziéndosele della grandíssima resistencia, fin de los quales fueron muertos los quarenta arcabuzeros y algunos passajeros y marineros, y mal heridos los demás; y la entró y robó, y mandó passar a sus navíos la mercaduría, artillería, municiones y armas, y los heridos por esclavos. Y por que del navío rescivió mucho daño por le aver muerto ochenta turchos y herido treinta, le mandó pegar fuego, y quemado navegó su viage adelante.

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CAPÍTULO XI Cómo el armada partió de Monazter a La Goleta, y la plática que el príncipe Andrea Doria sobre ganar la ciudad de África con todos los cavalleros huvo, y lo que sobre ello se acordó.

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En Monazter estuvo la infantería la noche del día que el castillo se ganó, y otro día de mañana, que fue postrero de Pascua de Spíritu Sancto, el príncipe mandó echar vando que todos los soldados dentro de dos horas se embarcassen a pena de la vida; y publicado por los atambores, porque en las cosas de la guerra, para mandar quitar los generales las vidas a los soldados inobedientes, no se guardan los términos que las justicias ordinarias con los malhechores, con gran diligencia y presteza, con sus esclavos y ropas, y todo lo que más avían avido, se començaron a embarcar; y embarcados, el príncipe mandó alçar velas y navegar el viage de La Goleta, que estava de allí ciento y veinte y cinco millas, a la qual navegando llegó domingo de la Sanctíssima Trinidad una hora el sol salido. La qual por Luis Pérez vista, y oyendo jugar de la galera capitana del príncipe una pieça de artillería, fue muy bien rescebida y saludada con gran salva de artillería que mandó hazer, y de todas las otras capitanas galeras se dispararon otras muchas pieças, y el príncipe mandó amainar velas y dar fondo al armada, y saltó en tierra; y assí hizo don García y los otros cavalleros, capitanes y soldados que quisieron en ella aquel día holgar. Y otro luego siguiente el príncipe se ambarcó y mandó juntar en su galera todos los cavalleros, capitanes y gentiles hombres que en el primer consejo que tuvo en la Faviana señalamos, y de más a Luis Pérez de Vargas. Y siendo juntos propuso diziendo assí: «Noticia, cavalleros gentiles honbres, tenéis como ya por otras vezes avemos tractado, assí en la Faviana como cerca de África, si aquella ciudad la devíamos cercar y sitiar o no, para la aver por de su Magestad y de todo lo que sobre ello ha passado, y que lo avemos suspendido para lo determinar aquí. Agora que aquí somos juntos, y para este efecto tomar este acuerdo y traherlo a determinación, pensad bien en él y dezidme vuestro parescer». Oído por todos lo por el príncipe propuesto, tomando don García la mano de ser el primero en el responder, como desseoso de la ciudad de África cercar y ganar, en esta manera le respondió: «En la Faviana a Vuestra Excelencia di a entender quánto importante cosa sería desavezindar de África a Dragut, por hevictar que un tan grande

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enemigo y desservidor del nombre de Jesú Christo y de la Sacra Magestad del Emperador y Rey nuestro señor y nuestro no haga tantos y tan intolerables males y daños, como de cada día en las tierras y vassallos de su Magestad y de la señoría de Génova y de otros poderosos señores ha hecho y haze de una tan importante tierra como África, de do apoderado está. Es pues cosa cierta se sabe en ella no ay más de dozientos y cinqüenta turchos de guarnición, los quales de los moros africanos della vezinos son malquistos, y por estas razones y otras muchas que se podrían dezir, pues está reconoscido ay donde bien sentar el canpo contra ella y por donde la apretar a que se rinda o ganarla por fuerça de armas. Paresciéndole a Vuestra Escelencia cosa justa y muy combeniente sería poner todas fuerças possibles por averla, aventurando sobre ello nuestras onras y personas, que para hazer este efecto basta la gente, artillería, municiones y vituallas que en las galeras biene; y haziéndolo, su Magestad sabrá cómo le sabemos servir y el cuidado que de las cosas de su servicio tenemos, pues conosciendo como conoscemos su bendito y christiano zelo es guardar sus vassallos, para que infieles no se los captiven y maltraten, lo terná por bien. Y haziéndolo como digo, para con Dios y con él meresceremos mucho por tan notable servicio como les haremos. Y avida esta victoria, y quitando este mal cossario de do se ha vezindado, seguramos las costas de Cecilia, Mallorca, Menorca, Nápoles, Roma, Florencia y Génova, y de toda la Italia y España, que todas las corre, y damos seguridad a los navegantes christianos y estorvaremos que otros cossarios, que con su calor y favor la mar corren, no tengan ánimo para correrla y hazer los males que hazen, y si lo hizieren, serán luego perdidos y en nuestro poder; y si esto con diligencia por obra no se pone, será, como dicho tengo, darle ocasión a que África se fortifique, y quando queramos ganarla no podamos, y cueste mucha sangre y vidas de christianos pues, cierto es, que como tiene puesto su coraçón y su sperança para se guardar en ella, no la dexará de requerir y visitar muy a menudo; y como una vez le ayamos quitado la casa, que no tenga donde se acoger, otro día havremos a él, con que lo seguraremos todo». Oído por el príncipe lo dicho por don García, mandó dar aviso de todo lo passado hasta allí a Luis Pérez, y que dixesse lo que acerca dello le parescía. El qual estando de todo bien informado dixo: «Que dificultosa cosa África ganar sea, no se deve, señores, en dubda poner, mas antes, como persona cierta según lo que he leído lo determino, lehemos bien que Cipión Africano, que por aver conquistado a África este

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nonbre cobró, conquistó toda la probincia y la ciudad metropolitana que Cartago antiguamente se llamava, que agora en nuestra era Túnez se dize, la qual no en el mismo sitio que Cartago estava hedificada, según Aulio Gelio afirma, mas un poco más arriba está. Y aviendo él subjetado la probincia de África y teniendo campo siete meses sobre la ciudad que deste nombre se llama, según Tito Livio scrive, no la pudo por fuerça de armas a la potencia romana subjetar si ella mesma a sí mesma a sus manos no se ofreciera. Pues en tiempo de christianos lehemos también que de Francia un muy poderoso rey bino sobre ella, que según algunos diezen Luis, que al presente por sancto tenemos, fue con muy grande y poderosa potencia de cien mil hombres de pie y de cavallo, y sin le hazer ninguna lisión, fin de muchos días que la tuvo cercada se bolbió a Francia do bino, de donde se sigue que pueblo muy fuerte es y ciudad de gran resistencia será. Y por esto me paresce no devría tentarse semejante cosa con tan poca gente de guerra, artillería, municiones y vituallas como agora aquí ay. Y de mi parescer se devría dexar esta empresa para el año adelante venidero, que se provea de armada más poderosa, y en lo de tratar con el señor de Queruán lo dicho es muy bien, y esto lo tratará el xarife Buyacen, que es muy su conoscido y grande amigo mío, a quien yo lo encomendaré para que, de su parte y mía, pues con él yo tengo amistad, lo negocie y traya a efecto, y sé que es hombre de tanta verdad que prometiéndolo lo cumplirá; y esto me paresce con dádivas y promesas se puede bien negociar, y no sólo para esto aprovechará, pero aun será bien para provehernos de vituallas; y fenescido esto, seguramente se podrá emprender esta empresa y salir con ella». Oído lo por Luis Pérez dicho, el marqués Anthonio Doria, siendo del parecer de don García, replicó diziendo: «A mí, escelente señor, me paresce que el negocio se devría poner luego en esecución, porque lo que de aquí a un año se puede hazer se podrá hazer agora sin dar lugar a que Dragut se fortifique; y para atraher a esto al señor de Queruán, sería bien darle un lugar de la costa que sea Monazter o los Izfaquez, y, ofreciéndosele, le parescerá bien y lo acebtará. Y esto hecho se puede Vuestra Escelencia embiar a proveher de más gente, artillería, municiones y vituallas para se más reforçar». Siendo oído lo que Luis Pérez y el marqués dixeron, y otras contradiciones que allí para estorvar la empresa huvo, el príncipe suspendió la determinación para otro día, mandando cada uno pensase bien en el negocio para le determinar; y con esto dieron fin al consejo, y cada uno se

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fue a su galera y passaron aquel día sin más tratar dello. Y conociendo don García la mucha parte que Luis Pérez era para que la jornada contra África se hiziesse, por el gran conceto que el príncipe dél tenía, de que era sabio y de espiriencia en la guerra, según algunos afirman, en secreto le persuadió con tanta importunación que le informasse de que la empresa se podría contra África emprender y salir con buen sucesso della que se lo concedió. Y assí otro día que a juntarse tornaron en la galera del príncipe, y les tornó a pedir sus pareceres, Luis Pérez le dixo: «Aviendo, señor, mucho pensado sobre el negocio que Vuestra Escelencia ayer a estos cavalleros y a mí encomendó, me ha parescido que assí como el año que adelante verná esta empresa se podría emprender; assí agora me paresce se podría hazer luego, ganando la voluntad del señor del Queruán, para assegurarnos de los alárabes; y esto, como yo he dicho, daré quién lo negocie, y de más me ofrezco ir por mi propia persona a servir a su Magestad en la jornada cada y quando que Vuestra Escelencia fuere servido de me embiar a llamar, y proveheré de La Goleta de algunas cosas a la jornada necessarias». Como Luis Pérez acavó su dezir, don García dixo al príncipe: «En esto, señor, se deve Vuestra Escelencia determinar, y para que más a propósito y bien ordenado se haga, con su licencia yo iré a Nápoles y suplicaré al visorrey mi señor me provea de infantería española, artillería, municiones y otras cosas de guerra. Y me ofrezco traher tanta quantidad qual para cosa semejante combiene, y para salir onrados della». Oído por el príncipe lo dicho por Luis Pérez, y lo que a don García se avía ofrescido, como estava enojado del daño que de África le avían hecho e indinado por ello contra los turchos, se conformó con ellos y con el marqués Anthonio Doria diziendo: «Pues assí os paresce yo quiero ser de vuestro parescer, y en el nonbre de Dios la jornada contra África emprendamos, pues tan provechosa y frutuosa será al servicio de Dios y de su Magestad, y de tanto beneficio a sus vassallos y servidores, y a todos los christianos; y para este efecto vos, señor don García iréis a Nápoles al señor visorrey vuestro padre, como dezís, y de parte de su Magestad, pues será servicio de Dios y suyo, le pediréis os mande dar la más infantería española, artillería y municiones que poder trayáis, con que la ciudad podamos rezio batir; y yo escriviré al señor visorrey de Cecilia nos embíe lo mismo, que nos será mucho socorro, y con ello y con lo que las galeras trahemos, determinadamente vamos sobre África; y quando cercada

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nos paresciere muy fuerte y que no basta el exército que para ello llevaremos, ocurriremos al Emperador nuestro señor mande provehernos de más, y como de aquí comencemos a navegar con las treze galeras de Nápoles, y don Berenguel con las nueve de Cecilia que irán con vos, tomaréis el viage de Nápoles y haréis la diligencia a que os avéis ofrecido». Muy alegre fue don García de aver ganado la voluntad del príncipe para la conquista de África, y ofreciéndose como de primero le dixo: «Señor, pues esta tan importante empresa se toma para que no se nos acrecienten enemigos ni fortifiquen más la ciudad con socorros que entrar les pueden, en el entretanto que yo voy a Nápoles y se junta el armada, comberná que Vuestra Escelencia quede guardando no entre dentro Dragut ni otro cossario ni socorro, porque si gente, bastimentos o municiones les entrase, lo que agora tengo por fácil ternía después por muy grave y dificultoso, y dubdaría salir con ello, porque no dubdo, siendo como los turchos son gente de guerra, lo procuren por las vías y formas que puedan, pues nos vieron ir a reconoscer la ciudad, special como noticia ternán de lo en Monazter hecho, y porque también podrá ser en bien en busca de Dragut, o de otros que socorrer los puedan». Paresciéndole bien al príncipe lo acebtó, ofreciéndose quedar en la guarda para estorvar y defender que ningún socorro por la mar en la ciudad entrasse, ni por ella en navío a buscarle saliesse. Y venidos en esta determinación, y de que Luis Pérez negociasse ganar por amigos los alárabes para el seguramiento del canpor [sic] iría al campo quando por él embiassen, quedaron resolutos en ello, y salidos del acuerdo el príncipe escrivió al Emperador la determinación que de ir sobre África avía tomado, y por qué causas a ello se movía principalmente para storvar que Dragut, que enseñoreado en ella estava, siendo como de suyo era fuerte, y fortificándose como de cada día se podía más fortificar, podría allí hazerle otro Argel, desde donde le corriesse sus tierras marítimas y de los christianos comarcanos, y sería ocasión de le hazer grandes desservicios y dar muchos enojos y molestias. Assí le suplicava lo tuviesse por bien, pues voluntad de le servir le movía a ello». Scrivió assimismo a Juan de Vega visorrey de Cecilia, haziéndole saber la misma determinación y rogándole muy encargadamente le embiasse con toda diligencia y a buen recaudo infantería spañola, artillería, pelotas y munición de pólbora la que más pudiesse, pues para semejante empresa sería mucho menester. Y despachadas y selladas las cartas las embió con personas de

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recaudo, y fin de dos días que allí stuvo, mandó echar vando que todos los capitanes y soldados se recogiessen a las galeras; y recogidos se despidió de Luis Pérez y començó con el armada a navegar.

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CAPÍTULO XII Cómo Luis Pérez de Vargas con su embaxada embió al xarife al señor de Queruán, y lo que con el negocio, y cómo don García llegó en Nápoles y hizo la suplicación de lo por que iva al visorrey su señor.

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Como el príncipe con el armada partió de La Goleta con la determinación ya dicha, Luis Pérez de Vargas, a cuyo cargo quedó de tratar con el señor del Queruán no fuesse contrario él ni los alárabes al campo imperial que sobre África se sentasse, hizo llamar el xarife, al qual dio parte de la determinación del príncipe Andrea Doria, y con su carta de crehencia que para el señor del Queruán le dio, e informado de lo que con él avía de tratar, le rogó partiesse para él y de su parte negociasse lo acordado. El qual por le conplazer lo aceptó y se partió al Queruán; y siendo en el ante Hametalfa, con todo acatamiento le dio la carta de Luis Pérez y le suplicó que la viesse, y por él vista le mandó dixesse que era su embaxada. El qual le dixo: «Excelentíssimo señor, Alá y Mahomad sean los que salben y guarden vuestra excelentíssima persona. Luis Pérez de Vargas, alcaide y Capitán general de La Goleta, vuestro charo y grande amigo, se os mucho encomienda y dize que, aviendo sabido el príncipe Andrea Doria, capitán y almirante de la mar por la magestad del Emperador su señor, como Dragut se ha apoderado de la ciudad de África con fin de tiranizar las tierras de Berbería, desheredando dellas assí a vos como a los otros príncipes de la Barbaría, y hazer muchos y grandes enojos al Emperador y daños en sus tierras y vassallos, y que por le storvar lo uno y lo otro ha determinado de ir a cercarla y no alçar el cerco della hasta la ganar por fuerça de armas, y subjectarla al servicio del Emperador, y que para que esto tenga bueno y breve suscesso, os ruega tengáis por bien servir al Emperador en que negociéis con los alárabes que por amigos tenéis no le sean contrarios ni en ello le pongan estorvo, y los avisen de enemigos si contra el campo de los christianos fueren, y que para esto alguna quantidad se pongan en parte que lo puedan avisar, que él se ofresce gratificarlos a vuestra voluntad y a su contento». Oído por Hametalfa la embaxada del xarife le dixo que él havría su consejo sobre ello y le mandaría responder, y con esto le mandó aposentar y llamar sus consejeros, a los quales dio parte de lo que Luis Pérez le embiava a pedir, y les pidió sobre ello su parescer. Y por ellos oído lo comunicaron, y

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fin de vezes que en tres días dello trataron se resumieron, y el más antiguo dellos, por sí y en nombre de los demás, dixo: «Aviendo, excelentíssimo señor, los del vuestro consejo tratado deste negocio de que nos avéis encargado, y mucho mirado y considerado las cosas que a vuestro servicio y bien universal de vuestros bassallos toca, nos ha parescido devéis conceder lo que Luis Pérez embía a pedir, por causas que a ello nos mueven. Y la primera que a la memoria se nos ofrece es deziros que a aver de estar África por Dragut como está, o que por el Emperador esté, tenemos por muy mejor el Emperador la señoree y possea, porque muy claro es Dragut ser tirano y sus pensamientos malos e iniquos y de mala digestión, porque assí como por traición se ha apoderado della, pensará lo mismo hazer de vuestras tierras y de los poderosos de la Barbaría, por ilustrarse y mandar; y por no tener los que desheredare por contrarios les quitará las vidas, con que del todo podría venir a la señorear. Y haziendo lo que Luis Pérez os embía a pedir, no sólo aseguráis vuestro estado mas ganáis por amigo al Emperador, y le obligáis a que en todo tiempo faborezca vuestras cosas; y de un príncipe tan alto y tan poderoso, aunque diferente de vuestra ley sea, es bien darle todo contento y tenerlo ganado por amigo, porque los hombres, aunque ricos y de gran poder sean, no sólo suelen aver menester para en su ayuda otros más poderosos que ellos, empero aun de menos valor y flaqueza, quanto más que, ya que el príncipe Andrea Doria se ha determinado de tomar la empresa de África, como la onra en ello la vaya no la dexará de tomar por fuerça, pues cierto es que, quando con el armada que trahe no la pudiesse ganar, embiará a pedir ayuda y socorro a los reinos comarcanos del Emperador para le dar fin, y assí lo dará sin que resistir se le pueda. Y no queriendo conceder lo que a pedir se os embía, indignáis al Emperador de manera que, siempre que ocasión halle, os haga todo mal y daño, y esto devéis hevitar salbando vuestro mejor parescer». Aviendo oído Hametalfa el parescer de los de su consejo lo aprovó, y mandó llamar al xarife, al qual dixo: «Buyacen, a Luis Pérez diréis que mi voluntad ha sido y es hazer todo plazer y servicio al Emperador, por lo qual soy contento de hazer lo que a pedir me embía, y que de mí el campo del Emperador puede ser seguro no rescivirá ningún daño; y lo mismo me ofrezco negociar con los alárabes; y no sólo esto, mas aun les guardaré la campaña de enemigos que ofender le querrán, con tanto que a los alárabes se les haga por su trabajo alguna gratificación».

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Como Hametalfa respondió al xarife, y con tan buena gracia, y le avía otorgado lo que le iva a pedir e lo gradeció mucho, y diziendo los alárabes serían satisfechos se despidió dél y partió del Queruán, y bolbió en La Goleta y dio la respuesta a Luis Pérez de que muy contento quedó; y luego le tornó a despachar para assentar con él lo que a los alárabes se daría, y le avisó que tuviesse forma que se les diesse alguna quantidad de trigo y dineros para ochocientos que avían de ser, y que estuviessen a dos millas y media del campo y que no se llegassen más junto a él. Pues ido el xarife, Hametalfa embió a llamar a algunos principales alárabes con los quales comunicó el negocio, y les rogó que viniessen en la promesa que él por él los avía hecho. Los quales, que desseosos eran de ver a Dragut desheredado y dar a Hametalfa contento, y por complir lo que ellos al príncipe avían ofrecido, de buena voluntad lo aceptaron. Pues como el príncipe y los otros generales con el armada navegavan, entrados en alta mar el viento se bolvió con gran furia y fue les forçado bolber atrás al cabo de Cartago, donde estuvieron aquella noche. Y otro día de mañana tomaron agua, y al medio día que el viento se amainó, aunque no de manera que les ayudasse al viaje que querían llevar, començaron a navegar la vía de Porto Farín, que estava de allí quarenta millas, y llegaron al puerto a puesta de sol. Y otro día, tomando agua fueron allí moros a les vender bacas, terneras, carneros y aves, y otras provisiones con vandera alçada, por ser enemigos, para no rescivir daño; y proveyéndose y tomando refresco estuvieron dos días, y a hora de sesta del día tercero don García se despidió del príncipe, trayéndole a la memoria en África con su buena guarda ningún socorro entrasse, y con las veinte y dos galeras començó a navegar el viaje de Nápoles para ir por lo que avía prometido, siguiéndole don Berenguel y quedando el príncipe con treinta belas reales, porque la otra, que era la capitana del marqués de Terranova, en Monazter como avemos dicho se havrió. Y de allí a poco que navegava se levantó una borrasca, y dándoles el viento por proa, con gran trabajo de los forçados remeros llegaron sesenta millas de La Goleta a una isla llamada el Zumbano, que dentro de la mar stava, y allí repararon. El príncipe avía navegado, aunque por otra vía, y le fue forçado acudir allí, y por le dexar don García y don Berenguel aquel havrigo, mandaron a sus marineros tornar a navegar y llevar el viage de la Faviana, y llegados a Trápana día del Corpus Christi en la tarde, don García mandó echar en tierra los heridos y enfermos, para que en los ospitales de la ciudad fuessen

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curados; y tornó a navegar a Sancto Vito, y allí reposaron ya quanto, y a prima noche por la marina llevaron la vía hasta descubrir a Palermo, y de allí tomaron la vía de Nápoles navegando sin viento; y assí llegaron al puerto, y entrando en él hizieron salva de sus galeras capitanas, y lo mismo de las otras, y fueron rescevidos de la misma manera de Castilnovo; y tomando tierra, don García fue a besar las manos al visorrey y le dixo lo en Monazter suscedido, informándole muy particularmente todo lo que sobre ir a cercar África avía passado, y a lo que él se avía obligado y la determinación del príncipe, y lo que por él le embiava a pedir. El visorrey le rescivió bien y le dixo se miraría en ello y le provehería.

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CAPÍTULO XIII Cómo el visorrey de Cecilia, vista la carta del príncipe Andrea Doria, se determinó de ir a la conquista de África en persona, y como se començó a proveher para ello y lo que scrivió al Emperador, y el socorro que para ello el visorrey de Nápoles embió.

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La carta que el príncipe Andrea Doria escrivió al visorrey de Cecilia, de la voluntad que de poner cerco a África y ganarla tenía, por las causas ya dichas que a ello le movían le fue dada; y por él vista mandó juntar los del consejo del Emperador, a los quales la mostró y puso en plática el negocio, piediéndoles parescer; y sobre ello comunicados tuvieron diversos paresceres en que se hiziesse, paresciéndoles a unos rezio caso que sin licencia del Emperador tal empresa se tomasse, porque sería muy costosa y no sabían cómo suscedería. Otros lo aprovaron, diziendo era cosa lícita, justa y sancta por todas las vías, formas y maneras possibles se buscasse cómo ganar aquella ciudad, por lo mucho que al servicio de Dios y del Emperador importava, y al beneficio, sosiego y quietud de los moradores de los lugares de la costa de la mar de aquella isla, para no rescevir los daños y males que de cada día de Dragut recevían, porque, si en África vezino quedava, los daños y males que haría serían inremediables [sic] y de cada día se irían aumentando, y que a ninguna cosa para començar la empresa se devía tener miramiento más de al servicio de Dios y del Emperador, y ultilidad de los vassallos. Y paresciéndole bien al visorrey, no sólo aprovó este parescer, mas antes dixo que, siendo tan justa la empresa, tenía por bien para ella dar todo lo que el príncipe Andrea Doria le embiava a pedir, y de más que, por la noticia que de la fortaleza de África se tenía ser mucha y fuerte, y combenía para ganarla mucha más gente y artillería y municiones de pólbora de la que él pensava bastaría, ir él en persona a ella con el mayor y mejor aparato de guerra que pudiesse, para que con mucha más calor y miramiento se hiziesse, pues a él, como visorrey de Cecilia, pertenecía de derecho ser Capitán general de la empresa y assí de los Gelves, si contra ellos exército del Emperador fuesse, porque ganado qualquier dellos, a su cargo avía de ser el socorro y provisión, porque de aquel reino se avía todo de proveher assí como a La Goleta. Y porque tenía por cierto, según el Emperador magnánimo, benigño, piadoso y zeloso era, de que sus vassallos no fuessen maltratados de ningún príncipe ni cossario, lo ternía por bien, y señaló

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personas a los quales mandó tuviessen cargo de juntar municiones de pólbora, pelotas y hazer vizcocho, picos, açadas, espuertas, escalas, cuerda, hachetas de cortar, cuchillones y otros aparatos de guerra para semejante empresa necessarios, y toda la infantería española que estava de guarnición en el reino se viniesse a juntar a Palermo do estava. Y escrivió al Emperador diziendo que los males y daños que Dragut avía hecho, y de cada día hazía en sus vassallos de aquel reino corriendo la mar, avían sido y eran tantos y tan intolerables que de ninguna manera se podrían atajar si no era ganando la ciudad de África, donde se avía tiranamente enseñoreado, para lo desarraigar de allí, por ser como era tan vezina a la isla, porque, aquélla ganada, no osaría ser tan atrevido en correr tan sin temor la mar ni a sus salvos haría tantos daños; y que desarraigándole della, una vez u otra lo havrían a las manos para segurar del todo aquellas estorsiones y vexaciones, y que paresciéndole al príncipe Andrea Doria aquello convenía, le avía embiado a pedir gente, artillería y municiones, y que siendo los del su consejo de aquel reino de la misma opinión, no sólo sin licencia de Su Magestad se avía atrevido a embiarle lo que embiava a pedir, pero ir en persona a la conquista con todo el mejor aparato de guerra que pudiesse, para que ningún descuido suscediesse en el exército, pues a tan gran cosa como tomar a África se avían determinado, puesto que, donde la persona del príncipe estuviesse, sería bien proveído todo, aunque la principal causa que a ello le movía era conoscer, como conoscía, la bondad, benignidad y christianidad de su Magestad, y el amor y piedad que a sus vassallos tenía, y los enojos que avía rescivido de los saltos que Dragut avía dado, assí en aquella isla como en otras sus tierras, de que avía sido ocasión muchos christianos no sólo perdiessen los cuerpos, pero las ánimas, que era lo más escellente, y que por aquello le suplicava y pedía de merced tuviesse por bien el nuevo motivo de guerra sin su licencia començado, porque assí avía combenido sin de hazer dello sabidor, porque si se lo huviera de embiar a hazer saber antes que lo començaran, según su Magestad longe de aquella isla estava en sus tierras de Alemania, con la dilación podía susceder daño a la conquista. Scripta y sellada la carta, se la embió con persona de recaudo, y escrivió al príncipe Andrea Doria su determinación y los aparatos que avía mandado para la empresa aparejar; y a don Álvaro su hijo, que con don García a Nápoles avía ido, mandándole que como en el golfo fuessen de buelta para Cecilia, su carta cerrada y sellada que le embiava diesse a don Berenguel y le dixesse mirasse bien lo que le escrivía y lo cunpliesse sin hazer otra cosa; el qual resciviéndola començó a navegar en su busca.

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Pues como don García suplicó al visorrey por lo que venía con gran diligentia y mucha importunación, le tornó a suplicar le mandasse proveher con toda brevedad; y haviéndole el visorrey bien entendido, mandó juntar a don Pedro González, marqués de la vala ceciliana, alcaide de Castilnovo, y al marqués de Vico, y don Francisco de Tovar, vehedor general de la gente de armas del Reino, y al Vaílio Urias y Cipión de Soma, a los quales puso en plática lo que don García le pedía y el príncipe le embiava a pedir, diziéndoles cómo era para la empresa que contra África querían mover, y pidiéndoles su parescer sobre ello. Y viniéndose a comunicar, trataron del negocio, y, aunque la jornada contra África les pareció ser justíssima, porque a tomarla redundava en mucho servicio de Dios y del Emperador, y gran beneficio de los vassallos de la costa de la mar del reino, y de los spañoles navegantes a Roma y a otras partes de Italia, le dixeron que, como se sabía África ser ciudad muy fuerte, podría ser que con la gente spañola que de allí se levantasse, y con la que en las galeras tenían, y aunque fuessen de Cecilia no se tornaría, y que no convenía intentarse cosa en que se tuviesse por dubdosa la victoria, especial en cosa tan importante, porque, a no salir con la toma della, Dragut quedaría onrroso y victorioso y la fortificaría de manera que, si no fuesse con grueso exército y derramándosse mucha sangre, no se le pudiesse tomar; y que qualquiera cosa que se intentasse avía de ser con gran daño y pérdida de españoles, y convenía no dexar sin guarnición el reino, porque muertos aquellos no se hallarían luego otros, quanto más que sería a mucha costa del Emperador; y que pues la cosa era tan importante, se le embiasse a hazer saber para que, proveído por su real mano e imperial consejo y parescer, todo sería muy bien guiado. Y dicho por algunos esto, otros fueron de otro parescer, diziendo que el Emperador ternía a bien se proveyesse semejante negocio, y que, para le quitar de algún trabajo, tenía allí a su Escelencia y a ellos, y que para ello se hiziesse la provisión que don García en nombre del príncipe pedía, pues todo lo que intentasse sería a propósito del Emperador, yendo como iva guiado en servicio de Dios y suyo. Todo esto por el visorrey oído, y la mucha importunación y suplicación de don García, se determinó de le mandar proveher por lo que avía venido; y mandó que a él o a las personas que señalase de Castilnovo se le entregasen siete cañones de batir, y entre ellos uno reforçado y dos franceses, que en él se avían hallado quando el Gran Capitán de los franceses le ganó, y dos morteretes grandes, de los que el Emperador de la victoria contra los rebeldes

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alemanes avida al reino avía embiado, con sus caxas herradas, y cien pelotas de piedra para ellos, y nuevecientas pelotas de hierro colado, y seiscientas y cinqüenta para cañones, y quatrocientas y cinqüenta para culebrina, y sesenta y dos quintales de açufre, y ochenta de mecha para artillería, y veinte y ocho de pólvora, y veinte y siete de salitre (mas hase de entender que cada quintal de Italia es dos de España) y caxas, y ruedas, y cargadores, y cinco pares de ruedas de respecto, y adereços para cargar artillería, y un carromato guarnecido de hierro, y ocho votas de vinagre; y del castillo de Sant Elmo cinqüenta quintales de pólvora y catorze de cuerda, y que don García pidiesse a la ciudad de Nápoles seis pieças de artillería de las que tenía en el monasterio de Sanct Lorenzo, que passada la alteración de la ciudad en Castilnovo avían entregado, y por mandado del Emperador después se les avían restituido, y que don Hernando de Toledo, Maestro de Canpo de la infantería del tercio del reino se embarcasse en las galeras, y con él los capitanes don Juan de Mendoça, hijo del marqués don Pedro Gonçález, y don Alonso Pimentel y Pedro de Balacaçar con sus compañías, y que el capitán Aguilera, Maestro de Campo que el sereníssimo príncipe don Phelipe de Spaña con la infantería española al reino avía embiado quando la alteración de Nápoles, por hombre anciano, sabio y de guerra, y viejo capitán en la Italia, y los gentiles hombres que en el reino llebavan entretenimientos por mandado del Emperador, por le aver servido en la guerra de Alemania y en otras partes, le fuessen a África a servir. Y hecha la provisión, escrivió al Emperador lo que avía proveído, diziéndole que lo avía hecho sabiendo a su Magestad servía en ello. Sabida por don García la provisión del visorrey, por su persona y criados entendió en lo hazer juntar, y embarcado todo en las galeras, con más cinco cañones y una media culebrina, con todos sus adereços que de la ciudad huvo, besando las manos al visorrey y dándole él su bendición y encomendándole a Dios se embarcó, y a veinte y tres de junio mandó alçar velas, y tocando trompetas y añafiles, de todas las galeras suyas y de las de don Berenguel, començó a navegar la vía de África. Y por que llebava un vaxel con vinos y tocinos y otras provisiones, y no se perdiesse, mandó a los capitanes de las galeras de Sanct Ángelo y Sancta Bárbora la ayudassen a navegar, dándole cada una un cabo; y yendo desta manera, navegando un lunes una hora de noche, don García mandó a las galeras dexar los cabos al vaxel y navegar lo que más pudiessen. Y otro día martes, a la hora del alva que calma muerta hazía, estando veinte millas adelante de Iscla, salieron de

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hazia ella dos fustas y un vergantín que tres turchos de la Notolia, llamados Chamete, y Bagaxi Debryx y Valli Dubriz, avían armado en los Gelbes de turchos y moros de la tierra, que el armada avían visto passar e ivan en su seguimiento para hazer el daño que pudiessen en qualquier navío que reçagado quedasse. Y viendo el vaxel desamparado de las galeras, porque ya se avían mucho alexado, fueron contra él a remo y vela por averle por suyo. Y biéndolo el patrón del vaxel, paresciéndole que de muerto o captivo él y los que con él ivan no podían escapar, con seis arcabuzeros españoles y catorze italianos que en él ivan se salió dél y embarcó en una fragata armada que por popa del vaxel llebava, y, alçando velas, con sus marineros se bolbió la buelta de Nápoles desamparando un clérigo de la galera de don García y veinte y quatro moços españoles, italianos y alemanes de los que los entretenimientos del Emperador llebavan, y de otros soldados que ivan en las galeras a servir a África. Pues como los arráezes de las fustas y vergantín vieron que la fragata a más andar se les iva con gran furia, fueron contra ella; y por que llegando cerca, con la claridad del día vieron dentro gente con armas a manera de defenderse, jugaron contra ellos tres esmeriles y dispararon algunas escopetas y tiraron mucha quantidad de flechas, de que hirieron a muchos. Y biéndose súbito los christianos acometidos, los soldados que arcabuzes tenían dispararon contra los turchos de que a algunos hirieron; y aunque buen ánimo mostraron, no les aprovechó por ser como eran pocos y casi todos o los más de presto muy mal heridos, y algunos de muerte, y por que los tres navíos los cercaron y entraron por fuerça el vaxel y los captivaron todos, y arrojaron a uno en la mar, que conocieron que escapar no podía; y apoderados dellos y sabido dó el armada iva, fueron a una isleta llamada Betheten veinte millas de allí, donde mandaron dar fondo y tomaron tierra y repartieron entre sí los christianos captivos. Y porque la mercaduría que iva en el vaxel no era a su propósito, por ser toçino que no comían y vino que no bebían, passaron el vizcocho y otras cosas del a sus fustas y vergantín; y paresciéndoles que con qualquier gente que lo embiassen por aver ido el armada del Emperador a África podía ir con seguridad, mandaron a seis turchos lo llebassen a vender a Argel a los christianos captivos, que muchos avía y semejante mercaduría compravan, y, hecha dinero, bolviessen en su busca. Y llegando a las bocas de Capri topó con ellos una nao de christianos que iva a Meçina, y se apoderó dél y de los turchos y lo llebó a la ciudad.

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CAPÍTULO XIIII Cómo el príncipe Andrea Doria vino en Trápana por recoger gente y municiones en Cecilia para contra África, y del socorro que en ella entró.

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El príncipe Andrea Doria en la isla del Zumbano con treinta galeras quedó; viendo el tiempo aparejado para navegar, mandó alçar velas y llebó el viage de las Córcegas, y por ellas anduvo a vista de África guardando no le entrasse socorro como de acuerdo avía quedado. Y como en algunos días que por allí anduvo vio la ciudad muy sossegada, porque ningún navío entrava ni salía de su playa, dio buelta a la villa de la Mahometa cinqüenta millas de allí, con fin de hazer jurar por señor a Muley Hacen y su hijo; y como llegó cerca della, siendo descubierta el armada, los ciudadanos començaron tomar armas para su defensa y retraer sus mugeres, hijos y haziendas al castillo; y sintiendo la buelta el príncipe, porque se pacificassen y hiziessen lo que era su intento, les embió su embaxador con su vandereta en la mano, y visto por los moros le mandaron abrir; y siendo en la villa y ante el Governador y ciudadanos les dixo: «Honrados moros, el príncipe Andrea Doria, general capitán del Emperador, dize que, teniendo su Magestad noticia cómo al rey Muley Hacen, siendo vuestro señor y su vassallo, no le obedescéis, se ha dello desservido; por lo qual en su nombre os manda le juréis, sin poner en ello ninguna escusa ni dilación, y a Muley Búcar su hijo, y que no lo haziendo, mandará meter a fuego y sangre la villa, para que de vuestra inobediencia quede memoria». Pusieron tanto temor estas palabras en los coraçones de los naturales que, avido su consejo, respondieron que eran muy contentos de hazer lo que el Emperador y él en su nombre a mandar les embiava. Y con la respuesta el embaxador bolbió al príncipe y se la dio, el qual mandó a Muley Búcar fuesse a la villa para que lo jurassen, y con algunos moros cumpliendo su mandado fue para ella; y visto y conoscido por los ciudadanos le rescibieron y juraron como es su costumbre, y presentaron muchas cosas, y dexando de su mano alcaide y governador, bolbió al armada. Y como esto el príncipe tuvo hecho, porque algunos de sus galeras le enfermaron y le faltó el bizcocho para los soldados, mandó alçar velas y llevó la vía de Trápana, assí para proveerse como para que los enfermos pudiessen ser curados. Hesarráiz, que en la ciudad de África quedó, como quando el armada passó una milla de la ciudad y le tiraron algunas pieças de artillería de que

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rescibió daño, viendo que el príncipe avía passado sin mostrar ninguna alteración, porque no avía mandado jugar su artillería ni llevado el viage más apresurado, teniéndole por muy sagaz, desde luego concibió en sí que, si ocasión hallasse, tomaría de aquello emienda, y aunque en África no temía ni pensava un gruesso exército se atreviesse a la ir a cercar, ni cercado la pudiesse empecer, no por esso dexó de se proveer de todos los bastimentos que pudo, como fueron bacas, terneras, carneros y otro mucho ganado; y dello mandó matar y acecinar, y guardar otro bibo en la montañuela que dentro de la ciudad estava, do avía pasto para ello; y mandó hazer pelotas de artillería de hierro colado y adereçar los arcos y flechas y otras armas, y fortificar lo que le paresció convenía dentro de la ciudad, sin dezir la causa para que lo hazía, sino con fin de que estuviesse mejor guardada y los que dentro estavan más bien proveídos. Y entendiendo en esto, vinieron por la parte de Levante de la ciudad de Alexandria a África dos naos cargadas de arroz y otros mantenimientos, bien bastecidas de artillería y municiones de pólvora y pelotas, y con quatrocientos moros alexandrinos, escopeteros y flecheros, hombres de afrenta para la guarda de la hazienda. Y como los mercaderes venían allí como otras vezes a vender su mercaduría con que interesavan, pensando acrescentar la hazienda, sin ningún pensamiento del mal y daño que aparejado les estava, llegando al puerto amainaron y echaron áncoras, y hecha su salva a la ciudad saltaron en tierra y fueron para ella, donde de Hesarráiz fueron bien rescebidos, preguntándoles qué mercaduría llevavan. Los quales se lo dixeron, y diziéndoles Hesarráiz que les sería bien pagado lo mandaron desembarcar y meter en la ciudad. Y fue tanto el arroz y mantenimientos que truxeron, que para un año avía provisión para la gente de la ciudad, sin que acrescentaron quatrocientos hombres de guerra más de gente belicosa, animosa, diestra y plática para pelear para mejor guardarla y defenderla, especial con armas de fuego y con la artillería y municiones de pólvora y pelotas, que en las naos llevavan, con que podían hazer gran defensa y ofender a qualquier campo de gente de guerra que la ciudad cercasse. Muchos culpan al príncipe Andrea Doria por ello, diziendo que si no se apartara de la guarda de la ciudad como prometido avía, no pudieran entrar en el puerto sin que antes las tomara y uviera en su poder, con que estorvara todos los daños que estos, juntándose con los turchos y africanos, podían hazer, siendo sobre su defensa, y porque a no entrar dentro, como adelante diremos, con mayor brevedad la tierra se uviera por fuerça o por partido; y no

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sólo con ellos se hizieron los de dentro fuertes, pero aun fuera ocasión a que la ciudad no se tomara si Dios no proveyera como en ello proveyó, y por ninguna cosa el príncipe deviera dexar la guarda, pues a ello se avía ofrecido, porque quando don García el ofrecimiento hizo, fue con fin de que no aviendo más de dozientos y cinqüenta turchos dentro, y de los africanos mal quistos, como está dicho, pensava no con mucho trabajo averla, lo que de otra manera se dubdava. Pero esto se avía de entender quando por descuido y no con nescessidad lo hiziera, ni le faltara como le faltó el bizcocho, ni enfermaran los soldados que le enfermaron, que por fuerça le convino hazer lo que hizo. Pues navegando el príncipe llegó en Trápana y tomó tierra, y escrivió al visorrey su venida. El qual, vista su carta, le respondió que a él pertenescía ser General del Emperador en aquella empresa, y estava determinado ir en persona a la conquista con gente de guerra y otros aparatos a ella convenientes y necessarios; y porque para llevarlo le serían menester algunas galeras, se las embiasse de las suyas. Y por el príncipe su letra vista, se holgó mucho dello y mandó a Pedro Francisco Doria que con ocho galeras fuesse a Palermo para en que pudiesse llevar la gente y artillería que pensar llevava. Navegando don García y don Berenguel con la gente, artillería y municiones que avemos dicho, siendo en el golfo, don Álvaro dio a don Berenguel la carta del visorrey; y por él vista, y que le mandava que como la viesse llevasse la derecha vía de Palermo do estava, sin apartarse della ni saltar en tierra, y que no hiziesse lo contrario, porque assí convenía a servicio del Emperador, la obedesció como carta de su señor y príncipe, a lo menos del que en su silla presidía, y dando parte dello a don García se despidió dél y llevó el viage de Palermo, y don García el de Trápana. Y llegando en la ciudad fue bien rescebido del príncipe, sabiendo el buen despacho que llevava, aunque él no se holgó ni le pulgo hallarle allí, temiendo que en el entretanto que se avía de África alexado podría aver entrado en ella socorro. Don Berenguel llegó en Palermo y saltó en tierra, y fue a hazer la obediencia que al visorrey devía; y por él bien recebido, y preguntando lo que don García llevava, le dio verdadera relación dello; y luego llegó Pedro Francisco Doria con las ocho galeras que el príncipe le enbiava, y diole su carta. Y sabiendo cómo en Trápana le quedava aguardando, mandó embarcar en las galeras a Muley Hacen y a Muley Hamet su hijo segundo, y a Hernán Molín, ingeniero que, para se servir dél, en aquel reino el Emperador tenía, y cinco vanderas de infantería española, y señaló en su lugar, para que como

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visorrey juntamente proveyesse y mandasse executar lo que los del consejo acordassen, a Hernando de Vega su hijo mayor, en el entretanto que él estava fuera del reino en aquella jornada que a servir al Emperador iva, con bastante poder que para ello le dio. Y despedido de los del consejo, dexándoles encargado el miramiento y zelo que de guardar la justicia devían tener, se embarcó en la galera patrona de Anthonio Doria y mandó alçar velas, y començó a navegar acompañado de las guardas del reino y de otros gentiles hombres de la Casa Real, siguiéndole todas las galeras y dos naos gruessas y un esquilaço y otras muchas barcas y fragatas en que avía mandado embarcar cinco pieças de artillería y gran quantidad de pelotas de hierro colado y pólvora, y muchos cestones, mimbres, sacos, escalas y otras necessarias para la guerra, y vinos, vizcochos y provisiones, y otros refrescos para la infantería; y assí navegó hasta llegar en Trápana, bíspera de Sanct Juan dos horas antes que el sol se pusiesse, y fue a desenbarcar junto a la Columbrara, castillo fuerte que está en el puerto para la guarda dél, y disparando un tiro de artillería de la galera en que iva, jugó otro sólo de la capitana del príncipe y otro del castillo, y fuéronle a rescebir el príncipe y don García y los otros generales de galeras que allí stavan, con otros cavalleros y la justicia, y regidores y gente generosa y ciudadanos de la ciudad, sin ningún regozijo por aver muy poco que la visorreina su muger era muerta. Y el príncipe y él se recibieron bien, y lo mismo hizo el visorrey a don García y a los otros cavalleros y a la justicia y regimiento que a recebir le salió; y con todos fue a la ciudad, donde por no aver otra vez estado en ella le hizieron muchos y muy largos presentes, y por razón de que en esta ciudad se juntó toda el armada para la conquista de África, y otro día era de Sanct Juan Baptista, y se pensavan aquella noche embarcar por ser aquel día la bíspera del Sancto, le regozijaron en la ciudad con mucha alegría, como si el mismo día en que se avía de celebrar la fiesta fuera.

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CAPÍTULO XV Cómo el príncipe Andrea Doria embió a La Goleta por Luis Pérez de Vargas, y lo que viniendo en el viage le suscedió, y cómo el armada llegó cerca de África y del acuerdo que se tuvo, y la noticia que el Emperador tuvo de cómo la ivan a cercar, y lo que sobre ello al príncipe y visorreyes de Nápoles y Cecilia mandó escrevir.

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Como el armada en Trápana fue junta, avido el príncipe y el visorrey y don García con los generales su consejo, acordaron no dilatar la partida y mandaron echar vando que todos los soldados se recogiessen en las galeras y naos para luego partir; y siendo recogidos se embarcaron a prima noche y tocando de las galeras clarines y tronpetas, y con mucho regozijo soltando artillería de la capitana del príncipe y de las otras començaron a navegar la vía de África, y llegaron a la Faviana tres horas de noche, donde mandaron dar fondo al armada hasta otro día. Y allí el príncipe mandó a Anthonio María, capitán de la galera Fiumara de don García que, por ser mucho ligera y aparejada para navegar, con cinqüenta soldados de la conpañía de don Bernaldino de Córdova y una esquadra de la del capitán Escobar navegasse con su carta a La Goleta y la diesse a Luis Pérez, para que se viniesse a juntar con el armada y llevasse el viage quando él con las galeras partiesse de allí, que sería otro día de mañana. Y como fue el alva de otro día de Sanct Juan mandó coger agua, y en tierra en quatro partes se dixo la missa como todos la oyeron; y oída, tocó la trompeta de la galera capitana del príncipe y se embarcaron los que en tierra estavan, y tornaron a navegar su viage llevando don García la vanguardia con sus galeras y del duque de Florencia, y otras del príncipe hasta quinze, y Anthonio Salvador en la Fiumara con los cinqüenta soldados la vía de La Goleta; y en ella dio a Luis Pérez la carta del príncipe, y por él vista, dexando buena guarda y recaudo en la fuerça, con el capitán Portillo, que su compañía dexava en ella, y con algunos pocos soldados y el xarife con Muley Búcar y doze moros se embarcó y fue para África. Y llegando a Cabo Bono, metido en alta mar descubrió un galeón de turchos bien armado con artillería y gente, y mandó a los marineros guiar la galera contra él; y llegando desde donde el artillería le podía alcançar la mandó jugar contra él, y los turchos a responderle jugando del galeón de la misma manera; pero conosciendo mucha más fuerça de artillería en la galera que en su galeón, no osaron aguardar y hizieron vela y dieron a huir lo que

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más pudieron la vía de Monazter, pensando guarir allí. Y siguiéndoles Luis Pérez fue dándoles caça hasta llegar cerca de la villa, y como los turchos emparejaron con ella y vieron derribado y tan mal tractado el castillo, y que no parescía ninguna gente, conosciendo el daño que de christianos, aunque no lo sabían, avía rescibido, no osaron parar allí, y dieron buelta la vía de la Mahometa. Y como era muy tarde que se venía la noche, y Luis Pérez le avía seguido todo el día, temiendo con ella perderlo le dexó de seguir, mandando a los marineros guiar la galera la buelta de África, donde su viage avía de ser. Pues navegando el armada llegaron a la Panthanalea donde estuvieron un día y una noche, desde mediodía que llegaron hasta mitad de otro que partieron; y tornados a salir, la noche de aquel día con buen tienpo que tuvieron llegaron en la playa de África viernes; y por que no pudiesse hazer daño el artillería de la ciudad en la gente, para tomar consejo con qué orden tomarían tierra, el príncipe mandó dar fondo al armada a quatro millas della; y echadas áncoras se juntaron en su galera el visorrey y don García, y los generales del Papa y de la Religión y del duque de Florencia, y los maestros de canpo y capitanes, y tuvieron consejo si desembarcarían luego o no; y fin de algún tanto que dello trataron, teniendo respeto a que si mandavan luego desembarcar la infantería no avría tienpo para assentar el canpo en la montañeta como convenía, ni se podrían sacar los bastimentos para proveer la gente de guerra de provisiones, que para otro día dos horas antes del alva todos estuviessen armados y saltassen en tierra, y que en orden llevassen el camino de la montañeta, para que, si de la ciudad algunos turchos o moros saliessen a hazer daño en el exército, hallassen toda resistencia, y desembarcando se sacasse el artillería de las galeras y subiesse a la montañeta, y hiziessen en ella trincheas donde los soldados estuviessen guardados de la artillería que de la ciudad jugasse. Y venidos en este parescer dieron fin en el consejo, quedando resolutos en que assí se hiziesse; y por que el príncipe conoscía a don García por honbre belicoso, sabio y bien entendido en las cosas de la guerra para mucho, y desseoso de servir al Emperador por lo que le avía visto hazer en la presa de Monazter, y sabía lo que avía hecho en la toma de La Calibia y en otras partes, y lo mucho que de ganar honra se preciava, por que con entera libertad y gran diligencia entendiesse en las cosas del campo tractó con el visorrey consintiesse en que tuviesse con él igual imperio y potestad. El qual tomando el negocio christiana y virtuosamente, desviando de sí toda altibez y sobervia, solamente considerando el servicio de Dios y del Emperador y bien de los christianos, y

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teniendo respecto al amor y amistad que tenía al visorrey de Nápoles y al valor de don García, con amoroso semblante y de buen ánimo y generoso coraçón lo aceptó y consintió en ello, aunque para el govierno del exército y para otro de muy mayor qualidad tenía bastante prudencia, que no a poca generosidad, magnificencia y virtud se le deve tener y atribuir consentirlo, teniendo como se afirma que tenía patente del Emperador para ser Capitán general de la empresa, y que no la tuviera por ser visorrey de Cecilia y pretenderlo ser como dicho está, por ser como aquel era su justo y derecho título. Pues como todo esto fue acordado, se mandó echar vando para que dos horas antes del alva de otro día toda la gente de guerra estuviesse armada y a punto de desembarcar. El qual oído todos quedaron apercebidos para lo cumplir. Los correos que al Emperador embiaron el príncipe Andrea Doria y los visorreyes de Nápoles y Cecilia y don García, llegaron en Alemania en la ciudad de Angusta do estava; y con toda reverencia y acatamiento le dieron sus cartas, y vistas se holgó mucho de que la empresa contra África uviessen intentado por estorvar la morada de aquella ciudad a Dragut; y les mandó escrivir diziendo que, pues de su voluntad y sin dello avisarle lo avían emprendido, mirassen lo que a su cargo avían tomado y se esforçassen y procurassen dar buena cuenta della, que para le dar buen fin les mandaría dar todo socorro y favor que menester uviessen. Lo qual por ellos visto rescibieron mucho contento, sabiendo tomava en servicio su buena voluntad que de servirle tenían.

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CAPÍTULO XVI Cómo vista el armada por Hesarráiz en la mezquita mayor mandó juntar los turchos y moros y la plática que les hizo, y lo que sobre la guarda de la ciudad se proveyó.

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Aviéndosse descubierto de la ciudad de África el armada Hesarráiz y Caidali y los turchos y moros, y en general toda la ciudad, hombres, mugeres y moços, chicos y grandes, se pusieron en los torreones y muros para verla; y viendo tan luzida armada tan cercana a su ciudad, de tan bravas y poderosas galeras, tan bien armadas y con tanta gente de guerra christiana en ellas, començaron a mirar aquellos ricos estandartes, luzidas vanderas, aquellos maravillosos gallardetes que llevavan, y quán hermosamente canpeavan; y como de primero avían visto que avían passado a reconocer, luego entendieron que los ivan a cercar y conquistar. Lo qual començaron mucho a sentir, adevinando el mal y daño que se les aparejava, y fin de gran rato que mirando la estuvieron, poniendo Hesarráiz buena guarda en el rebellín y en los torreones, muros, barbacana y puertas de la ciudad, mandó tocar el clarín, atambor y gaitas, y echar vando que todos los turchos y moros africanos y alexandrinos se juntassen en la mezquita mayor. Y siendo juntos presente Caidali entró en medio de todos y dixo: «Amigos y hermanos míos, bien véis cómo estos perros christianos enemigos nuestros y desservidores de Alá y Mahomad ha pocos días passaron con su armada reconosciendo nuestra ciudad, y agora creo vienen con ánimo de tomarla con fin de nos sojuzgar y hazer captivos, y sobre traerlo a efecto quitarnos crudamente las vidas. Por el amor de Alá y Mahomad os ruego no os ponga temor esta gente mala tanto enemiga nuestra, porque, como nuestro Mahomad quiera darnos su favor y ayuda, basta a los confundir en muy breve espacio. Para guardar nuestras personas y ciudad conviene que nos esforçemos, y assí os ruego todos lo hagáis, pues jamás en africanos esfuerço nunca faltó para la guarda y defensa de sus honras y personas, y con las armas en las manos les demos a entender quién somos, quanto más que, según nuestra ciudad es fuerte, ningún cerco que sobre ella nos pongan la basta a ganar por mucho que sobre ello trabajen, teniendo como tenemos bastimentos para muchos días, antes les podremos hazer tales y tan rezios y tantos daños con nuestra artillería que a ellos les pese de lo que an intentado, y tengan por bien con afrenta rescebida embarcarse y bolverse

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por donde vinieron. Y si el cerco nos pusieren y perseveraren en sobre nos lo tener forçado, ha de venir a noticia de Dragut, pues por la mar anda; y como a su noticia venga, aunque aventure la vida y a perder quanto tiene, nos verná a socorrer para que no padezcamos. De mi parescer será, si a vosotros paresce, para que los christianos sepan en lo poco que los tenemos, quando en tierra saltaren salgan de la ciudad a escaramuçar con ellos turchos y moros de pie y de cavallo, y hazer el daño que en ellos puedan, procurando defenderles la montañeta si ser pudiere, porque allí deve ser su intento de tomar sitio para assentar su real contra nós; y defendiéndosela y jugando el artillería les haremos tanto daño con que les estorvaremos su mala y dañada intención, y tanbién entenderán que somos gente de guerra en sta ciudad que se la sabremos bien defender; y assí viendo nuestro buen ánimo, esfuerço y atrevimiento les haremos perder el que ellos muy orgulloso trahen». Oído por los africanos, moros y alexandrinos, se rogaron sobre quál le respondería, y dieron la boz a un africano llamado Halizenet, el qual en nonbre de todo el pueblo y por sí le respondió diziendo: «Conocido señor Hesarráhiz, los africanos tenemos que ninguna cosa acá en el suelo sin voluntad de aquel alto Alá y de su propheta Mahomad se mueve; y assí como conoscemos esto, conocemos tanbién que por nuestros pecados y sobervia nos viene este trabajo tan grande por no aver querido obedescer al rey Muley Hacen, nuestro derecho señor, por ser señores de nós mismos, esimiéndonos de le pagar y contribuir lo que Alá y Mahomad por su justo y devido patrimonio real le dedicaron, y quebrantándole el juramento que sobre ello y de le ser fieles le hizimos, y que este trabajo que agora se nos representa avemos de padescer nos venga tras nos aver Dragut forçadamente nuestra ciudad tomado con muertes y robos en los ciudadanos que nunca se los merescieron hechos; y desterrándose della otros principales de su miedo y temor no nos queremos maravillar, pues usan de la malicia de los tales para castigar con ella los que los ofenden como agora nosotros avemos hecho; y por esto an permitido con cautela se apoderase de nós y nos subietasse por vassallos, y, pues cierto es, que como él en nuestra ciudad no se apoderara podíamos bibir libres y seguros, y sin temor de que los christianos nos viniessen a conquistar, porque nunca al César emperador de los Romanos, rey de España, cuya avemos visto esta armada es por las insinias del águila imperial que trahe, desta ciudad de África le aya sido hecho enojo ni deservicio, y la causa que le ha movido embiar a tomarla ha sido aver venido en ella Dragut, para dél assegurar sus tierras y vassallos y

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estorvarle desde aquí no le haga mayores daños. Y pues si Dragut aquí no viniera nosotros perseberáramos en paz y quietud, a vos, que apoderado en la ciudad estáis y venistes con publicación de ampararnos y defendernos de enemigos, guardalda y defendelda, que nosotros no tenemos por qué». Mucho sintió Hesarráhiz lo que al moro oyó dezir, porque entendió por su plática avía hecho tirano a Dragut, y, si no temiera que la ciudad se rebolbiera y christianos por falta de gente la entraran, le matara. Pero refrenando su enojo y ira, y enfrenando su lengua lo que más pudo, reservando el hazer de la esecución del castigo al tiempo que dispusición para ello huviesse, dissimulando respondió: «Por mí y por los turchos que en guarda de la ciudad estamos, no se dexará de guardar y defender hasta morir. Y si a ello nos ayudáredes, a vosotros mismos ayudáis y de vuestro provecho haréis; y si no, haréis de vuestro daño assí como del nuestro, porque todos vernéis a ser esclabos, y vuestras mugeres y hijos a bivir en perpectua servidumbre con pérdida de todos vuestros bienes y haziendas, y entonçes veréis cómo los christianos a todos os tratan, y soy bien cierto que os pesará mucho de no aver hecho vuestro dever». Y tratando del negocio estuvieron largas quatro horas, fin de las quales, considerando los moros el gran daño que les vernía, y que la ciudad se perdería si no se ayudavan y favorescían y eran de un acuerdo y opinion con los turchos, se acordaron y vinieron a ser de un ánimo, coraçón y voluntad. Y haziéndose un cuerpo juraron sobre su Alcorán de la defender a todo su poder y sobre hazer la resistencia possible, pelear y morir, y proveyeron que se sacasse el artillería y munitión de pólvora y pelotas de los dos navíos alexandrinos que en la mar estavan, y lo metiessen en la ciudad para más fortificarla y tener con qué hazer mayor daño en los christianos, y que, como en tierra saltassen, de la ciudad saliessen a travar escaramuça con ellos, y a guardar la montañeta junto a la ciudad Mayhenet con sesenta de cavallo, y Caidali con trezientos escopeteros y flecheros. Y resumidos en esto, hizieron muestra en la plaça principal de la ciudad, para saber qué gente de pelea avía en ella; y halláronse dozientos y cinqüenta turchos y quatrocientos moros alexandrinos, y mil y ciento africanos, que por todos eran mil y sietecientos y cinqüenta, todos aptos y dispuestos para bien pelear con escopetas, arcos, flechas, lanças, visarmas y otras armas. Y hecha la muestra quedaron aguardando lo que otro día suscedería.

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CAPÍTULO XVII Cómo el armada del Emperador tomó tierra y puso cerco a la ciudad de África, y lo que aquel día suscedió.

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Como otro día fue el alva del sábado veinte y ocho de junio, bíspera de Sanct Pedro y Sanct Pablo, toda la gente del armada fue en pie. La qual començó a salir de las galeras y navíos y embarcarse en barcas, esquifes, bateles y fragatas para ir a tomar tierra. Y siendo embarcados los maestros de campo, capitanes, cavalleros, gentiles hombres y infantería española y cavalleros de la Religión, y armados de sus coseletes dorados, blancos, laboreados y gravados, y sus picas altas en las manos y sus arcabuzes cargados, tocando las tronpetas de las galeras y atanbores de todos los tercios començaron a navegar y dar la buelta para África, siguiéndoles el príncipe y el visorrey y don García con los otros capitanes con las galeras por proa, con la artillería y gente en orden. Y assí llegaron hasta una milla de la ciudad, y llegando a tierra las proas tomaron tierra el visorrey y don García y los maestros de campo, capitanes y cavalleros y gentiles hombres, y tras ellos la infantería, de la qual los sargentos mayores de los tercios y otros oficiales començaron a hazer esquadrón, y con las barcas, fragatas, esquifes y bateles los marineros bolbieron a las galeras, y dentro de dos horas, yendo y viniendo recogieron toda la infantería española y la desembarcaron en tierra. Y ordenada en dos esquadrones, el uno de la infantería del tercio del reino de Nápoles y el otro del tercio de Cecilia y Malaspina y cavalleros de la Religión, y sacando de cada uno una manga de arcabuzeros, con la una don García mandó a don Alonso Pimentel llevar la buelta del olivar, que a ojo parecía para segurar la campaña de enemigos, y con la otra el visorrey al capitán Moreruela a la vanda del Levante de la mar. Y estando ambos esquadrones en buena orden, y el visorrey y don García en ellos, con los maestros de campo y capitanes y los alférezes en medio con sus vanderas enerboladas, los de Nápoles y Malaspina de diferentes colores, armas y cruzes de sedas, y las de Cecilia todas negras con cruzes coloradas, y la de la Religión en campo blanco con cruz roxa, llevando delante quatro muy pequeñas pieças de artillería, y en medio a fray Miguel, fraile Francisco Napolitano, con una cruz con un devoto crucifixo, y junto a él fraile Alonso Romero, guardián que avía sido en el monasterio de Sancta María la nova de Nápoles que agora es obispo de Escalas, aunque començaron a jugar el

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artillería de la ciudad contra los esquadrones, llevaron el camino de la montañeta donde pensavan sentar el campo. Y començando a caminar, Hesarráiz mandó a Mayhenet con los sesenta de cavallo y a Caidali con los trezientos escopeteros saliessen de la ciudad para hazer la parecencia acordada. Los quales, siendo a cavallo y con sus lanças en las manos y alfanges ceñidos, y los peones con sus escopetas, arcos y flechas, encomendándolos los africanos a Alá y ofresciéndose ellos a Mahomad, salieron de la ciudad, llevando delante los de cavallo un estandarte colorado con una media luna de plata al medio, y los de pie dos vanderas de la misma devisa, y fueron camino de la montañeta, quedando Hesarráiz con muy buena guarda en la puerta de la ciudad; pues como Caidali y Mayhenet a la montañuela llegaron, viendo la manga de arcabuzería con que don Alonso iva, se començaron a descubrir y salir della con fin de hazer daño en los christianos. Y como don García los vio, mandó a don Alonso que con los arcabuzeros se fuesse acercando a ellos, y más arcabuzeros y soldados para reforçarle, para que travasse con ellos escaramuça. Y començando a ir la manga para ellos, Caidali, que en una hermosa yegua alheñada la cola iva, mandó retirar los turchos y moros hasta un cercado de viñas que toda la montañeta ceñía, por donde estavan muchas higueras y árboles fructales, y tomándola como por amparo se hizo allí fuerte, mostrando ánimo de pelear y ofender y defenderse, y mandó disparar escopetería y flechas contra los christianos de que hirieron a algunos. Y don Alonso, que para ellos iva, mandó hazer lo mismo contra ellos, y disparando arcabuzería se començaron a travar. Y como los esquadrones ivan juntos y ya llegavan cerca de las viñas, y don Álvaro de Vega llevava el más cercano a ellos, sin licencia y mandado del visorrey su padre, desseando mostrarse contra los enemigos, viendo la escaramuça començada, mandó al sargento del capitán Moreruela que con cinqüenta arcabuzeros fuesse a tomarles las espaldas por la parte de la marina, con fin de que, apretándolos mucho, aunque quisiessen entrar en la ciudad, todos no pudiessen salvarse. Y él con el esquadrón arremetió contra Caidali y Mayhenet y los suyos, disparándose mucha arcabuzería de tal manera que, aunque los turchos y moros hazían resistencia, por fuerça les convino desamparar las paredes de las viñas donde fuertes se avían hecho, y los llevó y corrió por todas ellas hasta los echar de la montañuela, que estava seiscientos passos de la ciudad, porque no pudieron resistir el campo que les iva en seguimiento. Y viéndose Caidali y Mayhenet en peligro y aprieto, llevando con la mejor orden que podían su gente, bolvieron a la ciudad; y visto por el

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sargento de Moreruela, que por las espaldas con los cinqüenta arcabuzeros aguardava, mandó disparar carga en ellos, de que los començó a dañar. Y viéndolo Hesarráiz de los torreones y muros mandó jugar algunas pieças de artillería, escopetas y flechas contra ellos y contra el campo, para que no los esecutassen tanto y dexassen entrar en la ciudad y, para los rescebir, mandó abrir la puerta della, por la qual començaron a entrar; y jugando una media culebrina de la torre del omenage, donde estava un estandarte colorado con una media luna de oro, la pelota della mató tres soldados coseletes de la compañía de don Juan, y con la escopetería que jugava hirieron otros algunos, pero sin embargo desto el sargento con los cinqüenta arcabuzeros los apretó tanto que, temiendo Hesarráiz que a las bueltas christianos le entrassen la ciudad antes de aver recogido toda la gente, quedando algunos fuera mandó cerrar la puerta. A los quales, que assí de pie como de cavallo eran, por fuerça convino dar a huir la vía de una montaña por donde ivan a Monazter, y assí, fin de seis horas que tierra el armada tomó, el canpo llegó a la montañuela y le sentaron contra la ciudad, poniendo el rostro a la tramontana y las espaldas al mediodía, tomando la puerta de la ciudad a la mano derecha a la vanda del Levante, a los seiscientos passos poco menos; y don García se alojó con el tercio del reino tomando la vanguardia contra la ciudad, y en retaguardia a la vanda del Poniente mandó poner a Hernán Lobo con el tercio de Malaspina, y a la del Levante el visorrey a don Álvaro con el de Cecilia y cavalleros de la Religión. Y muy junto a él mandó armar sus tiendas para hazer rostro a la retaguardia por parte de la campaña, paresciéndole que el medio estava muy bien guardado; y por que no avía ningunas tricheas ni fuerte hecho para guarda del campo, mandó a don Hernando de Toledo le hiziesse la guardia con quatro vanderas de infantería de cada tercio una y otra de los cavalleros de la Religión, y començar a hazer trinchea a los gastadores griegos y forçados de las galeras de Cecilia, y a una compañía de dozientos hombres que el príncipe, con una vandera negra y colorada a manera de gallardete, de sus galera embió, y porque desde luego se començassen a curar los heridos y enfermos, armar una gran tienda que, a manera de galera, para ospital dellos de Cecilia dedicada llevava, con çurujanos, médicos y boticarios, y toda buena provisión de medicinas; y dio cargo de la cura dellos a un fraile theatino su confessor y predicador, llamado Lainez, y a otro su capellán llamado don Matheo, de la orden de Sanct Juan, mandándoles y encargándoles que con mucho cuidado y diligencia curassen dellos como de su propia persona.

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Pues como el campo en la montañeta fue començado a alojar, para guardarse los soldados del rezio sol del día y terribles serenos de la noche, arrancaron de raiz las cepas de las viñas y cortaron los sarmientos con las ubas por madurar, con que hizieron choças para meterse y leña para guisar la comida. Y assí, como dezimos, quedó cercada la ciudad para efecto que della ningún turcho ni moro saliesse de día o de noche sin que lo pudiessen aver.

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CAPÍTULO XVIII Cómo Hesarráiz puso guarda en la ciudad y puertas della, y la orden que para ello tuvo.

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Viendo Hesarráhiz sentado el canpo del Emperador contra la ciudad, poniendo buena guarda en ella y a la noche tarde, mandó juntar en la mezquita mayor los moros africanos y alexandrinos mercaderes con sus quatrocientos hombres, que no poco dolor bibían, viendo sus haziendas perdidas y a gran peligro sus personas, y siempre se quexavan de la fortuna con mucho sentimiento, porque a tal trabajo los avía traído para que en breve biniessen a perder lo que en muchos trabajos avían adquerido. Y sabido por Hesarráiz que juntos eran, con Caidali y otros turchos fue para ella, y saludándolos entró entre ellos y les començó a dezir: «Visto, turchos, moros africanos y alexandrinos amigos míos, avéis como estos infieles nuestros enemigos an puesto cerco contra nuestra fuerte ciudad por averla, y nuestras personas con ella. Y aunque yo, por mi propia auctoridad, por la encomienda que de Dragut nuestro señor me quedó, podría libremente proveher lo que para la guarda y defensa combeniente me paresciesse, no quiero que por mi solo boto y parescer se le hagan las provisiones, mas que todos deis vuestro parescer para que sea mejor visto y proveído, porque más a propósito las cosas por todos entendidas, y con todos comunicadas y consultadas, se proveherán que por mi solo parescer; y lo primero os digo que penséis qué guarda proveheremos a la ciudad y a qué personas confiaremos las puertas por lo mucho que en ello va, puesto que, si por vía de confiança uviesse de ir, no ay ninguno de quien confiar no se pudiesse, y dónde y cómo os paresçe pornemos nuestra artillería para hazer daño en los christianos y lo que más os parasciere. Y aquello que acordáredes, proveyéredes y mandáredes quiero que se cumpla y guarde como si Dragut lo mandasse». Oído lo propuesto por Hesarráhiz, Caidali y los turchos, y moros africanos y alexandrinos començaron a tratar dello, y fin de rato que sobre ello comunicaron se resumieron en que de Caidali se confiasse la guarda de la principal puerta, por do entravan y salían a la ciudad, con cinqüenta turchos por ser aquélla la más importante, y que en cada una de las otras estuviesse un cabo desquadra con cada veinte moros, mitad africanos mitad alexandrinos, y que la ciudad rondasen de noche dozientos moros, y con ellos

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Mahemet el vehedor de Dragut, y que en cada un torreón del rebellín y castillo velassen y guardassen cada doze turchos, y el muro, andén y barbacana rondasen de noche y de día ciento, mudándose por sus tercios para que con menos trabajo lo pudiessen todos hazer. Y por que los dos navíos de los mercaderes alexandrinos estavan en la mar dentro de la playa, que puerto llamavan, saliessen de la ciudad como estava acordado y deshiziessen las obras muertas dellos, y las metiessen dentro y la clavazón, artillería y munición de pólvora y otras armas que traían para con ello repararse y fortificarse y tener con que mejor pelear; y que se asestassen tres lombardas en la puerta principal del rebellín, y que en el torreón que estava tras la mezquita mayor se pusiesse un cañón y la media culebrina que jugassen contra la mar a las galeras, y que también jugassen otras dos lombardas que estavan en el través junto al torreón, y que se pusiessen otras pieças donde a Hesarráiz le paresciesse que mayor daño podían hazer en el campo de los christianos. Y como fue acordado, Caidali, de quien la más importante cosa de la ciudad se confiava como era la puerta principal, dixo a Hesarráiz: «Señor, pues yo acepto de guardar la puerta de que cargo me dáis, una merced os demando se me otorgue, y es que todas las otras puertas de la ciudad estén cerradas, porque si los christianos quisieren ganármela sepan los turchos que comigo an de estar antes de morir que bolver passo atrás, porque, como no tengan do recogerse ni guarirse, todos morirán peleando, porque el primero que con ellos morirá seré yo. Y esto no lo digo por injuriar a ninguno, ni por tal injuriado a ninguno señalo, sino porque esto cumple assí a nuestras honras y vidas y de todos en general». Oído lo dicho por Caidali, Hesarráiz y los turchos y moros le tuvieron en mucho más que hasta allí, aunque dellos por valiente era tenido, y dixeron que, pues él assí lo quería, era muy bien que se hiziesse; y assí se mandó proveer, y con gran cuidado y diligencia Hesarráiz mandó llevar las lombardas y pieças de artillería a las partes ya dichas, y desta manera començaron a poner todo buen recaudo en la guarda de la ciudad. Y teniendo noticia el señor del Queruán como el armada del Emperador avía tomado tierra y a África tenía cercada, mandó poner en campaña los alárabes por complir lo que avía prometido.

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CAPÍTULO XIX Cómo se començó a sacar el artillería de las galeras y lo que Hesarráiz proveyó, y cómo llegó Luis Pérez de Vargas y se plantó artillería para batir la ciudad.

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Pues siendo sentado el campo del Emperador y cercada la ciudad de África, como y de la manera y forma que dezimos, otro día de mañana, domingo día de Sanct Pedro y Sanct Pablo, el príncipe Andrea Doria mandó començar a sacar el artillería de las galeras para llevar a la montañeta, y el visorrey al capitán Bernal Soler con su compañía fuesse do las galeras estavan y le hiziesse guardia, por que los turchos o moros no la clavassen, y que, para que mayor fuerça tuviesse, hiziesse hazer junto a la marina do se desembarcava trinchea en la qual estuviesse en la guardia con sus soldados. Y don García ocurrió con algunos de sus gentiles hombres y otros soldados para proveer que con mucha diligencia se hiziesse. Y como la ivan desembarcando, los gastadores hazían trinchea dentro de do guardarla hasta que de allí se llevasse. Y Hesarráiz con otra tal diligencia mandó salir de la ciudad, por las troneras y un pequeño portillo que a la parte de la marina mandó hazer, dozientos moros oficiales de la tierra, herreros, alvañiles, canteros y herradores con sus martillos, tinazas y açuelas, y otros hombres del campo con hachetas de cortar leña, a derribar las obras muertas de los navíos alexandrinos, y otros que las sacassen dellos y las metiessen en la ciudad, y el artillería, municiones y armas; y los unos travajando y los otros llevándolo a la ciudad lo hazían maravillosamente. Y acaso que Hesarráiz andava por lo alto del muro proveyendo y mirando lo que convenía, vio passear un soldado por cerca de la marina con un rosario de cuentas en la mano rezando muy descuidado y contemplatibo; y por estorvárselo mandó a dos africanos saliessen a matarle. Los quales, que muy ligeros y de buen ánimo eran, salieron por el portillo de la ciudad, y muy encubiertos por la parte de la mesma marina fueron donde el pobre soldado estava en su contemplación, y súbito llegaron a él y le dieron de lançadas y derrivaron muerto, sin que tuviesse lugar de poner mano a su espada para defender su persona ni llegasse ninguno a socorrerle; y por presto que contra ellos tocaron arma, corriendo como si gamos fueran, bolvieron a la ciudad y se entraron por el portillo do avían salido. Y teniendo a hazaña otros turchos y moros lo que avía hecho, paresciéndoles avía procedido de buen ánimo el

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llegar al campo a hazer el efecto, con mucho regozijo les besavan la ropa, porque les parescía con aquellos y otros tales atrevimientos serían temidos y estimados de los christianos. Pues como el artillería de las galeras se sacaba con toda diligencia, proveyendo como dezimos don García en ello, llegó Anthonio Salvador con la galera Sancta Bárbara en que Luis Pérez venía con el capitán Portillo y Muley Búcar, y el xarife y sus moros y los pocos soldados, todos los quales fueron muy bien rescibidos del príncipe y de don García, y cavalgaron y fueron a besar las manos al visorrey. El qual con Luis Pérez holgó mucho y le rescibió muy bien, y después de averle preguntado cómo venía, le mandó diesse la orden que para plantar el artillería conviniesse. El qual bolvió donde se desembarcava y la dio como muy presto se acabó de desembarcar y las municiones de pólvora y pelotas. Y junto a la marina, a una compañía de dozientos gastadores la mandó en cavalgar y sacar cestones y mimbres para hazer más, y sacos para hinchir de arena. Y por que no se perdiesse tiempo, don García mandó al capitán Balcaçar, el mesmo domingo en la noche, con ocho soldados fuesse a reconoscer los muros de la ciudad y si avía fosso junto a la muralla; y andando en el reconoscimiento, desde lo alto de la barbacana le hirieron de un escopetazo que le atravesaron los lomos, de que del fin de algunos días murió, y mataron dos soldados de los que con él ivan y hirieron un caporal de don Alonso, de que quedó coxo; y con todo este daño no se pudo hazer bien el reconocimiento. Pues como la artillería fue encavalgada, el visorrey mandó que dos compañías de soldados con los gastadores la subiessen a la montañeta, y andando Luis Pérez dando la orden y don García presente a ello, y tocándose trompetas y haziendo camino los gastadores por do passasse, aunque con travajo subieron algunas pieças el domingo en la noche, y los cestones y sacos fueron llenos de arena, y aquella noche se plantaron tres pieças de artillería y amanescieron plantadas. Las quales el visorrey mandó jugar contra las defensas de la ciudad, para estorvar el daño que hazían de allí, y lunes por todo el día se acabó de desembarcar el artillería y municiones, y en la noche se subió en la montañeta y en ella se allanó y puso sus plataformas por do corriesse y jugasse libremente. Y por que no se sintiesse el plantarla en la ciudad, y se lo estorvassen jugando su artillería o hiziesse daño en los soldados, el visorrey mandó tocar rezia arma sonando todos los atanbores, y que los arcabuzeros disparassen contra la ciudad, y que al rededor de donde avían de plantar el artillería anduviessen dos conpañías disparando, assí para

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que enbaraçassen los de la ciudad como para que encubriessen la vista de la batería, y con el mucho rumor no sintiessen los golpes quando se planteasse. Y començando a disparar los unos contra la ciudad y los otros andando alrededor del artillería con gran diligencia, Luis Pérez plantó a quatrocientos y cinqüenta passos della diez cañones reforçados y dos culebrinas, y entremedias de cada pieça dos cestones llenos de arena por mayor fuerça; y plantadas estas pieças, cien passos más abaxo al lado izquierdo hizo plantar otras ocho pieças gruessas de batir con otra tal fuerça de cestones y sacos de arena; y púsose en guardia dellas una conpañía de infantería, y mandó hazer desde la montañeta do el exército estava alojado, hasta la batería primera y segunda, trincheas por donde la gente del canpo pudiesse ir sin peligro a la guardia y estar en la del artillería, puesto que no podían ir tan guardados que el artillería de la ciudad dexasse de hazer daño en ellos, porque la trinchea no era muy fuerte por ser como era de arena menuda, que pisándola y hollándola con la contratación de la gente se deshazía, a cuya causa convenía sienpre trabar en ellas. Y assí mandó hazer otras de tal manera que correspondían la una a la otra, y por mayor seguridad otra que atravesasse de mar a mar cien passos más baxo, en la qual anduvieron trabajando tantos gastadores, forçados y soldados, con tanta diligencia que casi amanesció, hecha de un estado de hondo. Como Hesarráiz sintió el arma tan rezia y tanta arcabuzería como contra la ciudad se disparava, viendo que no se le llegavan a ella, como honbre de guerra sospechó lo que fuesse; y aunque contra do la batería sentavan no lo podía saber, mandó reforçar las guardas assí en las puertas y torreones como en el cuerpo de guardia, y jugar artillería de la ciudad, de que mató algunos gastadores que hazían las trincheas y otros soldados, y anduvo por todas partes recorriendo y apercibiendo como todos estuviessen a gran recaudo. Como la armada se acabó de plantar, el visorrey mandó cessar el arma y hizo sossegar el campo, y al alva de otro día martes primero de julio tocar todas las trompetas de las galeras y atambores del campo, y que todos los arcabuzeros disparasen contra la ciudad como a manera de salva; y acabándolo de hazer, con muy buena orden se començó a batir un lienço del muro del revellín y un torreón a la parte del Poniente con los otros torreoncillos, teniendo buena guardia en el artillería. Y como Hesarráiz vio començada la batería contra la ciudad, mandó jugar la artillería de las torres, torreones, muros y rebellín contra el campo; de que hazía daño, porque matava y hería algunos, especial de los forçados y gastadores que las trincheas hazían. Y como la

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batería se començó muy rezia, paresciéndole era menester repararse, mandó juntar a Caidali y otros turchos y moros, y stando juntos les dixo: «Ya, señores y hermanos, véis quán de veras estos infieles enemigos de Mahomad y nuestros esta guerra contra nós an tomado, pues con tanta furia nos an començado a batir el muro del rebellín y torreón; pensad qué reparos haremos, que faltándonos el muro quedaremos fuertes y seguros dellos sin que sintamos la falta dél». Oído por todos, començaron a tratar la forma que se ternía en el hazer de la fortificación; y como tenían por muy sabio y bien entendido en ello a Hesarráiz, no quisieron dar parescer hasta que él dixesse que dello sentía. Y assí Mayhenet le dixo: «Siendo vos señor tan sabio, ninguno de los que aquí estamos en semejante caso se atreve a hablar sin que primero deis vuestro parescer. Si a vos paresce, dezid lo que en esto sentís, y como oídos seais, si alguno entendiere otra cosa lo dirá». «Señores –dixo Hesarráiz– pues vuestra voluntad es en esto diga lo que siento, mi parescer es, siendo el vuestro, que a la parte de dentro donde la batería nos dan hagamos una fuerça fuerte de terrapleno, porque quando mucho los christianos ayan trabajado se hallen burlados y nosotros con muy mayor fuerça». «Señor –dixo Caidali– en semejantes tienpos que el que agora estamos, mucho se deven mirar las provisiones y reparos que se hazen, pues no nos va en ello menos que las vidas. Y por tanto digo que para mí no me satisfaze el terrapleno se haga, porque no sólo no me parescería fuerça para defendernos y quedar fortificados de nuestros enemigos, mas se me figura es hazerles el camino por donde nos entren a ganar la ciudad. Mi parescer sería que entre el muro y la barbacana, a las partes do nos dan la batería, se limpie de noche lo que las pelotas derribaren de día, y pues está mucho hondo hasta el suelo, háganse traves de madera para que, si por allí nuestros enemigos llegaren, no sólo no nos puedan entrar la ciudad, mas el tentarlo en su daño se convierta. Y de los traveses donde estemos, siempre que llegar quieran, juegue nuestra escopetería contra ellos y hazer les emos grandíssimos daños. Y para mayor reparo, pónganse del muro de la ciudad dentro hincados en el suelo puntas de madera de sabina muy agudas, y tablas con clavos con puntas como abrojos, para que si por desdicha nuestra por la batería nos entrassen, queriendo passar adelante todos se pierdan, porque hincándoselos no podrán bolver atrás y todos morirán a nuestras manos».

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Oído por todos lo que Caidali dixo, en general fue aprovado diziendo ser cosa muy excelente y ingenio maravilloso para quedar bien seguros y fortificados. Y luego Hesarráiz mandó que, desde de [sic] aquella noche adelante, ochenta christianos y treinta christianas, que esclavos en la ciudad estavan, y otros moros començassen a limpiar lo que deribasse la batería y hazer el hondo fosso, y que las mugeres y muchachos se ocupassen en hazer las puntas de la sabina, y los herreros mucha quantidad de clavos para poner en las tablas; y acordados en esto, salieron del consejo y se començaron a fortificar conforme a lo acordado, y en un quadro quanto tomava la batería se començó el fosso de una pica de fondo y más y bien ancho, y a la vanda de la tierra un muro de piedra parapecto, para poner en él quatro lombardas para mayor seguridad y fortificación. Pues como don García siempre se ocupava en mirar lo que convenía para la buena guarda del canpo, viendo como dicho avemos que, por ser las trincheas de arena menuda se deshazían, las mandava fortificar; y visto que no bastava todo quanto allí se hazía, avido consejo entre el visorrey y él con Luis Pérez cómo se fortificarían, acordaron que de un olivar que a una milla del campo a la parte del Poniente estava, se fuesse por faxina y rama para las fortificar y traer leña para que dos herrerías ardiessen, y se hiziessen en ellas clavos, planchas y hierros para el artillería y para otras cosas al campo necessarias, por oficiales que lo sabían bien hazer. Y venidos en esto, mandaron que fuessen por ella los gastadores, y cada día que la uviessen de traer, para que de enemigos no se rescibiesse daño ni estorvo, les fuesse a hazer la guarda una compañía de soldados; y trayéndose la rama y faxina las trincheas començaron a fortificarse, y las herrerías se hizieron y labravan de día y de noche en ellas. Las galeras que desocupadas de la infantería y artillería y municiones quedaron, con ellas el príncipe se desvió y entró más dentro en la mar, tomando la ciudad por parte que si conbiniesse jugar alguna artillería contra ella lo pudiesse hazer.

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CAPÍTULO XX Cómo de África salieron turchos a hazer daño en el campo del Emperador, y lo que sobre ello suscedió.

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Como Hesarráiz vio la diligencia que en el canpo del Emperador se traía en se fortificar y hazer trincheas, para se guardar del artillería que de la ciudad contra él se jugava, y como ya avían començado a batirla con gran furia y derribava los muros, torreón y torreoncillos, y los dos morteretes que assimismo plantados estavan sobre la primera batería, se veían subir y baxar las pelotas y oían el gran ruido que llevavan, y dentro de la ciudad hazían daño, matando algunos turchos, moros, camellos y cavallos que desmandados andavan, y derribar algunas casas, sintió flaqueza y temor en la gente de la ciudad; y como desseava dar buena cuenta de la encomienda que Dragut su tío le avía hecho, mandó juntar a Caidali y a otros principales turchos y moros que por hombres de afrenta tenía. Y siendo juntos les dixo: «Siervos y devoctos de Alá y Mahomad, amados hermanos míos, ellos sean los que a todos salven y guarden de nuestros enemigos. Conoscido tenéis quánto dañada su intención traen, pues assí con tanto cuidado y trabajo an procurado y procuran fortificar su campo con fin de tenernos sitiados y cercados, y bien creo que esto lo deve causar pensando que ningún socorro nos puede venir por mar ni por tierra que se lo haga alçar, porque tienen por entendido que el señor del Queruán, y Hamida rey de Túnez, y el xeque señor de los Gelves, aunque son de nuestra ley, no nos lo darán, porque Hamida teme al Emperador de los romanos y busca como caer en su gracia y no le osará descontentar por el desacato, innominia y maldad que contra su padre por le desheredar cometió. Y el xeque Cala está temeroso por sus passados aver sido vassallos y tributarios a los reies sus antecesores, y alçádose de no le obedescer ni pagar el tributo y parias que solía dar, pues el señor del Queruán bien creo no se moverá a socorrernos, pues los alárabes enemigos capitales son nuestros, pues sirven de descubrir el campo para saber si nos viene socorro y dar dello aviso a los christianos, para que se paren y guarden y provean mejor, de manera que, faltándonos estos tres socorros, también nos falta el del gran Turcho que muy poderoso príncipe y señor es, porque no sabe nuestra fatiga y necessidad; y que la supiesse no sé si nos le daría, por tener como tiene tregua con el Emperador. Y assí nos falta el de Dragut, porque ninguna nueva tenemos dél, y también creo los christianos piensan

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que para tanta gente de guerra, mugeres y otras gentes inútiles que no pueden pelear no tenemos bastimentos si no para muy pocos días, y que por hambre nos les avemos de dar, y que no osaremos salir de nuestra ciudad a combatir con ellos. Mucho os ruego que consideréis que estamos encerrados y cercados por infieles nuestros capitales enemigos y de nuestra sancta ley, y del bendito Alá y de su sancto siervo Mahomad, y que nuestros padres y madres no nos pueden socorrer, ni nuestro amigos favorescer, ni nuestros dineros ni haziendas defender, y que cada uno se ha de valer de su propio ánimo y con su propia espada para segurar su vida y triumphar de sus enemigos. Y el que esto no hiziere, téngase por sin ventura y perdido, y para que a nuestros enemigos hagamos entender otra cosa de la que piensan, de parescer soy que, pues están muy cansados y trabajados con el hazer de las trincheas, y venida la noche les será forçado descansar, especial que en sí ternán concebido los tememos, estarán tan descuidados que a nuestro salvo podremos en las guardas que en las trincheas están hazer muy gran daño; y para efectuarlo y procurarnos descercar con fuerça y maña, y hazer que nos teman, será bien a las onze de la noche salga de la ciudad un capitán con cinqüenta turchos y haga el daño que en ellos pudiere, quedando muy bien guardada la puerta para que, quando buelvan, hallen las espaldas seguras y les den todo favor, y assí no sólo nos haremos estimar y temer, mas aun ganaremos honra con ellos». Oído por todos, a algunos turchos y moros les paresció bien lo que Hesarráiz propuso, y tomando la mano Caidali en dar su parescer, a ruego de Mayhenet y los demás le dixo: «Señor Hesarráiz, a mí paresce muy bien vuestro intento, y assí apruevo se deve conseguir, y desde esta noche demos a los christianos tantas y tan continuas armas que no los dexemos reposar ni sossegar, y desvelándolos una o otra vez podremos los poner en tano estrecho que determinadamente salgamos a les dar la batalla; y más y mejor, y con más aliento y fuerça, combatiremos los que no passamos serenos ni trabajos en fortificar, y estamos descansados y sossegados de noche en nuestras casas que ellos, y peleando por la defensa de nuestras vidas y honras más haremos mil y sietecientos hombres de pelea que en la ciudad estamos que quatro mil que los christianos son. Por tanto, pues vos sois la cabeça en nonbre de Dragut, mandad, qué en todo seréis obedecido». Como Caidali dio su parescer, entre los turchos y moros se començó a tractar el negocio, y entre ellos uvo diversos paresceres, y arrimándose muchos

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al dicho de Caidali lo aprovaron, aunque diziendo los españoles eran gente muy osada y determinada, y que como a hazer daño en ellos se saliesse, podría ser rebolver sobre ellos y entrarles a las bueltas la ciudad, y que por donde pensassen ganar se viniesse su perdición, otros dezían que, pues tenían bastimentos para muchos días, devían guardar su ciudad sin salir della, pues era tan inspunable que no se la podían por ninguna vía tomar, porque aquello les será lo más saludable y provechoso hasta que llegasse a noticia de Dragut que los socorriesse y descercasse, y que faltándoles aquello tomarían tales modos quando en necessidad se viessen con que salvassen las personas de servidumbre y la mayor parte de las haziendas con que pudiessen onestamente bivir. Pero esto que estos dixeron no aprovechó, porque eran los más moros y todos los turchos de la opinión de Hesarráiz, y assí vinieron en que aquella noche Caidali y Mayhenet saliessen con cinqüenta turchos a hazer daño en las escuchas del canpo y gente de guarda que estavan más cerca de la puerta, y que quedasse en guarda della Hesarráiz con otros cien turchos, y sobre el rebellín dozientos escopeteros para que, si necessidad sobrebiniese, desde allí les diessen todo y muy presto socorro y favor. Y determinados en esto, Hesarráiz señaló los turchos que con Caidali y Mayhenet avían de salir y los que en el rebellín avían de quedar, y salieron de la junta con acuerdo de que, tocando el relox las onze, se fuesse a hazer el efecto. En el campo stavan descuidados del acuerdo de Hesarráiz, porque no podían el visorrey ni don García alcançar sus secretos, pero no por esso avía en él ningún descuido quanto a mandar y proveher en la buena guarda dél, y la noche que Hesarráhiz tuvo esta determinación cupo la guardia a los capitanes don Juan de Mendoza y don Bernaldino de Córdova, que era la parte por do Caidali y Mayhenet con los turchos avían de salir a hazer daño, por ser aquélla la más cercana trinchea a la ciudad; y por estar don Juan en buena vela por no rescebir daño entre dos botas de madera, mandó poner una escucha para que, guardada de los enemigos, sin que la descubriessen estuviesse, y para que, si de la ciudad gente saliesse, le diesse aviso; y assí mandó poner otra de seis soldados siete passos más atrás hazia el campo, y él se desvió un poco más con algunos soldados, armado de su coselete y con su rodela y spada en las manos. Pues como fue la hora de las onze, aunque muy obscuro hazía, Hesarráiz fue con los cien turchos a la puerta donde Caidali en guarda estava, y los demás sobre el rebellín, y Caidali la mandó abrir y salió con Mayhenet con los cinqüenta turchos, mandando a uno se adelantase sin ningún bullicio a reconoscer la guarda que avía en el campo. El qual, que muy avisado era,

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descalço y muy passo por no ser sentido por las pisadas, poco a poco fue hasta doze passos de las botas donde la escucha estava; la qual, por su descuido y desventura, no como honbre avisado con el trabajo y cansancio del día se avía dormido, y como el turcho le sintió, porque le oyó resollar, bolvió a Caidali y se lo dixo. El qual con seis turchos se adelantó mandando le siguiessen los demás, y fue donde la escucha estava y abraçaron con ella, y sin le dar lugar a que hablasse ni tocasse arma le cortaron la cabeça, y mandó llevar a la ciudad las botas y capotes que en la trinchea de los forçados de las galeras de Cecilia que la hazían halló, y proveyó que Mayhenet fuesse con los veinte y cinco turchos contra do estava don Bernaldino, y con los otros fue él donde velava don Juan, y passaron delante con fin de hazer mayor daño, pensando que, como aquel descuido avían hallado en la primera escucha, assí le avían de hallar en las demás. Y como la noche, como se ha dicho, era falta de claridad, sin ser vistos llegaron cerca de la escucha do estavan los seis soldados, los quales, que mejor velavan, los devisaron, y sospechando la escucha avían muerto, y que por aquello no avía tocado arma, la començaron a tocar y a disparar sus arcabuzeros contra Caidali y sus turchos, y él y ellos hizieron lo mismo, disparando sus escopetas contra ellos, de que derribaron tres soldados muertos. Y lo mismo hizo Mayhenet, con los que con él ivan, contra los soldados de don Bernaldino. Oída el arma en el campo, tocaron los atambores de los tercios y los maestros de campo recogieron y juntaron assí todas sus vanderas para estar fuertes y pelear. Y el visorrey se armó muy a prisa, y acompañado de algunos gentiles hombres y guardas ocurrió do el arma era, para proveer a lo que suscediesse, y assí hizo lo mismo don García. Pues como la arcabuzería se començó a disparar, don Juan y don Bernaldino, con sus spadas y rodelas, con los soldados que con ellos tenían salieron algunos passos de la trinchea diziendo: «¡Sanctiago, y a ellos!», y arremetieron contra Caidali y Mayhenet y sus turchos, que jugavan su escopetería, y començaron a pelear dándose algunas heridas y cayendo algunos muertos. Y como tan en breve Caidali y Mayhenet vieron tanta resistencia contra ellos, temiendo perderse no osaron passar adelante, y se començaron a retirar a la ciudad con los turchos; y don Juan y don Bernaldino, como no tenían orden del visorrey ni de don García para salir de la trinchea, se bolvieron a guardarla, y a la grita del arma que se oyó, Hesarráiz salió a dar socorro con quantidad de turchos, dexando bien guardada la puerta, y como se conoscieron los unos a los otros, por ser la noche obscura bolvieron a su ciudad y la cerraron y quedaron en la guarda della.

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CAPÍTULO XXI Cómo de África salieron dos renegados y los avisos que dieron, y el consejo que sobre ello el visorrey y don García tuvieron, y lo que con el parescer del príncipe se acordó.

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La ciudad de África se batía por el campo del Emperador con toda la prisa y mayor furia que podía ser, derribando por tierra gran quantidad de la fuerte argamassa de que hechos los torreones eran; y dentro de la ciudad se traía gran diligencia en la fortificar, quando, sin saber lo que en la ciudad hazían, el visorrey acordó mandar reconoscer la batería para si era tal que se pudiesse arremeter entrarla, y para ello señaló al capitán Portillo de La Goleta y a Portillo cabo de squadra de la compañía de don Hernando, y a otros cinco soldados de quien tuvo por cierto lo sabrían bien hazer. Los quales a la hora del mediodía, con sus espadas y rodelas fueron al reconoscimiento, y sin que ninguna resistencia en los turchos hallassen, por estar tras el muro y torreones de temor de las pelotas del artillería, llegaron a la batería y reconoscieron el rebellín, y queriendo subir la batería para reconoscer el muro, fueron vistos por los turchos. Los quales tocaron arma y començaron a disparar escopetería contra ellos, a cuya causa no pudieron reconoscer más, y pareciéndoles se podía bien subir por la batería y entrar la ciudad, bolvieron al visorrey y se lo dixeron. El qual, aviendo considerado sobre ello, le paresció se devía tentar de entrarla, y comunicado con don García y Luis Pérez fueron de su parescer, y embió la relación dello al príncipe y a pedirle parescer sobre ello. El qual lo aprovó, y assí acordaron que para el martes primero, ocho días después que la batería se avía començado, las galeras tocassen arma y batiessen por la mar, con fin de que los turchos y moros se repartiessen en guarda de los muros, torreones y puertas, y entrarla. Y a causa de un Poniente que alteró un poco la mar, que fue estorvo para ello, cessó, y estando aguardando a que el tiempo bolviesse para lo efectuar, un italiano mancebo que en la ciudad avía renegado, y como moro entre los africanos abitava, haziéndosele de mal del engaño que los christianos podían rescebir si por la parte del rebellín quisiessen acometer a entrar la ciudad, desseándoles dar aviso de lo que passava, y por salir de entre los turchos y moros con quien contra su voluntad estava fingiendo de moro sancto en su ley, como dél confiavan teniéndole por buen africano, estando en guarda de la ciudad junto a la batería, a la hora del mediodía o poco más se arrojó la batería abaxo, y por mucho que los turchos

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y moros de la ciudad hizieron por matarle, disparando contra él su escopetería no le pudieron acertar, antes el renegado a la mayor prisa que pudo se escapó y fue para el campo. Y llegando ante el visorrey y don García, le preguntaron cómo los turchos y moros se avían, y si en la ciudad se fortificavan. El qual les dixo: «Señores, yo era christiano, y, como hombre de poca fee, siendo esclavo captivo en África era tan maltratado que renegué de flaqueza, y he bivido entre los moros como moro, contra mi voluntad, y desseando salir de entre los infieles por reformar y reduzir mi ánima a la fee de Jesú Christo, y pedir de mi pecado perdón y misericordia, y hazer penitencia dél, y dar aviso de lo que en la ciudad passa, me atreví con grande peligro a della salir. Lo que passa es que los turchos y moros an estado discordes y con diferencias, pero ya están acordados y son de conformidad para la guarda y defensa de la ciudad, y a la parte donde la batería se da an conmençado a fortificarse, porque della están temerosos». Y preguntándole la manera de la fortificación no la dio con tan buena y clara razón que les satisfiziesse, por lo qual no supieron al presente qué proveer, mas mandaronle guardar y proseguir la batería. En gran manera dolió a Hesarráiz de que el renegado de la ciudad se uviesse salido, temiendo que daría aviso de su fortificación, y para proveer con orden acerca dello se juntó con Caidali y los otros turchos y moros. Y aviendo sobre ello comunicado, se acordaron que el reparo y fortificación se hiziesse con mucha mayor prisa, porque si la ciudad por allí los christianos entrarles quisiessen, hallassen gran resistencia, y que fuera de la puerta de la ciudad, en guarda de la batería, hiziessen guardia dozientos turchos y moros para defenderla, si de noche tentassen entrarla, y que la puerta de la ciudad quedasse cerrada para que supiessen avían de morir sobre la defensa. Y venidos en este acuerdo mandaron que toda la gente común de la ciudad entendiesse en la fortificación, y acordados en esto salieron al consejo y mandaron entender luego en ello. Y andando Hesarráiz dándoles prisa, en poco spacio hizieron la fortificación muy fuerte y rezia, y se fue contino fortificando más, y pusieron la guardia acordada de los turchos y moros fuera la puerta; y de la misma manera que el primer renegado por la batería avía salido arrojándose por ella, de allí a dos días de noche se arrojó otro de más de treinta años, haziendo la misma diligentia; y Hesarráiz que le sintió ir, mandó le matassen por escusar los avisos que a sus enemigos iva a dar; mas

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Dios no quiso le pudiessen herir, porque de su ida se recibía beneficio, y como no fueron parte para dañarle fue en salvo llevado ante el visorrey y don García. Y por ellos preguntado como el otro, les dixo, como hombre de buen juizio y entendimiento, toda la manera de la fortificación y que no tentassen entrar por allí la ciudad, porque todos los que por allí fuessen serían perdidos. Y bien informados dello, el visorrey y don García con Luis Pérez entraron en consejo para acordar sobre ello. Y siendo juntos, considerando el visorrey quánto fuerte la ciudad era y la mucha resistencia que en ella avía, y que no veía manera cómo la poder entrar y que de cada día matavan soldados con el artillería y enfermavan otros con las rezias, calores y serenos grandes, y recibirían más daño en la gente de guerra, les propuso diziendo: «Los daños que de la ciudad de África avemos rescibido en la gente de guerra del Emperador nuestro señor es muy grande, de tal manera que de cada día la imos perdiendo, por donde temo sea ocasión el campo se nos deshaga, y con la gente que nos quedare no podamos ganar la ciudad y forçadamente nos combenga embiar por socorro para ello y que nos venga, según su fuerça y fortaleza es grande, siempre la entrada nos será resistida por la mucha gente de guerra que dentro está. Pues el aviso de la fortificación que en ella se haze de los renegados tenemos, de mi parescer será, pues la hallamos mucho más fuerte de lo que pensamos, se piense alguna manera cómo a espada y capa ganarla, pues muchas vezes los buenos ardides, astucias y mañas que en la guerra se usan, aventurándose los hombres a los peligros, con menos daño se suele sacar mucha más onra haziendo mayores efectos. Y si cómo entrarla hallásemos, haríamos una cosa muy notable con poco trabajo nuestro y a muy menos costa de la sangre y vidas de los españoles, y con que mucho serviríamos al Emperador nuestro señor, porque en qualquier tiempo que de entrar la ayamos, de fuerça forçada sea bravamente de pelear, porque para mí tengo los turchos que dentro están antes dexarán hazerse pieças que rendírsenos, pues los moros, por no venir a nuestras manos y librar de nuestro poder sus personas, mugeres y hijos, como leones peleando morirán; assí que, pues mientras más tiempo en entrarla estemos sé recibirán más muertes y daños, pensad cómo lo començaremos, que tenga buen principio y fenezca con buen fin». Aviendo don García y Luis Pérez al visorrey oído, començaron a comunicar el negocio, y paresciéndoles bien su pensamiento por tal lo aprovaron, aunque tuvieron muchos paresceres cómo lo començarían; y fin dellos se acordaron en que, pues se veían derribados dos torreones y entrava

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la batería al otro lienço principal, aviendo derrivado del rebellín lo que para ello avía convenido, que otro día siguiente viernes se diesse un alvorada a la ciudad, acometiéndola por la batería llevándose esta orden: que alguna quantidad de alférezes y gentiles hombres llevassen la vanguardia derechos a la batería para entrar por ella, y parte dellos ollas de fuego artificial, y siguiéndolos el capitán Çumarraga con su compañía y otra quantidad de arcabuzeros, los quales llevassen algunos varriles de pólvora para que, estando encima la batería, con la diligencia y presteza possible se arrojassen contra los enemigos y sus reparos y fuertes, y que haziéndoles espaldas, fuesse Pantoja, alférez del capitán Brizeño, con quatrocientos soldados, y que en el entretanto que esto se hazía, don Álvaro Pimentel con su compañía, llevando sus soldados escalas suviesse y se apoderasse en un torreón alto de la vanda del Poniente, y para dar socorro a todo lo que suscediesse, el campo y artillería quedasse avisado y en arma. Y venidos en este parescer salieron del consejo, y el visorrey lo escrivió al príncipe por una cédula, y cercada y sellada se la enbió para que sobre ello dixesse lo que le parescía. La qual por él vista lo loó y aprovó, diziendo por otra le parescía muy bien y era muy bien pensado, y que assí se hiziesse. Y como el acuerdo y determinación fue hecho, don García señaló los alférezes y gentiles hombres que la vanguardia avían de llevar, y a ellos y a los capitanes Çumarraga y don Alonso y alférez Pantoja mandó lo que conforme a lo acordado avían de hazer. Y como todos fueron apercevidos, otro día viernes un hora antes del alva, con las ollas de fuego y varriles de pólvora y escalas, quedando él y el visorrey con la gente de guerra a buen recaudo y el artillería cargada, començó la vanguardia de los alférezes y gentiles honbres a ir a la batería en la orden acordada lo más sin bullicio que pudieron, por no ser sentidos. Y llegando a ella la començaron a subir, y aunque estavan sobre el rebellín, y por ser noche obscura no los devisavan, no por esso dexaron de sentirlos. Y como por la batería entraron, començaron a grandes bozes a tocar arma y jugar algunas lombardas, que cargadas con hierros, dados y piedras tenían, y disparar una ruciada de escopetería, de tal manera que cayendo algunos muertos y otros muy mal heridos, con gran fatiga entraron la batería del rebellín. Y ocurriendo por allí, el alférez Pantoja y otros gentiles honbres fueron muertos, y disparando los alférezes y gentiles honbres su arcabuzería contra sus enemigos, començaron a pelear y hazer daño en ellos. Y tentando otros en el entretanto por do ivan para ver si avía fosso, halláronle tan hondo y ancho que no le pudieron passar, y pensando hallar alguna otra parte por do

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entrarles y guardarse de los traveses de donde les tiravan, unos entraron a mano derecha y otros a mano izquierda por un andén que en el mesmo muro del rebellín se hazía, tan estrecho que no cavía más de un hombre por él, en el qual de trecho a trecho en los passos de los torreones Hesarráiz avía mandado hazer troneras y poner parapectos en defensa del andén, limpiada la piedra y tierra que de la batería avía caído, por manera que era impossible passar a la batería del otro muro de la ciudad, por el grande inconveniente que hallaron del fosso hondo y ancho, que de callejón se avía convertido. Y por esto, y porque por las muchas piedras que del rebellín y muro les tiravan y escopetería que de los traveses contra ellos jugava, todos los que entraran se perdieran, y, caso que dentro entraran, hallaran la puerta donde por fuerça quedaran perdidos entre muro y muro, sin la otra mayor fuerça que stava con las puntas y abrojos fortificada, que ninguno la pudiera passar. Y assí tres soldados que dentro entraron, andando el arma llegaron a la puerta de la ciudad, y tentando uno con la pica de un golpe de alfanje se la cortaron. Y como el arma fue muy rezia y la grita de los turchos y moros muy grande, ocurrió sobre el rebellín Hesarráiz, y toda la ciudad se puso en arma, y Caidali con sus cinqüenta turchos en guarda de la puerta, y lo mesmo hizieron los otros que en cargo tenían las otras; y desde el rebellín Hesarráiz los començó a esforçar a fin de que peleassen. Y como la vanguardia se detuvo en lo que se ha dicho, lo mesmo hizo Çumarraga hasta tener aviso de lo que se hazía, y como él no passó adelante, se detuvieron los que le seguían. Don Alonso, que a su cargo era subir a apoderarse del torreón, tentó de hazerlo y no pudo llegar a él por las defensas que halló hechas, y viendo el poco fructo que podía hazer y el mucho daño que en los soldados se rescevía, porque le matavan algunos y muchos herían, los mandó retirar disparando arcabuzería contra los del rebellín y traveses de do les hazían el daño. Y lo mesmo mandó hazer Çumarraga, aunque lexos estava. Y assí, con pérdida del alférez Pantoja y de otros gentiles honbres y soldados hasta treze, y mal herido de un flechazo el alférez del capitán Balcaçar llamado Sanctiago, y quedando un soldado en el fosso que después los moros captivaron, y heridos ochenta, se retiraron al canpo con gran dolor del visorrey y de don García, por lo poco que el alvorada avía aprovechado y daño en la gente de guerra rescivido, y por que los enemigos quedarían ufanos y victoriosos de lo hecho. Hesarráiz quedó muy alegre de ver que con daño los christianos se retiravan, y mandó hazer buena guarda como de antes a la batería, con que la

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ciudad se sosegó. Y como ya fue claro el día, mandó cortar las cabeças de los christianos que en la batería murieron y arrojarlas con los cuerpos hechos pieças por los muros, y poner la cabeça del alférez Pantoja en una lança sobre la muralla diziendo un renegado con mucho regozijo: «Christianos, véis aquí vuestro capitán: ¡vení por él!». Y esto hecho, Hesarráiz mandó llevar ante él el soldado captibo, al qual preguntó qué personas principales estavan en el canpo, y qué tanta gente de guerra traían, y si el Emperador los avía allí embiado y por qué los avían ido a cercar. El qual, presente Caidali y Mayhenet y otros muchos turchos y moros, le dixo que en el exército estavan el visorrey de Cecilia y don García de Toledo, hijo del visorrey de Nápoles, y algunos cavalleros con ellos y hasta quatro mil españoles sin que uviesse quantidad de gente de otra nasción, y que la causa por que avían ido a cercar la ciudad y apoderarse en ella era porque Dragut se avía señor della hecho. Y respondiole a otras preguntas que le hizo, de manera que le dexó mal contento, diziendo que avían prometido de no alçar el cerco a la ciudad hasta tomarla por fuerça de armas, o se la rindiessen a partido. Y por la buena nueva que le dio, le enbió con los otros christianos esclavos a hazer la fortificación. Los quales holgaron mucho con él por saber lo que en el canpo passava, aunque pesándoles de su trabajo, y con la nueva que les dixo tuvieron algún tanto de consuelo, creyendo que podría ser, aunque por impossible tenían, la ciudad se rindiese ni los christianos la ganassen, y ser ellos libres y fuera de subjeción y captiverio, según mucho lo desseavan. Y trabajando holgavan mucho platicar, especial preguntándole si avía visto la fuerça de la ciudad, porque aunque algunos dellos avía que estavan dentro della sirviendo muchos días, no la avían podido ver, porque sienpre que a la ciudad entravan o salían eran los ojos vendados, porque nunca los moros les avían dado lugar a que viessen las puertas. El qual les dixo que, como a la hora del alva y antes le avían metido en ella, no lo avía visto ni mirado en ello, puesto que no le avían vendado los ojos. Pues aviendo visto Hesarráiz cómo los christianos tentavan ganarle la ciudad, quedó cuidoso y temeroso de su mucho atrevimiento, y, por tener mejor guarda en ella, la mandó acabar de fortificar por la parte de la batería y poner las puntas de sabina y tablones con abrojos de hierro, y reforçar las guardas por las puertas, torreones y rebellín y muros, y con tanto se sossegó.

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CAPÍTULO XXII Cómo el visorrey, don García y Luis Pérez tuvieron consejo, y lo que se proveyó con la voluntad y parescer del príncipe Andrea Doria, y lo que a seis soldados suscedió yendo a África.

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Retirados los capitanes, alférezes, gentiles honbres y soldados al campo, dieron noticia de la fuerça que de la otra parte de la batería avían hallado al visorrey y a don García; y por ellos bien entendido, se juntaron en la tienda del visorrey y Luis Pérez con ellos. Y siendo juntos, el visorrey les dixo: «Pues la fuerça de África tenemos entendida ser grande y rezia la fortificación que los turchos y moros dentro an hecho, y que no ligeramente se podrá ganar como avemos pensado, pensad en qué proveeremos para ganarla con que no se resciba más daño». Oído por ellos, tractándolo y comunicándolo gran rato, se acordaron en que convenía tener más gente de guerra, artillería y municiones para dar muy mayor batería a la ciudad, y que, porque no estavan muy seguros de los moros comarcanos ni de los alárabes, el canpo se reduxesse en muy menor cercuito del que estava, porque estando recogidos en menos espacio estaría más fuerte y reforçado, y que luego fuessen personas a Nápoles y Cecilia y a La Goleta por la gente, artillería y municiones con las galeras. Y venidos en este acuerdo, el visorrey lo escrivió al príncipe pidiéndole su parescer acerca dello. El qual aviéndolo entendido, respondió que era muy bien acordado, y que assí se hiziesse. Y assí el visorrey escrivió a Hernando de Vega su hijo, que en su lugar y cargo avía dexado, diziéndole que a causa de la gran fortificación que en la ciudad de África hallavan, convenía y era muy nescessario, assí para la guardia y seguridad de la gente de guerra como para tomar la ciudad, muchas pieças gruessas de artillería y gran quantidad de pelotas de hierro y munición de pólvora; y porque assí al servicio del Emperador y al bien universal de todo el reino convenía, le mandava hiziesse entregar al marqués Anthonio Doria, que por ello enbiava una vandera de infantería española la qual sacasse de los castillos del reino, como en ellos no se sintiesse la falta, y toda la más pólvora y pelotas que pudiesse embiarle con toda brevedad sin poner en ello dilación, porque la gran qualidad del negocio no la requería, y provisiones de vinos, mantenimientos y refrescos, y dio otras cartas para que los alcaides de los castillos con toda brevedad lo entregasen al mismo marqués; y Luis Pérez escrivió con Briones, que en La

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Goleta servía de Capitán de Artillería, al capitán Peña su lugarteniente y al contador Cerbantes, mandándoles que a Cigala, que con dos galeras iva, vista su carta le entregassen dos culebrinas y dos cañones gruessos y el reforçado serpentino, y dozientos quintales de pólvora y dos mil pelotas de la munición, porque al servicio del Emperador convenía para dar fin en la empresa de África. Y el príncipe, el visorrey y don García escrivieron al visorrey de Nápoles diziéndole que la fortaleza de África y la mucha resistencia que en ella avía era tan grande que no bastava para la ganar la infantería española que el reino avía enbiado, ni la que de Cecilia se llevó, ni la que de Malaspina en las galeras avía ido, ni la munición que de todas partes avían juntado, a cuya causa se avía enbiado por más gente y municiones al reino de Cecilia y a La Goleta; y assí le encargavan, pues al servicio del Emperador y al bien universal de sus vassallos importava, les mandasse enbiar más infantería española y municiones de la enbiada, con que se socorriessen y reforçasen, y pudiessen hazer el efecto para que sobre aquella ciudad avían ido. Y escriptas y selladas las cartas, mandaron partir al prior de Lombardía y al conde Phelipín Doria con dos galeras del príncipe y la capitana del Papa, y otra de Anthonio Doria y una de las de Cecilia, que por todas eran cinco, y por embaxador dello al capitán Castañoso de Bracamonte, y despachados començaron a navegar cada uno su viage. Y como este despacho fue hecho, se dio orden por Luis Pérez, como en muy menos espacio de lo que el canpo estava dividido se recogió, y para lo más fortificar mandó hazer un cavallero a la parte donde el visorrey estava, sobre el qual se pusieron algunas pieças de canpo para que, si enemigos de la parte de la canpaña viniessen, los hallassen rezios y fuertes y no les pudiessen hazer daño; y otros ochenta passos más adelante, para seguridad y guarda de unas torrezillas que junto al canpo estavan, para que dellas no se rescibiese daño, y que la guardia ordinaria estuviesse segura, mandó poner en él algunas pieças de artillería, y, para muy mejor guarda y fuerça, hazer una trinchea de mar a mar, honda, fuerte y ancha, acercándose otros ochenta passos más a la ciudad para que, si les paresciese arremeter a ella por la otra parte, no se hallassen tan desviados. Y el visorrey mandó a don Hernando de Toledo con su conpañía tuviesse su alojamiento al un estremo, y otro capitán con la suya al otro, mudándose por días en la guardia para que la que estava en guardia del artillería la tomassen en medio y todo estuviesse más guardado. Y estando puesta esta buena orden, el visorrey y don García con Luis Pérez y Hernán Molín

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tuvieron consejo sobre qué forma se ternía para desvelar los enemigos; y buscándola, y cómo por otra parte entrar y ganar la ciudad, Luis Pérez y Hernán Molín fueron de parescer se hiziessen unas mantas de madera para que, debaxo dellas, fuessen gastadores y soldados con picos a juntar al muro del rebellín y picarle para bolarle en tierra, porque bolando aquél, el segundo que era el principal tenían por cierto con batería le derribarían, y para que si sobre ellas de los muros o torreones de la ciudad arrojasen fuego, pez o resina ardiendo, no las pudiesse quemar, fuessen cubiertas de barro. Y con este fin las mantas se començaron a hazer, mas salieron tan grandes y pesadas que luego se conosció no se podría con ellas hazer el efecto para que hazer se mandavan. Y teniendo en ellas poca confiança, començaron a pensar en otras cosas que más a propósito fuessen y saliessen más acertadas y assí convenientes. El capitán Cigala, que con sus dos galeras con la diligencia que avemos dicho para La Goleta navegava, dentro de día y medio que del campo partió llegó en ella, y haziendo salba de artillería fue assí rescebido de la mesma manera del castillo. Y siendo ambas surtas, Briones tomó tierra y dio las cartas de Luis Pérez al Capitán de Artillería y municionero, y por ellos vistas, con diligencia las cumplieron embarcando luego las culebrinas y cañones y el reforçado serpentino, y dos mil pelotas y dozientos quintales de pólvora. Y como estuvo embarcado, Cigala mandó alçar velas y dar buelta el viaje del canpo. El marqués Anthonio Doria, que con las galeras iva, llegó en Palermo y dio el despacho del visorrey a Hernando de Vega, y anduvo los castillos y dio a los alcaides las cartas que llebava, y por ellos obedescidas le dieron de las guarniciones dellos la conpañía de soldados que el visorrey a pedir enbiava, y más mil pelotas y dozientos quintales de pólvora que fue todo lo que más de presente se pudo aver. Y enbarcado todo en las galeras, con quantidad de bastimientos y refrescos que Hernando de Vega avía mandado embarcar, mandó alçar velas y dar la buelta el viaje de África. El prior de Lombardía y el conde Phelipín Doria, que con las cinco galeras a Nápoles ivan, navegaron hasta passar de Cecilia, y delante della descubrieron un armada de navíos de mercaderes que, temiendo a Dragut, ivan en conserva y no se osavan desmandar unos de otros. Y como de lexos la devisaron, sospechando que fuesse Dragut bolvieron el viaje atrás, hasta tener buena relación si era él, para guardarse de toparle, porque sabían andava muy poderoso con galeras reales y muchas galeotas y fustas, todas

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muy bien armadas. Y assí se fueron retirando, llevándola a ojo hasta que descubrieron bien los navíos y se reconosció eran de christianos, y tornaron a su derecho viaje. Y assí llegaron a vista de Nápoles día de la Magdalena en la tarde, y, ya que anochescía, entraron en el puerto haziendo una pequeña salba de artillería, y el capitán Bracamonte se desembarcó y fue al visorrey y le dio las cartas que del príncipe y del visorrey de Cecilia y de don García llebava. El qual las rescibió y le preguntó lo que en África passava, y él le dio la razón que dello sabía. E oído por el visorrey y vistas las cartas mandó juntar los del consejo de guerra del Emperador, a los quales dixo lo que de África passava y mostró las cartas que dello le escrivían. Y entendido lo que se le enbiava a pedir y sobre ello comunicado, se acordaron que se les enbiasse socorro de gente y municiones para que la empresa que avían començado llevassen adelante. Y acordados en esto salieron del consejo, y el visorrey mandó al capitán Orihuela se adereçasse para embarcar en las galeras con la infantería de su compañía para ir a servir al Emperador en la jornada, y que el municionero de Castilnovo diesse seiscientas pelotas de hierro para cañones y ciento y quarenta y quatro quintales de salitre, y quarenta y cinco de carbón de salze para que en el canpo se hiziesse pólvora. Y proveído y enbarcado, Orihuela recibió alguna quantidad de soldados que por Nápoles andavan sin plaças, de los quales y de los suyos hecha muestra y dándoles paga se embarcó con ellos y començó a navegar la buelta de África. Y porque algunos soldados de otras conpañías dexavan sus vanderas y se avían ascondido en las galeras para ir a la mesma conquista, por estar desseosos de hallarse en ella, el visorrey los mandó sacar dellas y echar vando que ninguno sin orden se fuesse de su conpañía a pena de la vida, de que a muchos pesó.

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CAPÍTULO XXIII Cómo yendo ciertos soldados desmandados a África, se vieron en peligro con turchos cossarios, y cómo escaparon.

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Pues como los vandos se publicaron, para que ningún soldado sin licencia desamparase su vandera, muchos los temieron, y, porque en ellos no se esecutasen, aunque muchos avía desseosos de ir a la empresa de África no se atrevían a ir. Pero aventurándose algunos lo más encubiertamente que podían se ivan, entre los quales, teniendo el mesmo desseo seis soldados de la conpañía de Álvaro de Acosta se concertaron con un napolitano llamado Beladona, para que a la ciudad en una fragata los llevasse. Y convenidos con él le hizieron aguardar tres millas de Nápoles a una punta de mar do dizen Pucílico [sic], y viernes quinze de septienbre a puesta de sol se enbarcaron los cinco dellos con sus arcabuzes y el otro con su coselete y pica, y el patrón con diez y seis marineros napolitanos, y yendo proveídos de mantenimientos para sus personas començaron a navegar, y sábado a la medianoche, yendo entre las islas de Lípar y Rústica, que de Nápoles dozientas millas están, y treinta de Lípar y sesenta de Rústica, a una milla dellos descubrieron una fusta de turchos que andava en corso, que en Cerdeña avía hecho salto y captivado hasta sesenta christianos, llamado el patrón della Damerchy. Y como los soldados, patrón y marineros la vieron, pensando fuesse nao de christianos se seguraron y navegavan sin apresurar más su viage; y como los turchos sintieron no los avían conoscido, por segurarlos amainaron la vela y a remo fueron con toda furia contra ellos, mas a la media milla que navegavan fueron dellos conoscidos por infieles, y viendo los soldados la gran diligencia que remando llevavan por alcançarlos, por ir más ligeros y poder mejor navegar donde salvar se pudiessen, arrojaron a la mar los barriles que de vino y agua llevavan y mucha quantidad de castaña del patrón, y remando todos llevaron la vía de la isla de Rústica. Y como los turchos vieron sobre el agua los barriles y castaña, entendiendo los avían conoscido tornaron a alçar la vela y a remo y vela los fueron siguiendo sesenta millas, hasta otro día domingo, salido el sol, que llegaron cerca de Rústica. Y los soldados, aunque navegando, tuvieron acuerdo si tomarían tierra en la isla o no, o si buscarían otra más segura, y algunos fueron de parescer que no se desembarcassen diziendo que podría ser uviesse por allí otros navíos de turchos, y que por ser la isla despoblada se perderían. Otros lo contradixeron, diziendo que ellos solos seis que eran la podían defender de treinta turchos que en la fusta

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viniessen, quanto más que, si a otra parte quisiesen ir, se verían en gran peligro, porque todos estavan muy cansados de remar y no podrían ir a la tierra donde antes la fusta no embistiesse con ellos por les estar muy cercana. Y conformándose todos en este parescer dixeron a los marineros embistiessen en tierra, y yendo a ella los turchos començaron a soltar sus flechas contra ellos, y ellos a disparar sus arcabuzes contra los turchos, de que hirieron en un braço a un francés remero y los turchos dieron un flechazo por la pierna a un marinero ceciliano. Y como el Arráez no traía sino una sola escopeta y ninguna artillería, porque su fusta no venía armada si no con treinta y cinco turchos y moros flecheros de los Gelves sin los remeros, de los quales en Cerdeña avía perdido los treze en hazer la presa que hizo, por no rescebir daño de la arcabuzería se desvió, y por esforçar los remeros les mandó dar de comer, y en el entretanto tuvo consejo con los turchos cómo aver en su poder los soldados y marineros. Y acordaron que para cansarlos anduviessen con la fusta a la redonda de la isla, fingiendo se la querían entrar, porque siendo como era de nueve millas entorno podrían muy bien hazerlo, y que quando fatigados los tuviessen se la entrassen, quedando algunos pocos en la fusta para embestir con la fragata y ganarla. Y venidos de conformidad en ello, ligaron con grillos y sposas las manos a los christianos por no rescebir daño dellos, y dando grita remando los forçados començaron a ir costa a costa de la isla redeándola. Mas en el entretanto que los turchos en esto se avían ocupado, los soldados y marineros juntaron mucha piedra a la parte donde estavan, para que, si por allí entrarles la isla quisiessen, los marineros que solas espadas tenían los ayudassen a defenderla. Y como vieron que se la rodeavan, mandando quedar allí el patrón con los marineros para que la fragata no les llevassen, fueron por la isla por les resistir, do pensavan de desembarcar dándoles otra tal grita, y assí anduvieron de una parte a otra hasta la hora del mediodía. Y como vieron que los turchos no tomavan tierra, entendieron su pensamiento que de cansarlos era, y por no perderse acordaron bolver a do tenían la fragata y aguardarlos allí. Y como los turchos los vieron sossegar se hizieron a una punta una milla dellos, y allí el arráez echó en tierra doze turchos y siete moros, que por todos eran diez y nueve, de los quales el uno llevava la escopeta y los tres tres armas enastadas, y tomada tierra fueron por la lengua del agua contra los christianos, y dexando con él en la fusta solos tres turchos se detuvo a mirar cómo les suscedía para él ir contra la fragata. Y como algunos marineros vieron ir contra ellos los turchos, de gran temor que tuvieron, sin ninguna vergüença,

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como honbres viles y de poco ánimo, desamparando sus naturales amigos y christianos, la mitad dellos se fueron a esconder por la isla, y los soldados, cargados sus arcabuzes, y el piquero con su pica en la mano les fueron a hazer rostro, encomendando al patrón de la fragata y marineros que con él avían quedado hiziessen por guardarla. Pues como los diez y nueve turchos tierra tomaron, fueron contra los christianos por la lengua del agua, mas como era muy áspera y fraguosa, y el camino muy estrecho, no podían ir si no uno tras otro, y llegando a tiro de arcabuz de los soldados, se hincaron de rodillas y començaron a dar grita imbocando y llamando a Mahomad que los ayudasse; y el arráez de la fusta por los esforçar dio otra dentro della respondiéndoles, y luego se levantaron y començaron a soltar sus flechas contra los christianos. Los quales, que ainojados en tierra estavan, suplicando a nuestro Señor les diesse victoria contra sus enemigos, con gran presteza se levantaron, y uno a uno començaron a disparar su arcabuz contra ellos con muy buena orden, porque no se les atreviessen a salir tan presto del passo estrecho do estavan, y por se mejor aprovechar dellos, de que uvo algunos heridos. Y como de disparar acabaron, con gran furia pusieron mano por las espadas, y llevando delante el piquero, con grande ánimo fueron para sus enemigos diziendo: «¡Sanctiago, y a ellos!», y viéndolos ir assí tan presurosos y denodados los turchos contra ellos, dexando el tirar de las flechas pusieron mano a sus alfanges, con los quales, y llevando los tres de las armas enastadas delante, fueron a los rescebir; y juntando uno de los turchos descargó un gran golpe con una partesana al soldado que delante iva, que si no se guardara le matara, aunque por mucho que quiso guardarse le alcançó y al quanto en el hombro izquierdo y le hizo una pequeña herida; y tirándose muchos golpes unos a otros en muy poco espacio, los soldados les dieron algunas heridas y los rompieron y hizieron dar a huir las peñas abaxo la mar, donde algunos se hizieron pedaços y otros se quebraron las piernas. Y viéndolos en tal estado, los soldados les tiraron muchas piedras desde arriba, de que a otros quitaron las vidas; y como tanto daño los turchos recebían se arrojaron al agua por salvarse en la fusta, y el arráez la mandó llegar para los recoger; y porque los soldados a los remeros davan bozes que llegassen la fusta a tierra diziendo se salvarían, andava el arráez y el comitre y los otros tres desnudos los alfanjes sobre ellos amenazándolos para que no lo hiziessen, y recogidos los siete, porque los demás murieron y se ahogaron, y quedaron otros dos entre las peñas do no pudieron salir, el arráez con gran dolor mandó alçar velas y se fue la mar

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adelante, haziendo gran sentimiento por la pérdida grande que le avía venido. Y los soldados sacaron de las peñas los dos turchos, y viendo el uno mal herido le cortaron la cabeça, por ser el que avía herido con la partesana al soldado en el hombro, y al otro captivaron y preguntaron qué gente iva en la fusta. El qual les dixo lo que avemos dicho, y recogiendo los soldados las armas de los turchos y moros muertos, que eran partesanas, arcos, flechas y alfanges, con la victoria y mucha alegría de lo bien que les avía suscedido, bolvieron a la fragata y se embarcaron con fin de seguir la fusta, por dar libertad a los christianos forçados; y a ruego del patrón y marineros, que les dixeron que aunque la fusta llevase poca gente se perderían, porque los anegaría, cessó su buen propósito, y como la fusta fue quinze millas dellos alexada, porque no avían en todo el día comido ni tenían que comer, y con el mucho trabajo que avían passado les era muy necessario, recogidos los marineros que ascondido se avían, que no con poca vergüença se mostraron, y con el turcho captivo llevaron la vía de Palermo, que sesenta millas estava de allí. A la sazón que esto passó, el prior de Lombardía con la galera capitana del Papa y otra que de Nápoles avía venido estava en el Puerto de Palermo, y teniendo noticia de dos fragatas que allí avían llegado, como avían visto ir dando caça la fusta de turchos a la fragata de los christianos, aunque creyendo eran perdidos fue en busca de la fusta con fin de librarlos; y aviendo navegado en su busca tres millas, topó la fragata que en salvamento venía, y preguntándoles de dó venían, y por lengua de la fusta le dixeron lo que avía passado, de que fue muy alegre por se aver escapado sin rescebir daño y con hazerlo en sus enemigos, y dio buelta a Palermo, y juntos fueron aquel día en el puerto de la ciudad, donde tomaron tierra por dar sustentación a los cuerpos y tomar algún reposo, que bien menester les hazía, con intención de que, como reposassen y se proveyessen de bizcocho y otras provisiones, proseguir el viage de África, pues con aquel fin de Nápoles avían partido.

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CAPÍTULO XXIIII Cómo se truxo al campo del Emperador de La Goleta y otras partes artillería y municiones, y lo que visto por el visorrey y don García proveyeron.

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El capitán Cigala, que con artillería y municiones de La Goleta iva, como era el más corto viage y menos embaraço tuvo, y porque más presto fue proveído, fue el que antes bolvió al campo, y juntando el armada començó a hazer salva del artillería de las galeras; y fue bien rescebido por el príncipe, el visorrey y don García, y visto el recaudo que llevava, mandaron desembarcar las cinco pieças de artillería y muniçiones; todo lo qual y las pieças encavalgadas se subieron a la montañeta do stava el canpo, y de allí a pocos días llegó el marqués Anthonio Doria con la compañía de los soldados de los castillos, municiones y refrescos que assí mismo fue bien rescibido. Y desembarcado y juntado a la otra munición, vista la pólvora que avían llevado ser poca y no buena, y que convenía ser más spléndidamente proveídos para semejante empresa como la que avían intentado, el príncipe y el visorrey y don García escrivieron al Emperador dándole entera relación de lo inspunable y fuerte que la ciudad de África era, y cómo la avían batido y tentado entrarla por parte del rebellín, y la defensa que avían hallado, y cómo los turchos y moros se avían fortificado y la fortificación que avían hecho, y lo que se avía proveído y el poco socorro que para salir con una cosa tan grande tenían, y suplicándole mandasse proveer su campo de alguna infantería spañola de la que en Lombardía tenía, y de las partes que más fuesse servido, municiones de pelotas y pólvora, porque todo sería muy necessario pues todo era para servicio de Dios y de su Magestad, y se avía de convertir en beneficio y utilidad de sus vassallos. Scriptas estas cartas y selladas las mandaron llevar con toda diligencia. Los alárabes que en servicio del Emperador stavan, como antes de agora avemos dicho, porque paresció que de noche llegavan al campo y lanceavan, matavan y herían algunos soldados y italianos que lo proveían de bastimentos, y barqueros que de noche quedavan en tierra, el visorrey los mandó despedir y entrar dentro del campo los barqueros porque no rescibiessen daño, y assí puso estorvo en estos daños que los alárabes como enemigos hazían; y hechas todas estas provisiones, andando mirando don García con Luis Pérez la montañeta y por donde hazer daño en la ciudad y entrarla, les paresció se devía sentar otra batería a dozientos y diez passos

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más delante de la primera, acercándose más a la tierra. Y avisado dello, el visorrey la mandó plantar, y para plantarla se començó a hazer el assiento y plataformas para el artillería, y por que la trinchea que de mar a mar estava hecha le paresció a Luis Pérez ser larga para si desde allí uviessen de arremeter a la tierra, mandaron hazer otra cien passos más adelante desta, hazia la ciudad y para ir a ella otras que le correspondiessen. Pues como al Emperador se le dieron en Augusta las cartas, holgó con ellas por saber lo que su campo contra África avía hecho; y bien informado dello, con toda brevedad mandó despachar sus cartas para don Hernando Gonzaga, governador de Milán por el sereníssimo príncipe su muy charo y amado hijo, mandándole que de la infantería española que en guarnición en aquel estado estava embiasse al príncipe Andrea Doria y al visorrey de Cecilia todo aquello que para la conquista de África le embiassen a pedir, y dentro de una hora hiziesse la provisión sin poner en ello escusa ni dilación alguna, porque aquella era su voluntad y assí convenía a su servicio. Mandó assimismo escrevir al duque de Florencia y al duque y senadores de Génova que diessen todas las municiones que el príncipe a pedir les embiase para la mesma conquista, que él las mandaría pagar con las costas y gastos; y mandó screvir al príncipe y al visorrey que no alçassen el cerco de África sin que se les rindiesse o por fuerça de armas la ganassen, y sobre ello hiziessen su dever cumpliendo lo que primero les avía embiado a mandar, pues ninguna cosa para la conquista les faltaría, porque de todo lo necessario serían bien proveídos y que por la gente, artillería y municiones que uviessen menester embiassen a don Hernando de Gonzaga y al duque de Florencia y señoría de Génova, porque todo lo que pidiessen se les daría, porque assí él lo avía embiado a proveer. Y despachadas las cartas las mandó llevar a don Hernando y al duque de Florencia y a Génova, y assí al príncipe y visorrey avisándoles dello.

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CAPITULO XXV Cómo de la ciudad de Africa salieron turchos y moros a hazer daño en el campo y lo que les suscedió.

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Muchas vías, formas y maneras buscava y pensava Hesarráiz para hazer daño en los christianos, assí porque le parescía ganava mérito con su falso Mahomad, que él por bueno y verdadero propheta tenía, como pensando de ponerles algún temor y ánimo y esfuerço grande en sus turchos y moros para la guarda y defensa de la ciudad; y desvelándose sienpre en ello mandó juntar a Caidali y a los otros principales turchos y moros y les dixo: «La principal cosa, amigos míos, que da ocasión a que los enemigos pierdan el ánimo o le cobren es ver y conoscer el esfuerço que sus adversarios les muestran, y cómo se saben atrever a hazerles daño y dar continuos desasossiegos. Visto avéis cómo los christianos, teniéndonos en poco, se nos vienen acercando a nuestra ciudad con las trincheas que hazen con tanto descuido y poco temor, como si en ella no morásemos turchos y esforçados africanos. Pues aquí nos hallamos juntos turchos de la Notolia y moros de Alexandria, consideremos que al fin somos todos de una ley, pues en un solo Alá creemos y adoramos y reverenciamos, y a un Mahomad servimos y honramos, y por africanos nos podemos tener y tales nos devemos llamar, y por esto conviene poner todas nuestras fuerças en la defensa desta ciudad; y pues el loor y inmortalidad de fama de nuestros primogenitores guerreros africanos tan notoria y manifiesta ha sido y es para siempre a los que bivieren será, esforçémonos a imitar y seguir sus pisadas, specialmente las de aquel valeroso Hannibal duque de Cartago, que guerreó los romanos dentro de sus propias tierras diez y seis años y los venció en quinze batallas campales, llevando la honra y victoria dellas, y con sus vanderas tendidas y desplegadas llegó a vista de aquella poderosa, grande y muy famosa ciudad de Roma con sus propios africanos. Y pues sólo él con ellos bastó a ganar tanta honra contra tan grande potencia y poder como los romanos en aquellos tiempos tenían, y nos dexó en aquella buena possessión y fama, justo es nosotros la conservemos. Y no sólo a conservarla tenemos obligación, mas aun passar adelante su honra y la nuestra, para que por nós ellos, que por sí bolver no pueden pues son defuntos, no pierdan, y nosotros entre los que oy biven y después de nós vinieren merezcamos. Y esto no se puede hazer si no es aventurando las vidas a todos peligros y poniendo las personas a todos

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trances, porque cierto es ninguna cosa mucha pudo costar poco, mayormente la honra, que es cosa de tanto peso y de tanta stima y valor que pocos son los que la adquieren sin grande fatiga y travajo. Todo esto, amigos y hermanos, os he querido dezir para que cada uno piense y considere que por el valor de su persona y esfuerço de su coraçón se ha de valer y defender y guardar su muger y sus hijos y hazienda, y que procuremos hazer tal daño a nuestros enemigos que los compelamos y constriñamos a que nos teman. Y para esto, si os paresciesse, sería de mi parescer que al medio día, quando ellos estén muy descuidados, salgamos a enojarlos, que yo soy bien cierto no lo temen, a lo qual salgan dozientos turchos y moros con orden de favorescerse a las más cercanas trincheas donde están, y hagan por matar sus centinelas y todo el mayor daño que en los soldados puedan. Y para que lleven seguridad los que a ello fueren, yo porné tal guarda sobre la barbacana, que quando les conviniere retirarse desde ella les den todo favor y daño a los enemigos, y de quando en quando tocándoles arma de día y de noche desasossegarlos emos tanto que de puro desvelados muchos enfermen; y quando nos paresciere los tenemos cansados y fatigados de manera que dellos nos podamos aprovechar, como ya platicado y acordado tenemos, una noche saltaremos a ellos y los desbarataremos y romperemos, y por fuerça les haremos nos descerquen. Por tanto en esto pensad, y, si os paresciere, póngase en esecución». Oída la propusición de Hesarráiz por Caidali y todos los demás començaron a tractar dello, y muchos lo aprobavan y muchos lo contradezían, como en los comunes suele acaescer, diziendo que tentar semejante cosa de día lo tenían por muy peligroso, porque breve podía venir un gran desmán con que la ciudad se perdiesse. Mas como entre ellos avía muchos turchos y moros africanos mancebos y desseosos de ganar honra, sintiendo mucho esfuerço con las palabras de Hesarráiz y favoresciéndolas Caidali, vinieron en aprovarlo y que se tentasse y saliessen a la hora acordada. Y venidos en ello, Hesarráiz mandó que Caidali siempre tuviesse la guarda de la puerta y no la desamparase con los cinqüenta turchos que para ello tenía, y que Mayhenet saliesse a hazer el efecto y llevasse los turchos y alexandrinos que allí le señaló, y quedasen en la barbacana cient turchos y africanos escopeteros para si conviniesse dar el socorro se le diesse con grande presteza. Y todo proveído salieron del consejo y bolvió cada uno donde avía de estar, y como fue la hora del mediodía, quando pensaron los christianos dormían y descansavan con el gran calor y que reposavan de los travajos

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passados, porque de noche con la vela que tenían al campo y al hazer de las trincheas, avían travajado mucho, Mayhenet con los turchos y moros, que avisado fue por los que en la barbacana hazían la vela que en el campo sossegavan, fue para la puerta de la ciudad, la qual le fue abierta por Caidali, y encomendándose a Mahomad, con una azagaya en la mano y su alfange ceñido y una celada en la cabeça, salió con doze turchos escopeteros quedando los demás, saliendo poco a poco para ir en retaguardia, y muy passo, sin hazer ningún bullicio, fueron para la trinchea, donde aquel día cabía la guardia a los capitanes don Bernaldino y Çumarraga con sus campañías. Y como la centinela velava sin descuido, como se abrió la puerta de la ciudad y salió Mayhenet con los turchos lo vió, y sin hazer ningún rumor ni ser sentido avisó otra centinela que estava delante dél hazia el campo, y de mano en mano llegó el aviso a los capitanes. Los quales con mucha diligencia, sin que se publicasse, de manera que los turchos supiessen sabían su venida, hizieron avisar los soldados para que estuviessen apercebidos, y don Bernaldino mandó que ninguno disparase arcabuz ni hiziesse otra cosa hasta que los turchos llegasen a la trinchea, para que mientras de la ciudad más se alexassen pudiessen hazerles mayor daño, y assí estuvieron con gran silencio muy avisados. Y como Mayhenet con los doze turchos llegó junto a la trinchea y vio los soldados, porque luego parescieron, alçando un turcho que junto a él iva el braço, tiró un azagaya contra un forçado de las galeras de Cecilia que en la trinchea trabajava, y al mismo tienpo que le alçó para tirar, un arcabuzero disparó contra él y diole un arcabuzazo por el cuerpo y le derribó muerto, de manera que ambos cayeron a un tienpo. Y luego un soldado portugués llamado Juan de Sosa, viendo llegar un turcho animosamente a la trinchea, que entre los turchos era mucho estimado y tenido en lugar de principal hombre de guerra por señaladas cosas que dezían avía hecho, con una celada en la cabeça y un alfange y rodela en las manos, con su spada desnuda y una espuerta de las que en la trinchea estavan, llevándola como por escudo fue para él y combatieron uno contra otro, y dio heridas al turcho de que le mató. Por lo qual y su buen ánimo, aunque avía ido contra el vando y merescía grave pena, don García le perdonó; y no sólo hizo esto, mas por animar y esforçar la gente del canpo a que de buena voluntad peleassen le dio cinqüenta escudos de oro. Por ambas partes se tocó arma, y los atambores del campo tocaron, y començosse a disparar arcabuzería y escopetería, y al arma ocurrieron don

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Bernaldino y Çumarraga armados de sus coseletes y sus espadas y rodelas, y animando los soldados salieron con ellos de la trinchea y començáronse a rebolver con los turchos. Los quales, como gente de buen ánimo, se defendían y ofendían los christianos, y como el arma se tocó, todos los soldados y cavalleros de la Religión ocurrieron a sus vanderas para estar apercebidos. Y el visorrey se armó y salió de su tienda con las guardas para saber lo que era, y proveer a lo que suscediesse. Y don García con algunos gentiles honbres hizo lo mismo. Peleando los capitanes y soldados con los turchos, començaron a caer algunos turchos muertos y otros muy mal heridos, y Mayhenet, viendo quán prestos, aspertos y despiertos los christianos avían hallado, por no se perder, dexando muy mal heridos dos soldados en tierra de dos rezios escopetazos y perdido quatro turchos, se començó con los suyos a retirar. De los quales, aunque heridos algunos estavan, con el temor que de la muerte tenían se levantavan, y coxqueando, cayendo y levantando con gran esfuerço bolvían a salvarse a su ciudad al más largo passo que podían, siempre peleando y dándoles bozes Hesarráiz y los turchos de la barbacana, porque les avían estorvado el socorro por ver el campo tan bien apercebido, y temiendo que todos los que al socorro saliessen se perderían. Pero por los más favorescer y animar, mandó jugar de la barbacana la escopetería contra los christianos, y començándola a disparar hirieron algunos soldados, y en el entretanto tuvieron lugar de entrar sin rescebir más daño, porque hallaron abierta la puerta y en ella Caidali que los aguardava, que los rescibió y la mandó cerrar, y los capitanes con los soldados bolvieron a la guardia y trincheas donde estavan, mandando llevar a otros soldados los que allí avían herido al ospital, para que fuessen curados, y otros soldados cortaron la cabeça del turcho que por valiente los turchos tenían, y la pusieron en una pica y alçaron en alto para que de los turchos y moros de la ciudad fuesse vista, assí como ellos les avían hecho ver en la azagaya en el muro de la ciudad, la del alférez Pantoja. Como la escaramuça fue passada, el campo se sossegó y los maestros de campo, capitanes, cavalleros y soldados bolvieron a sus alojamientos, y el visorrey a su tienda, y don García anduvo proveyendo la buena guarda del canpo, y avisando sienpre velasen, porque los turchos no los hallassen descuidados y hiziessen daño. Y como de la ciudad se vio la cabeça del turcho en la pica, Hesarráiz y los otros turchos y moros lo sintieron y lloraron mucho porque tan mal le avía suscedido la salida della, y tanbién por aver perdido un turcho que por tan

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valiente tenían. Y por onrarlo en muerte assí como lo querían y amavan en vida, según su costumbre mandaron hazer bien por su ánima diziendo iva salvo a la gloria de Alá, porque Mahomad lo recebía y se lo presentava muriendo peleando contra los christianos y en defensa de su ley, y assí lo creían por muy cierto como aquellos que por verdad lo tenían. Y como el visorrey supo la cabeça del turcho avían los soldados puesto en la pica le pesó dello, paresciéndole que de tan poca cosa no avían de hazer caso, porque si los moros y turchos la de Pantoja avían en la azagaya mostrado, era porque lo hazían como a manera de hazaña y victoria avida, y porque entendiessen aquello estimava en poco, la mandó de la pica quitar. Muley Hacen que en el campo como avemos dicho estava, aunque dél no se ha hecho mención, por la falta de su vista, enfermo de calenturas y siendo sus días complidos, dio fin a su vida y murió en este tiempo; el cuerpo del qual fue llevado a dar sepoltura al Queruán por mandado del visorrey por Mahemud, alcaide de una su villa llamada Repes y con otros moros en su conpañía. El qual fue muy llorado de sus hijos y del xarife y otros moros que bien le querían. Lo qual no fue de Hamida, antes se holgó como lo supo, porque siempre le temía y por su causa al Emperador.

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CAPÍTULO XXVI Cómo Dragut tuvo noticia del cerco de África y como se determinó de la ir a socorrer, y de lo que para ello acordó y hizo.

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Ya avemos dicho que el día que el armada del Emperador una milla de África tomó tierra y se sentó en la montañeta el campo, que de la ciudad salieron Caidali con trezientos turchos y moros escopeteros y flecheros, y Mayhenet con sesenta de cavallo, con fin de hazer daño en los christianos y defenderla si pudieran, y que los arcabuzeros del campo les dieron tanta prisa que algunos, assí de cavallo como de pie, temiendo perder las vidas, no osando aguardar al entrar la puerta de la ciudad, huyeron y se fueron por la montaña. Pues fue assí que haziendo mucho sentimiento por dexar algunos dentro sus mugeres y hijos, padres y hermanos, y otros deudos, llevaron el camino de Çuça y de otras tierras de la comarca, y en ellas dieron nueva de lo que passava, y, llegando a los Gelves, a la muger de Dragut. La qual sintiéndolo mucho, y la pérdida de Monazter y los turchos que allí avían muerto, y la rebelión de los de Çuça que de todo tuvo noticia, lo escrivió a su marido, y la relación de la gente que avía en el campo del Emperador y cómo convenía le fuesse a dar socorro, assí para dar ánimo a los moros que dentro estavan como para que los christianos los temiessen, a fin de que le alçasen el cerco. Y escrita la carta, mandó a un turcho criado de Dragut se embarcase en una fusta y fuesse en su busca con toda diligencia y se la diesse. El qual embarcado començó a navegar la vía del reino de Nápoles, pensando toparle por allí, y de otros turchos cossarios que en galeotas y fustas de armada corrían la mar tuvo noticia andava por la costa del reino. Y prosiguiendo su viage llegó hasta cerca de una villa llamada Asparlonga, donde descubrió su armada que venía del reino de Valencia y de tentar tomar la villa, y no avía podido por hallar en ella mucha resistencia. Y como la vio fue para ella y entró en su galera y le dio la carta de su muger; y por él vista le dolió mucho saber el daño rescebido en los turchos y moros de Monazter y de que en Çuça no lo uviessen querido por señor, y de que África estuviesse cercada, paresciéndole que, pues españoles la avían cercado, devía ser por mandado del Emperador, y que gran trabajo ternía en la poder descercar, porque siempre el Emperador mandaría socorrer y proveer su campo de lo que menester uviesse como poderoso príncipe y señor, lo que él no podía hazer a África por no tener

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para ello poder. Y para tomar consejo mandó dar fondo al armada y juntar en su galera los capitanes y turchos con quien se solía aconsejar, y mostrando mucho sentimiento en su rostro les començó a dezir: «Hermanos y verdaderos amigos, memoria tenéis cómo procuramos con trabajo y fatiga aver la ciudad de África, donde nos poder guardar y valer de la furia y poder del Emperador. En la qual dexamos por nuestro governador y alcaide a Hesarráiz mi sobrino, por ser como es honbre sabio y de quien todos lo devíamos confiar. Y paresce que, queriéndonos la fortuna començar de veras a perseguir, ha permitido que el Emperador aya sospechado nuestra intención, porque a Monazter, que en buena guardia dexamos, el príncipe Andrea Doria con el armada real passó a cuchillo a Cayde Ahamat y los turchos que con él quedaron, y la mayor parte de los moros dél, y captivó los demás y todas las mugeres y criaturas, y los an vendido por esclabos en Cecilia y Nápoles. Y los ciudadanos de Çuça quisieron matar a Caidali, el qual con los veinte turchos y moros que le dexé, vista su rebelión y alteración se fue a África do está. Y no sólo passa esto, mas el príncipe Andrea Doria ha ido con exército de christianos españoles sobre la nuestra ciudad de África, y la tiene cercada de manera que la piensa entrar y hazer lo mismo que en Monazter. Pues a todos en general toca la guarda y conservación della, por el bien universal que de la posseer se nos sigue, pensad en cómo la descercaremos y para ello me dad vuestro parescer», y mostróles la carta que sobre ello se le escrevía. Oído por los capitanes y turchos y vista la carta les pesó mucho dello y del daño rescebido en los de su ley y del cerco a la ciudad puesto, y començaron a tratar dello, y, fin de muchos paresceres que tuvieron, acordaron que, aunque se aventurase lo que se pudiesse aventurar, convenía la ciudad fuesse socorrida y que para ello llevasse el viage de los Gelves y recogiesse la más gente que pudiesse, y de allí fuesse a las villas de los Izfaquez y Querquenes y sus comarcas y hiziesse lo mismo, y que con ella y con ochocientos turchos que de sus galeras y navíos sacasse hiziessen por descercarla, y descercada procurase de le dexar mejor guarnición y más bastimentos y municiones, porque, como aquello tuviesse, su fuerça era tal y tan grande que por ninguna vía ningún exército después se la podría tomar. Y aquello devía poner luego en execución, porque el canpo del Emperador no se fortalesciesse más y con la dilación rescibiesse mayor daño. Y paresciéndole bien a Dragut lo aprovó y mandó alçar áncoras y con gran furia començar a navegar la vía de los Gelves, llevando delante descubriendo

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un vergantín para tomar lengua si alguna galera o navío se desmandava del armada del Emperador hazer el daño que pudiesse, y para se guardar della si, sabiendo navegava, fuesse contra él. Y siguiendo su navegación sin hallar cosa que estorvo le pusiesse, ni en qué daño pudiesse hazer, llegó a los Gelves y saltó en tierra y fue al palatio del xeque Calac. El qual le rescibió bien, preguntándole cómo tan presto era su venida. El qual le dixo: «Señor, las necessidades que a los honbres de guerra de cada día ocurren son tantas que les hazen mudar de propósito. Y esto digo porque, andando por la mar usando mi costumbrado oficio de hazer mal y daño a nuestros capitales enemigos los christianos, tuve nueva me an cercado la ciudad de África gente española del Emperador, con fin de me della desapoderar. Y vengo a vos, como a señor poderoso, para ir a descercarla y para que me socorráis y ayudéis y déis licencia que en vuestras tierras a mi costa haga para este efecto alguna gente, para que nuestros enemigos no se apoderen en las tierras de Berbería, con que nos hagan grande daño, y escusemos tantos males como dellos se nos podrán seguir». Oído por el xeque le pesó mucho dello, y encubriéndolo lo que más pudo le dixo: «Dragut, sossegaos y no os congoxéis, que yo avré mi consejo y os mandaré responder», y despidiéndole mandó llamar los de su consejo a los quales propuso lo que Dragut le pedía y para qué efecto, pidiéndoles parescer sobre ello. Los quales comunicado y tratado el negocio le respondieron que para semejante enpresa convenía dexarle hazer mil y quinientos moros de que se pudiesse ayudar con sus turchos, pues a su costa los pedía, porque si África se tomava él era luego perdido y de fuerça avía de ser vassallo del Emperador. Y paresciéndole bien al xeque lo aprovó, y mandó llamar a Dragut y le dixo: «Dragut, amigo, sienpre mi fin y voluntad fue ser amigo de mis amigos y enemigo de mis enemigos, especial de aquellos que nos son capitales que procuran deshazer nuestra sancta ley. Aviendo yo considerado vuestra buena voluntad que es sienpre servir nuestro sancto propheta Mahomad y aumentar su bendita y verdadera fee, tengo por bien que en mis tierras hagáis mil y quinientos honbres que llevéis para vuestra ayuda y socorro y descercar los africanos; y desde luego tenéis mi consentimiento para los hazer, porque yo lo tengo por bien». Mostrando gradescerlo mucho, Dragut le rindió por ello las gracias, y salido de su palatio mandó a sus capitanes hiziessen tocar sus atanbores y

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gaitas por los lugares y aduares, publicando guerra para ir a descercar a África, y que los que a ella quisiessen ir serían muy bien pagados antes de se embarcar, y unos por ruegos y otros paresciéndoles salvavan las ánimas en ir a pelear contra los christianos, en pocos días hizo los mil y quinientos peones. Y hecha muestra dellos, viendo ivan bien armados con escopetas, arcos, flechas, lanças, alfanges y otras armas, les mandó dar paga y enbarcar; y despedido del xeque se enbarcó y mandó alçar velas, y començó a navegar el viage de los Izfaques, que estava de allí sesenta millas, y con buen viento que tuvo, en pocos días llegó cerca dellos. Y antes de saltar en tierra mandó juntar en su galera al Copo y Carmamí y los otros sus capitanes, a los quales dixo: «Amigos míos, entendido tenéis que con quién imos a conbatir son españoles, y que vamos con ánimo de morir o descercar nuestra ciudad y sacar de peligro nuestros parientes y amigos. Y para hazer este efecto no sólo me paresce bastará la gente que de los Gelves traemos y la que aquí en los Izfanquez y su comarca podremos hazer con los que aquí venimos, mas aun sería bien, si os paresce, que embie a pedir socorro a Hametalfa señor del Queruán, pues es morabito y hijo de Cidalfa, papa que fue de la morisma deste reino, que persona de tal qualidad no podrá dexar de ser sanctíssimo moro y bolver por nuestra sanctíssima ley, assí por lo que toca a su ánima y conciencia, como porque no se diga dél que en semejante tiempo dexa de dar socorro en cosa tan nescessaria y importante. Y si os paresce dello tractemos, dezidme cómo y con quién se lo embiaremos a pedir». Oído Dragut por los capitanes y turchos començaron a hablar del negocio, y fin de rato que dello trataron se resumieron en su parescer y dieron la boz al Copo que le respondiesse. El qual hablándole con acatamiento le dixo: «Conoscida cosa, señor, es que el pescado mayor come y deshaze al menor, y el gruesso exército de gente de guerra se haze temer del menor, y el honbre valiente del flaco y cobarde, y por el consiguiente assí todas las cosas sobrepujan lo más a lo menos, y por esta razón quiero dezir que si toda la gente que aquí traéis, como son mil y quinientos moros de los Gelves, fueran turchos, era muy importante cosa, porque más pelearán quinientos turchos que mil y quinientos moros, porque no son tan diestros ni tan animosos ni para tanto, y que por aquí ayáis otros dos mil moros y con turchos que en tierra podréis echar para ir a descercar a África es todo poco, porque de fuerça avéis de dexar guardada el armada con capitanes y gente de guerra, y por sólo esto es muy bien pensado que al señor del Queruán embiéis a pedir

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socorro para esta gran nescesidad. El qual, si a vos señor paresce, le devéis embiar a pedir con sus vezinos y naturales de su nación, para comoverle a que con mayor brevedad, voluntad y diligencia lo haga. Y a esto vayan seis de los africanos que en vuestra armada traéis, porque de mejor manera por lo que en ello les va se lo sabrán pedir y demandar, y no podrá ser que no hagan impressión en él para que os lo dé. Y lo mismo embiad a pedir a Hamyda rey de Túnez, porque aunque con vos no esté muy bien, por os aver apoderado de África, sabiendo que el campo del Emperador está sobre ella holgará favoresceros porque el Emperador no la aya, porque aviéndola temerá le desherede y qualquier socorro que dé para esto no podrá dexar de hazer mucho al caso. Y junto lo uno y lo otro con vuestro canpo, mandaréis avisar a Hesarráiz y Caidali por alguna manera possible que una mañana al alva daréis con vuestros turchos y moros en el canpo del Emperador, y que quando sientan vuestras trompetas, clarines, atambores y gaitas salgan a se juntar con vos, para que todos juntos peleemos y les demos la batalla, y assí muy en breve desbarataremos el canpo, y de otra manera téngolo por muy dificultoso, porque la principal causa que esto me mueve a deziros es tener como tengo por cierto que en el canpo del Emperador están descuidados de que vos váis a socorrer la ciudad, porque piensan y creen que andáis por la mar, y porque haziéndolo con diligencia y secreto no se podrá dexar de conseguir buen fin dello». Aviendo oído Dragut al Copo aprovó su parescer y de los más capitanes que en ello avían sido, y por evictar dilación mandó llamar en su galera seis de los africanos más ancianos y de más qualidad, a los quales dixo: «Porque ya mi intención os es notoria de la voluntad y desseo que de morir o descercar a África traigo, no será nescessario referírosla más de deziros lo que conviene para que aya conplido efecto. Por lo que a todos toca, conviene que luego toméis tierra y por la posta váis al señor del Queruán y le digáis la necessidad en que los africanos están, y con toda humildad de mi parte y la vuestra le supliquéis nos dé su ayuda y socorro para descercar la ciudad, ofreciéndomele a mí, que sienpre que en su servicio me querrá mandar, me hallará verdadero y grande amigo y a vosotros por siervos perpectuos». Oído por los africanos le respondieron que de muy buena voluntad lo conplirían, y sin más dilación llegaron los navíos a la lengua del agua y tomaron tierra; y proveídos de cavalgaduras con mucho dolor de saber el aprieto en que sus mugeres, hijos, padres, hermanos, deudos, amigos y

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naturales estavan, partieron y començaron a caminar al Queruán, que de allí ciento y quarenta millas estava. Y assí hizieron otros embaxadores moros que a Túnez a Hamida Dragut enbió, y él saltó en tierra y fue para la villa donde de los governadores fue bien rescebido. Y preguntada la causa de su ida les dixo la voluntad que de descercar a África llevava, y la gente que en los Gelbes avía avido, y les rogó tuviessen por bien en aquella villa y sus aduares hiziesse alguna más para el mismo efecto, pues aquello tocava al bien universal de toda la Berbería, porque si el Emperador en África se apoderava les convenía despoblar la villa y ir a buscar nueva tierra do abitar o quedar, a peligro de para sienpre ser captivos, y harían dellos lo que de los de Monazter avían hecho. Y díxoles tantas cosas y púsoles tantos temores que no sólo vinieron a conceder en que hiziesse la gente que pedía, mas que quando no quisiessen ir los apremiarían a ello. Y con esta respuesta mandó tocar sus atambores y gaitas en la villa, y ir capitanes en los lugares de la comarca, y desembarcar los moros que traía con Carmamí y otros capitanes, y entrar al Copo en su galera capitana para guarda del armada, y hazer bastimentos para el canpo que avía de llevar, y partió para los Querquenes, que de allí estavan veinte y cinco millas, y hizo otra plática a los governadores para que le dexassen hazer gente. Y avida la licencia la mandó hazer con toda la diligencia possible.

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CAPÍTULO XXVII Cómo los embarcadores que Dragut embió al Queruán y Túnez dieron sus embaxadas a Hametalfa y Hamida, y lo que les respondieron y proveyeron.

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Los seis moros africanos que por mandado de Dragut a pedir socorro al señor del Queruán fueron, continuando su camino llegaron en aquella ciudad y enbiaron a pedirle licencia para le dar su enbaxada; y por él concedida, todos seis vestidos de aljubas negras como manera de luto y con mucha tristeza fueron para su palatio, y siendo en él le hallaron en una sala sentado sobre quatro coxines de seda, y viéndole se le humillaron, y llegando junto a él se ainojaron en tierra y le tocaron con la mano la ropa y se la besaron; y mostrando en el semblante de su rostro la tristeza de sus coraçones, el más anciano dellos començó a hazer esta oración: «Sanctíssimo morabito y señor, Dragut, enemigo y desservidor del nonbre de Jesú Christo y de todos aquellos que en él creen y adoran y christianos se llaman, besa vuestras manos y dize que, desseando aumentar y ensalçar nuestra sancta bendicta y cathólica fee, ha procurado hazer todo el mal y daño que en los baptizados enemigos de nuestra buena y verdadera ley ha podido, y que para poderlo hazer mayor él se apoderó en la ciudad de África más con voluntad de guardar su persona y los suyos que de tiranizarla, porque después que della se apoderó, los africanos an sido dél muy bien tratados y honrados, y lo mismo piensa continuo hazer, y que viniendo a noticia del Emperador de los christianos averse della apoderado, ha embiado su campo contra la ciudad por la aver para sí. La qual tienen tan cercada y apretada que, si socorro no tuviesse, por fuerça de armas los christianos della se apoderarían, porque de cada día le dan continua y rezia batería sin cessar con muchas gruessas pieças de artillería, y que conosciendo que vuestra grandeza, como hijo que fuistes y sois de aquel sancto Cidealfa, que fue verdadero protethor y defensor de nuestra sanctíssima ley y muy verdadero y buen pastor, el qual si oy biviera no dexara padescer ni perder su ganado, pues fue criado y elegido para guarda y defensa de la religión morisma deste reino y para remedio de los agraviados y refugio de los mal tratados y afligidos, creyendo que la misma voluntad y desseo ternéis en imitarle y parescerle, ocurre a vos y os suplica, y nosotros por nós y en nonbre de los trabajados y desconsolados africanos, humilmente dé merced y en charidad limosna os pedimos, por aquella devida fee que a Alá y Mahomad devéis, le

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mandéis dar vuestro socorro y ayuda para contra estos infieles enemigos tanto nuestros para salvar y descercar esta ciudad tan importante, y evictar y estorvar los males y daños que podrá rescebir, y de cada día la Berbería, apoderándose della el Emperador, pues demás de hazer vuestra grandeza lo que al servicio de Alá y Mahomad devéis, redimiendo una ciudad como África, de que no venga a poder y so el duro yugo de los infieles, adquiere gran grado de gloria para su sanctíssima ánima y grandíssima honra y gloriosa memoria para en el mundo». Oída la embaxada por Hametalfa, los mandó levantar diziendo que se miraría en lo que pedían y los despacharía, y teniendo los africanos aquello por buena respuesta se tornaron a arrodillar y le besaron la ropa; y él los mandó aposentar y proveer de lo que uvieron menester para sus personas, criados y cavallos, y juntar los del su consejo, a los quales dio parte de lo que Dragut y los africanos le pedían, y les pidió su parescer acerca dello. Y aviéndose sobre ello comunicado le respondieron que, pues avía prometido de ser en favor del canpo del Emperador y no ofenderle, y assí hasta allí lo avía mostrado, aquello devía llevar adelante, porque si socorro dava a Dragut para ofenderle, ofendía y enojava la imperial persona del Emperador, y que si a África tomava, procuraría deseredarle y sería ocasión que todos se perdiessen, quanto más que no sólo avía con el xarife en nonbre de Luis Pérez capitulado no socorrer a África, pero defender y estorvar que los alárabes ni otros enemigos le dañassen, pero que usando de cautela aguardase a ver en qué parava lo que Dragut haría contra el canpo, y que si victoria uviesse, hiziesse muestra de darle favor en tiempo que no le pudiesse aprovechar para complir con la morisma, porque desta manera estaría en amistad y gracia del Emperador, y que, en el entretanto que se sabía lo que passava, detuviesse con palabras los embaxadores sin les dar ninguna respuesta. Oído por Hametalfa y paresciéndole bien se tuvo por bien aconsejado, y con este parescer detuvo algunos días los embaxadores sin les querer dar ninguna respuesta, por mucho que sobre ello le importunavan. Y tomando ellos sospecha con su dilación que no les daría el socorro como lo desseavan y se lo pedían y les convenía, lo escrivieron a Dragut. Los embaxadores que a Túnez fueron dieron a Hamida su embaxada y le suplicaron por el socorro que Dragut le embiava a pedir, ofreciéndole verdadera amistad contra el Emperador y contra otros qualesquier enemigos que para le desheredar o enojarle tuviesse con juramento. Y por Hamida oído

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los mandó levantar, y diziendo los despacharía con brevedad los mandó aposentar y proveer. Y avido su consejo sobre ello, poniendo delante las causas, daños e inconvenientes que le podrían susceder de señorear a Africa el Emperador o Dragut, considerado y consultado todo, tuvo por mejor que antes fuesse de otro infiel como él, temiendo que, la ciudad tomada, sería despojado. Y por esto luego deliberó de le socorrer con ochocientos hombres de cavallo, los quales mandó juntar y con tres capitanes partir a le servir y ayudar, y assí despachó muy contentos los embaxadores. Pues sabido por Dragut la dilación de Hametalfa, y sospechando su fin quál fuesse, porque tenía nueva que le avía pesado de que él estuviesse apoderado de África, con Izfaquez, Querquenes y sus aduares junto con dos mil y dozientos moros de pie y sesenta de cavallo, aunque algunos contra su voluntad forçados por los governadores, y mandándoles dar paga los juntó a los mil y quinientos que de los Gelves traía, con que todos fueron tres mil y setecientos peones y sesenta de cavallo. Y como los tuvo juntos mandó a un turcho, que por diligente y para mucho tenía, que fuesse para África y por la parte de la mar procurase entrarla y dixesse a Hesarráiz y Caidali que dos horas antes del alva del día de Sanctiago estuviessen apercebidos y avisados con la gente de guerra de la ciudad, para que él llegaría a aquella hora con quatro mil y quinientos hombres de pie y de cavallo que llevava a herir en el campo del Emperador, y que ellos saliessen de la ciudad sintiendo la buelta y hiziessen por se juntar con él o romper por la parte que del campo pudiessen, para desbaratar los christianos y descercar la ciudad. Y despacholo de palabra y no por escripto, porque si preso fuesse la carta no diesse aviso. Y mandó caminar con el campo a Carmamí la vía de África, que por tierra estava ochenta y cinco millas, con diligencia, y él navegó por la mar con su armada para se juntar con él donde mejor le paresciese. El turcho, que bien entendido era, caminó a toda furia hasta llegar al olivar, que de África estava una milla, y como llegó a hora de bísperas del día de la Magdalena se detuvo ascondido hasta dos horas después de noche. Y paresciéndole que seguro a África podría ir, llevando la lengua del agua por amparo, para que si enemigos hallasse arrojarse a la mar y salvarse, por ser buen nadador, començó a ir a la ciudad; y como ninguno que el passo le ocupasse halló, llegando cerca de la ciudad se arrojó al agua y nadando fue hasta las troneras por donde Dragut entró la ciudad, y diziendo a las velas cúyo era le arrojaron una cuerda de cáñamo con que por el cuerpo se ligó, y tirando desde arriba le subieron sobre el muro, y como le conoscieron con

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grande alegría le llevaron a Hesarráiz y Caidali. Los quales le rescibieron con gran regozijo, preguntándole dónde Dragut quedava. El qual les dio su mensage y dixo cómo iva en su socorro y con qué gente, y cómo pensava descercarlos y lo que ellos para ello avían de hazer. Oído por Hesarráiz dio muchas gracias a Mahomad, y cinqüenta escudos y ropas de su persona al turcho. Y por alegrar la gente de la ciudad, mandó se publicasse por ella y hazer zambras y otros regozijos, con que todos mucho se alegraron y cobraron gran ánimo y quedaron desseosos de ver el día de Sanctiago, pensando triunphar de los christianos, quedando ellos libres en su ciudad. Prosiguiendo Carmamí su camino con la gente de guerra que llevava, no pudo caminar con la diligencia que pensó, y a esta causa no llegó en parte donde se pudiesse juntar con Dragut, para hazer lo que avía pensado. Antes Dragut llegó a seis millas de África, donde por ser aparejado para desembarcar echó en tierra seiscientos flecheros y dozientos escopeteros turchos, y mandando bolver los capitanes con sus navíos a los Izfaquez, por temor que tuvo que siendo descuviertos por el armada del Emperador el príncipe procuraría destruirle y averla, y él quedó aguardando a Carmamí; y como se juntaron caminaron lo más que pudieron y llegó a la hora del alva del día de Sanctiago hasta un repecho un poco atrás del olivar do ivan del canpo del Emperador por rama y faxina para fortificar, y en una casa con una torre que en el repecho estava se alojó con algunos capitanes y el campo do no podían ser vistos, aunque pesándole mucho de no aver podido llegar a tiempo de complir lo que avía embiado a dezir a Hesarráiz y Caidali. Y desmandándose algunos moros fueron a la marina donde avía muchos altos juncares, y allí començaron a descansar del trabajo del camino, y Dragut se sossegó hasta tornar a avisar a Hesarráiz a qué tiempo se acordarían dar en el campo del Emperador, y embió algunos a reconoscerlo, mandándoles si pudiessen aver algún christiano desmandado se le llevassen para se informar dél.

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CAPÍTULO XXVIII Cómo el día de Sanctiago se travó escaramuça entre la gente de guerra del campo con Dragut y sus turchos y moros, y lo que en ella suscedió.

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Teniéndose como se tenía por costumbre ir del campo del Emperador una compañía de infantería a hazer guardia a los gastadores que ivan al olivar por la faxina y rama para la fortificación de las trincheas, el día de Sanctiago cupo la guardia al capitán don Alonso. El qual a la hora de las diez de la mañana salió del campo con su compañía armado con su coselete y armas, y con la de los ciento y treinta griegos gastadores, con su vandera blanca y colorada como gallardete, y con otros ciento y cinqüenta barqueros y taberneros italianos que ivan por leña, para guisar la comida. Y llegando a la tienda del visorrey por do passava, de parte del visorrey el sargento mayor le mandó que no passasse delante hasta que se le mandasse. La causa fue por que, aunque los alárabes estavan despedidos del servicio del Emperador, el xarife que los comunicava avía dellos entendido que avía de venir socorro a África, aunque no se sabía que tanta gente ni que Dragut iría al socorro más de que se lo avía embiado a prometer, y como ya se tenía esta nueva y aviso del xarife y la sospecha de que avía enemigos, porque algunos moros parescían por las montañas para proveer de mejor guarda. Y obedesciéndolo el capitán con la compañía se detuvo, y el xarife con tres moros fue a la parte del setemptrión do las junqueras eran, y reconosció por junto a ellas algunos peones; y de allí dio buelta a la mano derecha a la parte del mediodía, y vio que, saliendo un soldado arcabuzero de la parte do los comendadores hazían guardia para donde la compañía de don Álvaro guardava el campo, salió contra él del olivar un moro desnudo en cueros, con unos pañicos delante de sus vergüenças, con una lança en la mano tras él, y otro moro vestido y con otra lança, y en su seguimento, del través, un moro de cavallo a favorescerlos. Y como el soldado los vio ir para él se detuvo y encaró su arcabuz, y llegando los moros cerca dél le disparó contra el que iva desnudo por estarle más cerca. Y como el moro en ninguna parte sossegava de temor que le acertase, el soldado herró el tiro, y acabando de disparar el moro hizo hincapié para tirarle, y el soldado puso mano a la espada para defenderse. Y paresciéndole al xarife que el soldado era perdido si socorrido no era, puso las piernas al cavallo, y con él sus moros con sus lanças en las manos para socorrerle; y sintiendo el moro, que afirmado estava para tirar la lança, el

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tropel de los cavallos, y viendo ivan para él, no osó tirar. Y el moro de cavallo llegó al correr del suyo y hizo retirar los moros a los juncares, y como no sabía quién el xarife fuesse, llamándole él xarife bolvió a le hablar y le preguntó qué gente era aquella que por allí parescía. El qual, aunque creyendo que enemigo de christianos era, por se lo encubrir le dixo que no sabía; y preguntándole el moro a él qué buscava por allí, le dixo que avía andado mirando el campo desviado dél, por ver los christianos. Y fin de rato que el uno al otro se preguntaron, y que ninguno pudo saber lo que del otro quería, se despidieron, y el moro fue para las junqueras de la marina, do la gente de Dragut estava, y el xarife bolvió al campo y topó con Luis Pérez, que un poco delante de la conpañía de don Alonso a cavallo estava, y le dixo: «Señor Luis Pérez, poca gente es esta para ir al olivar, porque soy sospechoso ay enemigos y, si os paresce, vamos al señor visorrey y darle y el aviso dello». Paresciéndole bien a Luis Pérez le dixo que fuesse, y porque muchos de los marineros y taverneros vio ir delante de la compañía de don Alonso el camino del olivar, los mandó bolver atrás, y con el xarife fue a la tienda del visorrey donde el xarife le dixo lo que avía visto y su sospecha. Y avido consejo sobre ello, el visorrey y don García y Luis Pérez se resumieron en que no se dexasse de ir por la rama, pero que fuessen con mejor guarda, llevando demás de la compañía de don Alonso las compañías de don Álvaro y Hernán Lobo y otros gentiles hombres, y el capitán Amador, para que si enemigos les saliessen al camino los pudiessen resistir y ir el visorrey con ellos, y que don García quedasse en la guardia del campo, para que si los turchos y moros quisiessen salir de la ciudad a juntarse y socorrer los que viniessen se lo defendiesse. Y assí para este efecto el visorrey embió a mandar a Hernán Lovo y don Álvaro con sus compañías se juntassen con don Alonso y al capitán Amador con los gentiles hombres que él señaló. Y siendo juntos, cavalgó sin llevar armas de cuerpo que se le viessen ni secretas que se publicassen más de ceñida su espada, y con él quatro de cavallo, y Muley Mahemet y Búcar, vestidos de sus coraças y con sus vallestas en los arzones de las sillas de los cavallos y algunos de sus moros junto a ellos con carcaxes de passadores, y el xarife con su lança larga y seis moros con él, todos con sus capuzes y tocas reboçadas y sus lanças en las manos, y vaxó a lo llano con ellos y mandó ordenar esquadrón de las tres vanderas. El qual se ordenó por Luis Pérez y Hernán Lovo, poniendo en banguardia y retaguardia los soldados de coseletes diez y siete por hilera, con dos pequeñas mangas de arcabuzería que en cada una ivan sesenta arcabuzeros

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de diez y siete en diez y siete las hileras, como de los coseletes; y la mano derecha se dio al alférez de Hernán Lovo y sargento de Amador y otros dos cabos de squadras, y la izquierda a don Alonso, a la parte do iva el visorrey con Muley Hamet, Búcar y el xarife, y en esta orden començaron a caminar la vía del olivar adelantándose algún tanto Luis Pérez con don Alonso y manga de arcabuzeros, para si enemigos uviesse descubrirlos. Y don García bolvió a las trincheas y las visitó, dando noticia de la suspición que de enemigos avía, y mandó a los maestros de campo y cavalleros de la Religión que todos estuviessen muy avisados, para si conviniesse pelear o dar socorro lo pudiessen bien y brevemente hazer; y él quedó con cuidado poniendo sus centinelas en partes convenientes que le diessen noticia de lo que al visorrey suscediesse. Y como el visorrey iva caminando con la orden y gente que dezimos, por las centinelas y algunos de cavallo que por el repecho y otras partes Dragut tenía puestas para el reconoscer, fue descuvierto el esquadrón que por la rama iva, de que le bolvieron a avisar. El qual con gran diligencia mandó juntar todos sus turchos y moros, y a mucha prisa cavalgar los de cavallo, y les dixo: «Hijos míos, oy es quando a nuestros enemigos avemos de mostrar y dar a entender la enemistad capital que les tenemos. Y pues para nosotros se bienen, vuestros coraçones se animen y parezcan vuestros esfuerços encomendándoos siempre a Mahomad, porque con esto seguro ternemos la victoria, y hagamos de manera que los pocos christianos que aquí vienen ninguno buelva atrás, sino que hecho pieças los dexemos aquí. Y acordaos que ninguna muerte más justa ni más sancta ni más saludable para la salvación de nuestras ánimas, ni más honrosa para nuestros cuerpos podemos alcançar que peleando contra estos infieles, malos y péssimos que con desseo de nos desheredar, captivar y llevar de nuestras casas vienen. Y siempre tened aviso los vamos fatigando y esecutando la victoria contra ellos, que como cerca de África seamos, Hesarráiz y Caidali saldrán a nos dar socorro con la gente de guerra de la ciudad, con que del todo desbarataremos el campo del Emperador, que muy fácil cosa nos será hazer por la poca gente que en él ay. Y haziéndolo quedaremos victoriosos, ricos y muy onrados». Y tantas y tales palabras les dixo con que mucho los animó y esforçó, y puso gran gana de pelear. Y aviéndolos bien esforçado miró la orden del esquadrón, y visto, mandó que ninguno se moviesse hasta que más junto llegassen al olivar, paresciéndole que mientras más del campo se desviasen, más a su propósito se aprovecharía dellos, porque ternían más lexos el socorro, y antes que les pudiesse llegar avrían dado fin dellos.

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Y como el esquadrón venía cerca del olivar, salió detrás de la casa y torre y se començó con ellos a descubrir y parescer por el repecho, mandando tocar sus clarines, trompetas, atambores y gaitas; y en medio de los de cavallo se vio un estandarte de raso colorado y blanco, con una media luna de oro el medio, y que vestían aljubas de muchas y diferentes colores, reboçados con tocas las cabeças, y dizen algunos con secretas armas de cuerpo como eran cotas y camisetas de malla ivan los braços remangados y con lanças largas en las manos. Y como parescieron y Luis Pérez, que delante iva, los reconosció, lo embió a dezir al visorrey. El qual començó a esforçar los soldados diziéndoles: «Amigos y compañeros, españoles animosos, oy que se nos ofresce ver y pelear con nuestros enemigos, cada uno muestre quién es y procure llevar la honra de España delante, haziendo su dever». Y mandando a los capitanes y oficiales llevassen el esquadrón muy junto y reforçado, fue siguiendo su camino del olivar, preguntando a Búcar cúya le parescía aquella gente de guerra fuesse. El qual le dixo: «Señor, o es mi hermano Hamida, que cavalga como turcho, o es Dragut, porque en el cavalgar turcho me paresce el capitán della». Y assí hablando miravan cómo venían. Pues como Dragut baxó del repecho, mandó que los peones le fuessen siguiendo y dividió los sesenta de cavallo en dos partes, a fin de tomar el esquadrón en medio. Y tocando los atambores y gaitas, parescieron luego diez y siete vanderas de las colores y medias lunas del estandarte con los turchos y moros de pie, unos con escopetas y celadas, otros con archos y flechas, y otros con lanças y hondas para tirar piedras, y delante, en vanguardia dellos, dozientos turchos con partesanas, alfanges y tablachinas. Y como Luis Pérez vio los muchos turchos y moros, para reforçar más la manga de arcabuzería aguardó el esquadrón, y junto y reforçado fue adelante. Y como los unos ivan y los otros venían, llegando a tiro de arcabuz, Dragut alçó un gran grito y arrojó la lança arrojadiza contra el esquadrón, y haziendo lo mismo los de cavallo y peones, con gran grita començaron a tirar algunas lanças y disparar escopetería, flechas y piedras, y los soldados christianos su arcabuzería contra ellos, con que los rescibieron y començaron a responder y travarse escaramuça, y caer algunos muertos y otros heridos. Y como Hesarráiz, que siempre en vela estava, vio las vanderas turchescas, reconosciéndolas por de Dragut, con grande alegría mandó jugar contra los christianos una larga media culebrina que alcançavan las pelotas

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della al olivar, con que començó a hazer daño. Y visto por el príncipe, mandó jugar de las galeras el artillería contra ella, y dio una pelota de un cañón por la boca de otra media culebrina de hierro, y la rebentó y hizo pieças de que escandalizó mucho los de la ciudad. Como Dragut conoscía su mucha pujança por los muchos turchos que contra tan poca gente, como el esquadrón de los christianos era, peleava, a grandes bozes animava mucho los suyos, y como todos ivan desseosos de hazer daño en los christianos, peleavan y morían sin ningún temor. Y a la parte do con mayor ímpetu cargaron fue a la mano derecha, donde el alférez de Hernán Lobo y sargento de Amador y los otros ofiçiales ivan, y por allí començaron a hazer mayor daño; y por aquella parte Luis Pérez andava sin parar de un cabo a otro, esforçando los soldados diziéndoles: «¡Ea amigos! ¡Muera esta mala canalla enemiga nuestra! ¡Sanctiago, y a ellos!». Y assí la escaramuça andava muy brava y peligrosa, peleando todos animosamente, qual disparando su arcabuz, qual jugando de pica, qual de spada y qual tirando piedras y qual flechas y escopetas, porque todos se avían juntado y por cada parte andava la grita muy grande: y assí peleava Muley Hamet, y Búcar, y el xarife y sus moros de las armas que llebavan. Y no por esso el visorrey olvidó a lo que del campo avía salido, porque con gran diligencia mandó que mientras la escaramuça andava, los gastadores cortasen la rama y faxina. Los quales con mucha prisa la començaron a cortar, y como el canpo estava en parte que desde él se veía la escaramuça y de la mar do estava el príncipe, don García mandó jugar contra los enemigos una pieça de canpo de las que stavan en el cavallero junto a la tienda del visorrey, la pelota de la qual mató tres turchos, y el príncipe mandó jugar otra de una galera, y dando primero dos saltos en tierra, al tercero dio a un hombre de cavallo por el cuerpo y le hizo pedaços. Y como Dragut vio el daño que de tan lexos aquellas dos pelotas avían hecho en los suyos, mandó retirarlos al canto del olivar, junto a un valladar para que del artillería estuviessen guardados, y dar carga de escopetería en el esquadrón y disparar muchas flechas y piedras contra él. Y todos los capitanes y turchos y muchos de los moros peleavan bien, y contino el visorrey con la espada en la mano andava delante esforçando los soldados para que peleassen, y lo mismo hazían Hernán Lovo, don Álvaro y el capitán Amador. Y por que los arcabuzeros españoles cevados en la escaramuça se desmandavan y desguarnescían el esquadrón, el visorrey mandó a Luis Pérez

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y don Alonso los retirasen y hiziessen juntar, porque por mala orden no se perdiessen. Y aviendo Luis Pérez retirado y puesto en orden la mano izquierda, fue para la diestra que se avían más desmandado, y viendo que don Alonso hazía por los retirar y no podía, porque, como lexos del esquadrón estavan, los turchos les davan tan grandes cargas de escopetería y con tanta prisa que a ello no les davan lugar, fue con algunos soldados a socorrerlos, y menos los pudo retirar según travados estavan y la escaramuça sanguinolenta andava haziendo por ofender sus enemigos. Y temiendo Luis Pérez que aquellos arcabuzeros de la mano derecha se perdiessen, fue a la mano izquierda para llevar los arcabuzeros della, a socorrerlos y retirarlos. Y yendo de la una parte a la otra, llegando al derecho del esquadrón donde los arcabuzeros andavan, le dieron por los pechos un escopetazo que la pelota dél le salió por los riñones. Y sintiéndose herido de muerte bolvió las riendas al cavallo para entrarse en el esquadrón, y, antes que pudiesse llegar a él, cayó muerto en un llano y el cavallo se paró. Y paresciéndole a Dragut devía ser hombre de estima, por lo que le avía visto hazer, aunque muerto mandó a los turchos le recobrassen y hiziessen por llevarle a su poder. Los quales arremetieron para lo efectuar, y viéndolo un soldado de los que de La Goleta avía llevado, que con él siempre andava, a grandes bozes començó a dezir: «Españoles, socorred a Luis Pérez, no nos le lleven los turchos». Y oyéndolo y viéndole caído, tres hileras de soldados coseletes y diez prestos arcabuzeros arremetieron a todo correr a defenderle, porque los turchos llegavan muy cerca dél. Y assí arremetió don Alonso con otros soldados a hazer el mismo efecto, y los unos sobre llevar el cuerpo y los otros sobre defenderle se travó una brava pelea, la qual fue muy reñida combatiendo espada contra alfange y pica contra lança, y arcabuz contra escopeta, y flechas y piedras; y cayeron muchos muertos y muy mal heridos, y a don Alonso le dieron un arcabuzazo en la gola, que si no fuera tan fuerte muriera. Mas por mucho que los turchos porfiaron, por llevar el cuerpo por fuerça los españoles los hizieron retirar sin él al valladar, de do por él avían salido, y en el entretanto el alférez de don Alonso y otros soldados le alçaron de tierra y pusieron a cavallo, y el visorrey le mandó llevar al campo con mucho pesar de averle perdido, por la falta que para la empresa y al servicio del Emperador avía de hazer, y por lo bien que él le quería. Y como la escaramuça andava, un turcho flechero que estava sobre el valladar, aviendo

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tirado todas sus flechas y no teniendo más que tirar, como a manera de menosprecio, bolvió las espaldas y alçó las faldas por detrás, y començó a echar tierra con las manos. Y enojado de aquello, un arcabuzero español, que buen puntero era, le tiró y metió la pelota por medio de la cara trasera y le derribó, de que no poco fue de muchos reído y dél muy poco llorado, porque poco bivió. Y como la escaramuça más se encendía, sabiendo el visorrey, que muy de coraçón se mostrava, que la faxina y rama en el olivar era hecha, dentro de un hora que avía que escaramuçavan, la mandó a los gastadores llevar al campo, diziendo a los soldados por más animarlos: «¡Ea amigos!, que a pesar de nuestros enemigos les llevamos la rama». Y mandando retirar el esquadrón para que se bolviesse al campo, dieron un escopetazo y tantas lançadas y pedradas a Palomares, alférez de Hernán Lobo, que con una espada y rodela peleava, teniendo junto a él su vanderado con la vandera campeando que le derribaron con tantas y tan malas heridas de que incontinente murió. Y los christianos por cobrarle y los moros y turchos por llevarlo murieron quantidad de los infieles, y assí toda la manga de arcabuzeros españoles que no se escaparon, sino los que retiraron el cuerpo. Y andando tan reñida la escaramuça, el visorrey mandó caminar los gastadores todo lo que más pudiessen, y que el esquadrón los siguiesse retirándose el rostro a los enemigos y peleando: y assí peleavan y caminavan. Y viendo Dragut que se le ivan y a su pesar la faxina le llevavan, juntó todos sus peones y cavallos, y divididos por dos partes mandó que los unos siguiessen el esquadrón al rostro, y los otros hiriessen por las espaldas para que ninguno escapasse. Y esto lo podían mejor y más sin peligro hazer que la primera vez que lo intentaron, porque como caminavan por dentro del olivar ivan guardados del artillería, lo que primero no podían porque por temor della se avían retirado al canto del olivar. Y assí yendo, peleando mataron dos cabos de squadras y quarenta soldados, y hirieron muchos más, y cayeron muertos y muy mal heridos turchos y moros en mayor quantidad. Y como tanto apretavan el esquadrón, el visorrey mandó que los gastadores dexassen la leña, y con sus hachas, armas y piedras ayudassen a pelear; y començándolo fue ayuda para acabar de salir del olivar, aunque su capitán les mataron.

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CAPÍTULO XXIX Cómo don García fue a socorrer al visorrey y cómo Hesarráiz mandó salir gente de la ciudad en favor de Dragut y lo que con ella suscedió, y cómo Dragut se retiró al repecho de do avía salido.

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Viendo el xarife los muchos turchos y moros que contra tan pocos christianos combatían y el crescido daño que hazían en ellos, sin licencia ni mandado del visorrey embió a dezir a don García lo que passava y lo que mucho haría al caso embiarle socorro. El qual, que por no dexar la guarda del campo no lo avía hecho, luego deliberó de le ir a socorrer, y con los capitanes don Juan, don Bernaldino y Çumarraga y sus compañías fue a toda furia. Y como ya el visorrey avía salido con el esquadrón del olivar, mandó que los gastadores tornassen a llevar la faxina, y con menor daño se bolvía al campo. Y como en la ciudad desde dos horas antes del alva estavan apercebidos para salir a romper el exército y veían lo que passava, Hesarráiz mandó juntar a un portillo cerca del rebellín quatro vanderas, assí de turchos como de moros, para que llegando más cerca Dragut le saliessen a favorescer y clavar el artillería del campo y juntarse con él, con que espresamente Caidali no desamparase la puerta de la ciudad ni la abriesse si no a Dragut. Y señalando los capitanes que avían de salir con ellos, a gran prisa mandó tocar el clarín, atambores y gaitas de la ciudad al arma, y sintiendo don García el gran bullicio que en ella andava, y el rumor de gente, armas y bozes que en ella se traía, con gran presteza y diligencia mandó que los tres capitanes con sus compañías fuessen a dar socorro al visorrey, y él se bolvió al campo por tener buena guardia en él. Y puso toda la gente de guerra en arma, assí para socorrer el esquadrón que continuo se venía retirando, como para resistir que los turchos y moros no saliessen de la ciudad. Peleando Dragut con el esquadrón y socorro que llegó, según las muchas grandes y menudas cargas le dava, lo llevó hasta cerca del canpo, y algunos alférezes turchos y moros, atrevidos y de animosos coraçones, llegaron a paredes de jardines y a una torre muy cerca del campo do se hazía de noche la guardia, y pusieron encima algunas vanderas. E viéndolo Hesarráiz, y como Dragut peleava con los suyos, mandó salir las quatro vanderas de la ciudad, y por el portillo cerca del rebellín, que a la mano izquierda estava, salió Mahemet el veedor, con una vandera blanca y colorada en la mano, y en ella una media luna blanca, y en la otra su alfange desnudo, llevando sobre sí

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una rica cadena de oro y en los dedos anillos de lo mismo, acompañado de sesenta turchos y moros escopeteros y flecheros, y con grande ánimo se fue para las trincheas donde don Hernando de Toledo con la infantería estava. Y como de la ciudad salieron en el campo se tocó rezia arma tocando todos los atambores, y don García mandó disparar el arcabuzería contra los que della salían. Mas no por esso Mahemet dexó de ir como honbre esforçado a la trinchea, con fin de poner su vandera en el bestión, que de dos botas de madera estava hecho, y pesándole mucho a un soldado del atrevimiento del turcho, con licencia del Maestro de Campo, poniendo Mahemet en el bestión la vandera arremetió para él con la espada desnuda en la mano y le dio dos cuchilladas en la cabeça, de que le derribó muerto. Y al soldado dieron los que en guarda de la vandera ivan dos escopetazos de que murió; y como el visorrey oyó tocar arma tan rezia en el campo, proveyendo en todo mandó que don Bernaldino con su compañía y otros arcabuzeros quedasse con él para pelear con los turchos y moros, y que los otros capitanes con su gente fuessen a socorrer al campo que con los de la ciudad peleavan, porque juntos y reforçados peleassen mejor, porque él estava cerca y se iva retirando a juntar con él. Pues como Mahemet cayó, algunos soldados con un garavato puesto en una pica le llegaron a ellos, y mientras otros peleavan le quitaron la cadena y anillos de oro; y los sesenta turchos y moros que muerto vieron su alférez peleavan como gente desesperada, ayudándolos Hesarráiz con mandar disparar escopetería y flechas del rebellín contra los soldados del campo. Y andando assí los sesenta turchos peleando y favoresciéndolos los del rebellín, a la mano derecha del rebellín salió otro turcho con otra vandera de las mismas insignias que la primera, y otro de gran cuerpo en quien parescía aver gran fuerça y coraçón, ayudándosela con la mano izquierda a sostener, y llevando en la mano diestra un alfange y siguiéndolos otros sesenta turchos. Y como salieron, començaron a ir a la trinchea en socorro y favor de los otros sesenta que peleavan, y antes de llegar a ella, al del alfange dieron un arcabuzazo en el muslo derecho, de que le hizieron arrodillar, y animosamente se levantó y llegó a la trinchea y començó a poner la vandera en ella. Y dando licencia don Hernando a dos soldados que se la pidieron para se lo resistir, fueron contra él y le dieron tres cuchilladas en la cabeça y braço en que la vandera llevava, de que le mal hirieron, sin que bastase a defenderle otro turcho que con un alfange y rodela a socorrerle llegó. Y sintiéndose el turcho mal herido y a punto de morir, y que el braço no podía

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mandar para ofender ni defenderse, se arrojó a la mar por salvarse, y como passó por ella y a tierra salió, dando un gran grito de dolor cayó muerto, y otros turchos con un garavato le juntaron a ellos y recogieron, porque en poder de christianos no quedase. Y como la escaramuça andava continuo sangrienta más que en todo el día, las vanderas de todos los tercios y los cavalleros de la Religión començaron a pelear con Dragut y los suyos, a fin de que no se juntasse con los de la ciudad ni pudiesse llegar a ella, y don Hernando con los soldados del reino peleando, estorvando y haziendo el mismo efecto; y como la grita era grande y el visorrey y don García y los maestros de campo y capitanes peleavan y esforçavan los soldados, uno de los renegados de la ciudad, ladino y muy plático en la lengua italiana, por ayudar y favorescer los que salían y hazer desmayar los del campo, a grandes bozes començó a dezir: «¡A ellos, a ellos! ¡Que se rompen, que huyen, que huyen!». Oyéndolo los taverneros y barqueros italianos, como no eran gente de guerra ni costumbrados a pelear, ni llevavan para ello armas, desampararon sus tiendas y lo que en ellas tenían y dieron a huir, y con gran prisa se embarcaron y entraron bien dentro del mar, con temor que llevavan. Los sesenta turchos se juntaron con los otros sesenta, y todos reforçados pensando que siempre de la ciudad salían en su ayuda, peleavan por seguir su intento adelante; y proveyendo en el remedio dello, don García mandó dar grandes cargas de arcabuzería en ellos, y jugar el artillería contra el canto de la muralla, donde por el agua ivan a la hilera uno tras otro quinze turchos, y una pelota de un cañón topando con el primero los llevó todos juntos a la mar, llevando a unos las cabeças y a otros los hombros, y a otros por medio; y otras pelotas y arcabuzería derribaron muertos otros veinte y cinco, de tal manera que les puso gran temor, y sin que bastase esforçarlos Hesarráiz desde el rebellín, ni más gente que a su socorro embió, ni el artillería que contra el campo por todas partes mandava jugar, se fueron retirando a la ciudad. Y como cerradas estavan las puertas y no les abrían, y la arcabuzería contino derribava en tierra muchos heridos y muertos, huyeron a la parte de la mar, y por el agua passaron a do eran las troneras, y por ellas entraron los que pudieron y otros por el pequeño portillo que tenían hecho para salir y entrar. Peleando valerosa y animosamente el visorrey y don García y los maestros de campo, capitanes y cavalleros de la Religión, y en general toda la gente del canpo, hizieron gran daño en sus enemigos; y viéndolo Dragut, y

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que aviendo llevado los christianos hasta su fuerte, y lo mucho que avía procurado juntarse con los de la ciudad, y los de la ciudad con él a se dar favor unos a otros no avían sido parte, y que los con quien peleavan eran españoles a quien hallava diestros, pláticos y animosos mucho más de lo que él quisiera, de que rescibía mucho daño, y que si la escaramuça mucho durava él y todos se perderían, desmayándosele el coraçón de dolor grande que uvo, mandó retirar los suyos al repecho do avía salido, y por su persona y capitanes fueron retirando poco a poco hasta él, donde armaron algunos pavellones y tiendas. Y viendo Hesarráiz retirada la gente de Dragut recogió los de la ciudad, y el visorrey y don García mandaron sossegar los soldados, y fin de cinco horas que la escaramuça duró fueron muertos cinqüenta turchos y treinta moros, y quinze de cavallo de los que Dragut traía, y heridos ciento y cinqüenta, de que muy pocos escaparon sin los muertos y mal heridos de la ciudad. Y del canpo murieron ochenta soldados, sin Luis Pérez y el Capitán de Gastadores y el alférez de Hernán Lobo y otros oficiales, y quedaron ciento y cinqüenta muy mal heridos. Y como los pavellones en el repecho armados se vieron, don García les mandó tirar con una culebrina de que les hizo daño.

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CAPITULO XXX Cómo Dragut tuvo consejo con sus capitanes y turchos de lo que para tornar a combatir haría, y cómo acordó alçar su campo y el sentimiento que en Africa por ello se hizo; y cómo el visorrey mandó llevar los heridos y enfermos a Trápana y se enbió por gente y municiones a la Lombardía, Florencia, Génova y Luca.

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Retirado Dragut y alojada su gente en el repecho, mandó curar los heridos y enterrar los muertos, y saber qué personas de qüenta faltavan que en la escaramuça uviessen muerto, y halló menos dos de sus capitanes y un principal moro de los Gelves, y otros algunos de los Izfaquez. Los quales luego mandó buscar y traer al alojamiento, y a él llevados hizo gran sentimiento por sus muertes y los mandó abrir y salar para llevar a sus tierras, y también porque Hesarráiz y Caidali y los otros sus turchos el campo con el cerco los tenía apretados, que no les avían dado lugar a que de la ciudad saliessen, con mucha congoxa, angustia y dolor, no sabiendo qué proveer para los descercar, passó aquella noche, y con grandes conbates de spíritu y otros turchos y moros llorando los padres por los hijos y los hijos por los padres, y los hermanos por los hermanos, y los deudos por los deudos, que mucho más le hazían entristescer y gran cuidado tomar. Pues como Hesarráiz y Caidali, y generalmente todos los turchos y moros africanos y alexandrinos, lo vieron retirar, y que por mucho que avían procurado salir de la ciudad para se juntar con él se les avía tan rezio resistido, lo tuvieron para ellos por muy mala señal. Y assí por esto, como por los turchos y moros ciudadanos que aquel día avían muerto, la noche se les passó en llorar la falta que les hazían los muertos y el trabajo en que se veían los bivos. Y dada sepoltura a los defunctos, quedaron aguardando en qué parava la venida de Dragut, pues en su socorro venía poniendo buena guarda a su ciudad. Como el campo del Emperador quedó sin enemigos del todo se sossegó, y con gran diligencia el visorrey mandó curar los heridos y sepultar los muertos por evictar el mal olor, y abrir a Luis Pérez y embalsamarle y guardarle hasta dar orden do se uviesse de sepultar. Y no sólo le proveyó, mas aun él mismo fue al ospital como de ordinario lo hazía y entendía en la provisión y proveerlo de conservas y cosas que le eran nescessarias, y veía y mirava la orden y diligencia que en procurar su cura y salud se tenía, porque con mayor

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cuidado, diligencia y en miramiento se hiziesse; y contino en sus tiendas estavan las mesas puestas para todos los que a ellas ivan, que a muchos que no tenían con qué comprar la provisión hizo gran socorro, y a otros que enfermos estavan restituyó la salud y vida, y a otros la conservó, por manera que hizo grandes bienes, socorros y beneficios a los que socorrer no se podían. Y lo mismo hazía don García, y además enbiando a muchos raciones a sus tiendas, porque todos en general a ambos davan gracias y rogavan a Dios por ellos. Pues como los taverneros y barqueros italianos desampararon sus tiendas y quedaron bien proveídas de mantenimientos, y en las más guisada la cena, los soldados holgaron y cenaron muy a su plazer, que les fue gran refriserio para el trabajo passado, con que todo lo olvidaron como si por ellos no passara. Como los muertos fueron sepultados y curados los heridos, aviendo el visorrey proveído de buena guarda al campo se retruxo en sus tiendas a cenar, y porque los enemigos tenía en el campo, de quien le paresció se devía guardar, mandó que el exército estuviesse en vela, y visitó las guardas para que no uviesse ningún descuido. Y como el alva de otro día fue y parescieron los pavellones del campo de Dragut en el repecho do se avían sentado, mandó jugar contra ellos la culebrina que el día antes jugado avía, con fin de los dañar. Pero, aunque daño se rescibió, no por esso mudaron ninguno dellos, antes estuvieron muy sossegados. Dragut passó aquella noche con gran trabajo y dolor, muy cuidoso y imaginativo, pensando en cómo traería a efecto lo que tanto desseava y conservar la posessión de su querida ciudad, que en gran manera estimava. Y para poner remedio en ello, mandó juntar en su tienda sus capitanes turchos y moros, y personas a quien por sabios tenía, y siendo juntos, el rostro muy triste como de hombre muy descontento, les dixo: «Confiando, mis buenos amigos, que mis trabajos y fatigas como yo las sentís, pues de mi bien y prosperidad parte os alcança, os ruego en este arduo negocio que tractamos, como fieles hermanos me queráis consejar a lo que agora de mí oiréis, porque muchas vezes acaesce los hombres cegarse en su causa propia y acertar en la agena: lo qual no querría me suscediesse a mí. Bien sé que no iñoráis que en los casos de guerra, que los capitanes para se aprovechar de sus enemigos intentan, quando a su propósito no les susceden se esfuerçan a buscar otras nuevas cosas y mañosos ardides con que romperlos, pues leído avemos con astutas mañas sagazes hazerse cosas que,

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al parescer y creer, son imposibles. Por espiriencia avéis visto la escaramuça que con nuestros enemigos ayer travamos, y lo que con ellos nos suscedió y el assiento de su campo; pues avemos provado sus fuerças y tenemos conoscido con quién lo avemos de aver, con vuestra mucha prudencia, como os tengo rogado, pensad cómo nos avremos con ellos». Oído lo por Dragut propuesto, Carmamí y los otros capitanes turchos y moros començaron a tractar del negocio, y como avían en los christianos hallado gran resistencia y dellos rescebido mucho daño, temiéndolos por gente animosa y para mucho, no se atrevían a hablar libremente cada uno en el negocio lo que sentía, porque los otros no pensasen los temían. Mas fin de gran rato que dello trataron, Carmamí, a quien por de mayor consejo y razón tenían, con una modesta mansedumbre le dixo: «Conoscido señor tenéis la voluntad que a las cosas de vuestro servicio avemos siempre tenido estos arráezes y yo, después que en vuestra compañía andamos; y assí como conoscéis esto, creo no ternéis dubda que lo que en este caso os dixere dexara de ser con toda voluntad y zelo de serviros; y por esto os ruego que con atención me queráis oír y toméis mi desseo y lo que bien os paresciere. Antes todas cosas os quiero, señor, traer a la memoria que consideréis los muchos bienes y mercedes que el alto y poderoso Alá y nuestro Mahomad os an hecho, y que, según lo que dellos avéis rescebido, no les avéis sido grato como devíades, y que conozcáis por ello os an querido poner en este trabajo, para que de oy más los reconozcáis como la razón lo requiere, y para que tengáis por entendido, quando alguna buena ventura os dieren, se la sepáis gradescer por averla dellos rescebido, y no atribuirla a vuestro poder y mañas, y para que la ira y indignación que contra vos tienen, por la ingratitud de que con ellos avéis usado, por donde avéis venido en diminución y menoscabo de merescimientos, y por esto la clemencia que de Alá os está denegada la tornéis a recuperar por gratitud de los beneficios rescebidos y os haga idoneo para rescebir otros muchos y muy mayores, pues es claro que de su mano viene la prosperidad y adversidad, el mal y el bien, la riqueza y probeza, el plazer y trabajo, el alegría y tormento, el sossiego y inquietud, hagáis una gran promessa al propheta nuestro sancto Mahomad, y hecha con ánimo de la complir os alumbrará. Y presupuesto que en su gracia seáis, para que no los tengáis por contrarios devéis considerar que las fuerças fuertes con otras más fuertes y bravas se an de domeñar. Y esto, señor, digo porque sobre la ciudad de Africa, como noticia tenéis, están valerosos capitanes del Emperador y quatro mil soldados veteranos españoles, diestros

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y para mucho, criados industriados y exercitados en el exercicio militar, en guerra que ha tenido y en sus fronteras y guarniciones, donde se ensayan y exercitan en las armas para estar ligeros y sueltos en el pelear. Y estos tales con el favor de sus capitanes, y los capitanes con la confiança de tales soldados, se atreverán a cometer todo gran hecho y a morir sin ningún temor, según por la obra avemos visto. Pues si esto, señor, es assí, mirad qué gente de la más escogida que vos podáis juntar basta a romperlos, cierto no con otra tanta por mucho que sobre ello se travaje, y por muy dubdoso se terná el salir con la victoria, y no se esperando salir con ella, mirá cómo la alcançaréis con ochocientos turchos y tres mil y sietecientos moros muy mal armados, que todo son quatro mil y quinientos con los muertos y heridos los que agora tenéis. Y pues supongo que de la ciudad saliera Hesarráiz con gente de guerra a se juntar con vos, tené por cierto que era darnos ayuda pero no cierta victoria, si milagrosamente Alá y Mahomad no lo mostraran. Y pues yo, señor, no soy amigo de os dezir ningunas lisonjas, creed que no conviene tentéis otra vez a escaramuçar con los christianos si no con mayor poder de gente con que los vençáis; y si mi consejo açebto os fuere, devéis señalar quién con los moros quede, y vayan la buelta de los Izfaquez para desviarse del campo del Emperador, y embarcaros vos y ir a los Gelves y rogar al xeque Çalac os dé su consentimiento, para que en sus tierras hagáis la más gente que podáis, y embiar a Morataga rey de Thajora, que es vuestro amigo, que os dé su socorro. Y embiad a pedir su favor a los otros que por amigos se os an ofrescido, y assí juntaréis tanta con la que agora tenéis aquí que sea mucha más quantidad que la del cerco de la ciudad, y con ella podemos ir a les dar batalla, y estonces Hesarráiz y Caidali, con los turchos que dentro están, salir an a se juntar con vos, porque los christianos ternán tanto que hazer en combatir con los que lleváredes que dexarán guarda de la ciudad por guardar sus personas. Y desta manera los podríamos meter en laberintho donde no salgan. Y si esto os paresciere bien y en ello acordáredes, devéis con gran diligencia señalar quién con la gente quede, y embarcaros y navegar para el efecto que digo, y hazerlo con tanto secreto que no llegue a noticia del príncipe Andrea Doria, ni del visorrey de Cecilia, ni de don García de Toledo, porque qualquiera dellos os lo estorvará y embiarán por más gente, con que será tanta su fortificación que ningún medio llevará poder descercar a África». Oída la respuesta de Carmamí por Dragut le paresció bien, y lo mismo a los otros capitanes turchos y moros. Y bolviendo a tratarlo, y tornadas a

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referir las causas, les paresció se devía aquello hazer, y de conformidad de todos, Dragut prometió descercada África ir en romería a la casa de Meca, que los moros y turchos sancta llaman, y hazerle un rico y muy solene presente, y a todo su poder ensalçar su secta con hazer todo mal y daño a christianos con muy mayor severidad que hasta allí. Y acordó que a prima noche algunos de los principales muertos y todos los heridos se llevasen a sepultar y curar a las tierras de do salieron en cavallos y camellos en que avía traido provisiones al campo desde los Izfaquez, y que allí dexaría los unos y embarcaría los otros y passaría a los Gelves, y que en los Izfaquez señalaría quién con los moros por principal quedasse, y que otros sus capitanes tornasen de nuevo a hazer gente de guerra en ellos para que, junta con la que él de los Gelves truxesse y con los socorros que se le hiziessen, bolviessen poderosos a descercar a Africa. Y en esto acordado, señaló un capitán llamado Calabrón, que con quatro galeotas fuesse a Thajora a Morataga, y a otro llamado Halí Mamín que con una fusta fuesse a la Chafalonia a un turcho llamado Mostafaran, que governador por el gran Turcho en ella era, y por servicios señalados que le avía hecho mandándole dexar el oficio de cossario que solía exercitar. Y dado aquella governación y hecho otras mercedes con que estava muy rico, y avisados de lo que les avían de dezir, los mandó ir a embarcar a los Izfaquez, y que con toda diligencia llevassen las embaxadas y bolbiessen con la respuesta. Y esto proveído, como la prima noche fue, mandó alçar los pavellones y poner a cavallo los heridos y muertos, y llevando en buena orden la gente, con su campo començó a caminar. Como otro día fue claro, Hesarráiz y los turchos y moros desde encima de las torres y muros de la ciudad començaron a mirar el repecho donde el día antes avían visto sentado el campo de Dragut, y como no vieron los pavellones ni gente, conoscieron se avía retirado para buscar más socorro para los bolver a descercar. Pero como apretados se veían, y de tan rezios y fuertes enemigos cercados, mucho les dolió, y dello rescibieron gran pesar, paresciéndoles que, según la batería rezia les avían dado y de cada día temían se la darían, más lo pornían en mucho trabajo, puesto que no temían les entrassen la ciudad, mas quien esto más sentía eran los africanos, como aquellos que mucho más que los turchos temían, en pensar perder sus mugeres, hijos y haziendas, y verse desterrados de su tierra y naturaleza. Pues el señor del Queruán que de lo que passava tenía noticia, sabiendo lo a Dragut acaescido y el daño con que se avía retirado, holgó mucho dello, y

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sabiendo que los ochocientos de cavallo, que Hamida rey de Túnez embiava, venían a passar por sus tierras, mandó a ciertos capitanes suyos que con quatro mil cavallos les resistiessen el passo, y sobre ello les diessen la batalla. E por los capitanes de Hamida sabida la defensa que se les iva a hazer, no se atreviendo a passar adelante, dieron buelta a Túnez y se presentaron ante él y le dixeron la causa por qué con Dragut no se avían podido juntar, y cómo le avía el campo del Emperador mal parado. El qual de oírlo mucho le pesó, pues defendido el passo a los moros tunecís, el señor del Queruán para responder a la enbaxada de Dragut mandó llamar los moros africanos que avía detenido y les dixo: «Yo quisiera mucho, hijos míos, que Dragut no uviera sido tan presuroso en ir con tan poca gente a descercar a África, y que se detuviera haziendo más en las tierras que la hazía para ir con tan buen recaudo que saliera con su intención llevando mi ayuda, pero, pues él se determinó a hazer su negocio como a él le pluvo, a él os bolved y dezid que haga a su voluntad, porque la mía no es de le dar ningún socorro contra el campo del Emperador. Y sin me más replicar sobre esto, id con Mahomad». Los lastimados y tristes africanos, que otro socorro dél no esperavan, por la mucha dilación y palabras que hasta allí les avía dado, con mucha congoxa partieron de su corte y fueron en busca de Dragut, mas llegaron a los Izfaquez en tiempo que con la mucha prisa se avía embarcado, y navegava para los Gelves. Y aborresciéndole y maldiziéndole no quisieron ir en su busca por nunca más verle. Pues como el señor del Queruán despidió los africanos embaxadores, mandó juntar un presente de aves, carneros, terneras, dátiles y otras cosas, y a un moro su privado mandó que bien acompañado fuesse al canpo, y de su parte lo presentasse al visorrey, y por muy servidor del Emperador se le ofresciesse diziéndole que todo lo que de sus tierras para su servicio y del campo hiziesse menester embiasse por ello, que él lo mandaría proveer. El qual bien adereçado partió al campo y en él hizo el presente y ofrescimiento que al visorrey le mandó. El qual le rescibió bien y le embió muchas gratias por ello, y hizo merced al embaxador, con que muy contento fue, y assí se despidió.

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CAPITULO XXXI Cómo se dieron las cartas que el Emperador escrivió al príncipe Andrea Doria y al visorrey y don García, y lo que vistas proveyeron.

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La persona que de Alemania de la corte del Emperador con su despacho para el príncipe Andrea Doria, visorrey y don García partió, caminó todo lo que por la posta pudo, y de camino dio la carta del Emperador al duque de Florencia y se embarcó en Liorna; y navegando con la mayor diligencia que pudo llegó en el campo y dio al príncipe su despacho, y lo mismo al visorrey y don García. Y por ellos visto se juntaron el visorrey y don García a consejo para tratar en las cosas al exército convenientes, y aviéndose comunicado sobre ello se resumieron en que los enfermos y heridos se llevassen a Trápana, para que fuessen bien curados y tratados, y el cuerpo de Luis Pérez a La Goleta, donde se le diesse sepoltura por no aver ningún lugar sagrado do estavan, y que se escriviesse al duque de Florencia y señorías de Génova y Luca embiándoles a pedir pelotas y munición de pólvora para batir muy más rezio que hasta allí la ciudad, y a don Hernando Gonzaga por quatro vanderas de infantería spañola, que serían mucho menester para reforçar el campo, y que la batería se plantasse do avía sido designada, y por allí batiessen la ciudad. Y junta al campo la gente de Lombardía porque embiassen y, hechas buenas baterías, procurasen entrarla por donde mejor aparejo hallassen, y que en todas estas cosas se pusiessen gran diligencia y presteza antes que Dragut juntasse más gente de guerra con que los bolviesse a ofender, y se escriviesse al Emperador lo que passava y la muerte de Luis Pérez, para que proveyesse lo que a su servicio convenía. Y en esto acordados, el visorrey lo escrivió al príncipe para que dixesse su parescer; y por él visto respondió que era muy bien acordado y que assí se hiziesse, y escrivió al duque de Florencia y duque y senadores de Génova, y a la señoría de Luca, diziendo la necessidad que de pelotas y municiones de pólvora tenían, y que con toda brevedad les enbiassen para batir la ciudad la mayor quantidad que pudiessen, y a don Hernando quatro vanderas de infantería por ser muy nescessario al servicio del Emperador. Lo qual entregasen a Marcho Centurión, lugartheniente de sus galeras, que con parte dellas iva por ello. Y el visorrey y don García les escrivieron lo mismo, y todos escrivieron al Emperador lo suscedido con Dragut el día de Sanctiago, y por lo que embiavan. Y como escrito uvieron, el visorrey escrivió a Cecilia

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y embió a mandar que en los ospitales de Trápana los heridos y enfermos fuessen rescebidos y muy bien tractados, y con gran cuidado y diligencia curados, proveyéndolos complidamente de todas cosas a su salud nescessarias. Y por la falta que en el campo para los ingenios Luis Pérez hazía, embió a mandar a Andrónico de Spinosa, ingeniero que el Emperador para las cosas que en aquel reino le conviniesse servirse demás de Hernán Molín tenía, que vista su carta fuesse a servir al canpo imperial que sobre África estava. Y como todo fue despachado, el príncipe mandó a Marcho Centurión que con diez galeras llevasse el cuerpo de Luis Pérez a La Goleta y fuesse por las municiones, y bolviesse con gran recaudo y presteza mirándose y recatándose de enemigos. El qual, despedido dél, hizo embarcar el cuerpo y quatro mil ducados en moneda que el visorrey le mandó dar, de que se pagassen los soldados de La Goleta, con lo qual a primero de agosto començó a navegar la vía de La Goleta. Y esto proveído, el visorrey mandó embarcar ciento y cinqüenta heridos y otros enfermos. Los quales, siendo embarcados, se llevaron en Trápana y echaron en tierra. Los quales de los cecilianos, visto lo que el visorrey sobre ellos les escrevía, fueron muy bien rescebidos y començados a curar con gran amor y charidad, por ser la empresa donde las heridas avían rescebido y enfermado a ellos tan provechosa, porque donde Dragut mayores daños avía hecho era en aquella isla, por ser la primera por do venía quando de los Gelves con su armada salía a hazer daño en los christianos, y de su propia voluntad muchos llevavan a sus casas los soldados y curavan dellos como de hijos y hermanos. Pues bolviendo a Africa diremos que muchos días antes que viniesse Dragut a socorrer la ciudad, se parava sobre los muros della un renegado, y en lengua italiana dezía contra el campo muchos improperios y denuestos, y special: «Españoles, malconsejados avéis sido en venir a cercar a Africa, porque Africa no es Monazter, que saqueastes [sic]. Si mi consejo tomáis, como amigo os le daré, y es que carguéis vuestras naos y galeras de arena, porque no se diga venistes en balde, y bolveos, y no perderéis honra». Y assí dezía otras cosas como burlando del campo, dando a entender no le temían. Y lo mismo dixo otros días después, y hablava con algunos a quien el visorrey y don García davan licencia le hablassen para que lo atruxessen a salir de la ciudad, porque se dezía era hombre que dava orden en hazer ingenios para fortificarla. Pero como estava obstinado en perseverar en la mala secta mahomética, en que muy firme estava, no lo quiso aceptar. Y

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como ya Hesarráiz y los turchos avían començado a temer, le mandó dezir que dixessen al príncipe Doria que, porque teniendo el Emperador tregua con el gran Turcho, siendo el señor de aquella ciudad turcho y su servidor, y la guarnición que en ella avitava y morava todos turchos, los querían echar de sus casas. El qual lo dixo a los que le comunicavan, diziéndoles que al príncipe lo dixessen. Y sabido por él, le mandó responder que el campo del Emperador no hazía guerra contra los turchos vassallos y servidores del gran Turcho, ni la fin del Emperador era mandar quebrar la tregua con el Turcho sentada, pero que con ladrones y cossarios no tenía paz ni tregua, ni era servido de con ellos la tener y tomar, y que antes le avía mandado que a los tales los siguiesse y quitasse las vidas y haziendas, y que la guerra que contra África se hazía era contra los semejantes que dezía, porque tal era Dragut y los que moravan y andavan con él, y que no se alçaría el campo hasta complirlo y efectuarlo. Y dándoselo por respuesta al renegado, lo refirió a Hesarráiz, de que le pesó mucho de oirlo, y como por la parte de la mar avía entrado a la ciudad el aviso de cómo Dragut venía al socorro, por evitar la entrada y salida della por allí, de allí adelante el príncipe mandó hazer centinela a quatro galeras desviadas del armada, dos a la parte de Monazter, y dos a la parte por do avían de venir de los Gelves, y assí quedó toda buena guarda en el cerco de la ciudad por mar y por tierra, y muy mejor que le avía tenido hasta allí. Pues caminando Dragut con su campo la buelta de los Izfaquez, con la mayor diligencia que pudo llegó en la villa donde mandó dexar los muertos y heridos que de allí y de los Querquenes eran, y embarcar en sus navíos los que eran de los Gelves, para con ellos navegar. Y hecha plática a los governadores de los Izfaquez para que dexassen hazer en sus tierras más gente, passó a los Querquenes y hizo lo mismo, y bolvió a los Izfaquez y mandó quedar por Maestro de Campo de los moros, que de allí y de Los Querquenes hechos dexava, a Carmamí. Y señalados capitanes que en los aduares la gente hiziessen, se embarcó con sus turchos, y al Çopo y a otros capitanes dio razón de lo que avía passado y de la escaramuça que con los christianos avía travado, y como le avía suscedido y el fin con que a los Gelves iva para bolver poderoso contra el campo. Y aviéndoles dado qüenta y razón dello, y siendo todos del mismo parescer, mandó alçar áncoras y velas y començó a navegar para los Gelves. Y como del campo de ordinario iva al olivar por rama y faxina para fortificar las trincheas, y Juan Jordán Ursino, General de las galeras del duque de Florencia, desseava bien ver los

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campos de Berbería, una mañana que iva la escolta a él a hazer la guardia a los gastadores y gente del campo, fue a cavallo con algunos florentines a verlos, y llegado al olivar le anduvo mirando, holgándose de ver quánto buena y maravillosa la tierra era. Y por verla más a lo largo y a su propósito se desmandó de la escolta y anduvo gran rato desmandado, hasta que la escolta se fue. Y como ya era tarde y supo que era ida con sus florentines, bolvió la buelta del campo. Y adelantándose ellos algún tanto dél, de una hoya de los llanos que por allí avía, que los alárabes para sacar agua suelen hazer, donde por ser grandes y altas tras ellas se pueden asconder algunos, salió contra él un moro sobre un cavallo alazán, con una lança larga en la mano, vestido una aljuba azul y reboçado una toca a la cabeça, y se fue para él. Y aunque el Juan Jordán le vio, no tuvo miramiento a recatarse y guardarse cómo hazer lo devía según donde estava, pensando, según él dixo, era moro de paz de los que el xarife traía. Y llegando cerca dél, puso las piernas al cavallo y la lança alta arremetió por herirle, y viéndose en el peligro el Jordán quiso rebolver el cavallo para le hazer rostro y con sus armas defenderse; y como cavalgava a la gineta, en la qual no estava tan diestro, plático ni rebuelto como deviera, ni supo rebolver el cavallo con aquella presteza, gratia y meneo que los buenos y prestos ginetes de Xerez, perdió las estriberas y cayó en tierra, y con gran furia llegó el moro y le dio una lançada en el braço izquierdo, de que le mal hirió. Y como Astrovallón, un cavallero de Perusa que delante iva, y los florentines le sintieron, le bolvieron a mirar, y viéndole caído y la diligencia que el moro hazía por matarle, a todo correr de sus cavallos le fueron a socorrer. Y como Astorvallón llegó muy cerca y los florentines le seguían, viendo el moro que le era defendido le dexó, y llevándose de rienda el cavallo, a la mayor prisa que pudo se començó a ir con él. Y por que Astorvallón con algunos de los florentines le siguieron mucho, por no rescibir daño dellos lanceó el cavallo y se fue a todo correr del suyo, sin que le pudiessen alcançar, y Astorvallón y los florentines bolvieron donde el Jordán estava caído y le levantaron, y subieron en uno de sus cavallos y llevaron al campo, donde en su tienda fue curado de la lançada muy triste y descontento de lo que le avía suscedido.

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CAPÍTULO XXXII Cómo Calabrón y Halí Mamyn, a quien Dragut embió a Thajora y a la Chefalonia por socorro, dieron sus embaxadas, y lo que Morataga y Mostafaran proveyeron.

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Como Calabrón y Halí Mamyn fueron mandados por Dragut, con toda diligencia a ellos possible fueron en los Izfaquez y se embarcaron en las galeotas, y navegaron cada uno hasta llegar donde ivan. Y llegando Calabrón junto a Thajora, haziendo salva de una de las galeras tomó tierra, y acompañado de algunos turchos fue en el palatio de Mortaga. Y después de le aver en su secta saludado le dixo: «Aquel alto y grande Alá, poderoso señor, sea el que te guarde de los infieles christianos, Dragut, siervo de nuestro sancto propheta Mahomad y grande, tu servidor y amigo besa tus reales manos y dize que, siendo señor de la insigne ciudad de Africa, y teniendo en ella su sobrino Hesarráiz con su guarnición para la guardar y defender de los que della desapoderarse quisiessen, andando ocupado corriendo la mar y haziendo el mal y daño que en la christiandad le era possible, el príncipe Andrea Doria, almirante de la mar por el Emperador de los romanos, y su visorrey de Cecilia y don García de Toledo, hijo del visorrey de Nápoles, por le deseredar se la han cercado, y ha tres meses que tienen el cerco sobre ella y que para socorrerla en los Gelves, Izfaquez y Querquenes, y otros lugares de la Berbería, juntó algunos turchos y moros de pie y de cavallo, con los quales el día de Sanctiago, fiesta de los christianos muy señalada y solemnizada, a quien los españoles tienen por patrón de su España, travó con ellos una rezia, dura y muy peligrosa escaramuça en la qual perdió alguna gente y hizo mucho daño en ellos, y que conosciendo que la fuerça del campo es mucha por los soldados viejos que en él ay, más que por la gran quantidad de christianos, ha determinado, antes de les tentar a dar otra vez la batalla, juntar la más gente de guerra que podrá para salir con victoria, y que para esto le es forçado ocurrir a pedir socorro y favor a aquellos que tiene por señores y amigos, y que confiando en la amistad que con vos tiene, y en los ofrescimientos que antes de agora le havéis prometido, os suplica y pide en merced para descercar esta su ciudad le déis vuestro socorro y ayuda con gente, pues con justa causa se lo podéis dar, siendo como contra infieles es, pues os es cosa cierta para lo que se os ofresciere ternéis en él un cierto y buen servidor y amigo, y que si merced le desseáis hazer os suplica sea como quien vos sois y él de vos confía y con toda brevedad, porque semejante cosa no fuere ninguna dilación».

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Oído por Morathaga lo por Calabrón dicho, le pesó mucho del daño y peligro de Dragut, y mandándole tractar bien, como era desseoso de ayudarle y socorrerle, porque dél avía rescebido algunos servicios, aunque rey de reino no poderoso era, mandó juntar ciento de sus vassallos flecheros y señaló un turcho por su capitán. Y dándoles paga los mandó embarcar en las galeotas y navegar hasta los Gelves y presentar ante Dragut, y que hiziessen todo lo que les mandasse. Y mandó llamar a Calabrón, al qual dixo a Dragut dixesse que aquellos cient flecheros le embiava para su socorro, y assimismo le embiaría todo lo que pudiesse más. Besándole Calabrón las manos se embarcó y mandó alçar velas, y començó a navegar la vía de los Gelves. Halí Mamyn, que en Chafalonia llegó, fue en presencia de Mostafaran, y con toda humildad le dixo: «Nuestro muy sancto propheta Mahomad salve y guarde vuestra ilustre persona; Dragut, muy grande servidor vuestro se os mucho encomienda y dize que, confiando en vuestra bondad y en la grande amistad antigua que antes de agora en uno los dos havéis tenido, se atreve a os embiar a dar aviso de sus adversidades y trabajos, a los quales suplica proveáis el remedio que a ellos convenga. Y lo principal dándole vuestro complido favor, de tal manera que con el ayuda y socorro que otros príncipes y cavalleros turchos y moros le dan, pueda descercar la ciudad de Africa, que de pocos días acá possee como señor, que los christianos le tienen cercada, mandando hazerle el socorro principalmente de municiones de pólvora y bastimentos y otras armas para pelear, que en todo rescebirá señalada merced y quedará más obligado que hasta aquí, para os lo siempre servir». Como Mostafaran tuvo entendida la necessidad de Dragut y conosció serle en muchos cargos por las buenas obras que dél avía rescebido, porque conosciesse dél era hombre grato a los rescebidos beneficios, mandó meter en dos barriles de madera seis mil flechas, y en otros cien quintales de pólvora, y enbarcarlo todo con mil hanegas de trigo y ochenta turchos en dos galeones, el uno de mil y quinientas salmas y el otro de mil y trezientas, y llevarlo a Dragut con ofrescimiento de que, si más uviesse menester, se lo embiaría. Y assí lo dixo a Halí Mamyn, para que a Dragut lo dixesse. El qual diziéndole lo mucho en que Dragut lo ternía se despidió dél, y embarcado con mucha alegría llevó el viage de los Gelves, donde sabía que a Dragut avía de hallar, porque allí avía sido mandado fuesse con él a juntarse, para que recogida más gente de los Gelves, que pensava allí hazer todos, fuessen a tomar tierra a los Izfaquez y juntar allí el armada para bolver sobre el campo del Emperador.

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CAPITULO XXXIII Cómo Dragut llegó en los Gelves y de una plática que el xeque Çalac le hizo, y lo que Dragut le respondió y determinación del xeque.

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Navegando Dragut el viage de los Gelves, con próspero viento que tuvo llegó a la roqueta, y de allí fue a su castillo; y como iva con mucha tristeza y dolor por la gente que avía perdido, y por no aver podido a Africa descercar y por el peligro a que su sobrino, deudos, amigos y turchos dexava, mandó no se hiziesse salva de artillería como otras vezes costumbrava hazer, sino que de su galera capitana jugasse una sola pieça y no más. Y como el armada fue surta, ocurrieron a ella muchos hombres, mugeres y donzellas a saber de sus hijos, maridos, padres, hermanos y deudos; y como algunos hallaron muertos y otros vieron muy mal heridos, de todos fue muy mal rescebido, maldiziéndole y el día que en los Gelves se avía avezindado, y levantaron por ello gran llanto. Y llegando a noticia del xeque le pesó mucho de la pérdida y daño de sus moros y de no se aver descercado la ciudad, y mandó juntar en su palatio los de su consejo, y antes que Dragut le fuesse a hablar les dio parte de lo que se dezía le avía suscedido, y les pidió parescer sobre si más gente le pidiesse lo que proveería. Los quales, aviéndose sobre ello comunicado, se determinaron en dezirle que de ninguna manera se le diesse. Y en esto resolutos, el consejo fenesció, y de allí a poco que Dragut con algunos capitanes turchos le fue a ver, le rescibió no con el alegría y regozijo que otras vezes solía, pero mandándole sentar le preguntó cómo la jornada que avía ido a hazer le avía suscedido. El qual, pesándole mucho de la desgracia que en el xeque conosció, le dixo: «Xeque señor, yo he hallado en el campo del Emperador harta mayor resistencia de la que hallar pensé; y como Hesaráiz no pudo salir a juntarse comigo para pelear y desbaratarlo, aunque con todo el campo peleé y hize mucho daño en él, no por esso le dexé de rescebir, porque turchos míos y moros vuestros, y de los Querquenes y Izfaquez y de otras tierras se perdieron, assí muertos que allá quedaron, como heridos que en mis navíos trayo. Y desto bien creo no os maravillaréis, pues sabéis las cosas de la guerra; y porque yo dexo mis capitanes en los Izfaquez y Querquenes y otros aduares, haziendo más gente para me tornar a reforçar y desbaratar los christianos, os vengo a pedir de merced me mandéis dar más complidamente vuestro favor y socorro, teniendo por bien en vuestras tierras haga otra tanta

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gente como la hecha, para que con ella, y la más que en los Izfaquez y Querquenes y las otras villas y lugares hallare, pueda descercar mi ciudad». Aviéndole el xeque oído, le dixo: «Amigo Dragut, a mí duele mucho vuestra congoxa y pena, assí como a vos, y también la pérdida y daño de mis moros, por ser mis vassallos a quien yo no deviera fuera de mis tierras embiar a peligro de morir. Y aunque conoscido tengo que los christianos que cercada tienen a Africa son nuestros capitales enemigos, que todo mal y daño nos dessean, considero que tenéis duro y fuerte adversario con quien competir, y que qualquier hombre de razón assí lo entenderá, y que es cosa muy vana, y aun gran locura, pensar vos socorrer a Africa de manera que la descerquéis, siendo el campo que sobre ella está del Emperador tan grande y poderoso señor como mejor sabéis. Y según los términos en que las cosas van, antes se cree la ciudad por el campo se tomará que se pueda dél defender, especial estando sobre ella el príncipe Andrea Doria y un visorrey de Cecilia y el hijo del visorrey de Nápoles, cavalleros de mucha estima, que por lo que a sus honras toca no le alçarán el cerco hasta que por suya la ayan, hora sea a partido, hora sea por fuerça de armas. Y esto no se puede escusar, porque de cada día ternán nuevos socorros como ellos los quieran de las más cercanas tierras del Emperador; y porque aunque de mis tierras más gente vos llevássedes, no bastaría para complir vuestro desseo ni salir con vuestro intento, me muevo a rogaros os queráis reconoscer quánto errado en esto andáis, y sea parte de vuestro pensamiento bolverla a socorrer con gente mía ni con otra, porque toda la perderéis, y alcéis vuestra muger, esclabos, thesoros y riquezas, y os váis de mis tierras para evictar los daños, trabajos y pérdidas que por vuestra causa y respecto a mí y a mis vassallos se podrían seguir y recrescer, porque por muy cierto tengo que, como Africa sea ganada, sabiendo estáis aquí os vernán a buscar, porque, por los daños que avéis hecho en tierras del Emperador y de la señoría de Génova, el príncipe os dessea aver mucho en su poder. Por tanto, por mi amor, cunpláis lo que digo y me dexéis en mis tierras en paz». En gran manera dolió a Dragut oír al xeque tan agria respuesta, porque después de su Mahomad, en quien toda su esperança tenía puesta para descercar a África, con su nuevo socorro y favor lo pensava hazer; y pensando atraerle a que se le diesse, con blandas y amorosas palabras le respondió: «Si vos, señor xeque, uviéssedes visto la gran fortaleza de África como yo, y la guarnición y provisión que dentro dexé, bien sé que por muy

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dificultoso terníades poderla yo perder ni los christianos ganar. Lo que de merced os he demandado os torno a pedir, porque muy cierto soy con vuestro socorro hazer el efecto que digo, porque el daño que en el canpo yo hize, y el que la artillería de la ciudad y los turchos y moros que de día y de noche an salido a dañarlos an hecho, y con los que an enfermado, tienen menos la quarta parte de la gente, y a duras penas quedan en él tres mil soldados que puedan pelear, y bolviendo con brevedad y buen socorro contra ellos antes que puedan ser socorridos, los porné tales que no me puedan más ofender ni a vos osar enojar. Y quando intentar lo osassen, con el socorro de mis turchos que yo os daré, bastará para que les hagamos tal daño y pongamos tal escarmiento que no buelvan a lo intentar». El xeque le dixo que no tractasse de pedirle socorro, porque su voluntad no era dársele. Y por mucho que sobre ello Dragut le persuadió, de ninguna manera le pudo a ello mover, diziéndole que no dárselo para el efecto que se lo pedía era su utilidad y pro, y que lo que le dizié era lo que le cumplía y no pensasse en otra cosa, porque su determinada voluntad era lo que le avía dicho, y aquélla cumpliesse sin dilación. Viendo Dragut que su principal intento le faltava, faltándole el socorro del xeque fue dello muy triste, y con mucha más congoxa de la que en el palatio entró, se salió y fue para su casa, donde tuvo consejo con el Çopo y otros capitanes, pidiéndoles parescer sobre lo que tanto desseava. Y como todos eran faltos de amigos y muy proveídos de enemigos, no supieron qué le consejar. E injuriado Dragut de la respuesta del xeque, començó a artizar y pensar cómo le quitar la vida y alçarse con los Gelves, paresciéndole, si Africa se perdiesse, era bien tener otra tierra, aunque tiranizada, donde con los suyos morar. Y fin de algunos días que sobre ello anduvo cuidoso [sic], según algunos afirman, ganó por secreto y grande amigo un privado del xeque, para por su mano quitarle la vida, prometiéndole grande interese y tierras de que hazerle señor. Pero, según otros dizen, no uvo lugar, porque conosciéndole el xeque por malo, péssimo e iniquo, y por tal como él era, se guardó tanto dél con sus solos deudos y parientes, que no se pudo efectuar, y assí él quedó muy triste y sin saber qué hazer.

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CAPITULO XXXIIII De cómo los arráezes de las fustas y vergantín que uvieron el baxel con los vinos y provisión de don García se desavinieron y dividieron, y por qué causa.

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En la pequeña isleta de Betheten que avemos dicho, estuvieron cinco días los arráezes Chamete, Vagaxi Debrix y Valli Dubrizi con sus fustas y vergantín, y el baxel que de don García uvieron, y partidos entre ellos los christianos que tomaron por esclabos, mandaron alçar velas y llevar la vía de Monte Cherchelo, tierra del Papa treinta millas de allí, por donde anduvieron cinco días, y de allí fueron cinqüenta millas más adelante a la isla de Pontio Pilato, y con gran tormenta que les sobrevino les fue forçado estar en ella diez días, fin de los quales que la mar sossegó bolvieron la vía de Monte Cherchelo, y en el viaje toparon un pequeño navío con veinte passajeros italianos que ivan en peregrinaje a Roma a ganar la indulgencia del Jubileo Sancto, y con muy poco trabajo se apoderaron dél y los captivaron y llevaron a vender a La Mahometa; y vendidos, el arráez Valli Dubrizi, señor del vergantín, se despidió de los otros y bolvió a los Gelves, y los de las fustas llevaron la vía del río Tíberin de Roma, que sesenta millas de allí estava, con fin de aguardar las barcas y navíos que dél saliessen, para en ellos hazer presa. Y llegados en derecho de Hostia, descubrieron un baxel que navegava, y alçando velas le fueron siguiendo. Y sintiéndose en gran peligro el patrón dél, porque con toda diligencia se le ivan acercando, animando los marineros y poca gente que dentro llevava, endereçó la vía de Hostia a fin de salvarse remando todos juntos. Mas como las fustas eran mucho más ligeras, por los muchos remos y remeros que llevavan les fueron dando caça tres largas horas con tanto ímpetu que el patrón con todos los que llevava, temiendo perderse, llevó el viage más cercano de tierra. Y como del castillo de Hostia fueron vistos, y al alcaide constó de su nescessidad, mandó jugar contra las fustas dos pieças de artillería, y començándolas a jugar, por no perderse los arráezes no osaron seguirlos más, y los christianos fueron en tierra y en salvo con grande alegría y dando gracias a Dios, aunque por mucho pesar de los arráezes, porque escapado se les avían. Los quales después fueron al baxel y le entraron y llevaron las cosas que hallaron en él, aunque de poco valor eran, y le desampararon quarenta millas de Hostia y fueron a la playa romana donde Dragut avía combatido la nao arragocesa, y hallaron ardiendo el árbol

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della, el qual aún no se avía acabado de quemar, y mandaron dar cabo a las fustas y amarrarlas el árbol y detuviéronse a aguardar alguna ventura. Y paresciéndole al arráez Chamete que por culpa del Vagaxi la gente del baxel que en Hostia se salvó se les avía ido, porque avía defendido no le dexassen más entrar en alta mar, uvo malas palabras con él de tal manera que quedaron muy desavenidos. Y diziendo el Vagaxi que quería ir a proveerse de panática a Berbería, se partió solo y llevó la vía de la Helva del duque de Florencia. Y descubriéndole las guardas y dando aviso al alcaide, mandó embarcar en dos barcas trezientos arcabuzeros, y que fuessen con mucha diligencia contra la fusta haziendo por averla. Los quales pusieron en esecución lo mandado, y llegados cerca della començaron a disparar contra los que en ella ivan la arcabuzería. Y el arráez mandó jugar dos pequeños tiros y soltar muchas flechas y escopetas contra los soldados, y començáronse a travar de manera que muy en breve fueron muertos seis turchos y dos remeros christianos, y otros muy mal heridos. Y de los soldados que españoles eran, fueron algunos heridos y enclavados con flechas sin que ninguno muriesse. Y paresciéndole a Vagaxi que si a pelear con los soldados porfiava se perdería, mandó remar a sus forçados para alexarse, y siguiéndole y dándole caça fueron muy gran rato hasta que, paresciéndoles no le devían más seguir, se bolvieron a la Helva. Y Vagaxi, que muy mal parado quedó, para se reparar y adereçar se fue la buelta de Bona, donde estuvo un día, y de allí llevó la vía de Argel, y en ella vendió los moços de los gentiles hombres que consigo llevava. El arráez Chamete, que en la playa romana quedó, dos día después de partido Vagaxi, mandó alçar velas y a sus marineros llevar el viage de Thalamón, que es en la canal de Pomblín [sic], tierra de la señoría de Sena, y en ella llegado halló quatro galeotas de la conserva de Dragut. Y holgando mucho los arráezes toparse por ser muy conoscidos y amigos, anduvieron quatro días juntos, y fin dellos se repartieron llevando los de Dragut la vía de la costa de España, encaminados al Cabo de Marthín, y Chamete la de Córcega. Y llegado en Córcega echó en tierra doze turchos, y de dos clérigos que ivan a Roma captivaron el uno y el otro les huyó. Y llevado el clérigo a la fusta anduvieron por aquella costa ocho días sin que otro daño pudiessen hazer, y de allí fue a Cerdeña y topó en el viage dos galeotas de turchos que ivan a la isla de Montechristo, y echando a la hora del medio día ocho turchos en tierra, junto a un lugar captivaron dos pequeños muchachos y pusieron la comarca en arma; y recudió contra ellos mucha gente de pie y de

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cavallo, pero diéronse tanta prisa a caminar a la fusta que, antes que alcançarlos pudiessen, fueron con los captivos en salvo. Y pensando hazer más daño, anduvieron corriendo la costa por muchas partes ocho días, y como todo lo halló muy guardado y la panática le faltó, atravessó a Viserta del rey de Túnez, donde por alcaide del castillo estava un renegado, con fin de vender allí los esclabos christianos. Y dando dello aviso, embió a mandar los comprasse, y mientras fueron con el mensage al rey, Chamete se temió del alcaide y moros de la tierra, y no fiándose dél se salió del puerto a la playa donde estuvo algunos días con peligrosos Ponientes, porque no osó llevar la vía de Levante por temor del armada del Emperador que sobre África estava. Y aplacada la furia del mar, sin aguardar la respuesta del rey fue a Vona, donde stuvo dos días en conpañía de cinco arráezes de turchos que en aquel puerto stavan. Y un martes por la mañana, fin de cinqüenta y cinco días que la presa del vaxel de don García hizieron, mandó alçar velas y navegar para Argel por vender los esclabos y hazer del valor dellos una galeota, para correr más a su salvo la mar.

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CAPÍTULO XXXV Cómo un capitán niçardo llamado Moreto, con una galera salió a correr la mar y lo que en ella le suscedió.

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Assí como Chamete, Vagaxi y Valli Dubrizi salieron, como avemos dicho, a correr la mar para hazer daño en los christianos, a los veinte y siete de julio de Villafranca, puerto de Niça que es del duque de Saboya, salió en corso para lo hazer en turchos y moros un capitán llamado Juan Moreto con un su hermano llamado Melchior de Belmón, con una galera bien armada de franceses y turchos forçados y artillería y con ciento y sesenta hombres de pelea de buena bolla, y a los tres de agosto tomó tierra en Berbería en el golfo de Hestora la Morisca, llamado Sosquiquida, y otro día al alva fue para el Puerto de Choy, donde avía gente de guarnición de turchos del reino de Argel. Y como era plático y sabía avié hamistad entre el rey de Francia y el de Argel, entrando en el puerto mandó poner sobre el árbol de la galera un estandarte con las armas reales de Francia, y hazer salva y tocar trompetas y echar un cabo en tierra para que los turchos no se alterasen. Y como ellos le vieron, mostrando gran regozijo, dando palmadas con las manos començaron a dezir a bozes: «Germán, germán», que en nuestra lengua spañola dize “hermanos, hermanos”, y hasta diez y siete dellos fueron para la galera. Los quales del capitán fueron bien rescebidos, y los comunicó con mucho plazer y hizo sentar a comer. Y yendo ya al fin de la comida, hizo seña a su hermano para que hiziesse armar la gente de la galera y meter el cabo y començar a salir fuera del puerto. El qual cumpliéndolo, al tiempo que los turchos descuidados y sin pensamiento del daño que avían de rescebir stavan, la galera se començó a mover y dieron sobre ellos los soldados della por desarmarlos, y como los turchos burlados se vieron, dos dellos se arrojaron al agua diziendo a grandes bozes: «Engaño, engaño, armá, armá». Oído por todos los soldados de la guarnición que a la ribera de la mar stavan, començaron a disparar contra la gente de la galera escopetas y flechas, con mucha prisa y muy espesas, mas no por esso el capitán dexó de salir con su intento adelante, porque muy en breve los quinze turchos que quedaron fueron sin armas y alexados algún tanto del puerto, echados al remo sin rescebir en los suyos ningún daño. Y metido en la mar, dexando en mucha tristeza y congoxa los del Choy por la stratagema que les avía hecho,

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y a los seis de agosto descubrió una galeota sobre el cabo de Bugía veinte millas más adelante, y siguiéndola le fue dando caça hasta los secanos de Gijar, donde el capitán della, hallándose en salvo, mandó dar fondo. Y el capitán Moreto, muy enojado de se le aver escapado, quedó sobre Gijar y mandó surtir la galera y quitar el estandarte y se sossegó. Chamete, que a Argel a vender los christianos captivos iva, emparejó con él a quarenta millas de través, y, descubriéndole, Moreto mandó hazer la galera a la vela y fue en su seguimiento a las dos horas después del mediodía. Y como Chamete vio la galera y su diligencia, por della alexarse, temiendo su predición, mandó navegar lo que más pudo para Argel; y porque no avía reconoscido si era de christianos o turchos, llegando a seis millas della mandó poner sobre el arbol de su fusta su vandera turchesca, para que los de la galera se le declarassen por amigos o enemigos. Mas aunque Moreto lo entendió no se quiso declarar sino seguirlos, y como passó quarto de hora que Chamete tuvo la vandera en el arbol y no le respondieron, teniéndolo por mala señal para él, la mandó quitar y aherrojar los christianos, y tomando sus cimitarras él y el cómitre y otros turchos en las manos, amenazando con la muerte los pobres forçados los hazían remar con toda furia por salvarse en Argel. Mas como la galera tres millas de la fusta llegó, Moreto mandó estender el gallardete de su vandera que cogido llevava y jugar dos pieças de artillería contra ella; y como Chamete vio la cruz blanca en campo roxo, conosciéndola por de christianos, con gran dolor dixo: «Válame Alá, y cómo somos perdidos», y diziéndolo soltaron de la galera otra pieça con que mucho los atemorizó, y un christiano remero le dixo: «Señor arráez, mándanos amainar sino todos moriremos». Y oyéndolo un moro de los Gelves, que en Viserta con dos mil ducados de oro para ir a Fez a ver un su hermano se avía embarcado, tomó una hacheta en la mano y le amenazó diziendo: «Perros, canes, aquí avéis de morir todos y ésta ha de ser vuestra sepoltura». Mas Chamete, que vio que escapar no podía, desmayándosele el coraçón con gran mansedumbre les dixo: « Hijos míos, esforçaos y remá, y lleganos a tierra y en ella nos echad, que vosotros salvos sois». Y por mucho que hazían por llegar a tierra, la galera llegó con gran ímpetu y con la proa embistió la popa de la fusta con tanto furor que casi los anegara; y luego hizo ciaboga hazia trás, y el capitán mandó sacar el esquife,

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celadas y arcabuzes y entrarla. Los quales la acometieron, y temiendo el arráez, turchos y moros la muerte, por salvar las vidas se arrojaron al agua y fueron a la galera. El clérigo y christianos que con esposas y hierros pies y manos ligados estavan se levantaron en pie, y dando bozes dixeron: «Christianos, aved compassión de los christianos que en triste captiverio con grande trabajo y angustia bivimos, y no nos querráis matar». Condoliéndose dellos, los christianos del esquife entraron la fusta y los desaherrojaron y llevaron a la galera y presentaron al capitán. El qual dando gracias a Dios los rescibió muy bien, y assí los turchos que a la galera a guarecer se fueron, ecebto el moro de los Gelves, que con los dos mil ducados se ahogó y assí otros algunos. Y como fueron en ella los mandó echar al remo y el arráez y cómitre, que mucho mal a los pobres captivos christianos avían hecho, y vinieron a padescer lo que ellos avían padescido. E informado el capitán de quién el arráez era y de los daños que avía hecho, dado saco a la fusta la dexó a media noche en la mar, y mandó a sus marineros bolber la galera la buelta del Choy, donde los turchos avía burlado, con fin de que le rescatasen los que avía captivado. Y como llegó y le conocieron, holgaron mucho de verle, pensando con cautela poderle coger a él y su galera dilatándole la paga del rescate. Y en el entretanto embiaron a dar aviso de su venida a tres arráezes de galeotas de Argel que en Bona estavan, para que allí donde les hizo la burla fuesse burlado. Mas conosciendo Moreto eran palabras las que con él contratavan, porque no veía obras sino dilaçiones, sospechando al fin que lo devían hazer stuvo muy avisado, y a los diez de agosto descubrió una de las galeotas que emboscada stava, por donde más claro conosció ser verdadera su sospecha. Y por estar apercebido a lo que susceder le podía, mandó amainar velas y alçar remos, y viendo los arráezes la manera de la galera, no la osando acometer se retiraron, y Moreto mandó guiar la vía de Bugia. Y llegando el segundo día a una pequeña isleta de Berbería llamada Cavallos, do muchos moros y moras pescavan coral, mandó poner en la popa de la galera una vandereta turchesca por asegurarlos, y vestir doze soldados de traje de turchos y, con arcos y flechas, saltar en el batel de la galera para captivarlos, y por los hazer más creíbles de que eran turchos y no christianos, a un maltés les dixesse en lengua turchesca, que sabía bien hablar, eran turchos que en busca de cossarios christianos andavan. Y como se lo dixo, algunos lo creyeron y aguardaron a la orilla de la mar, y otros que no lo

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quisieron creer dieron a huir. Y en esto llegó el esquife a tierra, y saltando los soldados en ella captivaron quatro moros sin que pudiessen aver más, porque luego fueron conocidos. Los quales embarcaron en el esquife y llevaron a la galera, y hecha esta presa Moreto mandó alçar velas y siguió la vía de Bugia. Y llegando cerca, recelándose rescebir daño si sin licencia en el puerto entrava, mandó disparar dos pieças de artillería para saber si con seguridad podía entrar, y conosciendo la galera por de christianos, don Luis de Peralta, alcaide y capitán general de la tierra, y oída su salva, porque sin temor entrasse mandó hazer del castillo otra tal. Y viéndose Moreto assegurado, entró en el puerto haziendo salva con toda su artillería, y saltó en tierra a ruego del general y comió con él. Y siendo la tarde venida, mandó echar en tierra los christianos spañoles y recogió seis carpinteros napolitanos que de Argel y Bugia, siendo captivos, avían huido. Y despedido de don Luis de Peralta se enbarcó a prima noche y llevó la vía de Trípol, donde fue a los veinte y uno de agosto y del bailío de la Religión fue bien rescebido. Y estando allí vio passar las quatro galeotas que Dragut avía embiado por socorro a Morataga rey de Thajora, y, como venían a la vanda de Levante doze millas dél, con su galera salió contra ellas. Y como los capitanes turchos la descubrieron y traían noticia de algunas de las cosas que avía hecho, bolvieron la buelta de Thajora, y Moreto siguiéndolos les fue dando caça, jugando contra ellas algunas pieças de artillería de que mató algunos turchos. Y como de Thajora Morataga lo vio, mandó salir algunos de sus turchos y moros a la marina para darles favor, con los quales el Moreto escaramuçó jugando el artillería y disparando sus soldados el arcabuzería, de que hizo algunas muertes sin él rescebir ningún daño, aunque con mucha escopetería y flechas contra los suyos tiraron. Y viendo que ya las galeotas estavan en salvo y seguro, y que no las podía aver, mandó guiar la vía de Malta, donde saltó en tierra y fue a besar las manos al gran Maestre. El qual, sabiendo lo que avía hecho, le rescibió muy bien y hizo favor, y estando en Malta mandó despalmar la galera y recogió algunos cavalleros de la Religión que desseavan ir a la conquista de Africa. Y despedido del gran Maestre llevó la vía de Çaragoça de Cecilia, donde los dexó, y un día en la tarde, puesto el sol, passado el Cabo Galo, descubrió un baxel de turchos que venía de Constantinopla de mil y quatrocientas salmas que llevava diez pieças gruessas de artillería y sesenta y seis turchos con archos y flechas, y a la medianoche con grande ánimo le acometió jugando algunas pieças de artillería contra él y le començó a combatir; y acercándose començaron a

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pelear con los turchos, los quales mostrando grande esfuerço, haziendo gran resistencia hizieron lo mismo, jugando sus pieças y disparando flechas contra los christianos, y peleando todos animosamente se causavan muchas heridas y caían muertos de ambas partes. Y combatiendo anduvieron toda la noche, que cosa espantosa y muy dura fue, hasta otro día al medio dél, que muertos todos los turchos ecepto tres y un judío, con pérdida de algunos christianos, Moreto con los soldados le entró y se apoderó dél y de los que dentro estavan, y mandó echar los turchos muertos a la mar y curar los christianos y entrar en él a su hermano con algunos soldados.

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CAPÍTULO XXXVI Cómo continuando Moreto su navegar hizo otras presas con que mucho más interesó.

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Hechas las cosas por Moreto que avemos ya contado, acrescentándosele mayor desseo de hazer mayores daños en los cossarios siguió su viage, y otro día llegando sobre el Cabo de Matapán descubrió otros dos baxeles, el uno cargado de trigo de un turcho de Andrinópoli llamado Charamosa, que con veinte y siete turchos venía; y con gran viento le embistió y saltaron dentro sesenta y tres soldados y pelearon con el Charamosa, y los passaron por filo de spada, porque no se quisieron rendir quedando muerto un solo soldado y veinte heridos, y el otro vaxel se le fue; y del que tomó, señaló por capitán a un gentil honbre llamado Raphael, y le mandó que con veinte y dos hombres le llevase a Palermo y vendiesse el trigo, y bolviesse en su busca. Y llevando el viage de aquella ciudad, con fortuna fue en Turchía en el golfo de Achadia, donde perdió el vaxel y lo que llebava y cinco hombres que se anegaron, y él escapó con los diez y siete; y por saber bien hablar turchesco y mudarse del trage, fue tenido por turcho. Y caminando por tierra fueron en tierra de venecianos donde salvó a sí y a los demás y se puso en libertad. Pues Moreto, aunque a Raphael a Palermo embió, no por esso tomó reposo, porque luego fue de allí a la isla de Chandia, y descubrió una nave veneciana que era de un cavallero llamado Bernardi, que iva a Flandes; y por tomar lengua della, como de christiano y amigo de Salarráiz, renegado esclabón a quien el gran Turcho tenía por governador de Rodas y capitán de doze galeras, que como cossario corría la mar y hazía daño en christianos, por guardarse de topar con él y desviarse de aquel peligro, mandó saludar la nave jugando un pieça de artillería de bronze, haziendo poco caso de la galera mandó contra ella jugar algunas pieças de que le hizo daño. Y enojado de aquello, el Moreto mandó batir la nave, y en dos horas que la batió la rindió y entró con daño de los que en ella ivan. Y después de rendida, sabiendo lo que del capitán desseava, sin consentir más mal recibiesse, la dexó ir su viage, y prosiguiendo él el suyo, de allí a cinco días en la canal de Rodas, peleando se apoderó de un esquilazo de ochocientas salmas que venía bien artillado con dos pieças de bronze y muchas de hierro. El qual era de Maimí, arráez de la Velona que venía de Alexandria, y después de aver dado buelta a toda la isla de Chandia arribó al puerto Chalia, donde tuvo lengua

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que Daliamat, capitán del rey de Argel, iva con una galera bastarda de veinte y siete vancos por embaxador al Turcho a Costantinopla, y que estava en Modón; y con fin de combatirle y apoderarse dél, anduvo por aquellas puntas seis días, y, sabido por Daliamat, no quiso salir debaxo de la fortaleza de Modón do estava; y muy colérico Moreto dello, se metió vaxo de la misma fortaleza por ver si la galera stava allí. Y delante de la proa della, por fuerça tomó un esquilaço de turchos con paños de mucho valor, y de allí a pocos días uvo nueva de ciertos esclabones que en un vaxel ivan, que dentro de Chefalonia estavan los dos galeones de turchos con el trigo, munición y gente que Mostafarán embiaba a los Gelbes a Dragut para ayuda a descercar a Africa. Y por le estorvar el socorro fue a la Chefalonia a buscarlos y halló los surgidos por aver avido fortuna, a los quales acometió y combatió todo el día hasta media noche, y peleando y descansando les dio tres batallas por la mar; y viendo que en dos días que con ellos avía peleado no los podía aver ni hazer el daño que desseava, mandó desembarcar dos morteretes de metal y veinte arcabuzeros en su guardia, y por mar y por tierra tornar a combatir los galeones, y al alva de otro día se apoderó dellos y de lo que llebavan, con muerte de la mayor parte de los turchos que los defendían; y tomando los demás por captibos, navegó hasta una isleta que estava sesenta millas sobre Bona, llamada Thabarca, poblada de christianos ginoveses mercaderes, y de allí fue a La Pantanalea, donde dexó algunos de los napolitanos y cecilianos, y dio buelta al Lebante por la Berbería. Y passando de la Pantanalea topó un navío cargado de quesos que turchos a christianos avían cerca de Cerdeña tomado, con veinte cecilianos que en él captibos llebavan, y endereçó contra él, y fin de dos horas que le siguió, dándole caça le alcançó y peleó con los turchos que maravillosamente pelearon, y se le resistieron tres horas, fin de las quales con daño en ellos recebido los uvo y se apoderó dellos, y dio libertad y su hazienda a los christianos con que muy alegres fueron; y mandando passar los turchos y lo que suyo era a la galera, despidió los christianos y llebó la vía de Costantinopla, y encontró en ella con dos grandes vaxeles de turchos muy bien armados de gente y artillería, y peleó con ambos quatro horas una bien reñida, peligrosa y sangrienta batalla. Y fin dellas, con daño de muertes y heridas de sus soldados, muertos veinte y cinco turchos y heridos muchos más, se le rindieron, y apoderado en ellos, en el más fuerte mandó passar los turchos y ponerlos al remo y curar los heridos, y recoger a su galera la hazienda que llebavan; y a un gentil honbre saboyano mancebo esforçado y animoso, llamado Pirón Floresta, mandó que con algunos de sus

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soldados entrase en él y diesse buelta a la costa de Calabria por ver si por allí toparía cossarios, porque en ella costumbravan hazer grandes daños. Y llegado en el puerto de Cotrón, la justicia le embargó el navío diziendo andava a toda ropa assí contra christianos como contra turchos y moros; y agraviándose Moreto de la mala fama en que le ponían, envió a suplicar al visorrey le restituyese en su onra y hazienda. El qual, bien informado de lo que passava, se le mandó desembargar diziendo que lo por él hecho antes merecía merced que daño, y alçado el embargo tornó a su viaje y dio fin en el fin del berano, con ganancia de treinta mil ducados de valor, que en oro, joyas y otras cosas ganó, y cien turchos esclabos y otros tantos que mató, sin ochenta christianos que puso en libertad. Y con esta victoria y riqueza bolvió a su tierra llevando muchas vanderas y gallardetes turchescas, rastrando por el agua y tocando sus trompetas y clarines en señal del triunpho y victoria que avía ganado. Y saludando todos sus parientes, amigos y naturales, con salba de artillería entró en Niza, de todos los quales fue muy bien recebido.

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CAPÍTULO XXXVII Cómo Marcho Centurión recogió la gente y municiones porque iva, y bolvió con ello al canpo y se sentó la batería contra la ciudad y lo que más se probeyó.

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Marcho Centurión, que el viaje de La Goleta llebava, continuándole sin parar fue en ella, donde entregó el cuerpo de Luis Pérez a los oficiales, el qual por ellos fue recebido con gran pesar, por aver perdido un tal alcaide y capitán. Y otro día, lo más onorablemente que pudieron, ellos y los soldados le dieron sepoltura y hizieron sus onras. Y esto hecho, Marcho Centurión les entregó los quatro mil ducados que el visorrey para la paga de los soldados embiava, y mandó alçar velas y llevar la vía de Cerdeña y passó por la costa de la isla y assí de Córcega, y fue para Liorna. Y llegado en el puerto a una hora de noche tomó tierra y despachó a Pasquarín de Montán, patrón de la galera Marquesa, al duque de Florencia, con el despacho del príncipe y del visorrey y don García, y a Renuchino, patrón de la galera Justicia para la señoría de Luca, con los despachos que para ella ivan, mandándole llevasse otra galera en su conpañía, ordenando a cada uno dellos que con toda diligencia possible recogiessen y embarcassen las municiones y cosas que se les diessen, y le aguardassen en Liorna con ello. Y él con las otras galeras fue para Génova, donde llegó a los diez de agosto, y dando las cartas que llebava al duque y senadores en el senado, estuvo en el puerto y en la ciudad proveyéndose de cosas necessarias. Y despachó persona que por la posta fuesse a don Hernando a Milán, con las cartas que para él ivan, para que le diesse la gente. Pasquarín de Montán, que al duque de Florencia fue, le halló en su ciudad del mesmo nonbre, al qual dio las cartas que para él ivan. Y por él vistas, y la que el Emperador le avía enbiado, embió a mandar a los alcaides de sus castillos de Florencia y Liorna que de la munición que en ellos tenía le diessen y entregassen quatrocientos quintales de pólbora, y cinco mil pelotas de hierro colado. Los quales, vista su letra, obedeciendo su mandado se lo entregaron. Lo qual con toda diligencia hizo enbarcar. Renuchino fue assimismo en Luca y dio sus cartas a la señoría, por la qual vistas embiaron a mandar a su alcaide del castillo de Biurrezo que, de la munición que se tenía para la guarda de la señoría en aquel castillo, le diessen dozientos barriles de pólbora. Los quales con toda presteza le fueron dados.

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Y por él recebidos y embarcados bolvió la buelta de Liorna a juntarse con Pasquarín de Montán, para aguardar a su principal capitán. Aviendo el duque y senadores de Génova visto las letras del príncipe y del visorrey, y como antes avían recebido las del Emperador y entendido lo que les avían enbiado a pedir, y como aquel negocio, assí para guarda de sus tierras como para servirse el Emperador, convenía ganar la ciudad de África, pues ya en ello el príncipe y el visorrey se avían puesto, mandaron que de los castillos de la ciudad se entregassen a Marcho Centurión tres mil pelotas y quinientos quintales de pólbora, y proveyeron como el oficio de sanct Jorge socorriesse y ayudasse de la pólbora que en su castillo de Leisa tenía con dozientos barriles. Y poniendo en todo ello Marcho Centurión buena diligencia, en breve spacio lo hizo recoger y enbarcar. La persona que por la posta a Milán a don Hernando enbió le dió assimesmo sus cartas, y vistas, por no tocar en inobediencia contra el mandado del Emperador, luego despachó sus correos para la ciudad de Plasencia y villas de Villalba y Burgo de San Dionís, mandando a los capitanes Solís, Anthonio Moreno y don Hierónimo Manrrique, que en guarnición en aquellas tierras estavan, que vista su provisión partiesen los de Plasencia y el Burgo para el Especia, y don Hierónimo para Vaya con sus conpañías, llevándolas bien conplidas de gente y muy bien armados los soldados, para que en cada uno de aquellos puertos se enbarcassen y fuessen a África en servicio del Emperador. Y señaló otro nuevo capitán, al qual mandó hazer otra conpañía de infantería de los soldados que por la ciudad y sus contornos andavan perdidos sin plaças. Y proveído, enbió pagadores a todas partes para que pagassen las conpañías. Y vistas y obedecidas sus cartas, y dada la paga a los soldados, todas las conpañías con la que nuevamente se hizo llebaron el derecho camino de los puertos que les avía sido mandado; y don Hernando mandó avisar a Marcho Centurión del despacho que avía hecho y de cómo la infantería caminava y para dónde. Y sabido por él, proveyó que el capitán de las galeras de Mónaco con ambas fuesse al Especia a embarcar las conpañías de Plasencia y el Burgo, y fuesse con ellas a Liorna, y él con las demás fue para Baya a recebir las otras. Y como los capitanes con ellas llegaron, que a gran diligencia todo lo possible avían caminado, los rescibieron muy bien y embarcaron, y alçaron cada uno velas y llevaron la vía de Liorna, y en el puerto se rescibieron con gran salba de artillería. Y todas juntas de conserba, yendo Marcho Centurión con su galera capitana delante, bolvieron para Africa por Cerdeña como

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avían venido, y sin hallar cosa que estorvo les diesse, y con buen tienpo y viento, a seis de septienbre llegaron en salbamiento a vista del armada, haziendo salba de artillería. De la qual y de todo el campo, con gran alegría fueron muy bien recebidos, y llegando Marcho Centurión junto con la galera capitana del príncipe, saltó en el esquife de su galera y fue para ella y le besó las manos y dio cuenta de lo que llevava, con que mucho holgó, y le mandó desembarcar la infantería y municiones para juntarlo el exército. El qual en cunplimiento dello lo hizo con la más presteza que pudo, y siendo desembarcada la infantería, los capitanes con sus conpañías en orden, tocando sus atanbores y pífaros, y llevando sus alférezes sus vanderas en erboladas, fueron al canpo, y llegando cerca del visorrey y don García, que a verlos avían salido y assí a todo el exército, saludaron con una buena salba de arcabuzería con que todos mucho se regozijaron. Lo qual fue muy al contrario en Hesarráiz y Caidali y en todos los turchos, africanos y alexandrinos, viendo que sus enemigos de cada día se reforçavan y ellos stavan encerrados y sin esperança de socorro, especialmente después que Dragut se avía ido.

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CAPÍTULO XXXVIII Cómo se hizieron ciertos ingenios para minar la ciudad, y cómo se plantaron otras baterías y la batieron.

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Andrónico de Spinosa, ingeniero a quien el visorrey a Cecilia embió a llamar, con diligencia se embarcó y fue en el canpo y presentó ante él. Del qual fue bien recebido y le mandó dar relación de lo que hasta allí por Luis Pérez avía sido hecho y mostrarle la batería acordada, y que viesse la pólvora que avía y diesse orden en hazer algunos ingenios para ganar la ciudad. Y esto mandado, hizo alojar la gente de Lonbardía y proveerla de bastimientos para que olvidassen parte del trabajo que avían passado en la mar, porque unos ivan mareados y otros con necessidad de reposar para recuperar sus fuerças y salud. Y pareciéndole que, para tantos como eran, avía pocas bituallas y que no conbenía estuviessen mal proveídos, escribió a Hernando de Vega, mandándole que con toda brebedad hiziesse proveer de vinos, frutas y otras cosas para refrescar el canpo, a Juan Vázquez, teniente de don García que con sus galeras embiava, que no poco hizo al caso hazerles tan buen socorro, según menesterosos dél los soldados estavan, y por ninguna cosa les conviniera que él se dexara de hallar en esta empresa, porque caresciendo su presencia della, como no le constara tan por entero de las necessidades y trabajos que les ocurrían y padecían, aunque le embiaran a pedir el socorro refiriéndoselas por letra para remediarlas, no creyendo la necessidad ser tan grande, no uviera tanta presteza y diligencia ni tanta provisión. Por lo qual piadosamente devemos creer que Dios le puso en coraçón permitió y tuvo por bien se hallase en la jornada por el beneficio que dél en ella los christianos avían de rescebir, porque de otra manera, según el armada de cosas iva necessitada, no pudieran dexar de padecer, peligrar y morir muchos más de los que padecieron y murieron assí de hambre como por mala cura que tuvieran. Pues vista la pólvora que de todas partes se avía llebado, y refinada la mala que de La Goleta, Nápoles y Cecilia avía ido y la buena de Florencia y las otras partes, juntaron ochocientos quintales y siete mil pelotas, y tractando sobre los ingenios Andrónico de Spinosa y Hernán Molín se acordaron que, para que brevemente se hiziesse gran efecto, hiziessen una trinchea desde el canpo hasta el muro de la ciudad, la qual fuesse por debaxo de tierra y por encima cubierta, y un galápago de madera para que debaxo dél fuesse gente

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guardada hasta fin de la trinchea, y juntando al muro, estando debaxo dél, pudiessen limpiar piedras y picarle y minarle para derribarle y entrar en la ciudad. Y dada la orden se començó por los gastadores a hazer, y antes de llegar al muro, començando a abondar hallaron tanta agua que no se pudo hazer de hondo más de medio estado. Y como la trinchea fue hecha y el galápago fin della puesto, Hesarráiz que lo vio tuvo consejo con Caidali y los turchos y moros cómo desbaratarían el fin que entendieron llebavan, y acordaron que muchas astillas de leña seca, vañadas con pez y fuego de alquitrán, y hachos de juncos secos, untados y mezclados con el mismo fuego, venida la noche se echasen encima del galápago para quemarle; y venidos en esto lo mandaron hazer, y untaron y pusieron como avía de estar, y la noche venida, con su buena astucia y maña, desde los muros y torreones començaron a arrojar los hachos y astillas ardiendo sobre el galápago, y como sobre él cayeron començó a arder. Y púsose tan buena diligencia por Hernán Molín, que debaxo dél stava para dar la orden cómo el muro se avía de picar y minar, que el fuego se mató. Pero apenas fue muerto quando tornaron del muro a arrojar muchos más hachos y astillas encendidas y le tornaron a quemar por un lado, y por matarle se quemaron algunos, y aunque del canpo el visorrey y don García mandaron jugar el artillería contra los que de los muros y torreones el fuego arrojavan, nunca se lo pudieron estorvar. Antes, como por segunda vez lo tornaron a matar, del muro lo tornaron a prender, y duró casi toda la noche y quemaron del todo un lado del galápago, de tal manera que pusieron a muy gran peligro los que estavan debaxo. Y como tan cerca los tenían, començaron a jugar escopetería contra ellos, y mataron y malhirieron hasta ochenta soldados y algunos gastadores, y a Hernán Molín dieron un escopetazo por los pechos de que murió; y siempre los enemigos estuvieron tan avisados y recatados que por ninguna vía se pudo hazer el efecto, assí por la mucha resistencia que hizieron como por la defensa y enbaraço del agua que fue el principal estorvo para que no se pudiesse hazer. Y viendo que este artificio e ingenio tan mal avía salido, Espinosa dixo al visorrey que, quando de Cecilia venía, avía reconoscido por la parte de la mar ser lo más flaco de la ciudad, puesto que toda ella era mucho fuerte, y que le parescía ser necessario y muy conveniente por allí dar batería a la vanda del Levante en el lienço que confinava con el torreón más cercano de la mano derecha por junto a tierra, y porque por allí le parescía el agua no estar honda. Y hecha la batería, aunque los soldados se mojassen a la rodilla o más alto,

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podrían entrar la ciudad, porque no avía rebellín ni otro fuerte, y que si por allí no se ganava ternían mucho trabajo en ganarla. Y paresciéndole bien al visorrey quiso reconocerlo, y assí, tres horas después que anocheció, él y don García con Andrónico de Spinosa y otros fueron al reconoscimiento, y lo primero a la batería que se avía hecho en el rebellín, porque don García dezía le quería hazer muy mayor, para que por ella se tornase tentar de entrar la ciudad. Y aviéndola reconocido lo mejor que pudieron, aunque de lexos Andrónico lo contradixo y passaron adelante, y desde tierra le mostró el lienço de muro que se avía de batir. Los quales allí determinaron que por allí se batiesse, y se le mandó hiziesse los ingenios necessarios para batirle. El qual començó a mandar hazer preparatorios para meter dentro del agua el artillería y en la parte del campo que Luis Pérez avía señalado, y, començadas las plataformas jueves en la noche veinte y siete de agosto, plantar veinte y dos pieças gruessas de artillería, y al ronper del alva de otro día viernes, con muy buena orden començaron a jugar, batiendo un lienço del rebellín que estava a dozientos y treinta passos del canpo. Y como el artillería era más gruessa y mejor, la pólvora más fina y la batería cogía más en lleno hizo grande operación, y en muy poco spacio derribó mucha cosa. Y viendo Hesarráiz la gran batería que sin parar por aquella parte le davan, hizo juntar los esclabos y algunos turchos y moros de la ciudad para limpiar lo que la batería derribava, con fin de fortificarse y hazer un bravo reparo para segurarse. Y como de día no osavan limpiarlo por la mucha piedra que el artillería derribava y caía dentro de la ciudad, y lo limpiavan de noche, andándolo limpiando a la parte do los moros trabajavan cayó un pedaço del muro y torreón, que muy atormentado estava, que mató treinta dellos y quebró las piernas, braços y cuerpos a otros. Y sintiendo gran dolor los heridos alçaron grandíssimo llanto, y los que sanos y sin lisión quedaron, de dolor de ver los muertos y de temor que cobraron se retiraron afuera y no osaron más entender por estonces en la lavor, de que causó grande alteración y espanto en la ciudad. La batería hazía grandíssimo daño en el muro derribándolo, que cosa espantosa era, de tal manera que, como era tanta quantidad lo que derribava, no bastava poderlo de noche limpiar ni hazer ningún reparo dentro por aquella parte más de quanto, avido su consejo Hesarráiz y Caidali y otros, con ello proveyeron meter en el torreón que batían sacas de algodón, porque menos daño se recibiesse. Mas como la batería avía sido y era muy rezia, terrible y dañosa, avía ronpido un gran pedaço del muro que se andava del

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andén que iva del muro de la marina al de la ciudad, y no temían por aquella parte la ciudad les entrassen, porque, aunque a la batería suviessen, estava por allí el muro avierto quanto largos doze pies que no lo podían atravesar, y de allí a baxo avía grande hondura que no se atreverían a saltarla; y para poder Hesarráiz visitar todo el muro y torreón a la redonda, avía mandado poner en aquella falta un tablón de anchura de dos pies, y tan largo quanto lo que faltava de llegar al andén del muro de la marina al muro de la ciudad y quatro pies más, puesto por tal forma y artificio con cuerdas colgando, que, como qualesquiera subiessen sobre él, tirando dellas desde abaxo los derribasen dentro en la ciudad para darles a todos la muerte. Y assí contino Hesarráiz visitava todos los muros y torreones alrededor, yendo y viniendo a passar por el tablón, y como vio que las quatro galeras cada noche se dividían del armada a hazer la centinela, siempre assí a aquellas como a las demás, por les hazer daño mandó jugar artillería contra ellas, y en algunas dieron las pelotas de que mataron algunos marineros y soldados y hizieron otros daños. Y de la parte do más mandava tirar contra ellas, era de un través que caía tras un torreón de la marina cerca de la mezquita mayor, en el qual avía una vandera con las armas del duque de Florencia que Dragut avía avido en una fragata del Duque que cerca del Puerto de Liorna estava. Mas como la batería sin cessar andava, viendo el daño que do avía començando hazía, el visorrey la mandó continuar y batir otros lienços y torreones del rebellín, y de allí a poco el lienço del muro principal; y como la batería avía mucho allanado y quedava alto el torreón junto a él, paresciéndole que si los enemigos se uviessen fortificado de dentro, como avían fortificádose contra la primera batería que se les avía dado, sería bien ganarles aquel torreón para que apoderado en él la gente de guerra podrían ganar desde él los muros y los otros torreones, aunque poco a poco con trabajo, y tras ellos la ciudad, mandó batir el torreón para derribar parte dél o por lo menos desmocharle. Y començándole a batir halláronle tan rezio y duro, fuerte y maciço, que en mucho espacio que le batieron fue muy poco lo que dél se derribó, porque nunca le pudieron emparejar con la batería del lienço. Y como Hesarráiz veía el daño que se le hazía por todas partes, por las troneras de la ciudad mandó salir veinte turchos y entrar en uno de los navíos alexandrinos y en una galeota que en la mar estavan, y que desde ellos disparasen su escopetería contra la gente de guerra que estava en las trincheas haziendo todo el mal y daño que en ellos pudiessen. Los quales siendo en ellas, como estavan guardados del artillería del campo que no les podía

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dañar, començaron a dispararla y mataron y hirieron algunos soldados. Y como el visorrey vio los daños que los turchos desde los navíos hazían, avido consejo sobre ello con don García y Spinosa, para storvarlo que no lo hiziessen mandó hazer otra trinchea que llegase a la lengua del agua, que fuesse al derecho de la popa de la galeota. Y como allí la mar era muerta y la arena mojada y menuda, la mandó fortificar con tablas y faxina, y hecha estorvaba muchos de los daños que los turchos solían hazer, y no podían hazerlos tan a menudo. Y con toda diligencia Spinosa entendía en hazer los preparamientos para sentar la batería en la mar. Y paresciéndole a don García cosa muy larga y pesada el hazer de los vancos y entablamiento que para el asiento del artillería se hazía, dixo al visorrey que le parescía aquello se devía dexar y buscar otro nuevo modo más presto para ello. Y aviéndolo bien considerado por mayor brevedad, acordaron dar la batería desde dos galeras, entendiendo que se podía muy bien hazer, y, comunicada la forma que para ello se ternía y embiando la relación al príncipe, lo aprovó y mandó dar una de sus galeras llamada La Braba, y el visorrey dio otra de las de Cecilia llamada La Califa; a las quales Espinosa hizo quitar los árboles, remos y velas, y juntarlas ligándolas fuertemente con clavazon y madera, para que no se pudiessen desasir, y hizo sus troneras de tablas y púsoles por costado nueve pieças gruesas de artillería, y por las proas donde descubrían de la ciudad otro reparo de maderos gruessos de una pica de alto, y cercolas de botas betunadas, porque el agua no las havriesse ni entrasse. Y para ayudar a sustentar la graveza y peso del artillería, durante que esto passava llegaron al Emperador las cartas que el príncipe, el visorrey y don García le escrivieron de lo que sobre el cerco de Africa passava, de que le pesó mucho de la muerte de Luis Pérez y del daño en sus spañoles rescebido. Y señaló por alcaide y general de La Goleta a don Alonso de la Cueba, hijo de Luis de la Cueba, al qual mandó luego partir y escribir al príncipe y al visorrey y don García que llevassen la empresa adelante, porque aquélla era su merçed y determinada voluntad. Pues como las dos galeras estuvieron ligadas y el artillería en ellas plantada de la manera que para batir convenía, y de la nao y galeota de la mar contino los turchos hazían daño, el domingo en la noche, otro día después que las galeras con la infantería de Lombardía llegaron, el visorrey mandó entrar en algunas galeras algunos soldados para que las fuessen a ganar y tavar de do estavan y juntar al armada. Y como Hesarráiz los vio embarcar y mover las galeras contra do la nao y galeota estavan, entendido el fin para dó

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y a qué ivan, desde el muro a grandes bozes mandó retirar los turchos a la ciudad y jugar el artillería della contra las galeras, para echarlas a fondo y estorvar no llevasen el navío y galeota. Pero no por esso las galeras dexaron de ir adelante, jugando su artillería contra la parte do el daño les hazían, aunque les matavan algunos soldados y hazían daño en las galeras, y a su pesar las sacaron y juntaron al armada. Y assí este mesmo domingo, en la noche que siete de septienbre era, estando ya reconocido dónde las galeras que avían de batir se avían de plantar, en la parte más cómoda y que mejor lugar avía se plantaron, y llevando en cada una dellas dos artilleros que governassen cada pieça, y un sottacómitre, y diez marineros por ayudantes, y otros dos que de contino vañassen las troneras para que, con el fuego de la pólvoras, las galeras no se quemassen, y diez carpinteros y diez calafates para remediar lo que se abriesse y quebrasse, y los capitanes de las mismas galeras que en ello entendiessen y se lo hiziessen hazer. Y todo esto assí ordenado y proveído, al alva de otro día lunes començaron a batir el lienço que caía a la mar, y, junto con esto, el príncipe mandó juntar una esquadra de galeras para que a dar la batería más rezia ayudasse; y todas a un tiempo començaron, y de la ciudad contra ellas a jugar su artillería. Y aviendo una pelota llevado una maroma y áncora, y las manos a uno y las cabeças a quatro, y se començava a hazer mucho daño, temiéndose dél los marineros se ascondieron en lo vaxo de las galeras, y embiaron a dezir al príncipe que por qué consentía aquella batería, pues no se avía de entrar por allí la ciudad y antes se perdía mucha gente. Y sintiendo su temeridad y flaqueza Andrónico de Spinosa, porque la batería no cessasse embió a avisar dél a don García y a pedir la gente que sin temer le ayudasse. El qual le embió a Pallares, sargento de la compañía de don Juan, con cinqüenta soldados, con los quales Andrónico se dio mayor diligencia, aunque viendo caer unos muertos y otros muy mal heridos, para el remedio de los quales avía çurujanos que les curavan de los cuerpos y religiosos de la salud de sus ánimas, que les era gran beneficio y muy provechoso. Y teniendo de todo el príncipe noticia, por escusar la pérdida de los marineros y assí la de los soldados, mandó hazer garfios de madera para aferrarlas y retirarlas, y, siendo hechos, entrar gente de sus galeras en barcas, y que las fuessen a retirar. Y començándolo con toda la maña, fuerça y diligencia possible las hallaron tan fuertes y firmes como si encalladas estuvieran, de tal manera que ni poco ni mucho las pudieron mover. Por lo qual combino que la batería se continuasse, lo qual se deve por cierto creer que benigna y maravillosamente

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Dios lo proveyó para la perdición de los defensores de la ciudad, como aquel que sabía el provecho y efecto que de darla por allí se avía de seguir, como adelante diremos, y porque del través que tras la mezquita mayor estava, donde se veía la vandera del duque de Florencia, jugavan muy a menudo artillería contra ellos y contra la esquadra de las galeras, y desde allí les avían hecho y hazían el daño, y el sargento Pallares y los soldados que avían quedado estavan muy cansados de lo que avían trabajado aquel día, don García mandó entrar en las galeras al capitán Origuela con sesenta soldados, porque la prisa nunca cessasse, y plantar quatro pieças de artillería en una punta de la tierra que se metía en la mar, que descubría los lienços y torreón que se batían. Y como Origuela y los soldados fueron dentro y las quatro pieças se plantaron, las baterías por mar y por tierra anduvieron muy más rezias y espessas sin cessar, y se quebró una pieça de artillería de las galeras del Papa. Y por que jugando las quatro pieças contra las defensas del través Hesarráiz rescebía daño, mandó mudar su artillería por muchas partes de los muros y torreones y jugarlas contra las tres partes de do batían, y contra las trincheas do estava la gente de guerra por hazerle muy mayor. Y con esta gran furia batieron todo el día, y otro por la mañana tornaron a jugar, pero no con tanta braveza, porque no todas las pieças podían, porque, en la batería que a la tierra se dava, avían rebentado algunas de las de Cecilia y otras de Nápoles y convenía poner otras en su lugar. Pues como Hesarráiz vio la batería que le davan ser tan brava y peligrosa, y con tantas pieças y por tantas partes de la tierra y mar, con gran diligencia proveyó en que se hiziesse fortificación a la parte de la mar, mandando se limpiase lo que la batería derribava para hazer fosso hondo con otro tal reparo, como en la primera batería. Pero era tanto lo que deribavan que no lo bastavan de noche a limpiar, y a todo el campo dio gran esperança, según lo que se veía, de entrar a ganar la ciudad. Y assí sin parar batió la artillería de tierra treze días arreo, y la de la mar y las quatro pieças lunes y martes, y como fue el día de Nuestra Señora de Septiembre, por solepnizar el día de la gran fiesta que era y regozijar y alegrar en campo, y poner terror y temor mayor en los enemigos, usando don García de un maravilloso artificio, a la hora del alva mandó juntar toda el arcabuzería del tercio del reino y salir del fuerte en que estavan, y dar una buelta por lo llano de la tierra desviándose algo del campo, y hazer salva. Y viéndolos Hesarráiz en aquella orden y como bueltos contra la ciudad la hazían, mandó jugar una media culebrina

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contra los soldados, la pelota de la qual dio en tierra en medio dellos y saltó sin les hazer ningún daño. Y alegrándose los soldados desto, tornaron a cargar otra vez y hizieron otra muy mayor salva; y aunque otra vez la media culebrina contra ellos jugó no les hizo mal, y fin de media hora que hizieron una brava pavana bolvieron a juntarse al campo. Y avido sobre esto Hesarráiz acuerdo, y considerado y entendido el para qué las salvas contra la ciudad avían hecho, para dar a entender a los christianos quánto rezios y fuertes estavan y lo poco que los temían, como fue la noche mandó juntar todos los escopeteros de la ciudad y hazer contra el canpo otra muy mayor y más durable salva, con que puso a todos en admiración.

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CAPÍTULO XXXIX Cómo se acordó por el visorrey de Cecilia y el príncipe Andrea Doria y don García entrar la ciudad de África.

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Pues cómo las baterías que por la mar y tierra a la ciudad de África se davan avían hecho y hazían gran daño, y estavan de manera que ya por ellas se podía entrar, el visorrey y don García se juntaron a consejo, y con ellos otros cavalleros y Andrónico de Spinosa, y el visorrey les propuso diziendo assí: «Como notorio, cavalleros, os es por la noticia que ay de cómo los turchos y africanos se saben fortificar, por creído podremos tener a tan grandes baterías como agora se les da sienpre se repararán y fortificarán a fin de guardarse. Y haziendo otra tal fortificación, como a la parte del rebellín tienen hecha, en estas otras donde agora las baterías resciben, por muy trabajoso y dificultoso ternía la ciudad ganarles pudiéssemos si no fuesse por largo discurso de tiempo, y más por falta de mantenimientos que por fuerça de armas. Y considerando comigo mismo esto, os he querido comunicar mi voluntad e intención, que es deziros penséis en si comberná, pues las baterías están tales que ya por ellas se podrá arremeter, si será bien se arremeta y haga por ganarla antes que nuestros enemigos tengan lugar de hazer la fortificación. Y si os paresciere hazer se deve, pensad la orden que para ello ternemos y quién y por qué partes arremeterán». Oído lo por el visorrey propuesto por don García y los otros cavalleros y gentiles hombres, començaron a tractar del negocio, y a todos en general paresció bien lo que avía propuesto. Y respondiéndole don García le dixo ser cosa muy conveniente su propusición, y que aquélla se devía proseguir con tanto que se aguardasse que las baterías se diessen aquel día y medio de otro, para que fuessen más anchas y aviertas por donde con muy menos peligro la gente de guerra pudiessen entrarlas, porque si estrechas fuessen sobre la entrada morirían muchos, por el grandíssimo daño que los turchos y moros desde los muros y torreones con el artillería, escopetería, flechas y piedras que tirassen podrían hazer, lo que no ternían tanto lugar quando la batería fuesse ancha, porque podrían resistir sus enemigos y alexarlos de los torreones y muros con el disparar de su arcabuzería. Y paresciéndole bien al visorrey y a los demás vinieron en que se hiziesse assí, y trataron cómo y por dó y qué compañías arremeterían, y acordaron que se arremetiesse a la ciudad

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por tres partes, y por cada una dellas cinco vanderas. Y porque la batería vieja que primero avían dado contra el lienço y torreón del rebellín se sabía avía por allí gran fuerte hecho por dentro de la ciudad, y la que por menos peligrosa se tenía era la de la mar por lo poco que avía que la batían, creyendo no avrían tenido lugar de hazer reparos, y porque no se agraviasen los maestros de campo y capitanes, diziendo echavan a unos contra lo más fuerte y peligroso y a otros por lo más flaco y sin peligro, que las vanderas de los tercios fuessen rebueltas unas con otras, y que don Hernando de Toledo arremetiesse contra la batería nueva con los cavalleros de la Religión y capitanes don Alonso Pimentel, Moreruela y don Bernaldino de Córdova con sus compañías y Hernán Lobo, y con él don Juan de Mendoça, Çumarraga, Solís y Anthonio Moreno y las suyas por la batería de la mar; y don Alvaro de Vega con los capitanes Origuela, Brizeño, Amador y Pagán con sus vanderas y soldados por la batería vieja comoquiera que, aunque por ella se aremetiesse, se tenía poca sperança se pudiesse ganar pero que convenía que assí se hiziesse, porque, ocupados los enemigos en guardarla, uviesse menos fuerça y resistencia en las otras; y que cada cinco vanderas se recogiessen y juntasen una hora antes del alva de otro día miércoles junto a las tiendas de los maestros de campo, y que por seña dél arremeter tuviessen quando oyessen jugar dos cañones gruessos, y fin dellos tocar la tronpeta del príncipe en tierra; y que don Hernando no arremetiesse hasta que Hernán Lobo, que algo dél arredrado estava, saliesse de do estava el artillería y enparejase con él, para que ambos a un tiempo fuessen a entrar las baterías; y que los que fuessen a entrar por la batería vieja llevassen algunas granadas de fuego de alquitrán para arrojarlas dentro, por si con aquel ardid pudiessen hazer desamparar el fuerte a los que le guardavan; y que toda la otra gente del exército quedasse en guarda del artillería y de los moços y mugeres del campo, y para que todos estuviessen avisados y apercebidos, se les diesse aviso dello. Y venidos en este acuerdo salieron del consejo, y el visorrey lo escrivió al príncipe para que, si le pareciesse bien, se pusiesse en efecto. Y por él visto, aviéndolo bien considerado, lo aprobó y envió a dezir que aquello mesmo le parescía y tal era su boto. Y llevado el parescer al visorrey, mandó avisar la infantería de todos los tercios y que ningún soldado se entremetiesse a saquear la ciudad, ni apoderarse de ningún esclabo ni de otra cosa hasta que fuese ganada y sin resistencia de enemigos, para que por desordenada cobdicia no se dexase de alcançar la victoria.

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Y dado el aviso, los maestros de campo, capitanes, gentiles hombres y soldados se començaron a adereçar y confessar los que hasta allí no lo avían hecho, para ganar el jubileo pleníssimo del año sancto en que estavan, que nuestro muy Sancto Padre a suplicación del visorrey les avía concedido y al campo embiado. Y con la mucha diligencia que en ello pusieron, oyéndolos de penitencia los frailes, sacerdotes y clérigos de los tercios, quedaron todos en estado de merecer.

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CAPITULO XL Cómo el exército se puso en orden para entrar la ciudad de Africa, y cómo a los turchos y moros Hesarráiz hizo una plática y proveyó de guarda las baterías, y el visorrey y don García hizieron dos contemplativas oraciones a la gente de guerra.

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Pues cómo el exército quedó apercebido para otro día entrar la ciudad de Africa, y la sentencia inrrevocable era dada en el cielo por aquella Divina Magestad, para que más en poder de infieles no estuviesse ni so su poderío y mando se subietasse, y con perdición y destruición de los moradores y avitadores della se restituyesse a los christianos, a quien por justo derecho pertenecía, una hora antes del alva del día de Sanct Nicolás Tolentino, el visorrey y don García fueron armados de sus armas, y los maestros de campo, capitanes y cavalleros de la Religión, y los gentiles hombres e infantería como en el consejo se avía acordado, y juntos estavan don Hernando de Toledo y los capitanes don Bernaldino de Córdova, don Alonso Pimentel y Moreruela y sus compañías con los comendadores de Sanct Juan. Todos los quales estavan armados sus coseletes y con sus celadas en las cabeças: unos tenían picas, otros alabardas, y otros espadas y rodelas, y junto con ellos y en orden los arcabuzeros cargados sus arcabuzes y sus cuerdas encendidas, y algunos con alcanzías de fuego y los alférezes con las vanderas enerboladas. A otra parte estava don Alvaro de Vega y los capitanes Brizeño, Amador y Pagán, y el alférez de Orihuela con las compañías por la orden de don Hernando, y a otra Hernán Lobo y los capitanes don Juan de Mendoça, Çumarraga, Solís y Anthonio Moreno, assí como los demás. Y todos los otros capitanes y soldados para la guarda del campo elegidos en la orden que convenían estar, y hasta treinta gentiles honbres romanos, florentines y ginoveses que avían salido de las galeras del Papa y del duque de Florencia todos muy bien adereçados de guerra, y otros algunos italianos en la orden. Y estando el exército desta manera se les dixo la missa, la qual todos oyeron en general con gran deboción, y se encomendaron de todo coraçón a nuestro Señor, cada uno suplicando por su vida, salud y victoria. Y dicha, el sacerdote bendixo todo el exército, artillería y vanderas, de que todos quedaron muy consolados, y siempre la batería por la mar y tierra con gran furia batían la ciudad. Y como Hesarráiz, que dentro della siempre probeía lo que conveniente le parecie, hora con acuerdo de los turchos y moros hora sin él, viendo en la

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orden que la gente del campo y exército stava, temiendo querían arremeter a entrar la ciudad mandó juntar los turchos y moros, y presente Caidali y Mayhenet y los otros principales africanos y alexandrinos les dixo: «Valerosos turchos, esforçados africanos, animosos alexandrinos, la hora se nos va llegando en la qual conviene mostrar nuestro esfuerço a nuestros enemigos y quién somos, porque sabed que yo temo nos quieren entrar la ciudad y dar a todos la muerte por la orden en que están, y creído para mí tengo es merced que para descercarnos Alá y Mahomad nos quieren hazer, porque muy claro está su predición y nuestra victoria, porque si bien consideramos por ninguna parte nos pueden tentar a entrarla que no se pierdan, porque si por la primera batería quieren entrar, ya sabéis quánto fortificados por allí estamos con el ancho y hondo fosso y nuevo muro parapeto y lombardas que en él tenemos y trabeses que junto a él ay. Pues por donde agora nos han batido y baten muy más dificultoso les será, porque no pueden entrarnos sino por el tablón que puesto tenemos para andar del muro de la marina al de la ciudad a visitar los torreones, y esto cada y quando en nuestra mano será quitarle, mas de mi parecer no se debe quitar, pues artificios e ingenios ay hechos en él para bolberles y derribarles y estorbarles la entrada cada y siempre que queramos. Pues si por la parte de la mar por do batido no han entrar quieren, también tienen por aí mal recaudo, porque guardarlo emos de manera que no nos puedan enojar, paresciéndoos a todos a mí parescería que todas las baterías se guardassen desde ellas mesmas para que conozcan nuestros ánimos y valor, y en ellas peleando muramos. Y si por caso lo que Alá y Mahomad no permitan ni quieran hazernos tanto mal que los christianos la batería del tablón ganasen, retirándonos el muro adentro y desde abaxo derribándole todos los que en él estuvieren, cairán en la ciudad y les daremos la muerte. Y para en todo esto tener buena guarda y orden me parece que en los trabeses de la primera batería estén veinte turchos y cien moros, que bastante guarda es, pues ellos mesmos de suyo están con su gran fuerça guardados, y que en la batería del tablón estén cinqüenta turchos y dozientos moros, mitad africanos mitad alexandrinos, y en la de la mar otros tantos, y la otra gente de guerra esté en guarda del rebellín, puertas, torreones, muros y barbacana; y dentro de la ciudad hágase cuerpo de gente en la plaça que de las calles de las baterías a ella salen, para que, siéndoles necessario dar socorro, con gran presteza se les dé, aunque bien cierto soy, como he dicho, no nos entren la ciudad, y en el procurar entrárnosla y retirarse jugando contra ellos nuestra artillería, escopetería y flechas, forçado

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será resciban de nós total perdición y daño, y tales podrá ser los dexemos que nos atrebamos a salir a darles la batalla para les dar fin, y haziéndolo no sólo ganaremos immortal fama mas aun quedaremos con mucha riqueza de oro, joyas, esclabos y otras cosas dando saco al campo. Por esso mirad lo que sobre ello os paresce y si assí lo devemos proveer». Oído por todos lo que propuso Hesarráiz lo comunicaron entre ellos, y al fin se resumieron en que se hiziesse assí. Y venidos en ello sin tomar otro más parescer, allí dieron orden cómo se avía de hazer la guarda y quién y quáles personas starían en las baterías, entre los quales por principal señalaron a Mayhenet que guardasse la batería nueva, y otro principal turcho la de la mar; y todo proveído y acordado fueron a la mezquita mayor y hizieron oración, invocando y llamando a Alá y Mahomad; y hecha, cada uno bolvió con sus armas donde le fue señalado para defender su ciudad, proveyéndose las dueñas, donzellas, moças y muchachos de piedras para si la entrasen ayudarla a guardar y defender a sí mesmas como buenas africanas. Y esto assí hecho, porque de los esclabos christianos que tenían aunque eran pocos no se recibiesse daño, Hesarráiz los mandó poner a recaudo y quedaron aguardando lo que los christianos harían. Pues como el exército apercebido en arma y a manera de combatir estaba, y el sol salió muy rezio y entró el día muy caluroso, y ya era tarde y no se avía mandado dar el salto a la ciudad, y la infantería con las armas y gran calor rescebía congoxa, paresciéndole a don Hernando que atardarse más el mandarlos arremeter sería muy dañoso, porque los soldados no podrían pelear con el aliento que con el frescor, embió a dezir a don García que mirasse que el día entrava muy pesado y el sol muy rezio y con gran calor, y que si se detenían en mandar entrar la tierra los soldados se asolearían y no podrían combatir, que proveyesse cómo se hiziesse el efecto. Al qual don García embió a dezir que se reposasse, porque no convenía dar tan aína la batalla, que quando hora fuesse le iría a bisitar. Y entendido por don Hernando fue para él y le refirió lo mesmo que le enbió a dezir, y don Garçía le replicó diziendo que se sossegasse hasta las tres horas después del mediodía, y que quando Hernán Lobo saliesse del artillería y enparejasse con él arremetiesse a entrar la ciudad por la batería nueva, porque Hernán Lobo avía de ir a entrar por la de la mar. Oído por don Hernando bolvió a la infantería y les dixo la orden que se avía de tener, a cuya causa començaron a sossegar. Pues cómo la hora de las tres se fue acercando en la qual a la ciudad avían de arremeter, don García fue para el esquadrón donde estava don Hernando de Toledo con los

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cavalleros de la Religión y capitanes e infantería que avemos dicho, y llegando a él les dixo: «Cavalleros, soldados, hermanos y compañeros, creído para mí tengo a ninguno de los que aquí estáis dexa de ser notorio el fin con que venimos sobre esta ciudad, que es servir a Dios y al Emperador nuestro señor, y desavezindar della un mal cossario que grandes males y daños a la christianidad ha hecho, captibando los christianos sierbos de Jesú Christo y vendiéndolos públicamente en esta Berbería, y por le poner estorvo en los que de aquí adelante podría hazer. Y pues para esto venimos aquí, si nos bolviéssemos sin alcançar la victoria desta empresa sernos ía vituperable y la honra de nuestra gloria se perdería. Lo que determinado está es que sin ninguna otra dilación tomando por caudillo aquel inmenso Dios en cuya potestad y mano está la victoria, y no en grande multitud de exércitos se entre la ciudad y dé la batalla a los enemigos. El qual suplico, esorto, amonesto a todos en común y cada uno en particular ruego tengáis ante los ojos y no confiéis en vuestros altos ingenios, no en vuestro poder y fuerças, mas todos vuestros pensamientos poned y collocad en su infinita misericordia, porque Él sólo es aquél, y no otro ninguno, que nos puede dar la victoria. Con limpia y pura ánima a Él nos encomendaremos, a Él de coraçón nos ofrezcamos, y pues oy es nuestro día y la hora llegada en que vuestros esfuerços se an de mostrar, miénbreseos que sois spañoles que tantos triumphos hasta oy havéis alcançado, y que ninguna cosa, por ardua y peligrosa que fuesse, nuestra naçión en nuestros tiempos ni en los passados intentó que no saliesse con ella. Quando dos vezes oyéredes jugar dos cañones gruesos y ultimadamente tocar en tierra la tronpeta del príncipe, y Hernán Lobo fuere salido del artillería y en vuestro derecho diziendo Sanctiago, arremeteréis a la ciudad contra la batería nueva, porque por allí ha de ser vuestra entrada». Y encomendándolos a Dios y dexándolos muy contentos y satisfechos con su plática fue a visitar los que avían de quedar en guarda del canpo. Pues el visorrey no estava de vagar, porque en medio de la infantería de Cecilia y Malaspina como buen capitán les hazía otra oración diziendo: «La guerra que emprendido, gentiles hombres, verdaderos christianos, havemos es lícita y en ninguna manera injusta, pues contra infieles enemigos de nuestra sancta fee cathólica es, que sin justa causa usurpadas tienen nuestras tierras a aquel divino y eterno Dios que por su grande benignidad y bondad nos puede hazer con mucha honra triumphar de nuestros enemigos, con gran deboción supliquemos nos dé la victoria y todo honbre se anime y

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esfuerce a hazer lo que como animoso y virtuoso deve, escudándose con el escudo de la catholica y sancta fee, porque, para mí, creído tengo y en ello no dubdo, que el que en esta guerra muriere de sus pecados arrepiso triunphará con los mártires en la bien aventurança», y díxoles por qué partes avían de arremeter y otras saludables palabras con que nucho esfuerço cobraron.

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CAPITULO XLI Cómo se ganó por fuerça de armas la ciudad de Africa y lo que sobre ganarla suscedió.

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Siendo la hora de las tres llegada, la qual todo el exército desseava ya oír, el visorrey mandó jugar un cañón y cessar las baterías que continuo batían; el qual oído por la gente de guerra, començaron a alçar los ojos al cielo, y con gran hervor y deboción los coraçones a aquel alto y poderoso Dios de Israel, ofresciéndole sus intenciones, sus ánimas, sus cuerpos y sus vidas muy contenplativamente. Hesarráiz, que la infantería en orden de arremeter veía, teniendo por cierto el tiro del cañón avía sido señal dello, mandó tocar el clarín, atambor y gaitas de la ciudad, y fue por el muro de una parte a otra visitando la gente que stava en él y en los torreones, baterías y puertas, y puso todos los turchos y moros en arma y assí visitó la gente que estava en la plaça y en las otras partes, persuadiéndoles, amonestándoles y rogándoles cada uno hiziesse su dever, poniéndoles delante el amor con que Alá y Mahomad devían servir, cómo sus personas devían defender, quánto era grande la obligación que a sus mugeres y hijos y libertad de su patria tenían, pues Caidali, que con los turchos la puerta principal guardava, estava con gran ánimo y a gran recaudo esforçándolos y animándolos para mejor defenderla; y estando todos muy apercibidos sonó el segundo cañón y luego la tronpeta del príncipe en tierra como stava acordado, y assí tocaron arma todos los atanbores del canpo y tronpetas y clarines de las galeras, y llevando el príncipe en su galera capitana un estandarte tendido con un crucifixo, y otro con el águila imperial desplegado con otras muchas vanderas y gallardetes por popa y proa, y de la mesma manera todas las otras galeras del Papa y del armada, se fue acercando a la ciudad jugando contra ella su artillería por atemorizar y desviar de las baterías los turchos y moros. Y viendo Hernán Lobo con las cinco vanderas en buena orden, diziendo «Sanctiago, y a ellos» començó a mover contra ella, yendo los spañoles con una ferocidad de muy bravos leones. Oída por Hesarráiz el arma, y visto su continente y denuedo, mandó jugar del rebellín y de los torreones y muros el artillería contra todas partes del canpo, y disparar escopetas y flechas en gran abundancia: contra don Hernán Lobo iva. La qual començaron a jugar rezia y espessa, y de tal manera que andando Hernán Lobo cinco passos antes que del artillería saliesse, fue muy

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mal herido de un escopetazo en el muslo, de que en tierra cayó; y cobrando un valeroso ánimo de esforçado cavallero como era se levantó, y, aunque mal herido, dissimulándolo prosiguió su camino. Mas a otros tres passos que anduvo le dieron en otro muslo, de que por mucho que travajó por levantarse no pudo. Y sintiéndolo reziamente mandó a los capitanes y alferezes que con sus vanderas passassen delante a hazer lo que les estava mandado, y él quedó con algunos de sus criados; y cómo las vanderas enparejaron donde don Hernando stava, tomando el mesmo apellido de Sanctiago y llevando por guía estandarte y vandera aquellas sanctas, benditas, cathólicas y devotas insignias de la cruz con Jesú Cristo crucificado, que delante fray Miguel llevava y tras él frey Alonso vestido de una coraça y celada, y ceñida una spada y una rodela en el braço començaron a ir contra la batería nueva. Las quales viendo los soldados con grandíssima contrición y deboción y doliéndose mucho de sus culpas y pecados cometidos en ofensa de Dios y contra sus próximos, derramando muchas lágrimas bivas y puras se arrodillaron por tierra y las adoraron, y pidieron a Dios perdón, cuyos gemidos, ruegos, suplicaciones y oraciones, según contemplativas ivan, penetravan los cielos, y assí parecía por estas tales señales ser ciertas, averiguadas y muy verdaderas. Los capitanes Solís, Anthonio Moreno y Pagán, con los alférezes de don Alvaro de Vega y Orihuela y sus soldados fueron contra la batería vieja, y con ellos algunos de los gentiles hombres italianos, y otros quedaron en la trinchea. Mayhenet con sus turchos y moros se puso en guarda de la batería nueva, fuera y encima della, y animándolos aguardó allí para rescibirlos, y luego començó a jugar el artillería de la ciudad contra las galeras y disparar escopetería y flechas contra los tres esquadrones que para las baterías ivan, de que hazía mucho daño; y aunque cayendo algunos muertos y otros muy mal heridos y de los cavalleros de la Religión, no por esso ninguno dexó de seguir su vandera disparando su arcabuzería en los turchos y moros que la resistencia desde lo alto de los torreones, muros y baterías hazían. Y viendo el visorrey que los enemigos hazían daño, por estorvarles y quitarles las defensas mandó jugar el artillería del canpo contra ellos; y queriendo juntar los christianos a las baterías y pelear con los turchos y moros, fray Alonso entró en la mar y contenplativamente començó a esforçar los soldados y cavalleros diziéndoles: «Fieles christianos, devotos siervos de Jesú Christo, amados hermanos míos, en esta tal empresa que contra sus enemigos y desservidores oy

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emprendéis, los buenos, claros, ciertos y verdaderos servidores suyos que servir le dessean se han de mostrar empleando todas sus fuerças y aventurando por servirle a todo peligro sus vidas. Y quién esto assí hiziere y por ello aquí perdiere la vida bien aventurado será, porque va derecho a la gloria celestial con los sanctos mártires que por su amor padescieron. ¡Vuestros coraçones se esfuercen! ¡Vuestros spíritus se alegren! ¡Vuestras ánimas se gozen!, porque verdaderamente os digo que benditos os podéis llamar todos los que aquí oy os halláis, porque en general todos meresceréis». Y díxoles otras maravillosas palabras de gran amor y charidad que mucho aprovecharon. Pues cómo por todas partes de la ciudad jugavan la artillería y escopetería sin parar, al alférez que la vandera de la Religión delante de las otras que a la batería nueva ivan llebava, dieron un escopetazo por los pechos de que muerto le derrivaron, y la vandera en tierra; y en cayendo fue tomada por otro cavallero de la orden y siguió las otras vanderas. Don Hernando, que desseoso de ganar onra y señalarse era, con su spada y rodela delante los capitanes, cavalleros y soldados, animándolos y esforçándolos començó a subir la batería arriba, peleando con Mayhenet y los turchos y moros que animosamente los recibieron y se la defendían; y aunque él y los capitanes don Alonso y don Bernaldino con los demás y cavalleros de la Religión y soldados peleavan muy bien, no la podían ganar porque los turchos y moros peleavan y morían sin temeridad viendo lo que en ello les iva y hazían gran resistencia y a escopetazos, flechazos, lançadas, cuchilladas y pedradas, y jugándose algunas lombardas contra ellos, por algunas vezes los hizieron retirar y baxar la batería abaxo, y con la pelota de una mataron catorze soldados y hirieron en una pierna al capitán don Alonso y tres vezes derribaron en tierra a don Hernando, y de la última le dieron con una tan gran piedra en la rodela que le atormentó muy mal el braço, y se la derrivaron sin que más la pudiesse cobrar; y aunque mal se sintió se lebantó y bolvió a pelear, cayendo también muertos y heridos de los turchos y moros, pero fin de gran rato que sobre ganar y defender la batería pelearon, murieron trezientos soldados y fueron muchos mal heridos, y a pesar de los turchos y moros sin que bastasse su artillería que del torreón batido y medio derribado y de los muros y torreones jugavan, ni el esfuerço que Mayhenet les ponía, ni lo que él peleava los retiraron los muros adentro y ganaron la batería, y con muy crescido daño los hizieron della arredrar, y entraron el tablón adelante hasta sessenta soldados, arcabuzeros y piqueros, y con ellos don Hernando.

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Los quales fueron el muro adelante veinte y cinco passos hasta dar sobre el lienço que avía rompido la batería de la mar, y assí començaron a querer passar otros para seguirlos y reforçarlos. Mas como el tablón era estrecho y la gente mucha, y de passar desseosa, y la caída abaxo muy honda y el que de allí cayesse perdía la vida sin poderla escapar, por passar con tiento se ocupavan y embaraçavan, y unos por otros cessava el passo; y en esto Portillo, alférez de don Hernando, suvió al torreón batido y puso su vandera, aunque antes que él suviesse suvieron un cavallero de la Religión llamado Monrroy y un soldado que Godoy se dize, que del torreón avía quitado una vandera turchesca, y hasta suvir allí avían animosamente peleado. Y viendo un turcho que por el tablón entravan, arremetió con gran furia y travó de la cuerda para derribarle, y teniéndola en la mano le derribaron muerto de un arcabuzazo, y assí otro ninguno no osó más llegar, y que llegara no le pudiera quitar por el gran peso de piedra que encima tenía. Mas todo esto se escusó con la gran turvación, spanto y temor que con la prisa que les dieron cobraron, specialmente viendo les avían ganado su batería y entrado su ciudad. Contra la batería de la mar, donde Hernán Lobo iva, aunque él mal herido quedó, no por esso los capitanes Çumarraga, Anthonio Moreno y los demás con sus conpañías dexaron de arremeter, y por todas partes de los muros, torreones y trabeses, y de la batería les començaron a tirar artillería y flechas; y aunque rescibiendo grandíssimo daño la començaron a subir peleando por ganarla. Los capitanes Moreruela, Brizeño y Amador, y los alférezes de don Álvaro y Orihuela que contra la batería vieja arremetieron con las cinco conpañías, del parapeto de piedra començaron a jugar contra ellos las lombardas y la escopetería de los traveses, y a hazer mucho daño en los soldados; y aunque los capitanes y alférezes hazían por entrarla, animándolos a que peleassen, no llebó medio por ser muy ancho y hondo el fosso, y con tantos y tan fuertes reparos y tan estrecho el passo, y tan grande la resistencia, como antes de agora avemos dicho. Y cómo principalmente los turchos y moros tiravan a deribar las vanderas, dieron al alférez de Moreruela, que era su hermano, un lombardazo por los muslos que anbos se los llebó; y aunque caído en tierra se arrodilló, y con la espada en la mano guardava su vandera, y estando en aquella grande afflición y congoxa le dieron otro por medio del cuerpo, con que le acabaron de hazer pieças, y muerto cayó la vandera; la qual alçó otro soldado y la enerboló, y assí mataron al alférez de Amador de escopetazos que le dieron, y disparando

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arcabuzería y escopetería por ambas partes se peleó por un rato. Y cómo los soldados no vieron manera cómo por allí entrar la ciudad, sin licencia de sus capitanes, desamparando sus vanderas dexando aquella parte donde tanto daño rescibían, fueron a entrar por las otras baterías; y viendo los capitanes que no se lo avían podido storvar, con sus vanderas los siguieron ocurriendo unos a la batería nueva y otros a la batería de la mar. Don Hernando, que por el tablón entró y llegó sobre el muro avierto de la batería de la mar, como vio que por allí los turchos y moros reziamente defendían la entrada, y a la parte de tierra stava una pared de piedra seca quanto un palmo de alto, que Hesarráiz avía mandado poner allí para que della en tienpo de necessidad los turchos y ciudadanos se aprovechasen, mandó a los soldados que con gran diligencia la tirassen a los moros. Los quales lo començaron y hizieron con tanta presteza que fue cosa maravillosa; y como les davan por las espaldas y en las cabeças y cuerpos, y las piedras eran grandes y pesadas, hizo tan mortal daño y estrago en ellos que mató y mal hirió muchos. Y con este daño que en ellos hizieron, y con el que los cavalleros de la Religión y soldados que estavan sobre la batería nueba que los sojuzgavan y tenían a cavallero avían hecho y hazían por fuerça, los hizieron retirar ya quanto; y en esto los capitanes y soldados que allí peleavan, sintiendo su flaqueza con muy gran furia e ímpetu los acometieron y apretaron tanto que les hizieron desamparar del todo la batería y se la entraron y la ciudad adentro, aunque cayendo assí dellos como de los enemigos. Y dando gracias a Dios don Hernando de ver assí la ciudad entrada, teniéndola ya por ganada bolvió por el muro doze passos atrás con los soldados que con él avían entrado, y con otra quantidad más que continuo entravan, y baxó por una escalera de piedra que estava fin dellos, que iva a dar a una calle muy estrecha. La qual salía a una pequeña plaça donde estavan juntos y recogidos los dozientos y cinqüenta turchos que Hesarráiz avía mandado poner allí para guardarla. Los quales començaron a tirar a don Hernando y soldados escopetazos, flechas, lançadas y piedras, y assí de los torreones a fin de quitarles las vidas o de hazerlos bolver por do avían entrado, mas todo esto no bastó para resistir que dexassen de baxar a la ciudad. Pero cómo la escopetería y flechería que se jugava de los torreones contra ellos era mucha, a muchos de los soldados combino para guardar sus personas tomar por amparo y remedio arrimarse muy junto a las paredes de los muros. Lo que don Hernando hizo al contrario, porque sin ningún pavor ni temor passó adelante a pelear, lo que no deviera por ninguna cosa hazer,

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antes avía de llevar como capitán sabio y prudente sus soldados juntos y reforçados para ir fuerte, de manera que pudiera resistir a sus enemigos y ganar tierra con ellos. Y cómo los turchos y moros tan delantero y atrevido le vieron, le salieron a rescebir tirándole botes de lanças y algunas arrojadizas, y diéronle dos lançadas en el muslo izquierdo de que de la una le hirieron, y assí le dieron dos escopetazos en el peto del coselete, aunque dellos no le pudieron herir por ser muy rezio y fuerte; mas aunque destos dos golpes se libró no fue de tanta ventura que la vida pudiesse salvar, porque de otro que en el muslo derecho le dieron le rompieron los huesos, y muy mal herido le hizieron arrodillar; y viéndole assí tan mal parado los cavalleros y soldados que sobre los muros estavan, por defender que no le matassen en su favor y socorro disparavan mucha arcabuzería y a fin de le desviar sus enemigos. Mas cómo Hesarráiz esforçava a pelear, los turchos y moros arremetieron contra él, y en tierra do stava le tiravan muchos golpes de alfanje, creyendo por las buenas, ricas y luzidas armas que llebava persona de mucha estima y qüenta devía ser. Y estando en este grande peligro y aprieto, llegó en su socorro un soldado llamado Anthón López, hijo de Anthón López vezino de Málaga, y rompió la pica en un moro de que le mal hirió, y puso mano por la espada y le començó a defender, poniéndose delante dél para que no le pudiessen más herir; y teniéndole assí peleando amparado, llegó don Tristán de Urrea, hijo del conde de Aranda, que agora es Capitán de Infantería Española del Emperador, con la espada desnuda en la mano, y se juntó con él y començó a pelear. Pero como los moros y turchos eran muchos, fin de rato que a sí y a don Hernando defendieron fueron heridos el Anthón López de algunos arcabuzazos en el costado y en otras partes del cuerpo, y don Tristán de cuchilladas y pedradas en la cabeça y pierna; y sintiéndose mal heridos y viendo el poco socorro que les iva les convino retirarse. Y en esto, como ya por el tablón avían entrado otros sesenta soldados, y con ellos Jaques, alférez de don Alonso, con una vandera tendida y la spada en la mano fueron por aquella parte a pelear con los enemigos. Los quales para resistirlos se hizieron un cuerpo y començaron a resistir bravíssimamente, y los unos por ganar la plaça y los otros por defenderla cayeron allí muchos muertos y muy mal heridos; y passando Jaques poco adelante de donde don Hernando estava caído le dieron un escopetazo en la cabeça, de que muerto le derribaron; y un soldado que le seguía alçó la vandera y la enerboló y husó el oficio de alférez passándola adelante. Pues cómo Çumarraga y los otros capitanes la batería de la mar entraron, fueron por una calleja estrecha peleando con los enemigos, y a pocos passos

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que anduvieron mataron de arcabuzazos y lançadas a Sedeño, alférez de don Alvaro de Vega que muy bien avía peleado y guardado y defendido su vandera, siendo el que primero la avía metido en la ciudad. Como siempre de los torreones y muros los turchos con la escopetería hazían en los christianos grandíssimo daño, por estorvárselo los cavalleros de la Religión y soldados del tercio de Nápoles les dieron tantas y tan rezias cargas de arcabuzería, con que los apretaron tanto que los hizieron entrar en los torreones, y en el entrando muchos tuvieron oportunidad de passar el tablón y entrar la ciudad a reforçar los que dentro peleavan. Y andando Mayhenet esforçando los turchos para todavía resistirlo cayó del muro abaxo y se quebró el braço derecho. Pues como Çumarraga y los demás fueron al fin de la calle salieron a otra plaçeta pequeña, al cantón de la qual stava Hesarráiz, que nunca, proveyendo, sosegava, y viendo entrada la ciudad con grande alarido y grita mandó a los turchos y moros que peleassen y matassen a todos los que la avían entrado y hiziessen por echarlos fuera; y con aquella grita los turchos y moros recudieron [sic] contra Çumarraga y contra los demás, disparando escopetería. Pues viendo muchos soldados tan mal herido a don Hernando, por que no le acabasen de matar no querían desampararle, y conosciéndolo él y que por ello se detenían les dixo: «Considerad, amigos míos, que Dios nos ha hecho señalada merced en darnos la entrada desta ciudad, y que teniendo la possessión della tenéis la victoria segura. Seguidla, y no os detengáis por estar yo herido, que yo no soy más que un solo capitán que ninguna falta os puede hazer, pues cada uno de vosotros puede ser capitán no sólo de una conpañía mas empero para governar mucho más. Reforçaos y con muy buena orden siempre pelead, porque así os combiene para dar fin a esta jornada y alcançar la victoria». Oído por los soldados, dexando con él algunos de sus criados y dos gentiles hombres, passaron adelante disparando arcabuzería contra los enemigos, y començaron a pelear llevando los turchos y moros retirando la calle adelante con daño de todas partes hasta la plaça, donde viendo Hesarráiz el daño tan crescido que por allí se hazía proveyó que dozientos turchos y moros socorriessen aquella parte, y contra ella de todos los torreones y muros jugasse artillería y escopetería contra los christianos, y de tal manera hizieron la resistencia que convino a los cavalleros y soldados retirarse a la calleja para poner en orden de esquadrón la infantería para mejor pelear. Y a don Hernando llevaron los que quedaron en su guarda baxo

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de un sotechado cerca de do le avían herido, para que no le hiziesen más daño ni matassen. Çumarraga y los otros capitanes y soldados, haziéndose un cuerpo y muy juntos, fuertes y reforçados, continuando la entrada de la ciudad llegaron al cantón de la placeta donde estava una casa grande y muy fuerte, con muchas troneras y vallesteras, bien proveída y bastecida de gente y armas para defenderla, porque, demás de la gente que para la guarda y defensa della Hesarráiz avía puesto, avían ocurrido a valerse y guarecerse a ella muchos de los que la batería de la mar avían desamparado, y fueron contra ella con ánimo de conbatirla. Lo qual viendo y entendiendo los que dentro estavan, esforçándose y animándose unos a otros començaron a disparar escopetería y sus flechas por resistirse y guardarse, de que començaron a hazer gran daño en los soldados matando y mal hiriendo muchos dellos. Y aunque Çumarraga y los demás hazían por ganarla no podían ni aun hazerles daño según encastillados y fuertes estavan, y dos vezes ronpidos les convino bolver atrás por reforçarse, y, porfiando a ganarla por tercera vez, los turchos que desde los muros a los de la casa ayudavan dieron a Çumarraga un escopetaço por cima la celada que se la passaron y de una parte a otra las sienes, y juntos a un tienpo otros desde las troneras de la casa, de que cayó muerto, y con él otros oficiales y soldados, y otros muy mal heridos de la rezia carga que les dieron. Y como la fuerça grande que en la casa estava se vio, y el daño intolerable que desde ella hazían, para estorvar el favor que les davan los de los muros, los soldados de la batería nueva contra ellos dispararon arcabuzería de tal manera que por guardar a sí no los podían ayudar a defender. Y en el entretanto los capitanes y soldados arremetieron con valeroso ánimo a ella, y aunque cayendo y muriendo sobre ganarla con muchas muertes que en los turchos y moros hizieron, se la entraron y hizieron desamparar, y todas las vanderas entraron en la ciudad cada alférez lo que más presto uno antes de otro pudo sin que bastasse ningún socorro que Hesarráiz para ello les enbió; y los que de la casa pudieron huir se fueron a juntar con Caidali en guarda de la puerta do estava. Muerto Çumarraga, doliéndose dél algunos de sus soldados sacaron de una pequeña casa un pavés y lo llevaron a ella, y cubrieron con dos alcaiceles y bolvieron a pelear, y Caidali recogió los turchos y moros que a él ocurrieron, con los quales hizo cuerpo de gente y contra los que a la puerta fueron començó maravillosamente a pelear, disparando tantas escopetas y flechas él y los que con él estavan, que era cosa de maravilla. Y peleando y

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animando los turchos y moros se defendían bien, aunque cayendo muchos dellos muertos y muy mal heridos; y specialmente hizo cosas maravillosas un moro negro que se afirma y certifica primero que muriesse mató quinze o diez y seis soldados. Y como la grita era grande y rezio el estruendo del escopetería que se disparava, al visorrey le paresció que los turchos y moros se devían rezio resistir, y mandó que todos los arcabuzeros de las compañías que avían en guarda del campo quedado fuessen a la ciudad a socorrer y pelear, pareciéndole que, como no se tenía suspición de turchos y moros que uviesse en el campo, bastava quedasse en la guarda del artillería solos los soldados de coseletes piqueros; y assí obedesciéndole arremetieron a la ciudad con mejor voluntad de la que a la guarda del canpo tenían, y como hallaron la entrada llana y libre, reforçando los otros soldados començaron rezio a pelear, y fue tal y tan buena la provisión y a tan buen tiempo hecha que los de dentro se animaron y esforçaron mucho más, y los enemigos desmayaron y començaron a perder el esfuerço. Entrada la ciudad y viendo lo que en ella passava, las dueñas, donzellas, niños y criaturas davan grandes alaridos, hazían grandes llantos y davan muchas querellas a Alá, y pedían socorro a Mahomad que los cielos parescía romper. Y como los soldados entravan las casas y matavan los que hallavan en ellas y las robavan y saqueavan, con el temor de la muerte desamparavan sus casas, sus hijos y sus haziendas, y por salbar las vidas se ivan a valerse unas camino de la montañuela, porque allí estava mucha fuerça de gente, otras a los torreones donde las recogían, otras al muro y troneras; y dellas se descolgavan de cuerdas y tocas largas, las quales recogían los barqueros y marineros italianos que con sus fragatas, barcas y esquifes a recogerlas ocurrían y se apoderavan dellas y de los dineros y joyas de oro y de plata que consigo llebavan, que fue en muy mucha quantidad. Y assí se descolgaron otros muchos moros que todos fueron captibos de la mesma manera, y otros italianos desmandados con spadas y rodelas saltaron en tierra y entraron la ciudad por las troneras, y captibaron muchos moros y moras con que se salieron. Pues como toda la infantería y cavalleros de la Religión fueron dentro de la ciudad, reforçándose unos a otros a manera de esquadrones fueron hasta la montañeta donde en baxo della, en un torreón de un fuerte estavan muchos turchos y moros en guarda de muchas mugeres y niños que allí avían ocurrido, las quales avían derribado tantas piedras que avían muerto quinze soldados, con los quales començaron a pelear. Y fin de media hora que pelearon, matando y mal hiriendo muchos los rompieron y començaron a

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captibar; y viéndose los turchos y moros perdidos se fueron retirando a los torreones do se pensavan hazer fuertes, siguiéndolos los christianos sin dexarlos parar, aunque los que mayor resistencia hazían eran veinte turchos, que, como por guarda y amparo de los demás, ivan llebando delante otra mucha quantidad de mugeres y criaturas gritando y llorando. Y yendo assí peleando, faltándole a Monrroy, cavallero de la Religión, y a quatro soldados el aliento, según lo mucho y bien que avían trabajado y peleado, sin rescebir ningunas heridas espiraron y dieron las ánimas a su criador; y más adelante, en una placeta pequeña, un cavallero llamado Lope de Ulloa peleó tan animosamente con los turchos que forçados del daño que dél recebían le dexaron con diez y seis heridas, de que dellas murió. Los capitanes y cavalleros de la Religión e infantería que con Caidali y los turchos y moros a la puerta peleaban, fin de gran rato que pelearon le mataron de dos arcabuzazos, y, muerto el caudillo, los turchos y moros desmayaron, y todos se perdieron y fueron captibos, y las puertas quedaron desamparadas. En los muros do los turchos staban ocurrió mucha gente para guarescerse allí, con que mucho se reforçaron; y peleando con ellos los soldados y cavalleros de la Religión, aunque cayendo muchos muertos y muy mal heridos, subieron en ellos y començaron de apretarlos; y Hesarráiz esforçándolos a que peleasen, hazían lo que podían, mas aprovecholes poco, porque la arcabuzería, piquería, alabardas y espadas, que muy furiosas y tajantes andavan, hazía gran estrago en ellos, de tal manera que les combino acogerse a los torreones donde, haziéndose allí más fuertes, peleaban. Y fin de rato que Hesarráiz en un torreón sobre la puerta peleó, no pudiendo sufrir ni resistir la furia y braveza de los spañoles, por salvar la vida se rindió, y todos los que estavan con él. En otros torreones llegaron los que ivan de la montañuela con las mugeres y niños, peleando y retirándose siempre con daño que rescibían, ayudándolos de un torreón para recoger las mugeres. Pero sobre entrar en él rescibieron mucho daño, y porque en uno dellos stavan muy fuertes y no los podían entrar, por la esquina dél subió un soldado haziéndole otro spaldas con los arcabuzes cargados, y siendo encima dél les pidió las armas y que se le rindiessen. Y temiendo los turchos y moros que dentro estavan la muerte lo acebtaron, entregándole las escopetas, flechas y alfanges, y por el torreón abaxo el soldado las arrojó y entró el torreón y el que le aguardava, donde hallaron mucha riqueza con la qual y con los que captibaron quedaron ricos.

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Por otras partes de la ciudad ivan peleando otros capitanes, cavalleros y soldados, y en muchas casas de turchos y moros do se avían recogido por ser de piedra fuertes pelearon con ellos; y como para socorrerse tenían rompidas las casas, para ir de una a otra a darse favor, y para mayor fuerça cerradas las puertas, les aprovechava muy mucho, y tiravan de las ventanas escopetazos, flechas y piedras, y hasta los assadores, morteros de piedra, almirezes y manos de hierro, con que en los christianos hizieron mucho daño. Pero todo esto ni otros muchos reparos que hizieron, y para salbarse buscaron, no les bastó para que dexassen de morir y ser captibos, y sus mugeres, hijos, servidores y criados, y despojados de sus haziendas y puestas en poder de nuevos señores enemigos capitales suyos, rescibiendo por gran merced les perdonasen las vidas. Y finalmente dentro de dos horas que la ciudad se entró y que maravillosamente todos avían peleado, y especial los que señalado avemos, y Ruy Díaz de Mendoça, camarero del duque de Sessa, que los cuerpos del duque y duquesa de Sessa que en Nápoles murieron en un navío a Spaña llebava, que allí se halló, los spañoles eran señores della y triumphavan de los turchos y moros, africanos y alexandrinos, teniendo en su poder sus thesoros, joyas y riquezas, y por sirbientes captibas sus mugeres y hijos, ecebto de los que en dos torreones muy más fuertes que ninguno de los otros estaban que no se avían querido rendir ni los avían podido entrar, que llamando a grandes bozes al visorrey y don García estavan diziendo que a sólo ellos querían darse y no a otros ningunos. Y sabido por ellos, entraron en la ciudad y al uno se rindieron los de un torreón, y al otro los del otro, no con pocas lágrimas y sentimiento y muestra de dolor por ser los más principales de la ciudad, maldiziendo a Dragut y a quien tan mal hombre para su perdición avía engendrado y criado. Y finalmente fueron muertos sietecientos turchos y moros, y muchos heridos, y entre éstos y los que fueron captibos passaron de siete mil personas. Por la victoria avida el visorrey y don García y el príncipe Andrea Doria, aunque sangrienta fue, dieron gracias a nuestro Señor, hallándose mal heridos y a punto de morir los dos maestros de campo don Hernando y Hernán Lobo y el capitán Moreruela, y muerto el capitán Çumarraga y los alférezes de don Alvaro de Vega, de Moreruela, de don Alonso, de Amador y de Brizeño, y el sargento de don Juan de Mendoça y otros diez y seis sargentos y cabo de squadras, y muertos ciento y quinze soldados del tercio de Nápoles, y heridos que no se podían de tierra lebantar, de que muchos murieron trezientos, sin otros que eran heridos en los cuerpos, caras y braços que no por esso dexaban de andar por la ciudad; y de los otros

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tercios y comendadores passados de quatrocientos sin mucha infinidad de heridos, de manera que, según afirman los que contaron las compañías, murieron en solo este día quinientos soldados y dende arriba sin que quedaron mil muy mal heridos, de que muchos hizieron fin, sin que, como dicho avemos, avía otros heridos que no se sentían ni parescían por andar como andaban entre los sanos. De los turchos murieron todos los principales ecebto Hesarráiz que un soldado captibó y vendió por trezientos escudos al capitán Çigala, el qual le compró a fin de tener prenda de Dragut que bastasse a moverle a que le diesse su hijo que tenía por captibo, y Mayhenet con su braço quebrado que uvo un cabo de squadra. Murieron también ciento y cinqüenta turchos y seiscientos moros africanos y dozientos alexandrinos, que por todos fueron nuevecientos y cinqüenta sin otra muchedumbre muy mal heridos. Veíanse unos muertos de arcabuzazos, otros de escopetazos, otros de flechas, otros de alabardazos, otros de lançadas, otros de golpes de espada y de alfanje, otros magulladas las cabeças y los sesos salidos de las piedras que avían rescibido, y las calles de la ciudad en sangre vañadas. Veíanse cabeças, braços, piernas y pies que el artillería de los cuerpos avía desviado, y muchos de los christianos heridos, a quien las ánimas se les salían dando dolorosos sospiros que pidiendo lumbre y quién los ayudasse a bien morir, espiraban. Y proveyendo en el remedio dello, el visorrey y don García los mandaron recoger y llebar al ospital y poner cura remediable a su salud, y a los maestros de campo don Hernando y Hernán Lobo y al capitán Moreruela llevar a casas donde con gran cuidado por cirujanos y médicos fueron curados; y hallaron los tales que ninguna sperança de que bibir pudiessen tuvieron, pero no por esso dexaron de hazer lo possible por escaparles las vidas. Y, por evitar el mal olor que los muertos corrompiéndose podrían causar y conjelarse pestilencia con la corruptión, mandaron salir los esclabos y forçados de las galeras y sepultarlos; y dellos enterraron en la ciudad y dellos en las trincheas, y las cubrieron de tierra; y por que por algún caso no pensado ni sabido no suscediesse algún daño en el exército, aunque la ciudad stava ganada, el visorrey embió a mandar a los capitanes que con él avía dexado con sus compañías le hiziessen buena guardia, y al artillería, heridos y enfermos con mucho cuidado, y que otras tres vanderas hiziessen guarda dentro de la ciudad a las baterías, torreones, muros y puertas. Y esto proveído, él y don García se fueron a reposar, que según lo mucho que avían trabajado en proveer cosas les era muy nescessario y lo avían bien menester.

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CAPITULO XLII Cómo el visorrey mandó bendezir la mezquita mayor para enterrar las personas de cargo que en la batalla murieron.

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Mirando y considerando el visorrey el gran peligro a que los maestros de campo y otros capitanes y oficiales heridos de perder las vidas stavan, y los que muertos avía y que no stavan en tierra de christianos para sepultarlos en lugar sagrado, fue a ver la mezquita mayor; y viéndola grande y muy suntuosa y de hermosos hedificios, y que en ella avía siete naves muy altas y siete puertas y muchos arcos de piedra que las sostienen sobre grandes y hermosos mármores y columnas de dos en dos y de quatro en quatro, la mandó bendezir y poner nombre Sanct Juan, a invocación del sancto de su propio nonbre, para que dél memoria en la ciudad quedasse. Y bendezida, mandó enterrar en ella al capitán Çumarraga arrimado a un pilar de piedra enderecho y cerca del altar mayor, el cuerpo del qual fueron aconpañando su alférez con su vandera rastrando con sus soldados y tocándole por canpana su atambor destenplado, y pusiéronle en lo alto sobre su sepoltura sus armas y vandera, y al alférez de don Alonso y a otros alférezes y oficiales dieron sepolturas honrosamente en otra parte do como por hermita bendixeron. E siendo la ciudad pacífica y desocupada de muertos y heridos, los soldados que sanos y ricos quedaron començaron a regozijarse con los bienes de la lícita, justa y bien trabajada guerra, y allí se veía aquellos turchos que tantos y tan intolerables daños avían hecho y a otros vendido ser vendidos, y los que rescataban ser rescatados, los que robaban ser robados, los que maltrataban ser maltratados, y ser libres y señores de sí los que tenían por esclabos y obedescerlos y acatarlos muy mucho, porque, como Africa se ganó, los ochenta christianos y treinta mugeres captibos fueron luego en entera libertad, y los mandavan y ellos los obedecían y acatavan enteramente. Finalmente començaban a pagar algunas de las muchas penas que avían merescido por las irresiones, malos tratamientos y burlerías que en los christianos y templos sacros y sanctos avían hecho, quando les avían robado los cálices, las patenas y las campanas, descomponiéndoles sus mezquitas, arrojándoles por tierra su Mahomad en quien adoravan, en quien creían y en quien tenían su bien y su fee y esperança, porque, assí como los males que avían hecho avían sido grandes y graves, assí Dios permitió darles sebero el castigo.

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El llanto, el alarido, los gemidos y los gritos que los tristes africanos hazían viéndose presos y captibos, y a sus mugeres que mucho querían, sus hijos que mucho amavan, sus hijas que mucho regalavan, en poder de sus enemigos, aunque infieles, de oirlos era gran conpassión: unos llorando esto, otros los thesoros que les llebaban, otros la plata que perdían, otros las joyas de que los despojavan; y las dueñas y donzellas lloraban los muertos qual su marido, qual su padre, qual su esposo, qual su hijo, qual su hermano, qual su pariente y deudo; y finalmente lloraban a sí propias y su desventura de verse sin libertad y esclabas, querellándose del tirano de Dragut, diziendo: «Éste es el que dezía que no nos venía a conquistar sino a guardar y defender de nuestros enemigos; éste es el que dezía que no nos venía a afrentar sino a honrar. En mal punto le oímos, en mal punto le vimos, y en muy peor por señor le conoscimos, pues por el tanto mal, pérdida, daño y dolor nos avía de venir». Y assí passavan su gran angustia y congoxa con mucha passión. Sintiendo esto mucho más que otros Hesarráiz y los turchos que bibos quedaron, que cada uno por sí lloraba las muertes de Caidali y de otros sus parientes y amigos, no mirando ni considerando que todo esto les avía venido por sus culpas y pecados y mal bibir, y por justo y recto juizio de Dios, más que por fuerça y maña de hombres, pues ellos mesmos avían dado las armas con que les hiziessen la guerra y quitasen las vidas y captibasen las personas y llebasen las hiziendas [sic], poniendo el tablón por donde les entraron y dexando en pie la escalera de piedra que no derribaron, queriendo Dios tomar vengança de los atrevimientos que contra él avían tomado, y desservicios y desacatos que tan sin temor le avían hecho, porque, si por allí no tuvieran españoles entrada a la ciudad, muchos que allí se hallaron y saben y entienden las cosas de guerra dubdan se pudiera ganar. Y bien claro paresce esto ser causado por la Magestad Divina, pues sin licencia, mandado ni consentimiento del Emperador, sus ministros y capitanes, cosa tan importante, costosa y de tanto peso, donde muchas vidas de hombres para conquistarla se avían de perder y gastos de hazienda para ganarla se avían de aventurar, la movieron e intentaron, y la victoria con el favor divino consiguieron, porque realmente batiéronla, por tierra le tiraron nueve mil pelotas y por mar quatro mil y quinientas, sin mucha quantidad de pólvora que se gastó y artillería que se quebró, y gente que se perdió. El soldado que los turchos captibaron quando Pantoja y los treze murieron en el rebellín tuvieron bien guardado, y como la ciudad vieron

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entrada le pusieron en libertad, y algunos por salvarse, teniendo por perdidas las vidas se le encomendaron, entregándole porque mirasse por ellos los dineros y joyas que tenían; y assí éste quedó más rico y con menos trabajo, y sin ningún peligro de pelear. Los que los moros y mugeres en la mar en sus fragatas, barcas y esquifes recogieron los llebaron a las galeras cuyas eran, con que de nuevo las començaron a armar; y los patrones de dos fragatas que mucha quantidad avían recogido, como ivan a sus aventuras, temiendo se los quitassen se alargaron de la vista del armada real, y, alçando velas, a toda furia començaron a navegar para Cecilia y Nápoles sin que Africa fuesse ganada más de dexar entrada la ciudad y peleando los christianos con los turchos y moros, y dando nueva la dexavan ganada y dentro vanderas e infantería començaron a vender su nueva mercaduría africana. Los quales por llebar tal nueva fueron muy bien rescibidos, aunque dubdando si creerlos deviessen, porque no llebaban carta del príncipe ni del visorrey ni don García. Y como el visorrey de Nápoles tuvo la nueba por buena, sabiendo lo mucho que con ella holgaría el Emperador se la escrivió como se lo certificaron, y despachole con ello su correo que se la llevó, de que el Emperador recibió gran alegría, aunque dubdoso quedó en la creencia dello hasta ver otra nueva más cierta.

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CAPÍTULO XLIII Cómo el príncipe Andrea Doria entró en África y se despachó correo al Emperador, haziéndole saber cómo se avía tomado, y assí a otras partes, y cómo se embarcaron y fueron para los Gelves dexando guarda en la ciudad, y cómo murieron los maestros de campo don Hernando y Hernán Lobo.

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Otro día de como África se ganó que fue juebes onze de septiembre, el príncipe Andrea Doria saltó en tierra con los capitanes de las galeras y gentiles hombres romanos, ginobeses, florentines y otros italianos, y entró en la ciudad y fue a la mezquita mayor, que bendizida era, y dio gracias a nuestro Señor por la grande merced que a los christianos avía hecho en restituirles una tan insigne ciudad como aquella que por muy dubdoso avía tenido se pudiesse ganar, según su gran fortaleza, despojando della los turchos y moros africanos que contra derecho la posseían. Y de allí fue y bisitó los maestros de campo don Hernando y Hernán Lobo y otros capitanes heridos, y después se retruxo en la posada que para su aposento fue señalada, donde el visorrey y don García se juntaron a consejo, y proponiendo el príncipe les dixo: «Pues la empresa, cavalleros, que de tomar esta ciudad intentamos se ha conseguido hasta alcançar la victoria tan a nuestras honras, porque mucho a Dios devemos loar y dar gracias, justo es que con toda diligencia lo embiemos a hazer saber al Emperador nuestro señor, para que tenga dello noticia y embíe a mandar lo que más sea servido para guardarla o para otras cosas a su servicio convenientes, y de lo mesmo demos aviso al sereníssimo príncipe señor nuestro, su hijo. Y para esto se elija persona que a ello vaya que, demás de lo que le escriviremos, le sepa dar relación de lo passado, y pensad qué orden se ponga en la ciudad hasta que de su magestad venga». Oído por el visorrey y don García lo por el príncipe propuesto, començaron a tratar dello y de otras cosas que demás de aquella se convenían proveer. Y aviéndolo bien comunicado, acordaron se hiziesse luego assí, y que embiassen persona con la nueva para que por estenso y muy specificado les informase; y que las pelotas y armas se juntasen a la munición; y las baterías que en la ciudad avían hecho se cerrasen con piedra, tierra y faxina, reparándolas lo que mejor pudiessen; y que toda la artillería que de Nápoles, Cecilia y La Goleta allí se avía llevado se embarcasse en las galeras para

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bolberla; y que la artillería quebrada y los heridos y enfermos del tercio de Nápoles, que quatrocientos eran, se embarcassen en una nao y llebassen a Nápoles, y los de Cecilia se embarcassen en otra y los llebassen a Cecilia, y en la una y la otra los de los tercios de Malaspina y Lombardía para que fuessen curados y no pereciessen allí por falta de çirujanos, médicos y medicinas que muchas serían menester. Y venidos en este acuerdo salieron del consejo y mandaron entrar los forçados, gastadores y soldados, y con gran diligencia recojer las pelotas y armas de los heridos y muertos, y començar a reparar las baterías y enbarcar el artillería en las galeras. Y cada uno se desocupó para servir al Emperador, y el visorrey le escrivió diziendo que, por la bondad de Dios y con su divino favor, el miércoles diez del presente la ciudad de Africa por su gente de guerra avía sido ganada, aunque con pérdida de algunos capitanes y quantidad de soldados, por lo mucho fuerte que la avían hallado y la grande resistencia que en la defensa los turchos y moros avían hecho, en los quales se avían dado muchas muertes y heridas, y estavan de todo punto apoderados della por su Magestad, y que pues tan costosa de ganarla avía sido, y tan importante a su servicio era y convenía mucho saberla guardar y conserbar, su Magestad embiasse a mandar la gente, artillería, municiones y bastimentos que en ella dexaría para que quedasse a todo buen recaudo. Y assí le escrivió otras particulares cosas de lo que sobre la toma de la ciudad le paresció. Escrivió assimesmo al sereníssimo príncipe don Phelipe dándole el mesmo aviso, y con sus cartas mandó embarcar a Juan Osorio, capitán de su guarda, para que como testigo de vista que avía sido de todo les diesse relación. El príncipe escrivió lo mesmo conformándose con el visorrey y con su carta, y la que para el príncipe scrivió despachó al capitán Pagán; y don García escrivió diziendo lo que avía passado, y que la victoria les avía Dios dado por la bondad del príncipe y del visorrey, y que si su Magestad era servido, pues aquella empresa era fenecida, le iría a besar las manos y dar qüenta della. Assimesmo scrivieron al Papa y al visorrey de Nápoles con Francisco de Bibero dándole el mesmo aviso, y assí despacharon para el gran Maestre de la Religión, duque de Florencia y señoría de Génova y otras partes. Y todo proveído, el visorrey scrivió al consejo del reino de Cecilia y a las ciudades de Trápana, Palermo, Mecina, Çaragoça de Cecilia, Monrreal y las otras, avisándoles de cómo África era ganada, y despachó sus correos con ellas. E ya que todas estas provisiones fueron hechas, de christianos captibos que de los Gelves huyeron y vinieron a Africa, por la noticia que se tenía de que el canpo del

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Emperador estava sobre ella, supieron que Dragut y el xeque Çalac estavan discordes sobre que el xeque dezía a Dragut se fuesse de sus tierras porque Africa no se podía por el campo del Emperador dexar de ganar, y que no lo avía querido hazer. Y avido acuerdo sobre ello, acordaron que con veinte galeras bien armadas fuessen todos tres a los Gelves sobre él para prenderle y desapoderarle de su armada y forçar al xeque pagasse las parias que devía dar al Emperador, assí las passadas que no avía pagado, como para que de allí adelante le dexassen a ellas obligado, y de aquel viage hiziessen que las villas de los Izfaquez y Querquenes con sus tierras diessen la obediencia a Muley Hamet, hijo del rey de Túnez defunto. Y venidos en esto, el visorrey mandó quedar en guarda de Africa a don Alvaro su hijo con mil hombres de guerra, y embarcaron la otra gente y con ella a Muley Hamet. Y aviendo visitado a don Hernando y Hernán Lobo y los otros capitanes heridos, con las veinte galeras començaron a navegar la vía de los Gelves. Como don Hernando era muy mal herido, desde a dos días que las galeras partieron y a siete después que le hirieron spiró, dando el ánima al que la crió, suplicándole uviesse misericordia della, y Hernán Lobo a los cinco bibiendo diez días, tres más de don Hernando. Los quales acompañados de don Alvaro de Vega y de la gente de guerra que estava en la ciudad, todos los atambores de los tercios tocando y rastrando las vanderas, con todo género de tristeza les fue dada sepoltura en la mezquita mayor: a don Hernando sepultaron, porque assí él lo mandó, travesado por do entran la puerta principal, y a Hernán Lobo frontero della, junto al altar mayor. Y pusiéronles en lo alto sobre sus sepolturas sus vanderas y armas, y hiziéronles sus exequias rogando a Dios por ellos.

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CAPITULO XLIIII Cómo llegó a noticia de Dragut la pérdida de Africa y el sentimiento que por ella hizo y en lo que se determinó.

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La nueva de cómo Africa por los christianos se ganó se estendió por la Berbería, por lo qual en ella se hizo mucho sentimiento, mostrando muy gran dolor por aver perdido la cabeça de toda la probincia y el espejo en que todos se miravan, porque se dize tenían prophecía entre ellos quando aquella ciudad perdiessen y christianos la ganassen començaría su perdición, y su Mahomad a ser abatido y su Alcorán abaxado. Pues como la nueva llegó a noticia de Carmamí, que en los Isfaquez como Maestro de Campo por mandado de Dragut quedó, pareciéndole ya por de más era hazer gente para el socorro de Africa, embió a avisar dello los capitanes que en los Querquenes y sus aduares la hazían, diziendo dexasen de hazerla y la que hecha tenían, y se fuessen a juntar con él para que juntos a los Gelves a dar dello noticia a Dragut fuessen. Y como avisados fueron, con gran pesar se juntaron en los Izfaquez y lloraron la pérdida de sus parientes y amigos, y especialmente la ciudad que mucho querían, por ser aquélla la que para salbación de sus vidas tenían elegida; y determinados de embarcarse, por mostrar la tristeza que llebaban y darla a entender a todos los navegantes que de Turchía y Berbería topassen, mandaron quitar a la galeota en que avían de ir el estandarte, vanderas y gallardetes roxos y ponerlos todos negros, y ellos se vistieron de la mesma color y embarcaron y alçaron velas y començaron a navegar a los Gelves; y llegando a vista del castillo de Dragut, donde muy triste y congoxoso stava no sabiendo cómo poder socorrer a Africa, viendo la galeota desde una ventana con tales y tan dolorosas y tristes insiñias, conociéndola por suya el coraçón se le ronpió, y más quando la vio surgir sin hazer ninguna salba de artillería, sospechando la mala y desventurada nueva que le llevavan. Y aguardando lo que sería, estuvo con el mejor semblante que pudo, y, como vio tomar tierra los capitanes y de negro vestidos, mucho más confirmó su sospecha; y viéndolos entrar por su casa, los vestidos negros, los rostros no alegres, turbados y sin ningún regozijo, y mostrando toda tristeza, desseando saber la nueva que le llebavan les dixo: «Amigos míos, ¿qué nuevas me traéis que según vuestra manera y traje no de alegría deven ser?».

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Los capitanes le hizieron su acatamiento como a su general, y Carmamí por sí y en nombre de todos le respondió: «Alá, señor, sea el que os salve, libre y guarde de enemigos, y dé alegría y consuelo para sufrir con paciencia la triste nueva que traemos. Y sabe Mahomad quánto contra nuestra voluntad sea traerla por ser de dolor, mas considerando que vuestra gran prudencia para esto templará el grave sentimiento de tal embaxada, y que de otros o de nosotros la havéis de saber, para que con mayor presteza probeáis lo que os pareciere, acordamos sin a ninguno remitirla ser nós mesmos los mensajeros, y devéis señor saber por cosa muy cierta que la vuestra ciudad de Africa es en poder de christianos sin que sepamos dar particular razón». Quando Dragut lo oyó, como el pesar trae consigo mutabilidad y mudança, por mucho que quiso dissimular el gravíssimo dolor que sintió dello, no lo pudo encubrir sin que los ojos se le rasassen de agua; y sin responderle, muy desmayado se entró en una cámara y solo començó amargamente a llorar, y dando dolorosíssimos respiros començó a dezir: «Oh grande Alá, y ¿qué desservicios tan grandes os he hecho yo porqué assí tan tristes nuevas deviesse oír? Oh poderoso Mahomad, ¿por qué me as puesto en olvido y desamparado?, pues he procurado con todas mis fuerças aumentar tu sancta, buena y verdadera fe, haziendo todo mal y daño a mí possible en tus enemigos y desservidores. Oh fortuna, y ¿en quánto cargo te era por me aver subido en la cumbre y alteza donde me avías puesto si en él me conservaras?, pues era camino de illustrarme y darme título real con que no sólo me davas onra con inmortalidad de fama, pero aun me probocavas a señorear toda la Berbería, y con tu favor a ser valeroso príncipe, mandando muchas y muy poderosas ciudades de altos y superbos edificios, de hermosas y fuertes fuerças, de lindas frescuras, de poderosos y muy ricos vassallos, donde fuera muy servido, muy obedesçido, muy temido y muy acatado, gozando muchas saludables recreaciones, dulces passatiempos, gustosos plazeres, escelentes deleites con que el señorear y mandar se gozavan y con que toda la vida biviera en perpectua alegría. Más no me quiero maravillar, pues assí mudable eres y tan vanas tus promessas y tan continuas tus mudanças, pues tu común costumbre es subir a muchos en gran prosperidad por darles mayor caída para que sienpre bivan con tristeza y dolor como ahora as hecho a mí. Oh quánto ufano y quánto alegre me avías puesto siéndome tan faborable después que me rescaté, dándome tantas venturas, tantas ganancias y tantas riquezas, haziéndome señor de la mar y temer de los

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príncipes christianos: ninguno osava navegar de mi temor, todos huían de mí temiendo mi furia, alexándose por no provar mis fuerças; y hizísteme ganar aquella flor y lindeza de la Berbería, aquel hermoso y claro espejo en que yo me mirava, por quien tantas y tan altas gracias te di, para que con perderla perdiesse en una sola hora, en un solo punto, en un solo momento lo que en muchos días me avíais dado. Y no solo esto, pero mis parientes, mis deudos, mis amigos, mis servidores, criados y esclabos, mis thesoros y mis riquezas, y sobre todo el crédito, la honra y el poder, y al fin mi regozijo y alegría que nunca por tan gran pérdida cobraré. Oh honrado y virtuoso africano Haja Hamet, y cómo pronosticaste y antedixiste mi perdición y tu daño y la en que todos los africanos aviades de parar. Ay de mí, y para esto y trabajado, adquerido y allegado y juntado estas cosas terrenales, aventurando la vida, la honra y la conciencia, contemplando con atención lo que adquería y no el cielo de Alá, que algunas vezes por ello perdía. Oh mi muy querido sobrino Hesarráiz, y cómo pensava yo dexaros honrado y hazeros señalado entre vuestro linage, ilustrándoos y dándoos tierras y vassallos que mandáredes y señoreáredes. ¡Oh quánto dolor está en mi ánima y en mi coraçón!, porque tan mal la ventura me asuscedió, pues en lugar de daros honra os di deshonra, y de daros vida os di muerte, pues ésta es la hora que sois muerto o, a bien librar, en cruda prisión y trabajoso captiberio. Oh mi especial pariente y amigo Caidali, y cómo por los muchos, buenos y leales servicios que de vos rescebí en pago, satisfación y galardón dellos os dexé morir. Oh caro y muy amado amigo mío Mayhenet, y quánto mejor os fuera no averme reconoscido, pues avía de ser para tanto daño vuestro. Oh mis fieles turchos, compañeros y hermanos míos, quántas congoxas, quántos dolores, quántos trabajos a mi causa abréis padescido y al remate de todo por mi amor cobrado la muerte. Oh honrados moros africanos, y cómo teniades gran razón de no me admitir en vuestra ciudad pues para tanto mal y daño vuestro avía de ser, y con quán justa causa os podréis agora muy de veras quexar de vuestro nuevo defensor, pues con él os an venido tantas y tan grandes perturbaciones y vexaciones. Oh hermosas dueñas, oh lindas donzellas africanas, y con qué restauraré yo tanto mal y daño y tanta pérdida, tanta afrenta y tanta desonra como por mí os ha venido, pues por mi causa se havrá jugado en los tableros vuestra bondad, vuestra honestidad y vuestra virginidad por aquellos infieles canes christianos malditos sin fee y sin ley, sin amor ni charidad, enemigos de Alá y de Mahomad. Oh quánto grave dolor os havrá sido ver la pérdida de vuestros padres, de vuestros maridos, de vuestros esposos, de vuestros hijos,

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de vuestros hermanos y de vuestros parientes y deudos, y al fin de todo veros desonradas y abatidas y puestas al duro e perpectuo yugo de la trabajosa serbidumbre de los que, señoras, merescíades ser, dando por fuerça vuestros cuerpos y vuestra virginidad a quien no devíades darla. Pues ¿qué diré del tenplo sancto donde Alá se glorificava y su sancto propheta Mahomad se honrava? La sangre se me iela, el coraçón se me avre, las entrañas se me rompen, los sentidos se me turban, todo tremo y mucho me escandalizo en pensar con quán poco acatamiento, con quánto desacato, con quánta inreverencia y con quánta innominia y con quánta crueldad havrá sido tratado. Oh Mahomad, y cómo si daños he hecho en christianos como dellos muy mayores los he rescibido, pues de todo soy el culpado, soy el malhechor y soy el ommicida, yo prometo de jamás reposar de noche ni sosegar de día, haziendo tan cruda vengança en la gente christiana que muy bien satisfecho todo sea, aventurando sobre ello a todo peligro mi vida, y sin ningún temor los míos y mi hazienda. Mas mucho me quexo de ti, Mahomad, porque a tanto inocente, tan sin culpa y tantos sierbos tuyos as consentido tanto maltratar, y con tanto vilipendio y vituperio padescer. Si de mí tenías la saña porque te he desservido, de mí tomarás la emienda y no de quién no te lo merescía. Pues assí me as desfavorecido ¿a quién me quexaré o a quién pediré ayuda, socorro y favor para remediar tan gran pérdida? Pues no ay en el mundo ninguno tan ajeno de condición ni tan falto de saber que condene la virtud y bondad, y aprueve y loe la ingratitud y fealdad. Que baya al rey de Argel, seguro soy que no me le dará, pues a Barbarroxa su padre, de quien tantos y tan grandes beneficios rescibí, le fui tan ingrato y desconocido, y antes holgará de todo mi daño y mi mal. Pues que quiera quedar en los Gelves no podré conservarme, porque el xeque me ha dicho le desocupe sus tierras quanto más que de miedo y temor treme, y qualquier armada que sobre él del Emperador venga se le rendirá y subietará por vassallo, y jurará por señor y pagará el tributo que a sus antecessores solía pagar. Pues ir al gran Turcho no sé con qué rostro ni con qué cara ante él parezca, pues no le he servido como él meresce y yo devía, y no sé cómo me rescibirá. Pues que quiera ir a mis parientes y deudos a que me socorran y favorezcan, no son de sangre tan generosa ni de tanta riqueza que lo puedan hazer. Pues si de amigos lo quiero ir a buscar, seguro soy que en ninguna parte lo hallaré, porque no los he sabido ganar ni ganados conserbar. Oh fortuna, que a quién bien te paresce sublimas y ensalças, y a los muy baxos subes muy alto y pones en mucha estima, y a los muy altos quando más descuidados los baxas

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y abates, a ti tomo por amparo, debaxo de tus alas me someto y finalmente, confiando en ti, quiero ir a aquel emperador de los emperadores, rey de los reyes y señor de los señores, y contarle esta mi cuita y suplicarle me dé su favor para restaurarla». Y fin de su lamentación y llanto, que a los suyos de oirle comovía a compassión, hizo grandes amenazas contra los christianos como si monarca y señor del mundo fuera para esecutarlo, y tantas cosas hizo y dixo que no fácilmente se podían esplicar ni declarar; y un día y noche estuvo en su cámara sin salir della ni querer ver ninguna de sus mugeres ni recibir bisita ni consolación de ningún deudo, servidor ni criado, ni comió ni bebió ni se acostó en cama, hallándose en él lo que comúnmente hallar se suele en los baxos y biles ser muy soberbios, como por el contrario se suele hallar en los muy altos y más generosos ser más umanos, porque toda y qualquier visita y consolación con buena voluntad resciben y agradable oído oyen. Y otro día que parte del coraje perdió, mandó juntar sus capitanes y muchos de sus turchos y tomó consejo con ellos, diziéndoles su parescer y determinación cómo de ir al Turcho era, para bolber con su favor, que le pensava pedir, a hazer la vengança del daño tan grande rescibido. Los quales se lo aprobaron y loaron, diziendo que pues Barbarroxa era muerto y no avía ni tenía otro capitán turcho ni moro por la mar tan valeroso, tan animoso, tan diestro ni tan sabio como él, que por ello sería dél bien rescibido y admitiría en su gracia y haría muchas mercedes y tan largos favores con que muy poderoso bolbiesse contra christianos a hazer el daño que desseaba. Y teniéndose por bien aconsejado lo aprobó y admitió, y mandó poner a punto para enbarcar sus mugeres, hijos, esclabos y thesoros, y todas sus joyas y riquezas.

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CAPITULO XLV Cómo en Cecilia, Nápoles, Roma, Florencia, Génova y en toda Italia hizieron alegrías por la toma de Africa, y lo que el príncipe y el visorrey y don García proveyeron, y cómo Juan Osorio dio las cartas que llebava al Emperador y al príncipe, y lo que sobre todo se probeyó, y la guarda que se puso en la ciudad.

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Navegando Juan Osorio con toda diligencia llegó en el reino de Nápoles en la ciudad de Puçol, donde tomó la posta y la començó a correr para Alemania, donde el Emperador y el príncipe estavan; y assí hizo el capitán Pagán y las otras personas que el visorrey, el príncipe y don García embiaron a Cecilia, Nápoles, Roma, Florencia y Génova, y cada uno dio sus cartas según y cómo y a quién ivan dirigidas. Las que en Cecilia llegaron se dieron a su hijo del visorrey y a los del consejo del Emperador y a los regidores de las ciudades del reino; y por todos vistas, dieron muchas gracias a nuestro Señor por la victoria avida, y en señal de regozijo jugaron de los castillos mucha artillería y mandaron hazer por las calles y plaças de las ciudades grandes hogueras, y poner muchas antorchas y candelas encendidas en las ventanas. Y sabida por el visorrey de Nápoles la mesma nueva y la muerte de don Hernando de Toledo, pesándole mucho dello partió a Puçol, y siendo en la ciudad embió una posta mandando a los alcaides de Castilnovo, Santelmo y Castil del Obo que tres noches arreo jugasen el artillería dellos, y a los regidores de la ciudad hiziessen hazer hogueras y poner luminarias a las ventanas. Los quales visto su mandato lo proveyeron y se puso en orden. Y aquella tarde el marqués don Pedro Gonçales en su lugar, acompañado de los del consejo del Emperador y de sus guardas con otra mucha cavallería, de la ciudad fue a la iglesia mayor della, donde a nuestro Señor dieron gracias por la victoria alcançada por los christianos; y venida la noche y otras dos suscessibas jugó el artillería de los castillos, y echaron dellos muchos cohetes y hizieron las lumbres y luminarias y otros muchos regozijos. Pues sabido por el Papa la mesma nueva dio muchas gracias a Dios y echó la bendición a los españoles, porque tan buena empresa avían tan honrosamente acabado, y mandó que Roma se regozijase, y luego del castillo de Sanct Ángel començaron a jugar mucha artillería que fue cosa maravillosa, y en la torre del omenage tocaron chirimías y cornetas, y todos los cardenales, arçobispos, obispos, perlados y embaxadores fueron al palatio

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sacro sabiendo su mucho regozijo; y por toda Roma uvo muchas lumbres hogueras y luminarias que duraron otros tres días. E lo mesmo mandaron hazer el duque de Florencia en Florencia, y en Génova el duque y senadores, y en general toda Italia se alegró por la victoria, por los daños que en muchas partes de Dragut avían rescibido. Caminando con la diligencia que avemos dicho, Juan Osorio llegó en Augusta, y lo mesmo el capitán Pagán, y al Emperador con toda reverencia dieron las cartas del visorrey y del príncipe y don García. El qual, sabiendo de cierto que África era ganada, con grande alegría dio muchas gracias a nuestro Señor, mostrándosele muy grato por las continuas y muy ordinarias mercedes que de cada día le hazía, y holgándose mucho de que tan pocos españoles tan alta cosa uviessen hecho, siendo como avía sido de tanto peso y peligro ganarse África. Aunque satisfecho estava de sus servicios, acabó de todo punto de conoscer cómo le desseavan y sabían servir, y dizen que dixo: «Agora han acabado de echar los españoles el sello». Pues como Juan Osorio y Pagán le uvieron dado las cartas, dieron las que llebavan al príncipe con el acatamiento que devían, y dadas gracias a Dios la corte se regozijó. Y el Emperador lo mandó scribir al sereníssimo príncipe Maximiliano, rey de Boemia su sobrino y yerno, governador de España, y a su amada muger, y a los del su consejo y ciudades del reino, y a la reina María de Flandes, a cuya causa en todas partes se dieron gracias a Dios por ellos y hizieron regozijos. Y ya quel Emperador fue bien informado de Juan Osorio de cómo Africa se avía tomado, le pesó mucho de los españoles que avía perdido, especialmente quando supo las muertes de sus capitanes, y hizo merced a Juan Osorio y Pagán, y mandó escrivir al príncipe y al visorrey y don García, diziendo que ellos avían hecho lo que como cavalleros devían y cómo dellos lo avía esperado, de que se tenía por muy bien servido; y embió a mandar al visorrey pusiesse en la ciudad el mejor recaudo que le pareciesse hasta que él mandasse proveer otra cosa, y hiziesse hazer la fortificación que le paresciesse convenía. Y el príncipe mandó responderles a sus cartas diziendo se tenía por servido dellos le uviessen embiado a avisar de lo en Africa suscedido. Y con el despacho, Juan Osorio y Pagán besando las manos al Emperador y al príncipe bolvieron para África. El príncipe Andrea Doria y el visorrey y don García, que con la intención que dezimos navegavan para los Gelves, antes de llegar a ellos se les lebantó una tormenta en la mar que por fuerça los hizo tornar atrás; y viendo que no podían passar adelante bolbieron a África do avían salido sin que otra cosa

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pudiessen hazer, y saltaron en tierra y entraron en la ciudad; y sabida la muerte de don Hernando y Hernán Lobo les pesó mucho, y sosegaron en la ciudad hasta otro segundo miércoles, quinze días después que África se ganó; y fin dellos, el príncipe y don García se despidieron del visorrey que enfermo y muy triste estava, porque también se le avía muerto Juan de Vega su hijo el mayorazgo de enfermedad en Palermo estando él en esta jornada; y embarcada el artillería, heridos y enfermos, quedando con el visorrey don Berenguel, con las galeras de Cecilia se embarcaron y fueron la vía de Cecilia para de allí ir a Nápoles y Génova. Y como una nao que delante iva el príncipe la vio bolber atrás, porque los marineros della reconoscían quería venir mal tiempo, reconosciendo lo mesmo él, mandó bolber el armada do avían salido, y llegado echar áncoras, y al alva de otro día juebes la mar se començó a alterar y los bientos a embrabecer, y poco a poco acrescentándose aires y vientos, sin que bastasse echar nuebas áncoras para que más firmes estuviessen, naos y galeras començaron a dar unas sobre otras, derribando árboles, ronpiendo velas, quebrando remos, destroçando esporones, desbaratando la palazón y llebándose las áncoras; y de cinco naos que avía, la mayor y más gruesa con tener muy buen adereço para poder sufrir la tormenta, temiéndola mucho según se acrecentava le cortaron el árbol grande y quitaron la entena; y con todo esto no pudieron resistir, porque la tormenta la sacó de la playa y con ella dio al trabés, y assí hizo a otras dos naos y una galera de las de Anthonio Doria llamada La Esperança, que se rompió y perdió aunque no la gente y artillería della. Y una galera del duque de Florencia fue el biaje de la isla de La Lampadosa, y otra el de los secanos de los Gelves, y dos que ivan a La Goleta con don Alonso de la Cueba, alcaide y general que a ella el Emperador por la muerte de Luis Pérez embiaba, bolbieron a Trápana. Y durando esta rezia tormenta quatro días sin cessar, estavan todos pidiendo a Dios misericordia, special los que contra su voluntad con la tormenta navegaban por donde la mar llebarlos quería con grande afición de sus ánimos; y perdiéronse esquifes, hundiéronse gentes con barcas, ahogáronse hombres, que era cosa dolorosíssima de oír lo que allí passava con tan grandes tribulaciones; y murieron de la grande turbación y fatiga algunos de los heridos que en las naos ivan, especial el capitán Moreruela, que le sacaron a tierra donde luego murió y lo sepultaron en la mezquita mayor, y el sargento su hermano, que en Africa fue herido, murió en la mar, y con el alférez el otro su hermano que con la vandera en la batería vieja murió, murieron todos tres hermanos en esta jornada.

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Fin de los quatro días la tormenta començó a amansar, y el armada navegó a las Conejeras, donde las galeras que la tormenta avía llebado se tornaron a juntar; y en ellas se detuvo el príncipe con don García, porque nunca en la mar del todo sossegava para tornar a navegar siéndoles el tiempo muy contrario, y aguardaron a que lo hiziesse más sossegado y mejor. El visorrey de Cecilia, que en Africa quedó, ya que uvo mejorado señaló para la guarda de la ciudad mil honbres de guerra y algunos pocos de cavallo, para salir las mañanas a reconoscer la campaña, y por su general a don Alvaro su hijo, y dexó diez culebrinas y medias culebrinas para que con las pieças y lonbardas que en la ciudad estavan quedasse bien artillada, y mucha munición de pólvora, y pelotas y vastimentos por quatro meses para la gente que dexava; y dexó un ingeniero para que hiziesse reparar lo que le pareciesse nescessario, y proveyó de un artillero y señaló por capitán de una vandera de infantería un cavallero de la Religión llamado don Anthonio de Enzinillas. Y mandando a don Alvaro tuviesse buena guarda en la ciudad, y encomendándolos a Dios se despidió de todos y se enbarcó, y navegó para Cecilia, y halló al príncipe y don García con el armada en las Conejeras. Los quales le rescibieron bien, y dexando en ellas dos galeras para que a Africa llebassen cal y piedra, alçaron velas y navegaron toda el armada junta hasta Trápana, donde fueron muy bien rescebidos sin ningún rescivimiento ni regozijo, porque el visorrey lo embió a mandar por ir como iva muy triste por la muerte de su hijo y por no ir a Palermo, donde avía muerto, y la visorreina su muger embió a mandar el real consejo viniesse a Trápana. La nao en que los quatrocientos heridos y artillería quebrada iva llegó a Nápoles sábado quatro de otubre. Los quales el visorrey, con mucha diligencia, mandó desenbarcar y llebar al ospital, donde fueron bien curados y tractados, e fin de ocho días que el príncipe y don García en Trápana con el visorrey estuvieron, se despidieron dél y embarcaron y llevaron el viaje de Nápoles, llebando en sus galeras capitanas ricos estandartes, maravillosas vanderas y hermosos, muchos y muy luzidos gallardetes, assí por popas como por proas, como por todas las otras partes, que verlos menear con el aire que corría era cosa apazible y maravillosa de ver. Y como al Puerto de Nápoles llegaron, de la capitana del príncipe se hizo salba, y tras ella de la de don García y de todas las otras capitanas del Papa y duque de Florencia y de las demás, y fueron respondidos de la mesma manera de Castilnovo, Sanct Elmo y Castil del Obo jugando su artillería. Y como en tierra los soldados començaron a vender los esclabos que traían, y era grandíssima conpassión

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ver lo que sobre ello passava, que, aunque infieles eran, quebrava el coraçón de dolor, viendo el grande llanto que hazían, el immenso sentimiento que mostravan, las muchas lágrimas que derramavan, y vertían de verse apartar unos de otros, preguntándose dónde se avían de ver y dónde se avían de hallar para comunicarse. Y con este grave dolor eran apartados los maridos de las mugeres, los esposos de las esposas, las madres de los hijos, los hermanos de los hermanos, y a las mugeres quitavan las criaturas que traían dando leche a sus pechos para dar a nuevo señor, que verdaderamente no les era menos congoxa y angustia que sentirse sacar los coraçones de los cuerpos y apartar las ánimas de las carnes. Los soldados que ricos avían venido se començaron a luzir, adornando y conponiendo sus personas con ricas ropas de sedas, cadenas y clabos de oro, y otras jojas [sic] de lo mesmo, y triunphar y jugar llamándolos los otros soldados que no avían ido a la conquista los brabos como el sol, y a los que no tuvieron ventura de traer esclabos ni riquezas los desdichados africanos. Y assí passavan muchos con mucha alegría y otros sin ella por no poder más. Caminando Juan Osorio por la posta llegó en Puçol, donde se embarcó y navegó hasta Cecilia y dio el despacho del Emperador y del príncipe al visorrey. El qual le rescibió muy bien y con mucha alegría, sabiendo el Emperador se avía holgado y servido quedasse África por suya, y de lo que el príncipe sobre lo mesmo le escribió. Fin de algunos pocos días que el príncipe Andrea Doria estuvo en Nápoles, mandó enbarcar la infantería de Lonbardía y Malaespina, y despedido del visorrey se embarcó y mandó alçar velas y llevó la vía de Génova. Y como se partió, don García restituyó a la ciudad de Nápoles la artillería que le avía dado y presentó una pieça que en Africa uvo, y siete esclabos mochachos de treze a quatorze años de buenos rostros, vestidos con aljubas de sedas de colores tocados con tocas y plumas en ellas, y calçados de borzeguís y çapatos colorados como era su traje, y rescebido el presente por los regidores y jurados se comunicaron en su ayuntamiento qué servicio se le haría por ello. Y considerando entre ellos que don García avía sido principal causa que Africa se ganasse, por aver movido y puesto al príncipe a que tomase la enpresa della, uvo paresceres de algunos se le presentassen tres mil ducados; y paresciéndoles a otros no los estimaría lo contradixeron, mas antes le presentassen un collar de oro del mesmo peso, labrado en las pieças dél por muy sotil arte y lindo primor la tomada de Africa. Y resolutos en ello, dieron la orden de cómo se avía de hazer y mandaron ponerlo por la obra; y hecho con gran solemnidad se le presentaron.

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Navegando el príncipe Doria llegó en Génova, y haziéndose salba de su galera començó a jugar toda el artillería de los castillos y puertas de la ciudad. Y el duque y senadores y los principales de la señoría le salieron a rescibir, y con mucho fausto y regozijo le aconpañaron hasta su casa donde quedó con mucha honra y victoria, dando gracias a Dios por la merced que le avía hecho en bolverle tan próspero, tan presto y tan honrado y contento a ella. Y la gente de Lombardía y Malaspina bolbieron a las guarniciones do avían salido, y assí uvo fin esta jornada. Por lo qual todos los christianos devemos dar muchos loores y gracias a Dios y suplicarle, pues ha hecho principio en restituirnos en nuestras propias tierras, quiera dar su gracia y divino favor con muchos años de larga y próspera vida a nuestro gran César, para que adelante continúe y siga la conquista y traya los infieles en conoscimiento de la fee o los ponga en entera perdición.

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CAPÍTULO XLVI Cómo el Emperador mandó hazer saber al gran Turcho la toma de África, y cómo Dragut se le embió a querellar y pedir su favor para restaurar su pérdida y daño.

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Como el Emperador tenía tregua con Çultán Çulimán gran Turcho, la qual no era fenecida, como en todas sus cosas es muy cierto y verdadero y jamás se halló aya quebrado palabra que aya dado ni rompido sin gran causa cosa que aya prometido, como los buenos y escelentes príncipes deven hazer, porque injustamente dél no se querellase, aunque Dragut le estava rebelde e inodediente y se avía publicado que le avía mandado buscar para castigarle, para darle a entender la toma que sus capitanes con su gente de guerra avían hecho de la ciudad de África, porque, como avemos dicho en esta historia, a él fue recomendada en el tiempo que tuvo allí Çancherevi, cuñado de Barbarroxa, por su governador, mandó screvir al embaxador del sereníssimo Rey de romanos su hermano que residía en su corte, que de su parte y en su nombre le dixese que, yendo sus capitanes con sus galeras en busca de Dragut turcho y cossario para quitársele y estorbársele de enemigo, por los males y daños que en sus tierras y vassallos avía hecho y hazía, avían sabido que se avía tiranamente en África enseñoreado; la qual avían cercado, combatido y tomado por fuerça y justa requesta de armas, lo qual no avía sido con ánimo, voluntad ni desseo de romper con él la tregua y capitulación sentada, porque aquélla pensava continuar y guardar muy entera y complidamente, no faltando por su parte ni haziendo algún nuebo motivo de guerra contra él; y que de lo que le respondiesse le avisasse, porque lo quería saber. Dragut, que muy doloroso y congoxado por su gran pérdida estava en los Gelves, lamentándose y querellándose a su Mahomad del daño grande que de los christianos avía rescebido y por averle a sí olvidado, aunque con determinación de ir al gran Turcho quedó, sabiendo y conosciendo que pocas o ninguna vez perdonava ni remitía la pena de los que le eran rebeldes y contumaces, no se atrevió a ir en persona a presentar ante él temiéndole, mas, buscando grandes favores para dél ser perdonado y favorescido, enbió a sus paxás muy ricos presentes de oro, plata, joyas y esclabos para que por él intercediessen y rogasen y le alcançasen perdón; y con sus cartas, assí para ellos como para él, mandó partir a Constantinopla un su privado de quien

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confiava y para tratar sus negocios por muy avil tenía. El qual siendo en la corte del gran Turcho, y dado los presentes y letras a los paxás y por ellos rescebidos, tuvieron forma cómo el mensajero hablasse al gran Turcho. El qual con gran reverencia le saludó y besó la ropa y dixo: «Muy alto y muy poderoso emperador y gran señor, Dragut vuestro humilíssimo vassallo y esclabo besa los imperiales pies y manos de Vuestra Magestad y dize que, conosciendo él no le aver servido según y como devía, le ha estorvado y quitado el ánimo de osar parescer ante su alto acatamiento a pedirle perdón y misericordia de su culpa y pecado, pero que arrepentido dello, y quedando con entera y muy grande voluntad de siempre servirle, le suplica mande ver y vea esta letra». Y diziéndolo la besó y dio al secretario que stava presente. El gran Turcho la mandó abrir y leer la suma o relación de la qual, se afirma, dezía, que aviendo él apoderádose de la ciudad de África con fin de guardarse de los capitanes del Emperador, de quien era muy seguido y perseguido por destruirle, hallándose ausente della, el príncipe Doria, General de su armada, y el visorrey de Cecilia y un hijo del visorrey de Nápoles con armada muy poderosa avían ido a ella y se la avían sitiado y cercado y rezíssimamente batido; y que aunque él avía puesto sus fuerças y las de sus amigos por socorrerla no avía sido parte, y que por fuerça de armas la avían entrado y passado a cuchillo y tomado en prisión y captiberio a un su sobrino y a otros sus deudos y parientes, vassallos y esclabos de su Magestad, con los turchos que con él avía dexado en guarnición; con más todos los africanos con sus mugeres, hijos y haziendas. Y antes de lo qual avían hecho lo mesmo en la villa de Monazter, haziéndoles grandíssimas y gravíssimas fuerças y otras cosas tan orribles, espantosas y estrupendas [sic] de que Alá y Mahomad avían sido muy desacatados y estavan muy desservidos; y que lo menos de todo esto era lo que dezía, y no aver dexado piedra sobre piedra en la ciudad y villa en comparación de los gravíssimos desacatos que en sus mezquitas y templos sanctos, donde Alá glorificavan y Mahomad honravan, avían hecho, porque las avían buelto casas de morada perpectua de los infieles christianos que avían muerto en la entrada de la ciudad y de los que más de cada día morían, echando con gran osadía, innominia y vituperio sus bultos, figuras y retratos por tierra, diziendo contra ellos muchas palabras de desacato, feas e injuriosas, dignas de gran punición y castigo. Por lo qual muy muchas vezes le suplicava y pedía por merced, pues entre los fieles servidores de Alá y Mahomad solo él era poderoso para bolver por su honra y

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vengar sus injurias, tuviesse por bien de enbiar su poderosa armada en aquellas partes, para que allí, donde a los turchos y africanos forçaron y mataron, y a su Alá y Mahomad deshonraron y desacataron, fuessen quitadas las vidas y sus cuerpos lançados de sus mezquitas y quemados, que para esto él se hazía tan esforçado y fuerte con su imperial favor, según alta, diligente y fielmente le serviría de darle en las manos la ciudad. Y no sólo a ella, pero las islas de Malta y del Gozo, y a Trípol de Berbería, y otros puertos y tierras con que haría a Alá notables y maravillosos servicios, además que ennoblecería y acrecentaría su imperial corona, juntando a ella los reinos de Nápoles, Cecilia, Mallorca y Cerdeña, y escusaría los daños que las armadas de christianos podían hazer en sus tierras por la mar; y que siendo señor destos quatro reinos, y de Malta y Trípol, ternía havierta la puerta para sienpre que quisiesse entrar a hazer daño en la christianidad, y que sobre todo se metía sota la benignidad y clemencia de su Magestad, pidiéndole perdón y misericordia y que por suyo le recibiesse. Oída por el gran Turcho la carta, le pesó mucho del daño de Dragut, y assí de los africanos, y en gran manera le dolió oír los desacatos hechos a Alá y Mahomad; y mostrándolo assí en el rostro y diziendo que en ello se miraría y lo mandaría proveer, despidió el mensagero.

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CAPÍTULO XLVII Cómo el embaxador del Rey de romanos rescibió la carta del Emperador y dio noticia de la toma de África al gran Turcho, y cómo el gran Turcho hizo su sanjaque a Dragut.

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La carta que el Emperador mandó escrivir al embaxador del Rey de romanos para que la toma de África avisasse al gran Turcho le fue dada en Constantinopla, y, visto lo que le embiava a mandar, le embió a pedir licencia para en su nonbre hablarle; y siéndole concedida fue en su real palatio y en él le dixo lo que avemos contado que el Emperador le embió a mandar. Y aviéndole el gran Turcho oído le dixo que él le mandaría responder, y le despidió y mandó llamar a los quatro de su consejo, que eran Rusta Paxá su yerno y Mahemet Paxá, secretario del secreto, y Çulimán Paxá y Lotofi Paxá. A los quales dixo lo que el Emperador le embiava a dezir y las querellas de Dragut y lo que le embiava a suplicar, y sobre ello les pidió parecer. Los quales, aviéndose sobre ello comunicado, le respondieron que no embargante que Dragut hasta allí uviesse tocado en inobediencia a su Magestad, considerando que le embiava a pedir misericordia y darse por su esclabo, y la necessidad que dél tenía para quando fuesse servido de mandar embiar su armada a hazer daño en tierras de christianos, por ser como era hombre sagaz, plático, sabio y muy entendido por lo mucho que avía corrido y sabía las cosas de la mar, y no aver assí otro como él de quien se pudiesse servir después que Barbarroxa murió, no sólo usando de su benignidad y clemencia devía perdonarle, mas aun hazerle merced para que nunca de su servicio se desviasse, porque a no querer admitirle en su gracia y denegarle la misericordia que le pedía le podría tomar tal desdeño que fuesse a buscar otro príncipe o señor a quien servir, con que le hiziesse tantos desservicios y diesse tantos enojos de que hallasse muy desservido; y que quanto a lo que tocava a lo que el Emperador le embiava a dezir, le devía responder que Dragut era su esclabo y vassallo y uno de sus sanjaques, al qual no deviera despojar ni desheredar de sus tierras sin darle primero dello aviso, para que, teniendo causa justa, él le mandara llamar y castigara y proveyera en qualquier agravio que le uviera hecho; y que si la tregua que con él tenía sentada quería que fuesse estable, firme y valedera, y no se rompiesse, le mandasse restituir la ciudad con todos los dasios, intereses y menoscabos que uviesse rescibido, assí en ella como en la villa de Monazter, porque a no

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hazerlo assí, por estar como stava debaxo de su mano y amparo, no podría dexar de faborescerle y restituirle; y que con esto el Emperador, sabiendo como sabía quánto era grande y poderosa su potencia, ternía por bien hazer la restitución, y que en defecto de no querer hazerlo devía mandar hazer alguna demostración con su armada, de manera que se hiziesse temer. Y paresciéndole al gran Turcho lo aprobó, y recibió por su sanjaque a Dragut y le hizo merced de mandarle dar el título del oficio en que le proveía y embiarle su estandarte colorado y tafetán brocatí, que es una aljuba azul que trae cada sanjaque para ser por tal conocido, el qual acostumbra dar quando por tal le recibe, y mandole escrebir que no mirando sus culpas y excessos, si no a la voluntad que a las cosas de su servicio mostrava y dezía tener, avía sido servido perdonarle y hazerle merced como le sería mostrado por la persona que con su estandarte colorado y tafetán brocatí le embiava, y le tomava sota su guarda y amparo haziendo él lo que obediente vassallo y esclabo en su servicio devía; y que de lo que más fuesse su servicio le mandaría avisar, e por darle mayor favor con este despacho mandó partir uno de su casa para que se le llevasse a los Gelves. El qual con el mensajero de Dragut, que cartas de los paxás ofreciéndole por los presentes que les avía embiado siempre sus cosas pornían muy adelante ante el gran señor y le faborescerían a todo su poder, se embarcó, y navegando fueron a los Gelves. Y sabido por Dragut el despacho, teniéndolo por grandíssimo bien y merced dio muchas gracias a Mahomad y recibió muy bien el mensajero que se le llebava, y le dio un largo y rico presente, y mandó hazer muchas zambras y otros regozijos, y derramar moneda de alegría. Y de nuevo embió a besar los pies y manos al gran Turcho y ofrecérsele como de primero y a dar gracias a los paxás, atribuyendo la gracia y merced avida aver sido causada por su mano y favor, y a los quatro de abril se embarcó y con toda su armada fue la vía de Cecilia con fin de hazer el daño que en ella pudiesse. Y como no halló dónde poderlo hazer, fue a reconoscer la isla de Malta de la Religión de los cavalleros de Sanct Juan, que el Emperador con Trípol de Berbería les avía hecho merced después que a Rodas perdieron; y aviéndola reconocido bolvió el viaje de Espartavento, y rovó un pequeño lugar; y aviendo aviso que los venecianos embiavan dos naos con quinientos soldados para guarda y socorro de Corfo, porque con trato que de por medio se dezía andava, querían entregar al Turcho las fuerças, con que embiasse sessenta galeras armadas como que ivan a correr la mar en busca de christianos para mejor hazer el efecto. Por lo qual los venecianos avían hecho rezia y grave justicia, cortando

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en los castillos, según dizen, veinte y cinco cabeças con fin de començar a servir al Turcho con estorvar el socorro que a Corfo iva y aver para sí las naos, artillería y municiones, y los soldados por esclabos. Fue en su busca al golfo de Venecia donde las halló y començó muy rezio a conbatir, y si no fuera por el visorrey de Cecilia, que teniendo aviso del socorro que a Corfo iva y de la ida de Dragut, que dello embió a avisar a venecianos que mucho se lo agradecieron, se las llevara; pero teniendo el aviso los venecianos embiaron luego en socorro veinte y siete galeras bien armadas con que Dragut no sólo no las osó aguardar, mas aun desamparó las naos que casi por suyas tenía ganadas y se fue la buelta de África para estorvar que ningún navío con provisión, socorro ni municiones le entrasse; y enbió el aviso de todo lo que avía hecho al gran Turcho, y diziendo que su Magestad se determinasse a lo que le avía suplicado, porque Malta y Trípol le sería muy fácil cosa de ganar; y assí haría África, porque muy menos fuerte que ninguna dellas era. Y el socorro de los venecianos con la guarda de las galeras passó adelante y fue a Corfo, donde dexaron los soldados y municiones que llebavan, con que quedó seguro y muy bien guardado.

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CAPÍTULO XLVIII Cómo el gran Turcho respondió al Emperador a lo que sobre la toma de África le embió a dezir y su respuesta; y cómo el visorrey de Cecilia le embió a suplicar embiasse a mandar al príncipe Doria con el armada la fuesse a proveer.

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Ya que el gran Turcho uvo con sus paxás su acuerdo acerca de lo que el Emperador sobre la toma de África le avía embiado a dezir, y visto en lo que se determinaron y parescer que le dieron en que él quedó resoluto, mandó llamar el embaxador del Rey de romanos que la embaxada le avía dado. Al qual mandó dar una carta con su sello en que lo mesmo declarava y contenía diziéndole que al Emperador la embiasse y procurasse respuesta, porque quería saber la provisión que hazía. El qual rescibiéndola salió del palacio y la enbió; y llegando a poder del Emperador, y visto lo que por él la enbiava a pedir, mostrando tener en poco sus palabras soberbias y presuntuosas, justificando la causa más le escrivió diziendo que la ciudad de África no era suya ni estava por él, ni por ningún derecho le pertenecía, ni Dragut la tenía en su nombre sino tiranizada como cossario y con fin de le ser enemigo y desservidor, quanto más que de derecho pertenecía a los reyes de Thúnez, los quales eran sus vassallos, porque él avía ganado aquel reino y dél les avía hecho merced y de su mano le avían rescibido, y que por qualquiera destas cosas sus capitanes avían muy justamente podido cercarla y tomarla. Por lo qual, y por no entrar Dragut en la tregua entre ambos capitulada, no tenía por qué hazer la restitución que le pedía, y que si su esclabo y sanjaque como dezía era, porque durante la tregua le avía consentido quebrarlo por el capitulado ya provado, haziendo daño en sus tierras y vassallos, pues aquéllo devía conplir y observar como príncipe y señor muy recto y justificado, y que si sobre tomar la ciudad quisiesse hazer algún nuevo motivo de guerra lo podía hazer de hecho comoquiera, que sería con falta de justicia y sin ninguna razón; la qual estava presto de le resistir y guardar y defender la ciudad, y assí los otros estados y tierras de sus señoríos dondequiera que danificarle quisiesse, y hazer lo que más le parecería; esto, faltando por él lo prometido. Y assí le escrivió otras cosas acerca desto y se lo mandó embiar al mesmo Emperador para que se la diesse. El visorrey de Cecilia, que de África tenía muy gran cuidado y della nunca memoria perdía, tuvo noticia de cómo Dragut, no aviendo podido

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tomar las naos de los venecianos, avía dado la buelta a África y andava en contorno della, buscando cómo hazer daño, y que avía apoderádose en algunas naos y otros navíos que ivan y venían de la ciudad; y considerando quánto en ella importava poner buena guarda, por lo mucho costosa que de sangre y vidas de hombres y thesoro avía sido al Emperador, y que acaso de súbito no viniesse alguna armada del Turcho y, por mala provisión, la tornasse a ganar y se apoderasse della, le escrivió suplicándole que, por quanto Dragut con su armada andava en contorno de África, defendiendo que no le entrase ningún socorro, municiones y vastimentos. Lo qual, puesto caso que él con las galeras de aquel reino y otras naos se lo quisiesse resistir y bien proveerla, le parescía no podría salir bien del negocio, porque al fin se pelearía y pornía toda aquella armada a riesgo, que suplicava a su Magestad enbiasse a mandar al príncipe Doria que con el armada o la parte que della le paresciesse fuesse en aquel reino, para que desde allí la fuesse a proveer con seguridad, porque assí convenía a su servicio. Y despachada esta carta se la embió, y mandó embarcar en una nao quatrocientos soldados y llevarlos para guarda de la ciudad, teniendo noticia en qué partes Dragut estava de las personas que con fragatas a descubrirle traía. E vista la carta del visorrey por el Emperador, aviéndola bien entendido y paresciéndole en lo que le embiava a suplicar le pedía lo que a su servicio tocava, mandó escrevir al príncipe Doria que, como viesse su carta, con el armada partiesse a Cecilia para que de allí llevasse gente, municiones y vastimentos para la guarda y conservación de la ciudad, y que llevasse la vía de Nápoles para que allí se proveyesse de más galeras e infantería española para llevar buen recaudo en las galeras e ir también proveído y apercebido que, topando a Dragut, le pudiesse dar la batalla y romperle, prenderle o matarle, que todo lo que para ello pidiesse y uviesse menester le daría el visorrey de Nápoles a quien lo embiava a mandar. Y al visorrey escrivió mandándole que como el príncipe allí llegasse le diesse toda la gente que para llevar bien armadas sus galeras le pidiesse sin hazer lo contrario, porque aquélla era su determinada voluntad. Vista la carta del Emperador por el príncipe la obedeció, y en cumplimiento della mandó adereçar onze galeras; y siendo proveídas de todo lo necessario se embarcó y llevó la vía de Nápoles, y Domingo de Ramos fue en la ciudad de Puçol y tomó tierra y visitó al visorrey, y le dixo la gente que avía menester y que luego se la mandasse dar. Y siendo dél bien rescebido y despedido, se bolvió a embarcar y fue para Nápoles, y

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llegando en el puerto mandó dar fondo al armada. Y el visorrey, sabida su voluntad y la del Emperador por la carta que dél avía rescebido, mandó al marqués Anthonio Doria que con tres de sus galeras y a Juan Vázquez de Coronado con quatro de las de don García recogiessen al capitán Escovar y arcabuzeros de su compañía y un oficial de cada una de las otras con un esquadra de arcabuzeros y algunos soldados de coseletes, para que fuessen con el príncipe. Y dado orden en todo y el vando publicado, en muy breve spacio fueron todos embarcados, e a diezseis de março, quatro horas después de noche mandó alçar velas y tocar trompetas, y començó a navegar; y otro día fue a Próxita y Iscla diez y seis millas, y otro navegó cien millas hasta llegar a Bolesano a las tres después de mediodía, y a los diez y nueve fue hasta cerca de Palermo, y con viento contrario bolvió a Lípar a los treinta, que segundo día de Pascua de Resureción; y a los treinta y uno bolviendo al viaje fue ciento y veinte millas, y llegó a mediodía a Palermo haziendo salba, y primero de abril en la noche fue para Trápana, y otro día a buena hora llegó a la ciudad donde el visorrey de Cecilia en las galeras de aquel reino, y del príncipe y de Nápoles, que eran todas veinte y siete, hizo embarcar dos mil y seiscientas hanegas de trigo y mucha quantidad de municiones de pólbora y pelotas, con todo lo qual el príncipe siguió la navegación para África a los quatro del mes, una hora después de mediodía, y fueron quinze millas hasta la Faviana; y otro día en la noche para la Panthanalea, que hay ochenta millas, y allí mandó surgir el armada aguardando mejor tiempo del que llebava hasta los nueve, y a los diez del mes, a mediodía, llegó en África que avía ciento y veinte millas, y hecha salba de su galera fue muy bien rescibido de la mesma manera de la ciudad. Y don Álvaro y los capitanes y otros muchos le salieron a rescibir, y él los rescibió muy bien y mandó desembarcar y meter en la ciudad lo que llebava, con que la dexó mejor proveída. Y porque avía tenido nueva que Dragut andava por cerca de África para defenderle el socorro, sin querer más aguardar el mesmo día que llegó se despidió de don Álvaro y de los demás, y mandó a sus marineros llevar la vía de los Izfaquez por ir en su busca; y otro día llegó a ellos, que estavan distancia de sessenta millas. Y como allí no tuvo nueva dél, sospechando que sabida su venida se avría buelto a los Gelves, mandó guiar la buelta de los secaños de Berbería, y a los doze al mediodía llegó a los Gelves otras sessenta millas, y andubo la isla que tiene veinte millas entorno para tomar lengua si stava allí; y de dos moros que prendió tuvo nueva que estava en La Roqueta, y yendo a

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buscarle topó con dos navíos de turchos con mercaduría que uvo por suyos, y por otros moros de la tierra fue avisado que Dragut stava con su armada en la canal de la Cántara, parte de sus galeras y vaxeles armadas y parte por armar. Y dando el príncipe libertad a los moros, que porque le dixessen la verdad de dónde Dragut stava se la avía prometido, fue en su busca a la canal. El qual, que dello tuvo noticia por sus espías, hallándose perdido por estar en parte de donde no podía salir para navegar, se congoxó mucho; mas proveyendo en el mejor y más presto remedio como hombre de guerra, con gran diligencia mandó juntar todos sus turchos y moros con sus armas, y paresciendo el príncipe con el armada a la hora del Ave María a vista del canal mandó jugar contra ella algunos cañonazos de arcabuzería a fin de estorvar que no le entrasse el canal; y visto por el príncipe se apoderó de dos navíos que halló en los secaños, y mandó dar fondo al armada en parte donde el artillería no le pudiesse alcançar ni dañar. Pues cómo Dragut en tanto aprieto y peligro se vio, olvidando el dolor y trabajo que la pérdida de África le avía causado, con el presente a que su propia persona veía entró en medio de sus capitanes y turchos y les dixo: «Si en algún tiempo, esforçados turchos, nos fue menester mostrar nuestras fuerças y ánimos es este en que agora al presente nos vemos, pues de nuestro capital y crudo enemigo nos hallamos corridos, perseguidos y cercados; por lo qual nos conviene que antes peleando muramos por salbar nuestras honras y vidas que dexarnos captibar para venir a vituperosa subieción y servidumbre. En el entretanto que Mahomad nos guía y encamina cómo daquí salgamos, hagamos buena guardia a este canal para que de noche no nos le entren, porque, si el príncipe nos le gana, por ninguna vía podemos escapar de lo que digo; y para que podamos bien guardarla, conviene nos hazer un fuerte bestión sobre la punta de la boca de junto a esta torre do estamos, y aquí pongamos nuestra fuerça para pelear y morir». Oído por todos tractaron del negocio, y paresciéndoles que lo más saludable y provechoso les era aquéllo, lo acebtaron; y con gran diligencia y presteza, proveyéndose de los moros de la tierra de picos, açadas y espuertas le començaron a hazer; y diéronse tan buena maña que al alva del día, como no era muy grande, aunque fuerte, estava hecho y puesto en él hasta veinte vanderas y toda su gente y algunas pieças de artillería, y començó a tirar al armada. Al qual el príncipe mandó estar en arma, las galeras enpavesadas y los soldados en orden de combatir; y para dar orden en cómo Dragut no se le fuesse, mandó juntar en su galera al marqués Anthonio Doria y a don Berenguel, y Juan Vázquez y al conde

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Phelipín Doria, y al capitán Escobar y Jorge Doria, y al capitán Mariano y otras personas de qualidad, a los quales dixo: «La cosa que yo, cavalleros, en esta vida más estimaría para merecer ante Dios nuestro Señor y servir a su Magestad Cesárea, sería aver en nuestro poder este cossario Dragut, al qual, como havéis visto, tenemos en tanto estrecho que, si no fuesse por gran desdicha, por ninguna vía podremos perderle. Pero, porque no quiero estar tan confiado de mí ni en lo que yo desta isla sé, os ruego me digáis la provisión que para que no se nos vaya haremos, o, si algunos de los que aquí estáis, tenéis entendido y sabido por otra parte que por este canal se nos pueda ir, para que en todo pongamos buena guarda y recaudo». Oído por todos lo por el príncipe propuesto, tractaron y comunicaron el negocio, y preguntado acerca dello a muchos marineros y christianos que avían sido en la isla esclabos, y a moros della que tenían allí captibos, le dixeron que por la noticia muy sabida que se tenía de aquella canal, y assí de los secaños, por hombres pláticos que muchas y diversas vezes lo avían navegado, tenían por cierto que Dragut no se podía ir por el agua por otra ninguna parte sino por do su Escelencia le aguardava, y que por aquello no convenía aguardarle en otra parte; pero, porque parescía averse hecho fuerte y abestionado junto a la torre sebre la boca del canal, y podría ser detenerse allí algunos días, que devía embiar por más gente municiones y vituallas, para reforçar y proveer el armada y para los casos que podrían susceder, y que, pues por tierra se sabía se podía ir por tierra firme a tierras de Berbería, que, por que no se salbasse, se tratasse con el xeque Çalac le guardasse con sus moros y uviesse en su poder si se quisiesse ir y se le entregasse, haziéndole para ello alguna promessa que le satisfiziesse, remitiéndose en todo sota su mejor parecer. Y paresciéndole al príncipe bien lo loó y aprobó, y apartándose luego escrivió al visorrey de Nápoles diziéndole cómo a Dragut en los Gelves en el canal de la Cántara tenía cercado; el qual por guardase dél se avía abestionado y fortificado de tal manera que por algún día se deternía allí, y que porque al servicio de su Magestad, como le era notorio, importaría mucho averle en su poder, le rogava y encargava le embiasse las galeras que en Nápoles avían quedado, bien proveídas y bastecidas de gente, artillería, municiones y vituallas, para que, si conviniesse darle la batalla en tierra, se le pudiesse dar, o, si algún nuevo y no pensado caso suscediesse por mala provisión o descuido, no rescibiesse daño. Y escrivió al visorrey de Cecilia lo mesmo, y rogándole le embiasse alguna munición y vastimentos, y

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assimesmo para Génova, mandando a Marcho Centurión que, vista su carta, con todas las galeras se fuesse a juntar con él con la mayor diligencia que pudiesse, llebando el viaje en su busca por Cerdeña, porque, si conviniesse embiarle algún aviso, supiesse por dónde navegava. Y como tuvo escripto, mandó partir a Juan Vázquez en la galera patrona de Cecilia con las cartas, y que lo primero fuesse a Cecilia, y dada la que iva para el visorrey, y dexando allí la galera fuesse al visorrey de Nápoles, y que por la posta por tierra embiasse el despacho que le dava a Génova a Marcho Centurión, y que en todo pusiesse mucha diligencia y recaudo. Y hecho el despacho, señaló su persona para que fuesse a hablar al xeque sobre lo que se avía platicado acerca de la guarda de Dragut, prometiéndole en nombre del Emperador le sería buen señor y amigo para en lo que se le ofresciesse. El qual sobre ello le habló encargándole mucho el negocio, y aunque lo prometió, se dize no tractó verdad en él, porque antes con muy gran secreto avisó dello a Dragut para que buscasse cómo poner su persona y los suyos en salbo con sus vaxeles. Juan Vázquez de Coronado, que las cartas del príncipe rescibió, despidiéndose dél se embarcó en la galera patrona y començó a navegar para Cecilia, y en Trápana dio la letra al visorrey, y dexando la galera se embarcó en una fragata que le mandó dar y passó en Nápoles, donde hizo la mesma diligencia con el visorrey y despachó el correo para Marcho Centurión a Génova, y vistas por todos las cartas del príncipe, el visorrey de Nápoles mandó embarcar en las siete galeras de don García y del marqués Anthonio Doria quantidad de soldados; y bien bastecidas y proveídas de municiones y bastimentos, mandó bolver con ellas al mesmo Juan Vázquez y a Pedro Francisco Doria donde el príncipe estava. Marcho Centurión, rescibida la carta del príncipe en Génova, hizo la mesma diligencia, y el visorrey de Cecilia mandó proveer la galera patrona de vituallas y municiones y de cinqüenta soldados, y con ello mandó ir en busca del príncipe a Colabassa, capitán de la mesma galera. El qual con ello y con otro capitán de otra galera, que enfermo avía quedado en Cecilia, y Muley Búcar, que allí se halló que a la conquista por hazer mal y daño a Dragut quiso ir, començó a navegar.

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CAPÍTULO XLIX Cómo el príncipe uvo algunos navíos de turchos y mandó reconoscer el canal de la Cántara, y lo que sobre ello Dragut hizo.

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Tanto era el desseo que el príncipe tenía de aver por suyo a Dragut que de día ni de noche no podía sosegar ni reposar; y otro día a los treze del mes, después de aver avido de poder de turchos otros dos navíos cargados de dátiles y çevada, y tomado a los patrones y a la gente que traían por esclabos mandó ir algunas galeras a hazer agua para el armada sobre la isla a La Roqueta, diez millas de do estava Dragut, con orden de que, para que los marineros y personas que la hiziessen no recibiessen daño, saltassen en tierra una vandera con quinientos soldados. Y viendo Dragut la vía que llebavan sospechando para dó, ya que ivan, embió trezientos turchos que se la resistiessen y defendiessen; y como tan presto llegaron como las galeras, començaron a disparar su escopetería contra los christianos, pero no por esso la vandera y soldados dexó de tomar tierra y escaramuçar con ellos; y escaramuçando unos con otros los marineros a pesar de los turchos, porque no se lo pudieron resistir, cogieron y embarcaron el agua; y quedando algunos pocos muertos y mal heridos de ambas partes, los soldados se embarcaron y bolvieron con las galeras al armada y los turchos al fuerte do stava Dragut al qual dixeron lo que avía passado, y assí lo mesmo los marineros del príncipe. Al qual, paresciéndole que ningún fructo hazía en estar allí detenido, pensó en cómo, si pudiesse, sería bien passar adentro el canal para combatir en el fuerte con Dragut. Y assí como le vino en memoria lo comunicó al marqués Anthonio Doria y don Berenguel y a los otros cavalleros y capitanes que con él estavan, a los quales paresció bien y fueron de su parescer, y para esto el príncipe proveyó y mandó que algunos de sus marineros en una fragata la fuessen a reconocer; los quales fueron llevando en la fragata una pica tendida con una vandereta blanca, para dexar en señal de por dónde el canal se podía navegar si lo hallassen; y pusieron tan buena diligencia mirando la hondura y tentando con la pica, que conocieron muy claro que las galeras podían passar el canal adentro; y para que no se herrasse al canto del canal, a la mano izquierda a la vanda del xaloque, a medio tiro de cañón della pusieron firme la pica con la vandera, y dexándola en pie se bolbieron al príncipe y le dixeron lo que avían descubierto; de que mucho se holgó y quedó con ánimo de entrar el canal con qualquier socorro que le viniesse.

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Dragut, a quien mucho mirar en ello importava, aviendo visto la diligencia del príncipe y entendido con el fin que lo hazía, para estorvarle su designio y pensamiento mandó entrar cien turchos escopeteros en una galeota, mandándoles que, llevando tras ella un esquife de manera que del armada no fuesse visto, fuessen donde la pica con la vandera stava y la quitassen. Los quales con gran presteza se embarcaron, y llevando el esquife lo más encuviertamente que pudieron fueron para donde la pica estava, y llegando junto passaron la galeota delante, y teniendo la pica cuvierta saltaron en el esquife y la quitaron, y dando buelta se la llevaron dexando atrás el esquife. Y como el príncipe no sabía con el fin que la galeota avía salido por llevar tan encuvierto el esquife, avía estado a la mira esperando lo que sería, porque tenía entendido que con la galeota no podían llevarle la pica; pero como vio mover la galeota y se descubrió el esquife, y la vandera y pica no se vio, conoció que los de la galeota con el esquife la avían quitado y se la llevaban, y con grande enojo que dello uvo, mandó entrar algunos soldados en sus fragatas para que cobrasen y le llevassen el esquife. Y viéndolas mover los que en él estavan, a gran prisa fueron tras la galeota de manera que se les fueron, y mucho más enojado de aquello que de lo demás el príncipe mandó girar las proas de las galeras en tierra y tirar de cañonazos contra él y la galeota, de que mataron a vinte y cinco de los turchos sin otros muchos que en ellos hirió. Pero al fin se le fueron con su daño sin que los pudiessen detener, con gran gloria y alegría de Dragut por aver salido con su intención.

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CAPÍTULO L Cómo por una mañosa astucia y ardid que Dragut usó escapó del peligro a que estava y uvo por suya la galera patrona de Cecilia, y lo que el príncipe proveyó.

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Conociendo Dragut el grande peligro a que estava no podía comer ni dormir, ni tomar otro ningún reposo; y artizando consigo mesmo para salir dél pensava en muchas cosas, y las más dellas le faltava el poder para efectuarlas. Pero aviendo sobre ello mucho pensado, siendo junto con sus turchos y moros les dixo: «Aviendo yo, hijos míos, mucho pensado en cómo sacar y librar a vosotros y a mí del aprieto y peligro a que estamos me he mucho desvelado, y ninguna cosa que provechosa nos sea hallo, porque ir a combatir con el armada del príncipe con nuestros vaxeles nuestra perdición es tan clara y manifiesta que no se puede dubdar, pues que aquí queramos estar como estamos agora muchos días al fin no nos podremos conservar, porque o nos faltarán los bastimentos o el príncipe nos entrará el canal, pues ya tiene reconocido puede passarle; y por qualquiera destas cosas que nos venga es venida nuestra perdición, pues que por tierra nos queramos ir adonde iremos pobres y malaventurados que nos quieran rescibir ni acojer. Para estorvarlo todo y no venir en ello tengo pensado un maravilloso y hazañoso ardid con que nos libremos y salbemos, y dexemos al príncipe burlado. El qual, si os paresce, será que desde esta noche con grandíssima diligencia juntemos todos los más moros que desta isla podamos, a cada uno de los quales yo daré tanto dinero quanto por su trabajo pedirán, y con açadas y picos ahonden este canal a nuestras espaldas, por el qual saquemos nuestras galeras y vaxeles y nos vamos en paz sin ser sentidos ni enojados; y para que desto ninguna sospecha el príncipe conciba, de contino se tiren contra el armada algunos cañonazos y parezca la gente en el bestión en que estamos». Oído por todos lo dicho por Dragut lo loaron y aprovaron, y paresciéndoles que milagro de Mahomad avía sido ponerle aquello en la memoria para su deliberación y salbación, le respondieron que sin perder hora de tiempo se devía aquello començar y continuar con toda la diligencia possible hasta darle fin, pues en aquello consistía su libertad; y allí luego se dio la orden de cómo se avía de hazer, y señaló personas que fuessen a buscar los moros y se truxessen todas las açadas y picos que se pudiessen aver, y

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diose en todo tan buena maña que muy en breve juntaron dos mil moros, y a cada uno antes que la obra començasse, Dragut mandó dar una dobla de oro, y con promessa de mejor gratificárselo de buena gana començaron a ahondar el canal, y lo uno por el intherese del dinero y lo otro porque dizen el xeque se lo avía mandado por el temor que tenía del armada, y también porque Dragut con sus thesorero, mayordomo y contador y otros oficiales andava solicitándolos con talegones de doblas en las manos y derramando en partes que las podían cojer, y dándoles muy bien de comer, todo a fin de que olvidasen el cansancio, en muy poco espacio hizieron mucha lavor, y assí sin parar ni cessar lo fueron continuando; y como fue otro día, Dragut mandó jugar contra el armada el artillería de la galeota y dar grita a los turchos que estavan en el bestión, para que el príncipe viesse que no le desamparava; y en el entretanto los moros trabajaron porque del príncipe ni de los del armada podían ser vistos; y otra noche que hecha tuvo la vía por do se avía de ir que a los veinte del mes era, y fin de ocho días que avía estado cercado dio orden cómo con gran presteza todas sus galeras y navíos fueron armados, y a prima noche que lo acabó muy alegre y victorioso salió del canal tan a su salbo y seguro, como si fuera por medio del mar; y dexando burlado el príncipe començó a navegar la buelta de Cecilia, y sessenta millas adelante topó en la isla del Querquen, e la galera patrona que el visorrey con los cinqüenta soldados, vituallas y municiones, y Muley Búcar al príncipe embiava, de la qual se apoderó sin que se le pudiesse ir ni defender, y hizo presa en los capitanes y soldados y los echó al remo y dio libertad a los turchos remeros que halló en ella; y a Muley Búcar, diziendo que avía sido y era su capital enemigo, le mandó desnudar y colgar de un pie, y açotar muy mal, y assí le tuvo purgando y penando todo un día, y después le mandó bogar. El príncipe, que pensava tener cercado a Dragut, como fue otro día y no vio la galeota ni otra ninguna galera ni vaxel, ni los turchos en el bestión, luego lo tuvo por mala señal, y para saber si Dragut se le avía ido le mandó ir a reconoscer; y como de lo que passava se tuvo luego noticia, y dello le informaron, uvo tan grande pesar que por gran rato de turbado enmudeció; pero al fin, proveyendo a lo nescessario para que, ya que se le avía ido, no fuesse en hazer algún grande daño, despachó a los visorreyes de Cecilia y Nápoles y Marcho Centurión, que venía con sus galeras, avisándoles de cómo se le avía escapado y por qué maña y ardid, y que no le embiassen el socorro porque ya no lo avía menester, y que lo que embiado le uviessen lo mandassen avisar para que no lo topasse y se apoderasse dello. Y con este

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despacho embió un su capitán con la galera comadre; todo lo qual pudiera escusar si, como llegó a la canal, la entrara, porque estonces Dragut no tenía galeras ni vaxeles armados tantos quantos para resistirle le bastaran, ni hecho bestión en que guardarse ni fortificarse por manera que por mar no se le pudiera ir, sin que bivo o muerto le uviera, con que escusara todos los daños que avía de hazer. Pero no le devemos cargar ni imputar culpa alguna, pues no sólo él recibió engaño de que se le pudiesse ir, pero aun los marineros, moros y sclabos que avían estado en la isla, como avemos declarado se lo certificaron. Pues hecha esta provisión, otra noche adelante de como Dragut se le fue se partió y navegó por el mar muy descontento; y anduvo treinta millas con viento contrario, y otro día bolvió para los Gelves, y a la parte y cerca del castillo se apoderó de quatro navíos de turchos cargados de trigo, cordovanes, miel y azeite que lo traían de Levante a vender a los Gelves. Y porque el viento no quiso amansar, estuvo allí hasta los veinte y siete que fue a hazer agua a La Roqueta, y mandó quemar dos navíos de los que avía tomado, recogiendo la mercaduría en las galeras; y aunque con el viento, como dezimos, contrario, una hora antes de noche se engolfó llevando dos naves que assimesmo avía avido, y a remo navegó toda la noche, y a los veinte y quatro en medio de la mar uvo otra nao turchesca llena de trigo, y a los veinte y nueve, yendo el armada a la vela un vergantín de treze vancos con los patrones y gente de ambos vaxeles, y primero de mayo fue en Trápana donde vio al visorrey, al qual más por estenso contó lo que le avía suscedido y la pérdida de la galera patrona, de que muy mucho le pesó. Y despidiéndose dél, navegó otro día para la isla de Lústrica, y en ella topó con Juan Vázquez y Pedro Francisco Doria, que ivan en su busca con las galeras, con los quales fue a Nápoles. Y visitando al visorrey y dándole la mesma relación que al de Cecilia se fue para Génova, y siendo en ella fue bien rescebido de la señoría. Y por dar a entender al Emperador este suscesso, los visorreyes de Nápoles y Cecilia, y assí el príncipe se lo scrivieron. Al qual le pesó mucho de que Dragut se uviesse escapado y de la pérdida de la galera patrona y gente que en ella iva.

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CAPÍTULO LI Cómo viéndose Dragut libre del príncipe Andrea Doria lo embió a hazer saber al Turcho, el qual se determinó de embiar su armada para tomar a África, Malta y Trípol de Berbería.

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Viéndose Dragut libre y salbo del peligro a que avía estado, con grande alegría que dello tuvo, desbiándose del príncipe Andrea Doria tornó a continuar su oficio, y embió a hazer saber al gran Turcho lo que por él avía passado, y tornándole con muy mayor eficacia a suplicar quisiesse embiar su armada para hazerse señor de África, Malta y Trípol de Berbería. Y como al tiempo que esto le embió a suplicar, el embaxador del Rey de Romanos de parte del Emperador le dio su carta, en que le dezía la poca razón que tenía de pedírsela. De que no poco pluvo a la çultana su muger natural, llamada Ialbahar Açaqui, que quiere dezir rosa de primavera emperatriz, porque como tal muger y de más mando y poder que ninguna de las otras, por razón de que ha avido en ella dos hijos y le ha curado y cura de una mala y muy peligrosa enfermedad que ha mucho que tiene, de la qual se tiene por cierto que bivirá poco y morirá muy presto, por ser como es idropesía y cáncer causada de umor malencónico que le ha recrescido en el pecho, la quiere y ama mucho, y por esto está y reside continuo en su palatio y tiene en su poder todos sus thesoros, joyas y riquezas. La qual desseando que su hijo llamado Çultán Çelim, que hijo segundo del Turcho es, quedasse por señor de los imperios, soldanazgo, reinos y señoríos de su padre, y por desheredar a Çultán Mostafá, hijo primogénito del mesmo gran Turcho y de otra muger en quien se espera suscederán los estados por ser belicoso y animoso y por su persona valeroso, a quien los genízaros por esta razón tienen grande amor y están bien con él, sabiendo y entendiendo que entre las potencias del gran Turcho se tiene por una y muy importante su armada imperial, por ser de grande qualidad, queriendo armar todas sus galeras y navíos, porque de cada día se pensava le faltaría la vida por tenerla ella de su mano para que los negocios de su hijo se hiziessen mejor y más a propósito, hora con maña, hora por fuerça rogó e importunó a Rustá Paxá, su yerno y assí del Turcho, casado con una hija de ambos, que negociasse cómo el Turcho armase luego y embiasse el armada a tierra de christianos, y principalmente a recobrar la ciudad de África. Y assí hizo el mesmo ruego a cada uno de los otros paxás.

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Los quales por darle contento se lo prometieron, y como el gran Turcho les mandó leer la carta les preguntó que qué le parescía acerca de aquello que el Emperador le escrivía. Los quales, hallando la ocasión de dar contento a la çultana, aviéndose comunicado dieron la boz a Rustá Paxá para que le respondiesse. El qual, que por ser su yerno y tenido por hombre muy sabio es todo su govierno, por sí y en nombre de todos le dixo que, como aquel año su Magestad avía armado más temprano de lo que se esperava ni fuera menester, se avía dicho y publicado lo avía hecho con fin de tomar a Corfo a los venecianos con estratajema; por la qual sospecha ellos avían hecho muy grave justicia de algunas personas que en ambos los castillos tenían, y que si su Magestad mandava desarmar se diría lo avía mandado por faltarle el designio, y que a su grandeza no convenía por ninguna vía se dixesse avía querido tomar ninguna tierra a traición, pues tan poderoso y gran señor Mahomad le avía hecho; antes, de su consejo devía acabar de mandar armar toda su armada y señalar su Capitán general della, y embiarle con la quantidad de gente de guerra que le paresciesse a tomar por fuerça de armas a África, pues el Emperador dava a entender no la quería restituir, que, pues christianos con una flaca armada la avían tomado, muy mejor la tomaría la suya siendo muy fuerte y poderosa que no hallaría ninguna resistencia; y que pues avía tregua con el Emperador, porque no se dixesse la quebrava, primero el armada anduviesse como entre paz y guerra, costeando los reinos de Nápoles y Cecilia, y que si alguna buena ocasión el general hallasse, para en qualquiera dellos poderse apoderar en algún puerto, le tomasse, porque aquél se podría conservar y sustentar proveyéndole siempre por la mar; y que quando no, se apoderase de Malta y Trípol de Berbería, porque desde allí destruiría y aruinaría a Cecilia y Calabria, y se haría señor de la Berbería por fuerça o de grado de los señores della; y que con esto inquietaría al Emperador de manera que no pudiesse hazer ni traer a efecto el concilio que traía muy a la mano de començar, ni asentaría las cosas de Alemania ni contra el rey de Francia, que por amigo y confederado tenía, hiziesse guerra. Aviéndole el gran Turcho oído les dixo que no le parecía mal y que él pensaría en ello, y por estonces no se tractó dello más. Pero como la çultana, que muy deseosa era de colocar y ensalçar su hijo Çultán Celím y baxar y desheredar a Çultán Mostafá, entendió de Rusta Paxá su yerno lo que passava; como de contino conversava y comunicava al Turcho, le persuadió y atruxo a que se determinase de mandarla toda armar; y no a solo esto, pero para que quando menester la uviesse faborescerse y aprovecharse della, tuvo

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tal forma que a su suplicación proveyó por general della a Senaxu Paxá, hermano de Rusta Paxá su yerno, y assí a los otros capitanes que con él uviessen de ir en ella; y para ponerlo en efecto el Turcho mandó hazer para el armada muchos bizcochos y otras provisiones en Lepanto, que es en la probincia de la Morea, que por otro nombre llaman Peloponesio, por ser muy fértil y abundosa de todas provisiones, y que de cada un pequeño lugar de la Notolia se sacasse un honbre para que sirviesse al remo, y que se juntasse mucha munición de pelotas y pólvora y se fuesse a los lugares de la costa del mar Mayor por artillería de la que avía mandado llevar y tenía en guarda dellos por lo mucho que le fatigava el sophí, y que, porque el mesmo sophí no se desmandasse a hazerle daño, sabiendo la ausencia del armada, en el galeón de Barbarroxa y cinco naos y parte de sus galeras, mientras el armada se juntava y los bastimentos y municiones se ponían en orden, llevassen a Alexandria doze mil genízaros con que su general tuviesse campo para resistirle, y juntar todas las galeras y maonas y llamar todos los cossarios para que aconpañassen el armada y la hiziessen más fuerte y poderosa.

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CAPÍTULO LII Cómo siendo el Emperador avisado de cómo el Turcho armava y a qué fin, mandó poner buena guarda en sus reinos y tierras y la provisión que acerca dello se hizo.

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Hecho el mandado por el gran Turcho de que sus galeras, galeón de Barbarroxa y algunas maonas y navíos se armassen, en Costantinopla, por las personas que dello tenían cargo, con gran diligencia se començó a hazer la provisión; y truxeron al puerto las galeras que divididas por la mar andavan y estavan en puertos de algunas islas, y proveerlas de mucha más artillería, municiones y bizcochos para muchos días, porque antes les sobrasse que ninguna falta se tuviesse. De cómo el Turcho mandó armar començó a publicarse, y teniendo desto sospecha que fuesse assí por la presuntuosa carta que el Emperador avía scripto, como por la toma que de África se avía hecho con fin de tornarla a recobrar o de hazer otro daño en tierras del Emperador, el visorrey de Nápoles y assí el de Cecilia para bien certificarse dello embiaron sus personas, aptas para semejante negocio, a Aragoça y otras partes, para que tomassen lengua de lo que passava, mandándoles procurasen bien informarse dello y que muy a menudo les embiassen avisos de lo que de nuevo supiessen. Los quales fueron a partes donde tuvieron nueva cierta de griegos que ivan y venían a Costantinopla cómo el Turcho armava y la diligencia que sobre ello se traía; y bien certificados dello lo escrivieron a los visorreyes, y cada uno dellos por sí lo embió a hazer saber al Emperador; y Juan de Vega le escrivió suplicándole que por quanto en aquel reino no avía infantería spañola le mandasse proveer della sin embiarle capitanes señalados, los quales él señalaría quáles a su servicio convenían; y temiendo que el armada principalmente venía sobre África y Malta y Trípol, por la noticia que tenía de los reconocimientos que Dragut avía hecho, embió a avisar dello a frey Juan de Omedes, gran Maestre de la Religión, diziéndole que pusiesse buenas guarniciones en Malta y Trípol por la suspición que se tenía de que el Turcho se començava a publicar embiava a ganar aquella isla y Trípol, para desde allí tener entrada a la christianidad, embió a mandar a don Álvaro su hijo, que por general en África avía dexado, que proveyesse como el ingeniero y soldados pusiessen toda la diligencia possible en la fortificación de la ciudad como él ya lo avía proveído, avisándole de la nueva que de la venida del

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armada se tenía y de que él la mandaría proveer de más gente, municiones y vastimientos con que muy segura y guardada de enemigos estuviesse. El qual vista su letra, dando noticia dello al ingeniero y soldados, hizo tal provisión que con lo que hasta allí se avía hecho y con que en breves días se desmocharon los torreones; e hizo otra barbacana y la hincheron de agua, y fortificaron por de dentro de un terrapleno muy fuerte, y allanaron la montañuela donde el canpo se avía sentado contra la ciudad, y derribaron los olibos del olibar, e hizieron otros reparos y fortezas con que la dexaron inespuñable. Las cartas que los visorreyes al Emperador embiaron, avisando de la nueva que del armada del Turcho se tenía, en Augusta le fueron dadas. Y siendo por él vistas, avido su consejo porque en Cecilia avía falta de buena y gruessa artillería, mandó embarcar en Malinas quarenta pieças de la que tenía en Flandes, y que la llebassen en aquel reino y pusiessen en las fuerças de Palermo y Mecina, y escrevir al príncipe Maximiliano su governador de España en ella se hiziessen quatro mil infantes, de los quales los dos mil mandasse dar paga y embarcar y llevar a Cecilia sin que llebassen capitanes, porque assí el visorrey se lo avía enbiado a suplicar, y los otros dos mil para guarda de Mallorca, Córcega y Cerdeña y La Goleta; y porque para la guarda y defensa de la ciudad de África convenía y era muy necessario poner en ella general conocido y aprovado, assí por fiel como por esforçado y valiente, aunque tal era don Álvaro que estava en ella, enbió a mandar a don Sancho de Leyba, su alcaide de Fuenterravía, que como su carta real viesse, sin dilación alguna entregasse la fuerça a don Diego de Carvajal, señor de la villa de Xódar a quien señalava por alcaide, y él se embarcasse para África, donde su merced y voluntad era le fuesse a servir; y mandó escrevir a los virreyes de Nápoles y Cecilia que hiziessen fortificar las tierras flacas y pusiessen buenos presidios y guarniciones en todas las fuertes, de manera que si el armada turchesca a ellas fuesse a hazer daño hallassen tanta resistencia que no lo pudiessen esecutar ni apoderarse de ninguna; y si para la paga de la gente de guerra y fortificaciones que hiziessen conviniesse tomar dineros a cambio los tomassen sobre su real patrimonio, lo qual todo tenía por bien porque sus súbditos y naturales no padeciessen y que en todo mirassen lo que al su servicio de Dios y suyo y bien universal de sus vassallos convenía, porque de lo contrario se desserviría mucho. Esto proveído se embarcaron las quarenta pieças de artillería en Malinas y llevaron para Cecilia, y vistas las cartas del Emperador por el príncipe

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Maximiliano y don Sancho de Leyba cada uno dellos las obedesció, y en cumplimento della don Sancho se desocupó y embarcó, y tomó tierra en Génova, donde besó las manos al sereníssimo príncipe de España que para ella bolvía, y tornó a embarcarse en una galera y llevó la vía de Nápoles y Cecilia para ir desde allí a África. Y el príncipe señaló capitanes a los quales mandó hazer la gente en las ciudades de Toledo, Valencia, Murcia, Alicante y Cartagena, y como fueron hechos mil y dozientos hombres señaló por Maestro de Campo dellos y de los que más se avían de hazer a un cavallero navarro llamado don Juan Pinelo, al qual mandó les tomasse la muestra y, dada la paga, los hiziesse enbarcar y guiar para Cecilia y La Goleta. El qual efectuándolo los mil enbarcó en dos naos en Cartagena, y con los capitanes los mandó navegar a Cecilia, y los dozientos en otra para La Goleta; y él por agosto embarcó otros ochocientos en otras dos naos en la playa de Valencia y fue en Alicante, y de allí con ellos el viaje de Cecilia. Los despachos del Emperador llegaron en Nápoles y Cecilia, y vistos por los visorreyes, y lo que les enbiava a mandar y la noticia que ya muy más cierta tenían por las personas que avían embiado a tomar lengua del armada cómo se traía gran diligencia en proveerla, y se dezía que con designio de tomar a Africa, Malta y Trípol, y apoderarse en la Berbería, començaron a hazer las provisiones en esta manera: que ante todas cosas el visorrey de Nápoles mandó al capitán Juan de Vergara, a quien al Emperador con parte del artillería de la que avía ganado en Alemania al reino avía embiado por persona sabia, de gran recaudo y muy diligente, visitasse todos los castillos del reino y los hiziesse proveer de municiones, bastimientos y gente de guerra, y todo lo que más conveniente le paresciesse, mandándole para ello dar provisión muy complida y bastante, y adereçar y encavalgar el artillería de Castilnovo y Sanct Elmo, y hazer mucha quantidad de pólbora; y por su propia persona visitó los muros de la ciudad, y mandó repararlos y poner en ellos el artillería que la ciudad tenía en Sanct Lorenço y fortificar el arrabal de Chaia para guardar los moradores que bivían en él y para que por allí, aunque el armada viniesse, no pudiesse entrar a danificar la ciudad; y que se llebassen al castillo de Vaya, que está ribera de la mar cerca de la ciudad de Puçol, diez y ocho pieças de artillería, y lombarderos y soldados para guardarle, e mandó avisar a todos los lugares que estavan en la costa estuviessen muy avisados y recatados para que engaño y daño del armada no rescibiessen, porque se dezía en Constantinopla se hazían muchas calças y jubones de color amarillo para que los turchos vistiessen a la usança de

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soldados spañoles, y avían de venir con coseletes y arcabuzes y traer en algunas galeras las armas imperiales y reales de España; y que ningún armada a los puertos dexasen llegar si primero no conociessen ser del Emperador, viendo al príncipe Andrea Doria en ella o a otros capitanes conocidos. Y para mejor guarda del reino mandó que mil y quatrocientas lanças se repartiessen en esta manera: que el conde de Altamira su yerno, que a la sazón estava en el reino, fuesse con las trezientas a Pulla, y el marqués de Trevico con otras trezientas a tierra de Otranto, y el conde de Populo con otras trezientas a Calabria, y el conde de Sarno con dozientas, y don Francisco de Tovar con otras trezientas, todos los quales y cada uno dellos anduviessen requiriendo las costas y socorriendo donde viessen nescessidad; y mandó tocar atambores en la ciudad y hazer seis mil infantes italianos y señaló los capitanes, y les mandó dar paga y repartió assí: que a Fabricio Piñatelo mandó ir con quinientos soldados para guarda de la ciudad de Cotrón y a Fabio Ayosa a Tropea con trezientos y a Haníbal de Genaro a Rijoles y llano de Terranova con seiscientos, y a Juan Pablo Piernacorta a La Mantea con trezientos, a Fabio Brancacho a Vijela con trezientos, a Marcho Anthonio de Lofredo a Bríndez con mil, a don Pirro Castriote a Galípoli con dozientos, a Artuso [sic] Papacoda a Vari con quatrocientos, a Juan Thomás Garrafa a Monópoli con quinientos, a don Jorge de la Noya a Otranto con quatrocientos, al conde de Lauro a Taranto con seiscientos, con que se cumplió el número. E mandó a percebir todos los príncipes, duques, condes, marqueses, varones y cavalleros que podían servir estuviessen con sus vassallos y criados a punto de guerra, para si conviniesse defender el reino, siendo llamados fuessen a servir al Emperador dónde y cómo se les mandasse; y mandó saber y registrar todos los cavallos que de alquiler y trabajo en poder de personas que con ellos ganavan estuviessen, para que si conviniesse embiar arcabuzeros a cavallo a socorrer algunas partes y pueblos lo pudiessen hazer con brevedad. Y sabido que avía número de siete mil mandó que sin su licencia y mandado ninguno pudiessen sacar de la ciudad, y assí hizo otras maravillosas provisiones con que en muy breve espacio puso gran guarda en todo el reino. Pues el visorrey de Cecilia con gran diligencia mandó fortificar la ciudad de Mecina, y porque temiendo mucho al armada la mayor parte de los moradores della la desamparaban y se ivan a otras tierras que por más seguras y fuertes tenían, mandó publicar por vando que, so pena de la vida y perdimiento de bienes, ningún spañol saliesse del reino ni ceciliano vecino y

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morador de la ciudad, aunque sus mugeres y hijos se fuessen, y entrar en ella los soldados spañoles que avía y muchos escopeteros cecilianos, y juntar de la ciudad y su tierra quatro mil hombres y començarla a fortificar a muy gran furia, assí ella como otras tierras. Pero aunque vandos muchos se avían echado, estimando muchos más las vidas que las haziendas, según temerosos y amedrentados estavan, no querían estar en la ciudad; y como de cada día la nueva del armada iva creciendo, el visorrey mandó que la gente del reino que en lugares y tierras flacas stavan, con sus haziendas se passassen a los fuertes y bien proveídos, y que recogiessen en una tierra llamada Lentín, aunque falta de muros y castillo por estar sitiada en una alta y fuerte montaña, todos los vezinos de la comarca, y hazer gente assí de pie como de cavallo, y guarnecer las fronteras tierras marítimas de guarniciones, poniendo en guarda dellas las personas ilustres e intituladas por mejor guarda con artillería; y puso gran recaudo en los castillos y apercibió los más señores de título, varones y cavalleros para que estuviessen a punto de guerra como convenía para defender y servir; e señaló capitanes de perrochias de todos los pueblos donde se sospechava que el armada podía llegar, a los quales mandó acudiessen los ciudadanos para hazer la resistencia; y mandó juntar toda la cavallería y las guardas, e hizo hazer muchos preparatorios en Mecina, Palermo y en todas las otras ciudades y villas del reino, y poner en el Puerto de Mecina todas las naos, navíos, vaxeles, fragatas, barcas y esquifes, juntos y encadenados unos con otros a manera de trinchea y canpo cerrado, con la artillería en orden y por los costados para jugar en la defensa; y como eran muchos y los árboles dellas muy altos y espesos, parescía un grande y muy hermoso bosque. Y proveyó que Hernando de Vega, su hermano gentil hombre, de la boca del Emperador, como capitán de gente de armas tuviesse cargo de ocurrir a la defensa do conviniesse y fuesse nescessario, y para que todo fuesse más bien proveído y socorrido uviesse gente en campaña como el armada se viesse fuera de Lebante; y por animar y esforçar los cecilianos escrivió al visorrey de Nápoles le diesse una vandera de infantería española y mandasse hazer otras para socorrerle; y assí escrivió a don Diego de Mendoça, embaxador del Emperador en Roma, dándole noticia de lo que en Cecilia passava y encargándole que en Roma tuviesse forma cómo se hiziesse alguna gente para el efecto ya dicho. E por ambos visto, assí en Nápoles como en Roma se tocaron atambores y se començó a hazer; y porque de gente tenía mucha falta, el visorrey de Nápoles tuvo por bien de perdonar a Camilo de la Mónaca, gran omiziano que condenado a pena de muerte por

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muchos delitos stava, specialmente por lo que avía desservido en la alteración de Nápoles, porque juntasse todos los más omizianos para ir con ellos a Cecilia a servir.

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CAPÍTULO LIII Cómo los venecianos embiaron a pagar sus guarniciones y cómo Dragut, pensando aver el dinero que llebavan, combatió un galeón y lo que suscedió.

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Los venecianos, que contino sospechosos y muy recatados en todas sus cosas son, tenían gran miramiento en sus castillos de Corfo, y assí en Exío y otras guarniciones. Y como para los quinientos honbres que de nuevo avían enbiado, como para los que más en las fuerças tenían, no avían proveído de dineros para pagarlos, acordaron que se les llebasse cien mil çenquinas de oro de valor de catorze reales cada una; y para que en salbamento fuessen a poder de sus pagadores sin que Dragut, de quien se temían, ni otro ningún cossario del dinero se apoderasse, mandaron adereçar, fortaleçer y proveer de gente, artillería y municiones un fuerte y muy hermoso galeón que tienen; y siendo bien adereçado qual para semejante jornada convenía, entregado el oro que avía de llevar al capitán, y mandándole que fuesse muy avisado y recatado para saberse guardar de Dragut y de otros que ofender le pudiessen, le despidieron; y él mandó alçar velas, y llevando el viaje derecho de Corfo començó a navegar con próspero tiempo. Dragut, que en ninguna parte jamás reposava, como honbre que stava muy lastimado, y todo su pensamiento era en pensar cómo hazer saltos hora en amigos o enemigos, donde le tomava la noche no le amanecía el día; y teniendo noticia por sus vergantines que traía, descubriendo del dinero que los venecianos embiavan y para qué, pensando hazer la presa tan importante para ayuda alguna parte de su gran pérdida, aviendo día y medio mavegado le salió al passo con toda su armada; y viéndole el capitán veneciano y conociéndole por quien era, porque aunque se dezía el Turcho embiava su armada a tierra de christianos se sabía aún no avía partido de Constantinopla, con gran diligencia apercibió todos sus artilleros, marineros y soldados; y avisándoles cómo a todos convenía pelear para guardar y defender lo que se les avía confiado, y assí sus personas por lo mucho que en ello les iva. Y con estas palabras que les dixo puso toda la gente en arma y con ánimo de morir sobre hazer su dever. Pues Dragut, que furioso y cobdicioso venía assí de hazer mal y daño en christianos como de robar el thesoro, aviendo dicho y amonestado a sus turchos lo que devían hazer para salir con la presa, llegando a tiro de cañón

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començó a representar la batalla al galeón, mandándole lombardear de sus galeras y assí de las otras galeotas y fustas, dividiendo toda su armada en quatro partes para que por ninguna vía se le pudiesse ir. Mas del galeón le començaron a responder no con menos diligencia y presteza, disparando tanta de artillería de que mucho le hizo maravillar; y defendiéndose y haziendo todo el daño que en el armada podía, el capitán mandava navegar con tal destreza y maña que los marineros no dexavan de guiarle y seguir su viaje como si no conbatieran, y los artilleros haziendo su oficio, y él con los soldados repartidos por todas las partes por do el galeón se avía de guardar; y como llegaron a juntar muy cerca y las más pelotas de artillería que en el galeón davan eran rezias y muchas, començaron a maltratarle y matar y herir algunos de los que ivan en él. Y lo mesmo rescibía Dragut, puesto que muy pujante y poderoso stava y hazía todo su poder por defender que el galeón no navegasse, paresciéndole que teniéndole firme muy más presto le haría rendir y se aprovecharía dél. Y assí, sin poder llegar a pelear de manos, anduvieron largas ocho horas hasta que vino la noche, pero no por esso Dragut perdió la voluntad de combatirle, porque antes temiendo se le fuesse con muy mayor diligencia que en todo el día le dava la batalla. Y como la resistencia que del galeón se le hazía era grande, puesto que aquella noche algunas vezes junto con él no se atrevió a entrarle, y assí anduvieron hasta la hora del alva que, como si de nuevo la batalla començaran, assí se jugava el artillería, escopetería y flechas por ambas partes, los unos por entrarle y los otros por guardarle y defenderle; y assí combatieron tres días y tres noches arreo sin parar, de tal manera que los unos y los otros andavan tan cansados que no se podían tener ni mandar. Pero como el galeón avía sido y era muy batido y combatido, se conocía ya andava en mucho peligro, porque se le ivan acabando las pelotas para tirar y la pólbora para cargar y el aliento a los marineros para governarle, y demás estava tan roto y destroçado y por tantas partes mal tractado que, si Dios no le ayudara y socorriera con su divina providencia, no pudiera dexar de venir a poder de Dragut y el thesoro y gente para que como señor de todo se apoderara dello. Y estando en esta tribulación el capitán y soldados y Dragut, pensando que no se le podía escapar sobrevino un aire dando por popa al galeón, que como un torvellino muy rezio, o como una presta saeta, començó a navegar con tanta furia assí mal tractado como stava, que fue cosa de gran spanto, y se salió de en medio de toda el armada sin que le pudiessen resistir y se le fue dexándole muy burlado, y con salbamento sin hallar otro ningún

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rebés fue en Corfo, donde se reparó y adereçó. Y viéndose el capitán allí dio muchas gracias a nuestro Señor, y Dragut, que todavía le avía seguido, perdida la esperança de averle quedó pelándose las barbas y renegando de Mahomad, porque assí le desfaborecía y con harta pérdida del daño que en sus navíos le hizo, sin la mucha munición que gastó.

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CAPÍTULO LIIII Cómo el armada del gran Turcho fue junta en Constantinopla y lo que sobre la orden que avía de llevarse acordó.

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Pues cómo la diligencia que en juntar el armada del Turcho por su mandado se traía era mucha, en el puerto de aquella ilustríssima ciudad de Constantinopla, por quien tantas prósperas y adversas fortunas avía passado, fueron juntas ciento y diez galeras reales y el galeón de Barbarroxa, que de buelta de llevar los genízaros a Alexandria era venido, y una maona y otro galeón, y teinta velas latinas de cossarios que allí por mandado del Turcho se avían juntado, que por todas eran ciento y quarenta y tres velas; y como todo fue junto y avía dos meses que el gran Turcho no se mostrava a los geníçaros, y tiene obligación el viernes de cada semana de mostrárseles para que le vean y reconozcan y sepan que bive, como veían juntar tan gruesa armada, temiendo que con alguna maña o cautela se juntase siendo él muerto, pidieron en el palatio si bivo era se les dexasse ver, porque quanto a aquello no querían perder su preminencia y libertad. Y pedido y requerido assí a los paxás y dádole parte dello, combino lo hiziesse para sosegarlos y quietarlos; y como quietos y pacíficos estuvieron, el gran Turcho mandó juntar sus paxás, a los quales habló diziéndoles que ya sabían cómo su voluntad avía sido y era que su armada fuesse a tierras de christianos, specialmente como acordado tenía a apoderarse de Malta y Trípol de Berbería y África, o otro algún puerto en Nápoles o Cecilia, que mirasen la orden que para ello se llebaría y en todo lo que más les paresciesse. Oído por los Paxás y aviéndolo con él mesmo comunicado y consultado, le respondieron que ante todas cosas su Magestad devía mandar ir en el armada doze mil hombres de guerra, geníçaros, spaquís y lebentís y de otra gente la que mejor le paresciesse, y que en qualquiera parte donde presa uviesse el General de hazer, solamente echase en tierra los seis mil, dos mil geníçaros y mil y ochocientos spaquís y mil y dozientos lebentís y mil otros turchos; y que los otros seis mil quedasen en guarda del armada, porque el Emperador por alguna orden o manera no sabida ni pensada hiziesse daño en ella; y que se llebasse en el galeón de Barbarroxa, pues era muy fuerte y poderoso, mil geníçaros y sessenta cañones de batalla, y trezientos otras pieças de artillería, entre medias culebrinas y sacres y gran quantidad de pólbora y pelotas y otras municiones; y que en la maona fuessen quatro mil sillas de cavallos y otros tantos frenos y

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mucho número de açadas y palas, y otros instrumentos de guerra; y en otro pequeño galeón que avía muchos maderos gruesos para hazer gaviones, para que, yendo de todo lo nescessario bien proveída, si conviniesse sitiar o batir alguna tierra o escalarla o aver menester cavallos se hallassen con todo el aparejo; y que, para que mejor y más acertado el negocio fuesse, el general no proveyesse ni se dispusiesse a ninguna cosa sin consejo y parecer de Salarráiz y Dragut, por ser como eran hombres sprimentados en cosas de mar, y porque yendo guiado, acordado y proveído por su parescer no se erraría en ninguna cosa; y que esto le parescía devía mandar proveer. Oído por el Turcho lo aprobó y mandó embarcar la gente, y que se fuesse por el artillería, municiones y las otras cosas ya dichas como se avía platicado, y partir el general con el armada a Nigroponte y escrivir a Salarráiz y Dragut que con sus galeras y navíos se fuessen a juntar con ella allí, para que entre ellos comunicado llevassen el viaje que más acertado les paresciesse. E porque nueva no se divulgasse entre turchos ni llegasse a noticia de christianos esclabos ni se supiesse a qué parte ivan, mandó a los paxás tuviessen en secreto del negocio, y que por escripto de su real nombre firmado y sellado con su imperial sello se le embiasse al general, para que allí tuviesse la orden de lo que avía de hazer, con su espresso mandado de que no le avriesse hasta que fuesse en La Previça, y que aviéndola visto la observasse y guardasse sin faltar en cosa. Y hecho el mandato con gran diligencia fue todo proveído, y besándole el general las manos se despidió dél y de la çultana y de Çultán Celim y de Rusta Paxá su hermano, y assí de los otros paxás y amigos que tenía; y con todos los cavalleros turchos de qüenta que con el armada avían de ir se embarcó, y tocando clarines, dulçainas y gaitas mandó alçar velas, y disparando una gran salba de artillería salió del Puerto de Constantinopla y començó a navegar la vía de Nigroponte, donde, sin suscederle ningún revés, llegó; y assí hizo Salarráiz desde a pocos días. Al qual el paxá rescibió muy bien, y quedaron aguardando a Dragut. El qual, paresciéndole que sus desseos se le venían a cunplir, con grande alegría rescibió la carta del gran Turcho, y obedesciéndola con todo acatamiento en cunplimiento della mandó guiar a sus marineros la vía de Nigroponte, donde viendo el armada imperial quanto a media milla la mandó saludar con toda el artillería de sus galeras y navíos; y conosciéndole el paxá y Salarráiz le mandaron responder de la mesma manera, y hízose una salba tan grande y larga que cosa maravillosa fue de oír según las muchas y muy gruessas pieças se jugaron.

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Hecha la salba por ambas partes, Dragut llegó a juntar con el armada, y salió de su galera en un pequeño batel y fue a la galera capitana del paxá para verle y hablarle. El qual con Salarráiz y los otros principales que con él stavan le salió a recibir a la puente della, y con gran regozijo comieron juntos en señal de grande amistad y hermandad.

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CAPÍTULO LV Cómo llegó al paxá la orden de lo que avía de hazer y cómo se avía de governar; el qual tuvo consejo con Salarráiz y Dragut y a lo que se determinaron y proveyeron.

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Teniendo por entendido el gran Turcho a qué tiempo Salarráiz y Dragut estarían juntos con su armada, mandó despachar su correo y que en una fragata, con la orden que avemos hecho mención la llevasse a su general y le dixesse que en todo la cumpliesse y guardasse sin faltar en ella ni esceder en punto. La qual siendo por él rescibida mandó juntar en su galera a Salarráiz y Dragut, y algunos sanjaques y otras personas de qüenta; a los quales dixo que la Magestad del gran señor le mandava que sin su consejo y parescer de ambos ningún viaje llevasse ni cosa intentasse, y que, pues en aquella imperial armada estava allí con fin de hazer alguna cosa señalada contra christianos, que mirassen la vía que tomarían y cómo harían los negocios de manera que sirviessen a Mahomad y al gran señor y ellos ganassen honra; y que si les parescía llevassen el viaje de África y contra ella hazer su dever por conquistarla y ganarla. Oído por Salarráiz y Dragut se combidaron quál dellos al paxá respondería; pero como más antiguo criado y servidor del Turcho, Dragut le rogó que le respondiesse y dixesse su parescer, y assí Salarráiz dixo: «Bien sé, señor Senaxú, que sobre lo que agora os quiero responder muy mejor que yo os pudiera Dragut informar, porque como honbre que a África tiene bien vista y mejor reconocida en todo pudiera dezir. Pero mirando los negocios cómo se deven para bien y provecho nuestro y servir como desseamos al gran señor, devemos considerar que, quando Dragut tenía por suya, aquella ciudad era muy fuerte, y fue muy costosa de ganar a los christianos, porque en ella se perdieron muchos. Y como por cosa cierta se sabe después acá que el Emperador por suya la tiene la ha mandado fortificar y proveer y bastecer de gente, municiones y vituallas, de tal manera que deve ser inspunable, y tengo por impossible que con el armada que llebamos la pudiéssemos ganar. Y por esto no conviene que vamos a sitiarla y cercarla, porque, demás de la poca honra que en ello ganaríamos, recibiríamos total perdición y daño, y con mengua y afrenta nos convernía alçar el cerco y tomar otro designio; quanto más que la ciudad no tiene puerto donde el armada pueda estar segura sino una playa muy rezia y furiosa donde ay muy

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continuas y ordinarias tormentas que todos los años comiençan por el septiembre, y, si en ella nos tomasse, bastaría para perderla y nuestras personas, y porníamos en condición de perder los stados del gran señor perdiéndola por ser ésta una de sus potencias y muy stimada, porque con saber que la tiene no ay príncipe ni señor christiano que a sus tierras le ose venir a enojar. De mi parescer, siendo el vuestro, sería que proveamos el armada de bastimentos y artillería, y llevemos el viaje de las costas de Nápoles y Cecilia y, según la ocasión halláremos y viéremos el aparejo, assí pensaremos en dónde nos podamos mostrar y señalar». Pesándole mucho a Dragut de lo que a Salarráiz oyó, porque todo su desseo era que el armada fuesse contra África para tornarla a recobrar, aunque bien claro conoció que tenía mucha razón en lo que dezía, lo quiso contradezir diziendo: «Señor Salarráiz, verdad es que África fuerte era quando yo por mía la tenía; y agora que la tiene por suya el Emperador fuerte será, mas no es tanto inespunable que batiéndola y combatiéndola no la pudiéssemos ganar. Vamos sobre ella y sitiémosla, que yo sé que no ay en ella ochocientos christianos de guerra que la defiendan, y dándole baterías muy rezias y fuertes, como ningún socorro les puede venir que pueda estorvarnos, por fuerça o de grado se nos rendirán». Aviendo oído el paxá lo dicho por Salarráiz y replicado por Dragut, y entendido lo que otros allí dixeron, dando más crédito a Salarráiz que a otro dixo que le parescía Salarráiz devía ir a los lugares de la costa del Mar Muerto con treinta galeras por artillería, y que él con el armada iría a la Morea a proveerse de bastimentos, y, aquello hecho, tornaría a pensar más en el negocio. Y venidos en este acuerdo, Salarráiz partió con las treinta galeras por el artillería, y el paxá con Dragut y toda el armada a la Morea; y aviéndose cada uno proveído de a lo por qué iva de allí a pocos días se tornaron a juntar en la Previça, donde el paxá avrió la orden del Turcho y la mostró a Salarráiz y Dragut; y por todos vista y sobre ello comunicado y consultado, se determinaron que por estonces no se fuesse a cercar la ciudad de África hasta que uviessen costeado a Nápoles y Cecilia, y tomado a Malta y Trípol. Y con esta determinación llevaron la vía de la costa de Nápoles.

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CAPÍTULO LVI Cómo el gran Maestre de la Religión puso guarda en Malta y lo que proveyó para El Gozo y Trípol.

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Publicada la nueva de cómo el armada turchesca venía muy pujante y poderosa y el fin que traía, tuvo dello noticia el gran Maestre de la Religión de la orden de Sanct Juan, llamado frey Juan de Omedes, cavallero aragonés. El qual para proveer en el remedio de la guarda de Malta mandó juntar los cavalleros que en la orden se hallaron, specialmente a los de la Gran Cruz con quien acostumbrava tomar consejo. A los quales hizo una plática diziendo assí: «Vailíos, priores, almirallo, cavalleros, por nueva muy cierta avemos tenido y tenemos que el gran Turcho, enemigo y desservidor del nombre de Jesú Christo nuestro Señor, a quien él por su infinita bondad destruía y a todos los infieles que su mala secta guardan y observan, embía una poderosa armada para hazer mal y daño en los christianos; y según somos avisados para hazerlo principalmente en nós, con fin de nos ganar la nuestra ciudad de Malta y castillo della, y assí toda la isla con Trípol de Berbería, y por que a nós conviene guardarlo y defenderlo para no ser despojados y desheredados como fue nuestro antecessor frey Phelipo de la isla de Rodas, por donde después acá nos avemos visto y vemos en grandes nescessidades y trabajos, siendo dél muy perseguidos mayormente de Dragut, malo y crudo cossario que viene con ella por consejero del paxá Senaxú, general del armada. El qual le persuadirá e incitará a que nos haga todo mal y daño por vengar la muerte de su hermano, que en la nuestra isla del Gozo agora un año murió. Pues a nosotros toca nunca tener paz ni tregua con ellos, antes hazerles guerra perpectua, pues no an querido ni quieren venir en el verdadero conoscimiento de nuestra sancta fee cathólica, pensad qué provisiones haremos como esta isla, que por nuestra casa y morada tenemos, la guardemos de manera que no la perdamos, porque a perderla, si por nuestros pecados acaesciesse lo que Dios no permita ni consienta, por impossible tengo que otra hallássemos, porque el Emperador, que della nos hizo merced, si diéssemos della mala cuenta no nos daría otra, diziendo que ésta no supimos guardar, pues pensar que otro príncipe christiano nos dé donde avitar cierto soy que no lo hallaremos, según la espiriencia que tenemos desto a cuya causa nuestra sancta religión se podría perder».

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Oído por los cavalleros lo començaron a comunicar y tractar, y aviendo sobre ello bien pensado le respondieron que convenía y era muy nescessario que su Señoría Ilustríssima y Reverendíssima mandasse poner buena guarda en la ciudad, como en el castillo y en la isla del Gozo y Trípol. E por que en la isla del Gozo avía muchos viejos y assí mugeres casadas, como donzellas, vírgenes y otras criaturas, las devía mandar salir de allí y passar a tierra fuerte y segura donde estuviessen sin temor del armada y poner en el castillo de la isla, y assí en Malta y Trípol, tales personas que las supiessen guardar y defender con buena guarnición de gente de guerra, y que estuviessen muy bien proveídas y bastecidas de mantenimientos, vituallas y municiones, porque si por algún spacio de tiempo las tuviessen cercadas o qualquier dellas se pudiessen entretener de manera que no se apoderassen dellas, porque el armada sólo aquel verano podría costear la mar y al fin dél se bolbería a Constantinopla, y que en el castillo devía estar su Señoría Reverendíssima con dos mil hombres de guerra y tres mil en Malta con la persona que señalasse, y en la villa del Gozo, que era un lugar de trezientas casas, los que le paresciesse, y assí en Trípol. Y paresciéndole bien al gran Maestre, mandó que en el castillo quedassen con él quinientos cavalleros de los más antiguos que eran de consejo y podían pelear mejor, y entrar mil y quinientos arcabuzeros assí de soldados y otros que de la Religión llebavan sueldo, como de gente de la isla, que por todos fuessen dos mil; y que en Malta fuesse governador y general frey Jorje Adorno, prior de Nápoles, con tres mil honbres de la tierra, por ser persona suficiente de quien se podía bien confiar la guarda della, y gastadores para más fortificarla; y que los de la isla metiessen en ella sus mugeres, hijos y haziendas, y que al Gozo fuesse un cavallero aragonés llamado Sesse con trezientos honbres, y que las mugeres y niños passassen a Cecilia, y que en Trípol se quedasse un cavallero francés llamado el marichal Chambarí, pues por ancianidad le pertenescía aquel cargo, al qual luego se embiassen quinientos hombres para que, con seiscientos y mil moros de paz que dentro avitavan, era número bastante para defenderse; y por que no avía tanto trigo quanto era nescessario, se fuesse por una nao dello a Cecilia para bastecer assí el castillo como la ciudad. Y proveído esto, mandó que se llevassen a Trípol en las galeras de la Religión trezientos soldados; y escrivió al marichal Chambarí, que confiando él dél y toda la Religión la guarda de aquella tan importantíssima fuerça como era Trípol, le encargava y mandava que en ella tuviesse todo buen recaudo adereçando su artillería y municiones, pues tenía mucha y muy buena para

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guardarla y defenderla del armada turchesca si contra ella fuesse; y que de ninguna manera ni por ninguna vía se diesse a ningún pacto ni conveniencia sino que antes, defendiéndola, peleando muriese él y todos los que dentro estavan, pues avía cavalleros assí españoles como italianos y franceses, y soldados que se la ayudarían bien a defender, quanto más que antes que el armada viesse, demás de la gente que para la guarda le embiava, le embiaría otro socorro; y que en todo le mandava y encargava mirasse la gran confiança que dél se hazía y lo que devía, a quién era y a su professión, y a no deshonrar y afrentar a su religión. El qual recibió los soldados y la carta del gran Maestre, y visto lo que le escrivía, mostrando muestra de buen alcaide y governador, hizo poner muy mayor recaudo que hasta allí en el castillo, y hazerle mejor guarda y vela, y poner en toda buena orden el artillería y municiones para, si menester fuesse, hallarse apercebido. Como el General de la Religión echó en tierra la gente que llebava bolvió para Malta, donde el gran Maestre fue bien recibido, y le mandó ir a Cecilia para que della le llebasse algunas municiones y provisiones.

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CAPÍTULO LVII Cómo el visorrey de Cecilia embió por la gente que al visorrey de Nápoles y embaxador del Emperador embió a pedir, y cómo le llegó gente spañola y lo que proveyó para África y lo que sobre ello suscedió.

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Teniéndose como de cada día se tenía más cierta nueva del armada turchesca por los visorreyes de Nápoles y Cecilia, y que traía ciento y cinqüenta velas entre galeras, galeón, maona, nao y velas latinas, para mejor guarda de la ciudad de Nápoles el visorrey señaló capitanes a los quales mandó hazer quatro mil hombres; y con diligencia hechos les mandó dar paga y estar en la ciudad. Y llegado a noticia de los visorreyes de Cerdeña y Mallorca lo mesmo se proveyeron y prepararon lo mejor que pudieron, de manera que se pudiessen resistir las tierras de los reinos. Pues el visorrey de Cecilia, que más tenía que proveer del reino, mandó a don Berenguel que con las galeras partiesse a Nápoles y a las otras partes donde la gente que avía embiado a pedir se avía de hazer, y la llevasse con diligencia al reino; y embió a pedir al visorrey de Nápoles le embiasse al marqués Anthonio Doria con sus galeras, para que con ellas y las de Cecilia pudiesse proveer la ciudad de Africa de más gente, artillería, municiones y vituallas; y lo mesmo escrivió al marqués, diziéndole fuesse luego en aquel reino para aquel efecto, porque assí cumplía al servicio de su Magestad y para la buena guarda y conservación de Africa. El qual se embarcó y llevó el viaje de Nápoles, y en ella llegado dio su despacho al visorrey. El qual mandó que Camilo de la Mónaca se embarcasse con la conpañía de omizianos que le avía mandado hazer, y otras que se avían hecho en el reino, y otras tres que de alemanes, romanos e italianos se avían hecho en Roma y otras partes que los capitanes aguardavan con ellas en Terrachina, tierra del Papa. Y assí el marqués y don Berenguel con las galeras fueron en Terrachina y en la Torre del Griego, y los embarcaron y llevaron a Cecilia, con que el visorrey puso mejor guarda en el reino. Continuando el capitán, que con los dozientos soldados llebava la vía de La Goleta, con la mayor diligencia que pudo fue en ella; y llegando junto de la fuerça mandó hazer salba de la nao, y, conociéndola por de christianos, don Alonso de la Cueba general la mandó saludar con dos tiros de la fortaleza. Y siendo la nao surgida y los soldados en tierra, al capitán y a ellos rescibió muy bien y mandó embarcar en la mesma nao ciento y sessenta

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soldados de los que en La Goleta estavan, y muy desseosos de salir della por lo mucho que avía que la avitavan, y guiarlos para Mecina donde del visorrey fueron muy bien rescebidos. Y los mandó entrar en guarnición en Mecina, con que mucho ánimo y esforço los ciudadanos, según temerosos como avemos dicho de la venida del armada turchesca estavan. Los capitanes que con los mil hombres para Cecilia ivan, con algunos malos tiempos de mar que tuvieron, tardaron veinte y ocho días, y fin dellos, día de Sanct Juan llegaron a Trápana. Y sabido por el visorrey, mandó a don Berenguel que con las galeras fuesse por ellos y los llevasse a Mecina, y, siendo en ella, los christianos se començaron a esforçar y perder el temor. Y de allí a pocos días llegó don Juan Pinelo con los otros ochocientos, que avía passado mucho trabajo con las muchas calmas que avía tenido, a cuya causa avía tocado en Mallorca, donde avía estado ocho días y otros tantos en Cerdeña aguardando a que el tienpo fuesse mejor. E viendo los cecilianos el reino proveído de guarnición española quedaron muy contentos y dando muchas gracias a Dios y al Emperador por el cuidado que tenía de guardarlos. De los quales el visorrey mandó entrar en Mecina para mejor guarda alguna quantidad dellos, y en guarnición en lugares del contorno y puertos para el mesmo efecto. Y como el visorrey tuvo esta gente para mejor proveer a Africa, en Mecina mandó enbarcar en quinze galeras, assí de Cecilia como del marqués Anthonio Doria y de Mónago, Cigala y del marqués de Terranova y otras, dos mil hanegas de trigo y ocho pieças de artillería y mucha munición de pólvora y otras vituallas; y al capitán Atiença con dozientos soldados españoles de los que nuevamente de España avían venido, y otros capitanes con mil italianos de los que de Nápoles y Roma le avían embiado. Y como todo fue embarcado, a los veinte y ocho de junio, que el día hazía muy claro y sossegado y el cielo estava limpio y muy sereno, lo mandó llevar a Africa a don Alvaro, que por general avía dexado, con que tuviesse mejor guarda en la ciudad. Los quales despidiéndose dél començaron a navegar el viaje yendo en conserva las quatro galeras de la Religión que ivan a Malta; y con buen tiempo navegaron aquel día hasta la noche que llegaron a Cabo Páxaro ochenta millas de allí, y luego la mar se alteró de tal manera que por fortuna les convino allí estar tres días; y como nunca la mar se sossegava y en el cielo parescía señal de fortuna y de ninguna bonança, el marqués quiso navegar adelante; y reconosciendo don Berenguel y algunos marineros el mal tiempo que se sospechava avía de venir se lo quisieron estorvar diziéndole

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que convenía cessar la navegación hasta que el tiempo se segurasse, porque podrían verse en alguna nescessidad donde se perdiessen a sí y lo que llebavan, y que se perdería más que en estar allí aguardando el buen tiempo. Y aunque el marqués conoscía tener razón en lo que dezían, les dixo que bien que assí fuesse aquello, era muy necessario continuar el viaje, porque el armada turchesca traía el viento en popa y se dezía venía a prissa, y podría ser que con designio de ganar a Africa y que por no llegar a ella con tienpo a darle el socorro se podría perder. Lo qual sería a su cargo y culpa de que Dios y el Emperador mucho se desservirían, y que por aquello no convenía sino partir luego, porque más quería aventurarse a la fortuna de la mar, porque aquella podría amansar, que dexar de hazer el socorro. Y aviéndolo assí considerado, sin que don Berenguel fuesse parte para estorvárselo, mandó a sus marineros endereçar la vía para África, llevando la vanguardia con su galera capitana, despidiéndose del General de las Galeras de la Religión que llebó el viaje de Malta. Pues siguiendo el marqués el viaje de África, passando de una isla llamada El Gozo, donde el gran Maestre de la Religión a los cavalleros de la orden que cometen algunos delitos embía a servir, a las cinco horas después del medio día se començó a rebolver el cielo y vino la noche con gran obscuridad, y del medio a baxo començaron muy rezios aires y vientos en tanta abundancia que alteró mucho la mar, y una hora antes del alva cayeron muchos temerosos y muy rezios truenos y claros relámpagos e impetuosas cometas, acompañándolos grandíssima lluvia; y juntado lo uno con lo otro movió gran fortuna, y puso a los marineros y toda la gente en grande alteración y turbación, sin saber qué proveerse para el remedio dello por muchas diligencias que sobre ello hazían. Y assí fueron siguiéndole don Berenguel y Cigala y los otros capitanes con las otras galeras con grandíssima tribulación, suplicando toda la gente christiana a Dios los librasse y sacasse de tan gran peligro, y pidiéndose confissión unos a otros, y oyéndose de penitencia como aquellos que temían ser la última hora de su vida llegada, y los turchos y moros remeros piediendo a Mahomad en quien confiavan lo mesmo, y desherrándose para cayendo en el agua hazer por salbarse. Y assí con esta grande aflición y angustia dolorosa seguían su navegación; y como los relámpagos eran muchos y muy espesos y con muy gran claridad, el marqués y sus marineros vieron tierra y conoscieron que avían navegado ciento y quarenta millas, y que estavan una milla o poco más de la isla de La Lampadosa, donde si allí con tan rezia fortuna llegaban se

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perderían. Dándose gran diligencia dieron buelta a la galera para meterse más dentro en la mar y desviarse de las rocas donde podían peligrar, y al rebolver que hizieron la galera dio con tan gran furor y presteza sobre otra de Cigala que, sin que se pudiesse guardar ni defender, la echó a fondo con todos los que en ella ivan, y ella entró más en la mar y dio dos golpes en las duras y rezias peñas y rocas que topava. Los quales sufría por ser muy rezia y fuerte, pero al tercero dio al trabés a la parte de la tramontana en medio de la mesma isla y se anegó, y quedó en tierra entre unas peñas y rocas de muy grande altura. En las quales con gran diligencia el marqués y sus marineros y otros muchos se subieron a gatas, y siete esclabos remeros salieron a nado en tierra y se escaparon, y fueron a Berbería. Y assí dieron al través otras siete galeras en que se anegó y perdió sessenta pieças de artillería con todas las municiones, vituallas y gente que llebavan, ecebto algunos pocos esclabos que, por saber bien nadar, se salbaron y fueron a Berbería. Y entre los que se perdieron, assí soldados españoles como italianos, marineros y remeros, fueron mil y quinientas personas. Los gritos, alaridos que se oían de unos que andavan a nado y otros ahogándose pidiendo socorro, con la gran tenebrura de la noche quebraran y ronpieran los coraçones de los honbres, por duros y rezios que fueran, más ay de lo que sentían, oyéndo lo tal, los que en las otras galeras corrían fortuna sperando passar el mesmo trago. Y teniéndose por perdidos hazían verdaderas muestras de devotos y fieles christianos, ocurriendo a pedir el favor del socorro divino y tomando por abogada a la Reina Soberana Vírgen sin manzilla, sacratíssima Madre de Dios, y a los gloriosos Sanctos, prometiendo botos, unos de nunca más entrar en la mar, otros de ser castos y continentes, otros de entrar a servir en la Religión y acabar allí toda la vida, otros de nunca más mortalmente pecar, les pedían le suplicassen los librasse de la fortuna y sacasse a puerto de luz. O por esta suplicación o porque Dios dello fue servido mostrando su grande magestad, benignidad, clemencia y potencia, venido el día en un instante los aires se alçaron y la tormenta se aplacó, salbándose de las quinze galeras las siete, siendo las perdidas tres del marqués, la patrona de Cigala, la califa de Cecilia, la patrona de Mónago y las dos del marqués de Terranova. Quedando don Berenguel libre del peligro dio muchas gracias a nuestro Señor; y reconoscido el daño y pérdida suscedida lo sintió mucho, y doliéndole el coraçón y el ánima de tan gran desastre, temiendo aver perdido al marqués con las siete galeras que avían quedado le bolvió a buscar, y assí a los otros que salbar pudiesse; y viéndole dónde y de la manera que stava y a

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otros marineros que se avían entretenido entre las rocas y peñas, les mandó dar los cabos de las galeras para que asidos a ellas se bolviessen a embarcar. Y viendo un esclabo del marqués, que por ser libre le dava ciento y cinqüenta ducados y no le avía querido rescatar, el gran peligro a que su señor stava, con gran osadía se arrojó a la mar por sacarle y meterle en la galera, sin que el marqués ni otro ninguno pudiesse estorvárselo diziéndole: «Señor, que un pobre esclabo tan de poco como yo se pierda haze muy poco al caso, porque de tales como yo quedan muchos y una persona como vos haría mucha falta en christianos». Y tomole a cuestas y llebole a la galera donde fue bien rescibido y mudado otras ropas con que mucho para su salud le aprovechó, según mal parado estava. Y regradeciendo mucho la buena voluntad y obras de su esclabo, le mandó muy bien vestir y dar quantidad de dineros y le dio libertad. Pues como todos los que se pudieron escapar fueron embarcados, el marqués y don Berenguel con las siete galeras continuaron la vía de África, y en ella fueron muy bien rescibidos de don Álvaro y gente de la guarnición, aunque mucho les pesó del daño y pérdida grande acaescida como lo supieron, porque la mayor parte del socorro, vituallas, bastimentos y municiones les faltavan. Dando muchas gracias a nuestro Señor, el marqués tomó tierra y mandó desembarcar la gente y trigo y cosas que de la fortuna de la mar avía escapado. Con lo qual la ciudad quedó más bien proveída y mejor reparada de lo que passava, y, fin de algún día que allí reposaron, él y don Berenguel se tornaron a embarcar y bolvieron en Cecilia, donde hallaron al visorrey con mucho pesar por la nueva que de la pérdida tenía, y lo avía embiado a hazer saber al Emperador. El qual, aunque por perderse en tiempo de tanta nescessidad lo sintió, dissimulolo, y enbió a mandar hazer otras galeras en recompensa de aquéllas: las quales se començaron. Y assí en Nápoles el marqués mandó hazer quatro para servir con ellas en lugar de las tres proprias suyas que perdió, y de allí a pocos días el visorrey y él embiaron una nao con personas pláticas en el agua donde avía sido la pérdida, para que se recobrasse la artillería que se pudiesse aver. Los quales entrando en barcas, aunque con trabajo, sacaron quarenta pieças que llevaron a Cecilia, que fue ayuda y socorro para armar algunas de las que nuevamente se hazían.

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CAPITULO LVIII Cómo el armada turchesca paresció a vista de tierra de christianos y cerca de la ciudad de Rijoles del reino de Nápoles, y lo que por el paxá se embió a hazer saber al visorrey de Cecilia.

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El navegar continuando, el armada turchesca paresció a vista de la ciudad de Rijoles, una de las de la costa del reino de Nápoles, una mañana a las nueve; de la qual el paxá, bien informado por Dragut qué tierra era, la mandó surgir en la fossa de Sanct Juan. Y vista por Haníbal de Genaro, a quien el visorrey avía señalado para guarda de la ciudad, mandó al capitán Pimentel que con diez cavallos ligeros la fuesse a reconoscer a la marina y adereçar, y poner en orden toda la gente de guerra que con él estava para resistir y proveer a lo que suscediesse. Y llegado el capitán con los cavalleros a la orilla del agua, y viéndolos el paxá, mandó a uno de los suyos que en un batel saliesse a tierra y dixesse a uno dellos que fuesse para él, porque le quería hablar, con promessa que de su persona ni de ninguno de los suyos ningún daño ni engaño rescibiría. Y dándoles el mensaje por el del batél, el capitán tuvo consejo con los de cavallo sobre si irían o no, y parescioles que no era bien hazerlo sin licencia de su capitán, y que, para que no paresciesse que usavan con el paxá de mala criança o que por temor lo dexavan, se lo respondiessen que no lo podían por aquello hazer, y assí lo dixeron al turcho del batel, el qual les replicó diziendo que, pues ninguno quería ir, fuessen a su capitán y le dixessen que el paxá le rogava que le embiasse un hombre de auctoridad, al qual él pudiesse dezir algunas cosas que importavan al servicio del Emperador. Y respondiéndole que aquello harían de buena voluntad se despidieron, y fueron para Haníbal de Genaro, que ya en orden con su gente estava, y los del batel para el paxá, y le dixeron lo que con los de cavallo avían passado. El capitán Pimentel, que con la embaxada iva, la dio a Haníbal de Genaro, por el qual oída se apartó con algunos cavalleros y capitanes para tomar acuerdo con ellos si lo que el paxá pedía se devía hazer. Y aviendo sobre ello comunicado, les paresció que era bien saber lo que quería; y para saberlo él, Haníbal señaló al capitán Hierónimo de Sanctacruz como a hombre apto para semejante cosa, y que con él fuesse un spañol llamado Puga por intérprete, como persona que sabía y muy bien entendía la lengua turchesca. Los quales fueron para el armada, y rescibiéndolos en el batel de donde la primera

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plática se avía tenido, los llevaron a la Galera Capitana del paxá. Al qual, siéndoles mostrado, hallaron como a persona de gran qualidad y auctoridad, assí en el rostro grave como en el vestido y traje de su persona y acompañamiento de sanjaques y personas de estima que con él estavan, y, muy junto a él, Salarráiz y Dragut. Y umillándosele los rescibió alegre y cortesmente, y mandó a un turcho ladino en la lengua spañola que les dixesse que para lo que allí los avía mandado llamar era para dezirles que, porque siendo el gran señor amigo con el Emperador y aviendo tregua entre ellos, el governador de aquella ciudad en nombre de su Magestad no avía ido a visitarle o embiarle algún presente, como se costumbrava hazer quando un armada real suele venir por partes semejantes; y que ya que esto no se avía hecho, a qué causa y con qué fin como si enemigos fuessen avían embiado cavallos a reconoscerlos, de que no poco se maravillava. Aviéndole bien oído, el capitán dixo al intérprete que le respondiesse que de la venida del armada en aquellas partes, por razón de la amistad y tregua que él dezía aver entre el Emperador y el gran señor no se tenía nueva ni suspición alguna, y que aviendo visto assí de súbito tanto número de vaxeles armados, por hazer el capitán, que en guarda de aquella ciudad y tierra stava lo que al servicio del Emperador su señor y de su visorrey, que en su nombre allí le avía puesto lo que devía, la avía mandado salir a reconoscer para saber si eran amigos o enemigos, pero que entendiendo, como desde estonces entendían, que el armada como de amigo del Emperador venía, sin pensamiento de ofender ni enojar sus tierras y vassallos, no perjudicando a lo que al servicio de su Magestad fuesse, el dicho capitán era en voluntad de les hazer todo plazer y que viesse si otra cosa quería o mandava que le dixesse. El paxá le mandó dezir que no, más de que, aviendo ido el embaxador del Emperador a Constantinopla y preguntádole el gran señor que por qué causa el Emperador avía roto la tregua con él con aver hecho tomar la ciudad de África y la villa de Monazter, le avía respondido que aquello no avía sido de su consentimiento, pero que él en su nonbre le prometía de se las hazer restituir con la gente que en ellas avían tomado, y recompensarle enteramente los daños que avía rescibido, y que por esto principalmente venía aquella armada con aquel efecto; y quando no les fuesse observada la promessa, esecutaría la orden y mandado que del gran señor sobre ello traía. A lo qual Sanctacruz mandó replicar al intérprete que el Emperador su señor no avía roto la tregua con el gran señor ni tal avía sido su fin, por ser como es príncipe muy considerado y verdadero, mas que Dragut, que era

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presente, la avía roto por los daños y males que en sus tierras y vassallos avía hecho, y que, por quitársele de enemigo y desservidor, sus capitanes sin su mandado ni saberlo él le avían ganado la ciudad y villa, por averse hecho dello injusta e indevidamente señor no perteneciéndole. De lo qual sintiéndose mucho, Dragut quiso bolver y responder por sí con mucha más cólera que flema, y dixo algunas palabras en su descargo a las quales el Sanctacruz le satisfizo más conplida y atrevidamente de lo que él quisiera. Y queriendo tornar a replicar Dragut, por ser palabras de enojo el paxá le mandó callar, y al capitán que dixesse a Haníbal de Genaro que le rogava embiasse una persona al visorrey de Cecilia que le dixesse que, si tenía comissión del Emperador de restituirle a África, se la mandasse entregar. A lo qual Sanctacruz le dixo que, con tanto que él prometiesse que del armada en aquella tierra no se rescibiría ningún daño en el entretanto que iva y venía el mensajero, se le embiaría a hazer saber. Y prometiéndolo el paxá, el capitán se despidió dél, y con el Puga se bolbió a Haníbal de Genaro. El qual, teniéndolo por bien, enbió el aviso de lo que passava al visorrey de Nápoles y assí de Cecilia.

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CAPÍTULO LIX Cómo el visorrey de Cecilia respondió al paxá sobre lo que le embió a pedir, y cómo el paxá dio por rota la tregua.

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El mensajero que Haníbal de Genaro enbió al visorrey de Cecilia llegó con su carta en Mecina y se la dio; y por él vista, y entendido lo que se le pedía, mandó juntar los del consejo y se la mandó leer; y pidió parescer acerca dello, aunque por cosa muy cierta sabía que embaxador del Emperador tal promessa como la que el paxá dezía al Turcho no uviesse hecho, sino que era maña y cabilación para que con amenazas y pensando ponerle temores se la entregasse. Y aviéndose sobre ello comunicado, fueron de parescer que el paxá se le respondiesse que él no tenía ninguna orden ni otro special ni general mandado del Emperador para restituirle África, ni a cosa ayuda en ella ni tal creía fuesse su voluntad, porque antes pretendía ser tomada justamente por ser avida de un cossario assí tanto su desservidor como el gran Turcho, mas que, para saber si assí era, él le escriviría y le haría traer respuesta dentro de quinze días, y aquello que embiasse a mandar pornía en entera esecución con efecto; y que también escriviría sobre ello al Papa y al visorrey de Nápoles y lo comunicaría y consultaría con el uno y con el otro para más presto efectuar el negocio. Y venidos assí en ello, el visorrey lo mandó escrivir, y sellada la carta llevarla al paxá a un gentil hombre llamado Pedro Sanches, que esclabo avía sido en Constantinopla, por ser muy ladino en la lengua turchesca, y con otra para Haníbal de Genaro que proveyesse cómo hablasse el paxá. El visorrey de Nápoles rescibió la carta de Haníbal de Genaro, y visto lo que por ella dezía y lo que el paxá demandava, le mandó tornar a escrevir que tuviesse buena guarda en la tierra por averse ya tanto el armada acercado; y de nuevo mandó tornar a havisar a los capitanes y alcaides para que velassen bien las tierras y fuerças que tenían a su cargo. Pues como el paxá aguardando la respuesta del visorrey de Cecilia quedó, para provisión del armada mandó hazer agua y tomar algunas vituallas. Las quales y algunas naos de christianos que tomó de trigo mandó bien y cortesemente pagar, y de más veinte ducados del valor de cada una sin que, por lo que en la tierra se proveía, se le pusiesse en ello ningún impedimento. Y como Haníbal de Genaro vio que el visorrey de Cecilia no embiava la respuesta al paxá de lo que sobre África pedía, al tiempo que Sanctacruz con

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él avía quedado, paresciéndole que era cosa conveniente hazer caso dél para que no pensasse le detenían en palabras, avido consejo con los capitanes y personas de qüenta que con él estavan, ordenó que el capitán Hierónimo de Sanctacruz bolviesse a él con un síndico de la ciudad y el Puga, y le dixesse que uviesse paciencia porque la respuesta del visorrey no se le avía traído, porque aquello havría causado peso e importancia, pero que no dexasse de aguardar porque no podría muy breve dexar de venir. El qual con el síndico y el Puga fue en la marina, y diziendo que al paxá quería hablar, siendo ya conocido por el que con él otra vez avía negociado le recibieron en un batel y a los que con él ivan, y llevaron a la Galera Capitana; y viéndose ante el paxá, que de la mesma manera estava aconpañado que la vez primera, aviéndole saludado y él bien recebido le dixo su mensaje. El qual oyéndole le mandó responder que él no podía esperar tanto, quanto más que sabía que el visorrey no lo cumpliría, y que él tenía espresso mandado del gran señor que, siendo en el canal de Mecina, no embiándole el visorrey las llabes de África siguiesse su viaje y rompiesse la tregua, y que aquello pensava hazer. Y para mayor justificación, en presencia de Dragut y Salarráiz y siete sanjaques mandó sacar un papel escripto de letra turchesca, el qual dixo ser los capítulos hechos entre el embaxador del Emperador y el gran Turcho; y a su secretario los hizo leer y declarar al dicho Capitán, por los quales dezía que prometía en nombre del Emperador que restituiría a África y Monazter, y la gente que en ambas tierras se avía avido, y reharía los daños. Y acabados de leer dixo al dicho capitán que la tregua se tuviesse por rota por su parte en nombre del gran señor, pues por él no avía faltado en cosa del concierto, el qual no le cumplían en todo ni en parte. Aviéndolo todo el capitán bien entendido, le dixo que él lo diría a su capitán para que assí dello tuviesse noticia y se tornaría sobre ello a escrevir al visorrey de Cecilia. Y le rogó que le mandasse mostrar el galeón de Barbarroxa y maona, porque por ser mucho poderosos vaxeles les desseava ver. Lo qual el paxá le concedió, y mandó ir persona con él que se los mostrasse, y assí todas las municiones y cosas que en ellos venían con más todo lo que ver quisiesse del armada, a fin de que publicasse y se estendiesse la fama de la mucha gente y muy buena que traía, con más el artillería, municiones y otros muchos instrumentos y aparatos de guerra, para que publicado por todas partes le temiessen y rindiessen las tierras sobre qué fuesse. Y andando el Sanctacruz viendo el galeón, llegó Pedro Sánchez, mensajero del visorrey de Cecilia, al armada preguntando por él, porque

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Haníbal de Genaro a él le encaminava por la carta que del visorrey le avía dado, para que ambos juntos fuessen con la carta al paxá se le mostraron. E informado Sanctacruz de quién era y a lo que iva, ambos y otros con ellos fueron al paxá. Al qual Sanctacruz dixo que aquel gentil honbre traía la respuesta del visorrey de Cecilia por su carta que le escrivía sobre ello. Holgándose mucho dello el paxá la rescebió, y para saber lo que en ella venía mandó juntar los del consejo, y en presencia de Sanctacruz, embaxador y síndico, y los otros christianos que allí estavan, la mandó abrir y leer. Y aviéndola él y ellos bien entendido, paresciéndoles era manera de hazerles dilatar y passar el tiempo, començaron a murmurar dello. Y Dragut dixo que no convenía aguardar tanta dilación, sino que luego se hiziesse lo que se avía de hazer. Y assí el paxá mandó dezir al Sanctacruz que enviasse a dezir al visorrey que no podía ni quería aguardar tantos días de dilación como dezía, mas que, queriendo más avreviar el tiempo, por él no faltaría a cosa alguna, y dixesse a su capitán que siempre que el visorrey u otro ministro del Emperador tuviesse orden de restituirle a África, fuessen seguramente a buscarle, que la tregua se hallaría siempre puesta y muy firme, mas empero que en este medio se entendiesse ser rota, y que por él, por la cortesía y buena criança que se le avía usado y hecho, no daría fastidio a la ciudad ni a su tierra. Y afrentándose del visorrey, porque la carta con Pedro Sánchez le avía embiado, se la mandó bolver y dezir que se fuesse a hablar con las bestias, porque un tal como él, que por esclabo le avían tenido, no le quería oír por embaxador, y que aquello el visorrey no deviera hazer con el General del gran Turcho ni estimarle en tan poco. Y con esto el Sanctacruz, Pedro Sánchez y los demás salieron de la galera y fueron a Haníbal de Genaro. El qual lo escrivió al visorrey de Nápoles, y Pedro Sánchez se fue a Cecilia al visorrey, al qual enformó de cómo avía llegado al armada que stava cerca de la ciudad de Rijoles, y cómo juntamente él y el capitán Sanctacruz avían dado su carta al paxá; y dio relación por la que él tuvo de lo que antes que llegasse avía passado y cómo avía dado por rota la tregua, lo que más respondió. Todo lo qual por el visorrey oído, teniendo buena guarda en el reino por estonces no tractó más del negocio.

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CAPÍTULO LX Cómo don Sancho de Leyva llegó en la ciudad de África y lo que en ella proveyó; y cómo el armada partió de Rijoles y llevó la vía de Armine, y lo que suscedió en Cotrón; y cómo robó y saqueó el castillo de Augusta de Cecilia y quemó y abrasó toda la tierra.

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Don Sancho de Leyva, que por alcaide y capitán general de África iva, navegando fue en la ciudad de Génova al tiempo que el sereníssimo príncipe don Phelipe se quería embarcar para Spaña. Al qual besó las manos, y con su licencia se tornó a embarcar y llevó la vía de Nápoles, donde llegó a los nueve de julio a puesta de sol. Y visitando al visorrey, sin detenerse más de a cenar por la nueva que ya del armada avía, se hizo a la vela y fue para Cecilia, donde haziendo la mesma diligencia con el visorrey continuó su viaje hasta que llegó en África. Y haziendo salba fue conocido por don Álvaro y la gente de guerra que estava dentro, que de cada hora le aguardavan por la noticia que de su ida tenían, Los quales le recibieron jugando el artillería de la ciudad, y con grande alegría tomando tierra le levaron a ella y aposentaron donde su aposento avía de ser. Y aviendo ya sosegado, presentó la patente del Emperador, para que por general le tuviessen, y fue por todos obedecida. Y apoderado en todo, visitó la ciudad y puso la orden que para la buena guarda della le paresció, y dixo a don Álvaro que se embarcasse y fuesse en Cecilia con el visorrey su padre. El qual teniendo y estimando en mucho su honra le dixo que, por que se tenía nueva que el armada turchesca iva contra aquella ciudad y se avía hallado en ganarla, quería también ser en defenderla y que aquella era su voluntad. Y entendiendo assí, don Sancho mandó publicar por vando que, durante el tiempo que en ella estuviesse, fuesse tenido y obedecido como general según y como era antes que él llegasse, por quanto él no quería en el entretanto usar de su patente sino ser su mandado y subieto, y assí quería que todos lo fuessen. Pues como el paxá dixo y dio a entender que la tregua dava por rompida, venida la noche de aquel mesmo día, a la prima vela la mandó hazer a la vela el armada y començó a navegar la buelta del Cebo de Armine, y assí fue costeando hasta Calabria. Y llegando a los diez de julio cerca de una ciudad muy fuerte llamada Cotrón, mandó tomar tierra a siete cossarios con la gente de sus fustas y que reconosciessen lo que avía por allí. Los quales

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cumpliendo su mandado lo efectuaron, pero como el armada fue descuvierta y se vio desembarcar turchos, ocurrió a la defensa y guarda della el capitán Brizeño y la gente de armas que por allí estava en guarnición, con los quales travaron escaramuça y anduvo un rato reñida tirándose escopetazos y flechazos y andando a las lançadas, de que fueron muertos ocho turchos y uvo otros mal heridos; y al capitán Brizeño mataron el cavallo y hirieron algunos hombres de armas comoquiera que no murió ninguno; y apretaron tanto los turchos que por fuerça los hizieron embarcar. Y costreñidos desto y de la buena guardia y resistencia que en la tierra hallaron, fueron la buelta de las Colonas llevando la vía derecha de Cecilia y Malta. Y sabido por el visorrey de Cecilia puso gran guarda en Mecina y mandó juntar mucha gente de cavallo y de pie de la isla, acompañado de artillería para socorrer contra qualquier parte donde quisiesse hazer daño; y mandó a Hernando de Vega su hermano que con dozientos y cinqüenta cavallos anduviesse de día y de noche a la ribera de la mar para el mesmo efecto. Siguiendo el paxá su viaje, martes a los catorze de julio llegó junto a Augusta de Cecilia; y paresciéndole castillo no fuerte por començar a obrar el rompimiento de la tregua, ordenó que mil geníçaros y quinientos espaquís, los quales tienen este nombre por ser cavalleros y personas espirimentados en guerra y tenidos por valientes, por lo qual el gran Turcho les provee en cargos y oficios muy honrosos en que se sustentan, y assí haze a sus hijos si les corresponden y, si no, no, tomassen tierra y jugar artillería de las galeras para combatirle. Y començándole a dar la batería, el alcaide con cinqüenta soldados que dentro estavan le començó a defender, mandando jugar el artillería del castillo, y assí el arcabuzería de los soldados, contra el armada y turchos de tierra, de que mataron y hirieron algunos y los hizieron retirar. Y enojado de aquello, el paxá mandó desembarcar otros quinientos turchos con algunos sanjaques, y mandoles que hiziessen por tomar el castillo matando y prendiendo los que dentro estavan. Los quales, que muy furiosos fueron, llegando a él le arrimaron algunas escalas para entrarle, mas hallaron tanta resistencia en el alcaide y pocos soldados que le defendían que, con daño, se retiraron. Pero tanto porfiaron la entrada que, aviéndole combatido dos días, a los diez y seis a la hora de vísperas le entraron por las cañoneras sin que se lo pudiessen resistir, matando y captivando todos los que dentro estavan; y entrados dentro le saquearon y llevaron todo lo que hallaron, y por mandado del paxá sacaron y llevaron al armada doze cañones gruesos de bronze y diez y ocho más pequeños, y muchos falconetes y muy gran quantidad de pólvora,

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pelotas y municiones. Y hecho esto, abrasaron las casas y huertas, y, siendo como era un lugar muy nuevo y hermoso y de gentiles edificios, le dexaron muy feo y negro, quemado y abrasado, puesto que dél no llebaron persona más de los del castillo, porque todos los vezinos de la villa con sus mugeres, hijos y haziendas se avían recogido en Mecina, Trápana y Palermo y otras tierras fuertes por mandado del visorrey, por no verse en aquel peligro. Y como los turchos uvieron hecho este mal en esta tierra, muchos se desmandaron a cojer agraz de las viñas y a otras partes, buscando en qué hazer daño esparzidos unos de otros; contra los quales ocurrió Hernando de Vega con sus dozientos y cinqüenta cavallos, y lanceó y mató ciento y veinte turchos y captibó catorze. Y sabiendo el paxá el daño que en ellos se hazía, mandó a algunos sanjaques con quantidad de genízaros fuessen a socorrerlos y recojerlos, y que los llevassen al armada para que más daño no recibiessen. Y poniéndolo los sanjaques en efecto lo cumplieron. Hernando de Vega anduvo continuo a vista del armada, con fin de hazer todo el daño que en qualesquier turchos que tierra tomassen pudiesse; y el paxá, recogida toda su gente, otro día a los diez y siete mandó alçar velas y seguir la vía de Malta. Sabido por el visorrey el daño grande que los turchos en Augusta avían hecho le pesó mucho, mas viendo que no lo podía remediar dissimuló. Pues navegando para Malta el armada, siendo diez millas dentro en la mar passando Cabo Páxaro, le faltó el viento a medio jorno y lebeche, y la bolvió al cabo donde avía salido, llebando por fuerça siete galeras a la Torre de Puçalo donde stava el galeón de la Religión que a los quinze avía partido de Malta por leña. Y siendo en él Luis Pentalerese patrón, aunque le tenían cargado con quatrocientos quintales de leña, como estava en el puerto y por el tiempo aún no avía partido, vistas las galeras con muy gran diligencia le mandó desfornecer, y con lo que en él estava y la gente que en él avía se entró en la torre, donde se hizo fuerte para guardarse y defenderse y morir allí antes que darse a prisión. Y llegando los turchos con las galeras al puerto le entraron, pensando hallar algo en él para darle saco. Y como tan falto de cosas le hallaron, le pegaron fuego y quemaron, y tomaron un navío de trezientas y cinqüenta salmas de un greco de Melaço, que de formento avía cargado en Terranova y lo llebava para Mecina, que para su desventura y perdición, y de todos los que ivan en él, aportaron allí. Y de allí a poco faltando el viento de xaloque en lebante, casi en un momento tornaron a juntarse al armada, y toda junta bolvió a su camino de Malta.

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CAPÍTULO LXI Cómo el armada turchesca llegó en Malta y el paxá reconosció el castillo y la ciudad, y los consejos que tuvo y lo que proveyó.

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Navegando el paxá con el armada la vía de Malta, sábado quatro horas de día llegó a vista de la isla a los diez y ocho de julio, y quatro horas antes llegó al puerto la nao de trigo de Cecilia, con que mucho esforçó al gran Maestre y a todos los cavalleros por lo poco y mal proveídos que estavan. Lo qual con mucha diligencia mandaron meter en el castillo, y descubierta el armada por el aviso que de su venida se tenía, y porque estavan en vela della para rescibirla, el gran Maestre mandó cargar toda el artillería del castillo; y siendo en la orden y punto que convenía la aguardó. El paxá, que desseoso de tomar la isla iva, sin detenerse llegó hasta cerca de un puerto y lugar llamado Marsimexet una milla del castillo; y pensando Dragut no hallar ninguna resistencia con el calor y favor de la poderosa armada que acompañava, desordenadamente con sus vaxeles se adelantó y fue a tomar tierra. Contra los quales el gran Maestre mandó jugar el artillería de un torreón del castillo llamado Sanct Ángelo, y a frey Bernal de Guimaras que con dozientos arcabuzeros se la resistiesse. Y assí del torreón començó luego a jugar el artillería tanta y con tanta presteza que començó a hazer mucho daño en los navíos y turchos. Y visto por el paxá embió a mandar a Dragut se retirasse atrás, para que toda el armada junta tomasse terra para menor daño della. Y llevando las proas del galeón y maona y de las galeras juntas, para mayor fuerça fueron hasta la lengua del agua a echar la gente en tierra, a la defensa de lo qual ocurrió frey Bernaldo con los dozientos arcabuzeros dando carga de arcabuzería en la gente que desembarcava, de que les començó a hazer mucho daño. Pero como el paxá iva con orden del gran Turcho y espresso mandado de tomar aquella isla, no temiendo el artillería que del torreón se jugava, ni el arcabuzería que los soldados disparavan, ni el daño que en las galeras y turchos recebía, con gran diligencia echó en tierra mil y quinientos genízaros, spaquís y levantís, parte de los quales començaron a escaramuçar con frey Bernaldo y arcabuzeros, y parte entraron la isla tomando bacas, carneros y terneras, y quemando y abrasando los lugares que estavan cerca del castillo. Y andando la escaramuça que duró por espacio de tiempo murieron cinco turchos y fueron otros muy mal heridos y tomados dos prisioneros. Con algún daño que frey

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Bernaldo en los suyos avía rescibido, cargaron tantos turchos sobre él que por fuerça le convino desamparar el puerto y retirarse al arrabal del castillo, siempre ayudándole y dándole favor el artillería del torreón que jamás cessava de jugar, con que hizo mucho daño en los turchos, y estando fuera del peligro del escaramuça, embió al gran Maestre los dos turchos captibos. A los quales mandó preguntar que para qué efecto el Turcho avía embiado aquella armada a tierra de christianos. Los quales, queriendo encubrir la verdad de lo que dello sabían, dixeron que no les avía sido notorio ni lo avían oído publicar; y no creyéndolo el gran Maestre les mandó dar tormento e interrogar sobre ello; y siéndoles dado y avisados que serían en la tortura descoyuntados si la verdad no dezían, dixeron que el armada venía con designio de tomar a Malta, porque Dragut avía embiado a dezir al gran señor que dándole tres mil genízaros y otra quantidad de turchos fácilmente la tomaría. Y entendido esto por el gran Maestre, y conosciendo que principalmente contra él y contra la religión venía, con el mejor recaudo que pudo mandando hazer muy buena vela y guarda al castillo aguardó a ver lo que el paxá proveería, y embió diez y siete cavalleros a Malta para que avisassen a frey Jorge Adorno prior de Nápoles, que para la guarda della avía elegido, estuviesse a gran recaudo, y ellos para la defensa de la ciudad quedassen con él. Los quales partieron y fueron por parte que no pensavan topar turchos, pero como ya muchos avía por la isla que no se ocupavan sino en matar animales y derribar y quemar casas y hazer otros daños, no pudieron ir tan a su salbo como pensaron. Y faltándoles el ánimo a los catorze para ir a la ciudad se bolvieron al castillo, y los otros tres, que spañoles eran y Marzilla, Aloís y Pacheco se llamavan, fueron para ella y la entraron, y dieron a frey Jorje el mandado del gran Maestre, y siendo muy bien rescebidos dél quedaron en la ciudad. Pues como el paxá echó mil y quinientos turchos en tierra, venida la noche del día que desenbarcaron tuvo consejo con Salarráiz y Dragut cómo reconoscerían a Malta para saber por dónde la podrían batir y apretar, a que el gran Maestre se la rindiesse, o tomársela por fuerça de armas. Y aviéndolo comunicado fueron de parescer que todos tres juntos con algunos genízaros fuessen a la montaña de Sanct Elmo, lugar más cercano al castillo, para ver si en ella o en qué otra parte le podían hazer bestiones para plantar su artillería y hazer el efecto. Y en ello acordados de conformidad fueron al reconoscimiento, y anduvieron y passearon la montaña mirando por dónde más y mejor le podrían ofender; y visto por el paxá la dispusición y su

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fortaleza, paresciéndole impossible poderle tomar por fuerça de armas con la gente que del armada podía echar en tierra, y que de aver llegado allí si se embarcaba sin tomarle perdía reputación, se enojó mucho con Dragut, diziéndole que por qué assí avía tan mal engañado al gran señor con embiarle a dezir que fácilmente con poca gente se tomaría, porque aquél no era castillo que se podía tomar con la facilidad que dezía. A lo qual Dragut le respondió que la guerra no se podía hazer sin aventurar y perder gente y municiones, que hiziesse lo que los christianos contra África y que él pornía la cabeça que le tomassen. Y preguntado por el paxá qué era lo que avían hecho, le respondió que aventurado las vidas a todo peligro por ganar honra y la ciudad, y que assí la avían ganado quedando sin vidas de quatro mil españoles que sobre ella avían estado los dos mil. Y enojándose mucho más de aquello, el paxá le dixo algunas ásperas palabras de que mucho Dragut se sintió. Pero viendo que convenía pensar en otro remedio, tornó a tomar consejo con los mesmos Salarráiz y Dragut si contra el castillo plantarían la batería, pues en la montaña se podía bien plantar. Y aviendo mucho sobre ello pensado y considerado, Dragut dezía e insistía a que se hiziesse, y Salarráiz lo contradezía diziendo que por ninguna vía tal se devía intentar, porque por muy dubdoso tenía se pudiesse ganar el castillo, porque por la altura y aspereza de las montañas no podrían subir el artillería a ellas, antes los daños que dél rescibirían serían muy grandes, porque el gran Maestre no le podía dexar de tener muy bien bastecido y proveído de cavalleros, vituallas, artillería y municiones, por aver tenido tiempo para ello después que se avía publicado la ida del armada contra él por tomarle la isla; antes, de su parescer se debrían tornar a embarcar e ir a reconoscer la ciudad de Malta para averla por suya, y que, avida, se esforçassen y persuadiessen por aquella parte de llevar el artillería cerca del arrabal del castillo, por ser como era el camino llano, y que se plantasse el artillería y le batiessen; y que avido y tomado el arrabal, desde él batiessen después el castillo, y, si le tomassen, invernassen allí y sperassen vituallas de Levante para proveer el armada; y quando no le tomassen, passassen a dar un tiento a Africa, y no pudiendo hazer en ella algún buen efecto fuessen a Porto Farín para conquistar a Thúnez desde allí. Y paresciéndole bien al paxá lo aprovó, y dexando los turchos por la isla desparramados haziendo los daños dichos, con Dragut y Salarráiz se tornó a embarcar otro día domingo a los diez y nueve, y fue a la Cala de Sanct Pablo ocho millas de allí, y mandó ir parte del armada a la isla del Gozo, mandando

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quedar al puerto del castillo cinqüenta galeras para cobrar un esquife de la galera de Dragut con ciertos turchos que se avían adelantado a entrar más dentro del puerto que otros por más señalarse; y sobre cobrarle, lunes en la noche se trabó con los comendadores en la mar una bien reñida y sangrienta escaramuça que duró gran rato, en la qual los turchos rescibieron grandíssimo daño, porque muchos murieron y muchos fueron muy mal heridos; y con esto llevaron su esquife, y, cobrado, las cinqüenta galeras se fueron a la Cala de Sanct Pablo y juntaron con el armada. Y como los turchos desmandados que en la isla quedaron hazían grandíssimos daños, specialmente que entre los que avían hecho avían quemado una apazible y muy deleitosa casa de plazer con una rica huerta llamada La Marsa, en la qual el gran Maestre se solía recrear e ir a passar tiempo, y que sin ningún miedo ni temor como si por Turchía en sus casas, heredades y possessiones anduviessen, no tenían menos descuido mostrando tenerle en poco, ni se temían ni recelaban dél ni de ningunos de los de la isla, como si no les fueran enemigos, mandó salir algunos cavalleros con quantidad de soldados y gente de la tierra del castillo, mandándoles que a qualquier turcho que por toda la isla hallassen matassen o llevassen captibo. Y como los turchos andavan desmandados solazándose y holgándose, discurriendo de una parte a otra, robando lo que podían aver, hallándolos divididos y apartados unos de otros corriendo por todas partes mataron hasta ciento y llebaron por esclabos quarenta que le presentaron que él alegremente los rescibió. El paxá, que a la Cala de Sanct Pablo fue, el lunes echó en tierra algunos sanjaques con cinco mil turchos; los quales fueron al arrabal de Malta, que de allí estava ocho millas, donde avía muchas y muy hermosas huertas y abundancia de muy dulces y sabrosas aguas. Y paresciéndoles aquélla apazible y deleitosa morada hizieron allí su alojamiento, y captibaron quatro hombres que hallaron. Pues como el paxá tuvo los turchos en tierra, dexando buena guarda en el armada se desembarcó, y assí Dragut y Salarráiz, con los quales y alguna gente fue a reconoscer la ciudad con orden de que se començasse a sacar algunos cañones gruesos y munición de pólvora para batirla. Y sobre el reconoscimiento se travó una sangrienta escaramuça con los cavalleros y gente que frey Jorje mandó salir de la ciudad para estorvarlo; y prendieron un escrivano de una galeota de Dragut al qual frey Jorje mandó muy rezio atormentar, para saber más por entero a qué venía el armada. El qual por escusar el trato de cuerda dixo que sin que le diessen tormento diría la

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verdad, y que quando el contrario paresciesse le mandasse cortar la cabeça. Y dándosele crédito le dixo que dixesse. El qual dixo que el fin de hazer el Turcho al principio el armada avía sido solamente para tomar a Corfo con la parte que los de dentro le avían ofrescido, y que como avía sido descuvierto el tratado avía mandado deshazerla, y que Rustá Paxá y Salarráiz y Dragut por palabras y cartas le avían consejado que por su reputación no la deshiziesse, porque no paresciesse que avía querido tomar a traición ninguna tierra, sino que para dar color a averla hecho la embiasse sobre África, dándole a entender Dragut que sería fácil cosa tomarla y que de camino podría tomar el castillo de Malta, que sería de importancia por tener aquel puerto desde donde podría hazer mucho daño a Cecilia. Y entendido por el frey Jorje, mandó guardar el turcho y avisar de lo que passava al gran Maestre. Pues aviendo el paxá hecho el reconocimiento de la ciudad por las partes que mejor y más a propósito le paresció, y assí antes de un pequeño y fuerte lugar llamado Aravito nueve millas de Malta avido su consejo, se determinó de ganar primero el lugar, y que aquél ganado se fuesse a ganar la ciudad. Y con este fin mandó llevar siete cañones, y llevándolos mudó de propósito diziendo que no convenía tentarlo por el presente ni contra la ciudad y castillo, antes devían enbarcarse e irse a la isla del Gozo, que estava seis millas de allí, para apoderarse de los que estavan en ella y començar a hazer alguna cosa señalada, de que de su venida en tierra de christianos se tuviesse alguna dolorosa memoria. E paresciéndole bien a Dragut y Salarráiz lo aprovaron, y con esta determinación el paxá mandó tornar a embarcar el artillería, municiones y gente que avía desembarcado, y lo mesmo hizo él y Dragut y Salarráiz, y fueron a recojer los turchos que avían dexado junto al castillo desmandados. Y embarcados todos, llevaron la vía del Gozo con fin de conquistarle más con flaqueza de ánimo que esfuerço de coraçón, pues dexavan la conquista de lo que en sí parescía rezia, peligrosa y fuerte, por ir contra lo que sabían ser débil y flaco.

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CAPÍTULO LXII Cómo el paxá con el armada tomó tierra en la isla del Gozo y lo que en ella hizo, y cómo començó a combatir la villa.

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De la venida del armada turchesca en la isla de Malta, y de la obra que en ella començava a hazer, tuvo noticia el general de la isla del Gozo Sesse y, como buen capitán, hizo la provisión que le paresció ser necessaria para guarda de los moradores si contra ella fuessen, porque luego mandó recojer toda la gente de los lugares pequeños y caserías a la villa del Gozo con sus armas, mujeres y hijos y criados por mejor guarda; y eligió quatro cavalleros que en ella stavan desterrados por capitán de cada ciento y cinqüenta hombres que avía, que podían bien pelear. A cada uno de los quales encargó de la guarda de una parte del castillo y todo lo que más pudo hizo fortificarle; y estando en buena vela y guarda llegó el paxá con el armada a los veinte y uno del mes, y echó en tierra la mayor parte de los turchos, geníçaros, espaquís y lebantís que en el armada llebava, y mandó desembarcar treinta pieças de artillería y mucha munición de pelotas y pólvora, para batir la villa y el castillo, y desembarcado lo mandó llevar la vía de la villa; y como fue la noche que muy clara hazía, con Dragut y Salarráiz y algunos sanjaques y spaquís la fue a reconoscer. Y conosciéndolos Sesse por enemigos, porque ninguno de la isla stava fuera de la villa a tal hora, mandó jugar contra ellos algunas pieças de artillería, de que les hizo daño porque mató y hirió algunos. Mas aviendo andado rato en el reconoscimiento y hallado parte cómoda y a su propósito muy conveniente donde plantar la artillería para batirla, se bolvieron adonde avían tomado alojamiento, que era muy cerca de allí. Y como fueron otro día de mañana, el paxá embió un turcho en la lengua italiana plático con su embaxada al governador. El qual llevando una vandera colorada, para ser por emperador conoscido, llegó a la puerta de la villa; y visto por el governador le mandó abrir para saber lo que quería, y siendo ante él le dixo: «Magnífico señor, el paxá Senaxú, Capitán general de la poderosa armada del gran señor, dize que su voluntad es que todos los moradores y avitadores desta isla con vuestros bienes os le rindáis y entreguéis, y que, si assí lo hiziéredes, haréis de vuestro bien y provecho, y que de lo contrario seréis causa de toda vuestra destruición y perdición, pues sois tan flacos y de tan poco poder que no os le podréis resistir ni defender, y de pura necessidad, muertos o bivos, havéis de venir a sus manos».

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Aviéndole oído el governador, sin tomar hora de término para responderle, como esforçado cavallero le dixo: «Bolbed al paxá y dezilde que los moradores desta isla nunca costumbraron obedecer mandado de otro que no fuesse su señor y christiano como ellos, y que assí por esto, como porque están en la guarda de sus mugeres y hijos a quien tienen jurado y prometido hasta morir defender y nunca desamparar, es su voluntad no hazer ni cumplir cosa de lo que les manda; y por lo que a mí y a los cavalleros que en ella residimos toca, digo que durante el tiempo que las ánimas en los cuerpos tengamos y las espadas podamos mandar, haremos todo nuestro poder para resistírsela; y con esto id sin bolver con otro ningún mensaje, porque no llevaréis otra respuesta». El embaxador se bolvió y lo dixo al paxá, el qual quedó muy maravillado de la atrevida respuesta del governador; y para proveer en cómo la villa tomaría, tuvo consejo con Dragut y Salarráiz; y aviéndose sobre ello comunicado y tomado el parescer de algunos sanjaques que tenía por hombres espirimentados en cosas de guerra, y referídose allí las fuerças del castillo, fueron de parescer que para subietarle se hiziessen trincheas contra la frente del castillo y al lado izquierdo, y que en ellas se plantassen veinte pieças de artillería, y, plantadas con muy buena orden, por ambas partes se començasse a batir; y que hechas las baterías, como por ellas se pudiessen entrar le diessen el salto. Y siendo en esta determinación, el paxá mandó sacar del galeón y maona muchos picos, palas, açadas y espuertas con que, venida la prima noche, se començaron las trincheas a trezientos passos del castillo, para que desde ellas, stando tan cerca, la batería que se diesse obrasse mucho y en poco tiempo hiziesse gran efecto. Y con la solicitud de Dragut, que era muy ábil para semejante oficio, y andar en la provisión y miramiento della Salarráiz, dentro de una noche, según los muchos que en la lavor entendían, se hizo mucha obra sin que bastasse a defenderlo la artillería que el governador del castillo y de los muros mandava jugar, porque, aunque algunos matava y mal hería, no por esso se dexava de continuar. Y finalmente, dentro de dos noches y un día las trincheas fueron hechas, y en ellas plantados veinte cañones gruesos de batir, y en medio de cada uno, para mayor fuerça, sacos y cestones de arena; y puestos, el paxá mandó poner en las trincheas mil turchos escopeteros, assí para guardar el artillería como para que quando conveniente le paresciesse mandarlos arremeter. Y con esta buena orden, tocando algunas gaitas y atambores se començó la batería

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contra las dos partes do estavan designadas; y como començó muy rezia sin cessar, y los muros de la tierra y del castillo no eran tan rezios y fuertes como a los de dentro conviniera, començaron a derrivarse, por donde el paxá, Dragut y Salarráiz se holgaron mucho dello. E viendo el governador la braveza y furia grande con que la batería se le dava, mandó jugar el artillería del castillo que mucha y muy buena tenía contra los cañones con que se le davan a fin de quebrarlos y rebentarlos y matar los que al descubierto parecían; y animando y esforçando los de dentro, los hazía estar a los muros para que, viéndolos sus enemigos, no se les atreviessen a entrarles la villa; y proveyó que a la parte do davan las baterías se hiziessen algunos reparos por los hombres viejos, mugeres y muchachos como eran, limpiando la tierra que de dentro caía y haziendo algún fosso para que, si el muro perdiessen, se hallassen con otra fortificación. Y como la luna hazía muy clara de noche, que para dar la batería ninguna falta hazía el día, el paxá mandó que nunca cessasse, antes, como algún cañón se quebrava, incontinente mandava traer otro a la trinchea con tanta presteza que era cosa maravillosa, por donde nunca la batería afloxava. Y sintiéndolo mucho el governador, por el peligro grande a que cinco mil personas, hombres, viejos, mugeres casadas, viudas, donzellas, muchachos de poca edad y criaturas muy tiernas estavan, sin tomar ningún descanso ni reposo andava continuo por el muro sin ningún temor de las pelotas del artillería, proveyendo lo que le parescía para la buena guarda de la villa y de los que estavan dentro, mandando mudar las pieças por muchas partes porque le tiravan reziamente contra las defensas que desde allí les hazían. Quiso Dios y su triste ventura, y la de todos los que dentro stavan, que al segundo día que la batería se començó le diesse una pelota de un gruesso cañón por medio del cuerpo, de que hecho pieças le derribó del muro a tierra. Por la muerte del qual, como a él solo después de Dios todos tenían por su guarda y amparo, y en él confiavan para conservar su libertad, desmayaron y perdieron el ánimo en tanta manera que luego se tuvieron por perdidos. Y conosciéndolo las dueñas y donzellas, y los otros que no podían pelear, y sintiendo su fortuna serles triste y malaventurada, y que las amenazava con adversidad de travajo y captiverio, començaron grandíssimo llanto de tal manera que no se podían aconortar, por mucho que querían esforçarse. Pero lo mejor que pudieron al fin le alçaron de tierra y llevaron a dar sepoltura a la iglesia de la villa, donde más por entero le lloraron como si padre, hermano o deudo particular de todos fuera.

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Pues como ya perdida la confiança y sperança tuvieron de que el buen cavallero Sesse los pudiesse acompañar ni amparar, ni dar ayuda y socorro a su mal y fatiga, los quatro cavalleros pusieron la mejor guardia que pudieron y estuvieron a gran recaudo, para proveer a lo que suscediesse y morir en la defensa antes que rendirse.

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CAPÍTULO LXIII Cómo el gran Maestre mandó llamar los cavalleros de la orden para la guarda de Malta y de las otras tierras de la Religión, y lo que sobre ello proveyó su Sanctidad.

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Como por todas las partes de la christianidad fue muy notoria la venida del armada turchesca en tierra de christianos y la sospecha de que venía contra la isla de Malta, corriendo por el reino de Francia llegó a noticia de algunos cavalleros de la orden. Los quales, como aquellos que no querían dexar de hazer lo que devían y por complir con sus honras y no faltar la jura y promessa que hizieron quando professaron, con la mayor diligencia que pudieron se juntaron y proveyeron una nave francesa y otras dos más pequeñas de municiones, y se embarcaron y llevaron la vía de Malta, y con buen viento y tiempo que tuvieron llegaron en el puerto de la isla tres horas después que el paxá con el armada partió a la del Gozo, haziendo de todas las naves salba de artillería. Las quales por de christianos y franceses reconocidas el gran Maestre las mandó saludar, y tomando los cavalleros tierra le fueron a besar las manos; el qual los rescibió muy bien y con mucha alegría, porque ivan quantidad que eran bastantes para ayudar a la defensa. Y con todo esto era muy grande el dolor que tenía de saber el mucho aprieto y peligro en que estavan los gozianos, especialmente acordándose de las muchas mugeres y donzellas que dentro de la isla avía, a quien por ninguna cosa deviera aver dexado en ella sino trasportarlas a Cecilia o a otras partes donde estuvieran seguras, assí como avían ido la mayor quantidad de las de la isla de Malta, pues no le avía faltado tienpo oportuno para ello, sin consentir ni permitir que los de la isla dixessen (como dizen avían dicho) que ellos querían guardar sus mugeres y hijos y no dexarlas ir a desterrar y peregrinar a tierras no sabidas ni conocidas por ellas, pues claro le constava que contra un armada real y tan poderosa no se podían guardar ni defender, no teniendo el castillo muy fuerte ni tanta gente de guerra para defenderse quanta les era nescessaria. Pues el año passado Dragut con catorze vaxeles la avía saqueado y hecho grandíssimo daño, aunque con pérdida de un su hermano que allí murió, para proveer en el remedio dello, aunque por muy dificultoso lo tenía, como para poner mejor guarda en la isla mandó juntar los bailíos, priores, almirallo y los otros cavalleros del consejo. A los quales dixo que, como ya sabían el armada

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estava en la isla del Gozo, la qual creía y tenía por cierto que por la poca gente de guerra que dentro estava y no ser muy fuerte la fuerça ni poderla socorrer, los turchos se apoderarían della, pero que assí como podría susceder aquello podría ser que el governador Sesse, que buen capitán era, la defendiesse de manera que no la tomassen, y que, si algunos días se detuviesse, sería bien embiarle algún socorro si por alguna parte le pudiesse entrar comoquiera que se tuviesse por impossible, pero que, hora fuesse para aquello hora para tener mejor guarda en la isla, porque tenía por muy cierto los turchos bolverían sobre ella aunque en el Gozo estuviessen, él estava en determinación de mandar embiar sus cartas a los reinos de España, Nápoles y Francia, y a las otras partes de la christianidad do avitavan y estavan de morada como vezinos y residentes los cavalleros de la orden, mandándoles que, pues en ella avían professado y de sus rentas se avían mantenido, las fuessen a defender, porque, según eran muchos los que podrían ir, la isla estaría muy mejor guardada y sería mejor defendida, y que, paresciéndoles lo devía hazer, le diessen la orden y manera que para ello se ternía. Por los del consejo oído comunicaron el negocio, y aviéndolo bien consultado le respondieron que el parescer de Su Señoría Illustríssima y Reverendíssima era bueno, y por tal lo aprobavan, y que, pues assí lo quería proveer, devía embiar a los reinos que dezía sus personas, los quales en ellos fixassen sus edictos para que a noticia de los cavalleros y freyles llegasse, mandándoles lo que dezía so pena de perder la ancianidad por la obligación que a ello tenían, y que, quando por la pública intimación no viniessen, se pensaría en otra manera cómo apremiarlos. Y paresciéndole bien al Maestre, mandó luego despachar sus cartas por las quales dezía que como pública y muy notoria cosa era los infieles turchos, enemigos y desservidores del nombre de Jesú Christo, aver venido con poderosa armada de muchos vaxeles gruesos a hazer daño en la christianidad, y principalmente a destruir y apoderarse en la isla de Malta y en las otras tierras de la Religión, les mandava que, so pena de perder la ancianidad y que el freyle menos antiguo professó que sirviesse, se les antepusiesse y passasse delante para rescibir las gracias, honras y mercedes de la orden, sin poner ninguna escusa ni dilación, ni perder hora de tiempo partiessen a la isla con el mejor adereço y aparato de armas que tuviessen, y cada uno conforme a la qualidad de su persona; y hechas, firmadas y selladas las cartas las mandó llevar, y puestas y fixadas en muchas partes y llegando a noticia de los cavalleros y freyles, muchos, que por hazer lo que devían y complir con la deuda semejante estavan

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determinados de ir a servir, sin aguardar otro mandado se embarcaron lo mejor proveídos que pudieron, y fueron en Malta y se presentaron ante el gran Maestre. El qual los rescibió bien y mandó sentar sus nonbres para saber los que ivan a servir y quáles eran inobedientes a sus mandamientos. Y constándole que muchos cavalleros por no parescer en la isla fingían ser maldispuestos de enfermedades, y otros ponían otras injustas y no verdaderas escusas, estimando por poca pena la pérdida del ancianidad, avido su consejo escrivió sobre ello a nuestro muy Sancto Padre, suplicándole que contra tales cavalleros inobedientes y contumaces proveyesse de su remedio, costriñéndolos y apremiándolos con las armas de la Sancta Iglesia para que no le fuessen rebeldes y le guardassen toda obediencia. Y por Su Sanctidad visto, teniéndolo por bien mandó proveer de sus descomuniones y censuras en general contra todos los que no avían ido, y mandándoles que luego en todo y por todo obedeciessen su perlado con apercivimiento que mandaría proveer contra ellos otras muy más agravadas. Y sabido la diligencia y provisión del gran Maestre y Pontífice, muchos cavalleros que no pensavan ir a Malta se partieron y fueron en ella, aunque otros muchos más, si quisieran, pudieran ir.

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CAPITULO LXIIII Cómo los turchos entraron la villa del Gozo y la resistencia que por quatro cavalleros y gozianos se hizo, y cómo al fin todos se perdieron.

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Tornando a nuestro propósito, por no dexar de dezir lo que en el triste y doloroso Gozo passava, diremos que como ya el paxá estava determinado de qualquier manera que fuesse aver por suya la gente de la isla, dava toda la prisa que podía por entrar la villa que continuo, sin cessar, noche y día se batía. La qual batería se dava tan rezia, furiosa y menuda que, por mucho que los de dentro procuravan fortificarse, ningún medio llebava, por ser como era en grande abundancia la mucha tierra, arena y cal que de los muros se derribava, que no bastavan a limpiarlo. Y como las baterías fueron hechas al parescer grandes, que por ellas sin gran peligro la villa se podía entrar, al tercero que las davan el paxá las mandó ir a reconoscer a algunos sanjaques y geníçaros, los quales con toda diligencia y presteza animosamente fueron a cumplirlo; y como llegaron a ellas sin que ninguna resistencia hallassen, porque los gozianos estavan de parte de dentro por temor de las pelotas del artillería, las anduvieron y miraron muy a su salbo, y paresciéndoles eran tales quales convenían para entrar la villa, bolvieron al paxá y se lo dixeron. El qual haziendo plática a cinco sanjaques y a dos mil geníçaros y turchos a quien mandó ir con ellos, diziendo cómo se avían de governar y pelear para rescibir menor daño, tocando sus atambores y gaitas y llevando el nombre y apellido de Mahomad les mandó arremeter y entrar por las baterías; y animándolos y esforçándolos Dragut y Salarráiz animosa y denodadamente arremetieron. Mas oyendo tocar el arma y cessar la batería los quatro cavalleros, y viendo el ánimo y denuedo con que los turchos arremetían, por resistírselo y defendérselo se dividieron: los dos con los trezientos hombres a la batería de la frente del castillo, y los otros dos con los otros a la otra. Y como los turchos con gran grita y alarido llegaron disparando escopetería y flechas los rescibieron disparando sus arcabuzes, y juntándose començaron a pelear maravillosamente de ambas partes, de que començaron a caer unos muertos y otros muy mal heridos. Y como el paxá vio que en la entrada de la villa avía mucha resistencia más de la que él pensó, porque más en breve y con menor daño los turchos la entrassen, mandó arremeter para reforçarlos otros mil, con los quales siendo juntos y reforçados, dándose todo gran favor y ayuda

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hazían grandíssima matança en los christianos de tal manera que, siendo sus fuerças rezias y fuertes por la mucha abundancia de gente que eran, y conociendo las de sus enemigos muy flacas y débiles, y desfavorecidos de gente de guerra y faltos de muros, sin hallar bastante resistencia les ganaron las baterías y se las entraron por fuerça con grandíssimo daño que en ellos hizieron. Y assí desde ha poco espacio murieron y fueron captibos los quatro cavalleros y todos los demás a sus manos, con más las dueñas y donzellas que dentro estavan, haziendo muy doloroso y triste llanto por los muertos y de verse captibas y en poder de infieles sus enemigos, que sin ningún miedo, vergüença ni temor las forçavan y deshonravan, llamándose desdichadas y desventuradas arañavan sus caras, messaban y derribavan sus cabellos y se davan de cabeçadas y hazían muchos malos tractamientos con que probocavan a muchos de los mesmos infieles a averlas gran compassión y lástima. Mas de lo que más las tristes y pobres señoras lloravan y davan querella era del mucho descuido del gran Maestre y de toda la Religión, porque assí las avían desamparado, y de sus maridos y padres, porque pudiéndolo remediar a tan triste y mísero estado las avían traído. Assí que diremos y con muy justa causa que su Gozo se les convirtió y bolvió en “el pozo”, y en gran angustia, tribulación y amargura, y que si las africanas vituperan de Dragut las gozianas no laudan al gran Maestre; y que si África fue despojada de sus naturales africanos, El Gozo lo fue de sus propios gozianos; y si los unos lloran los otros no ríen; y si África se lamenta, el Gozo se quexa y querella; y si los africanos se vendieron en Nápoles y Cecilia, lo mesmo se hizo de los gozianos en Turchía y Berbería. Finalmente que por todo devemos dar gracias a Dios y assí se las demos, pues se sirve que, por nuestros pecados, infieles señoreen y manden la tierra y subiecten, roben y captiven la gente christiana, porque de otra manera es impossible que para ello tuviessen ánimo ni fuerças. Pues como la villa fue entrada, por tomar vengança Dragut de la muerte de su hermano, no contento ni satisfecho del daño que en ella se avía hecho mandó quemar y abrasar toda la isla sin dexar casa ni jardín, ni otra cosa de provecho; y luego el paxá fue al castillo, y viendo tantas y tan hermosas donzellas, aunque tristes, llorosas y maltractadas estavan, se holgó mucho y mandó juntar, recoger y guardar el oro, plata, joyas y otras riquezas que en el castillo se halló demás de la que los turchos avían saqueado para embiar dello un rico y muy solepne presente al gran Turcho para que viesse y supiesse

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cómo le avían començado a servir. Y todo recogido y embarcado, y la gente, artillería y municiones assí suya como la que avía en el castillo de la villa, que eran mucha quantidad, con la pólbora, pelotas y municiones, y dexándola sin moradores y muy falta de alegría y acompañada de mucha tristeza, y tal que no se podía conoscer por la que ser solía, con Dragut y Salarráiz mandando echar los captivos al remo por ser gente de isla para ello muy conveniente de que el armada iva muy necessitada, quedó en la mar.

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CAPÍTULO LXV Cómo el gran Maestre embió otro socorro a Trípol de Berbería, y cómo llegó en Malta un cavallero francés y le visitó y lo que le dixo, y cómo fue en busca del armada.

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En gran congoxa estava el gran Maestre después que el armada turchesca tomó tierra en Malta, pensando en la buena guardia que en ella y en Trípol devía tener, assí por complir con Dios y con el Emperador que a la Religión le avía dado como para con la christianidad, para que ninguna culpa con causa justa se le pudiesse imputar de si alguna desgracia en ella suscediesse. Y para esto, luego, como el paxá con el armada partió de Malta para El Gozo, mandó juntar los vailíos, priores, almirallo y otros cavalleros a los quales dixo que, como noticia tenían assí por lo que avían visto como por lo que el Turcho que tenía en su poder avía confessado principalmente el armada venía con fin de ganarles a Malta y assí a Trípol, en la qual tenían el mejor recaudo que de presente se avía podido poner; pero por que a Trípol no se podría dar ningún socorro por mar ni por tierra si la cercassen, él estava en determinación de embiarle otro socorro antes que sobre ella fuessen, para que la fuerça estuviesse más fuerte y segura, el qual le dixessen que tal les parecía devía ser. Oído por los cavalleros y sobre ello comunicado y consultado, le respondieron que Su Señoría Reverendíssima tenía muy bien pensado el negocio, y que de su parescer devía embiarle quarenta cavalleros y una compañía de italianos de la isla de los que estavan en Malta y en el castillo, lo qual fuesse con toda brevedad en la galera del Gallo y en la del capitán Moreto, que estava al sueldo de la Religión, y escrivir al visorrey de Cecilia muy encarecida y encargadamente le embiasse para mejor guarda de Malta una o dos compañías de los españoles que de España le avían venido, pues por estonces no los havría menester, dándole relación de la provisión que para Trípol hazía. Y paresciéndole bien al gran Maestre lo aprobó, y con diligencia en las dos galeras mandó embarcar los cavalleros e italianos, y escrivir a Chambarí que, como le tenía encargado y mandado, tuviesse muy buena guarda en la fuerça y diesse muy buena qüenta della, y que, para que mejor la resistencia el armada, si sobre ella fuesse, pudiesse hazerle, embiava aquellos quarenta cavalleros y compañía de italianos con los quales la guarnición del castillo y primer socorro que le avía parescido estar bastantemente proveído.

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Y embarcados los cavalleros e italianos, y llevando el viaje de Trípol, escrivió al visorrey de Cecilia avisándole de la provisión que avía hecho y rogándole mucho le mandasse dar para la guarda de Malta las dos compañías, las quales él mandaría pagar. Y vista por el visorrey su carta, mandó hazer algunos soldados para embiarle. Pues como el paxá tuvo embarcado toda la presa del Gozo, estando en la mar mandó llamar en su galera a Dragut y Salarráiz, y siendo juntos con algunos sanjaques les dixo que, pues la empresa del Gozo avían fenescido y salido con ella, pensassen en si bolverían a la isla de Malta a apoderarse de la ciudad y castillo o si llevarían la vía de África o de Trípol. Y por ellos oído, tractaron y comunicaron el negocio, y fin de muchos consejos que tuvieron y paresceres que tomaron, en quatro días que moraron en la mar les paresció que no se llevasse la vía de Africa pero que llevassen la vía de Trípol, la qual cercassen, batiessen y combatiessen hasta averla por suya, y que, apoderados en ella, podrían bolver sobre Malta o irían contra Africa como mejor les paresciesse. Y paresciéndole bien al paxá lo aprobó, y a los treinta de julio mandó alçar velas y llevó la vía de Trípol. Y como partió del Gozo y el gran Maestre supo el grandíssimo daño que en la isla avía hecho en gran manera lo sintió, y cargándose culpa dello le dolió el coraçón. Mas viendo el poco remedio que ya en ello podía dar, no hizo ninguna provisión, antes, como partió el armada y el viento con que navegava era xiroco, tuvo por entendido el viaje que llebava y quedó algún tanto consolado con el socorro que nuevamente avía embiado para la guarda de Trípol. Y estando en esta congoxa arribó a Malta a dos de agosto un cavallero francés llamado Mos de Aramón con dos galeras y un vergantín, que se dezía iva a Constantinopla por embaxador del rey de Francia a tractar sus cosas con el gran Turcho. El qual el año passado avía estado negociándolas en su corte, aunque también se publicava iva a procurar de llevar el armada para contra el Emperador a Tholón de Francia. Al qual el rey avía mandado proveer de vituallas y municiones, y desamparar de vezinos y moradores, porque los turchos no les hiziessen los daños que Barbarroxa les hizo quando su padre en aquel mesmo lugar con orden del gran Turcho le truxo, y que sobre ello avía mucho instado con fin de hazer grandes daños en los vassallos y tierras del Emperador, a fin de ocuparle y embaraçarle que no le pudiesse estorvar el socorro que quería dar a Parma, tierra importantíssima de la Sancta Iglesia Romana que el duque Octavio, yerno del Emperador, posseía, a quien dava

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favor contra ella que le es feudatario y agora le está rebelde. Y desembarcado con algunos de los que con él ivan, fue a besar las manos al gran Maestre, el qual le rescibió bien y, después de averle mucho honrado, sabiendo y conociendo él su congoxa, por consolarle le dixo que del daño que el armada turchesca avía hecho en la isla del Gozo y assí en Malta, por ser en tierra de christianos, le avía mucho pesado; y porque dezían iva la buelta de Trípol con fin de tomarla, él llevaría la mesma vía; y si el paxá no traía para ello espresso mandado del Turcho, haría por estorvárselo; y si cercada la tuviesse, travajaría con él que le alçasse el cerco y la dexasse en paz. Y se fue. Y mostrando agradecérselo, el gran Maestre le dixo que mucho holgaría dello, y con esto Mos de Aramón se despidió dél y se bolvió a embarcar, y llevó la vía de Trípol.

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CAPÍTULO LXVI Cómo el paxá con el armada llegó a Trípol y la reconosció y puso cerco para combatirla, y cómo Morataga le fue a visitar y le embió bastimentos.

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Su navegación prosiguiendo el paxá la vía de Trípol, a los quatro de agosto por la mañana llegó a vista de la ciudad, y con el armada fue a la Torre del Aguada y ocupó el mar hasta la punta de Langil tres millas de la ciudad, donde mandó desembarcar la mayor y mejor parte de la gente y quarenta cañones gruessos de batalla, y gran quantidad de municiones, pelotas, pólbora, escalas y otros aparatos. Y como los turchos tomaron tierra començaron a hazer el mal y daño que podían, assí como en Malta y El Gozo. Y el paxá con Salarráiz y Dragut y dozientos geníçaros, siendo noche, fue a reconoscer la fuerça y castillejo que estava mil passos de la ribera del mar a la punta del puerto, donde estava un cavallero italiano por principal con treinta y tres soldados españoles para guardarle, y Mos de Chambarí en Trípol con la guarnición que en ella tenía, y con el segundo socorro que ya le avía llegado, y cien moros de paz, y con que avía fortificado de los muros adentro con tierra y madera de un fuerte terrapleno; y sobre los torreones de Sanctiago y Sancta Bárbara hechó defensas para guarda del artillería y artilleros que la jugassen, y estava a todo buen recaudo. Pues el paxá con Dragut y Salarráiz y geníçaros reconosció el castillo, y comoquiera que algo fuerte le paresció, aunque no a Dragut, porque dezía era muy flaco, tuvo consejo con él y con Salarráiz y con algunos sanjaques sobre cómo apoderarse dél. Y aviéndolo comunicado y consultado, fueron de parescer que se escriviesse al general que luego la entregase y se le daría licencia para que con algunos se fuesse libremente en salbo a Malta, aperciviéndole que, si no lo cumplía como a mandar se le embiasse, a ninguno perdonaría, y que, si luego no quisiesse rendirle, se hiziesse todo lo possible para tomarla por fuerça de armas, haziendo trinchea en la qual plantassen su artillería y se le començasse a dar la batería, y se escriviesse a Morataga, que en Thajora seis millas estava de allí, que les embiasse alguna provisión, porque ya era menester. Y paresciéndole bien al paxá lo aprobó, y escrivió luego a Chambarí diziendo que aquella fuerça avía sido de los servidores de Mahomad, y nunca avía pertenecido ni tenido a ella ningún derecho la Religión, y que, porque la voluntad del gran señor y suya en su nombre era no estuviesse más en poder

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de christianos, le mandava que vista su letra, sin poner escusa ni dilación, ni responderle ninguna injusta réplica, le saliesse a entregar las llaves della, reservando él en si ponerle en libertad con las personas que le paresciesse. Y lo contrario haziendo, mostrándose rebelde y contumaz al tal mandamiento, le avisava y apercebía se la tomaría por fuerça de armas, y a todos los que dentro estuviessen, assí grandes como chicos, sin misericordia hasta los perros y gatos mandaría passar a cuchillo. Y como la escrivió mandó ir uno de los suyos con ella al general al castillo, con las insinias de embaxador para que no recibiesse daño. El qual, siendo junto a la puerta, por Chambarí le fue mandado abrir para saber su mensaje; y recibida la carta y leída antes los cavalleros y gente que estava en el castillo, y avido consejo con todos, le respondió que aquella fuerça él la tenía por el gran Maestre y cavalleros de la Religión, a los quales tenía hecho pleito omenaje de no la entregar a otro sino a ellos, o a quien por ellos le fuesse mandado, y que aquello pensava conplir sin faltar en cosa por no ir contra lo que tenía jurado; y que si aquel castillo avía sido de moros, primero avía sido de christianos, a quien más justamente y por más claro derecho pertenecía, por lo qual de ninguna manera ni por alguna vía haría cosa en contrario. Lo qual le respondió por letra, assí como por carta el paxá se lo avía embiado a dezir, y con el mesmo mensajero. El qual con ella fue a él y se la dio. Y vista por él en presencia de Dragut y Salarráiz, avido consejo entre ellos cómo se combatiría el castillo, Salarráiz y Dragut fueron de parescer que desde otro día a los cinco de agosto se cercasse, y que como las trincheas fuessen hechas, aunque no muy anchas ni aviertas, se diesse el salto al castillo, pues tenían tanta y tan buena gente que no se lo podrían resistir, y se escriviesse a Morataga como estava acordado. Y veniendo en este parescer, el paxá mandó hazer trinchea a los gastadores y forçados christianos y captibos gocianos, y llevar el artillería a ella; y escrivió a Morathaga dándole aviso de su venida y quál era su voluntad y determinación, y encargándole que le proveyesse de algunas vituallas y bastimentos. Pues como el paxá mandó hazer la trinchea, con gran diligencia se començó a llevar a ella el artillería, y los gastadores y remeros trabajando y los turchos llevándola fue hecha, aunque no muy ancha y honda, y asestados contra dos lienços del castillo los quarenta cañones, contra los quales Chambarí tenía plantada el artillería en los torreones, porque desde allí podía hazer mayor daño.

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Y como la trinchea se hazía y la artillería se asestava contra el castillo, un portero muy antiguo en Trípol, viejo y tuerto y mal francés llamado Cavallón, lo más secretamente que pudo aquella mesma noche tomó de su casa sus dineros y cosillas y se lo ciñó al cuerpo a raíz de las carnes, y, desamparando su muger y hijos que tenía dentro, se fue por el muro y se paró a mirar cómo los moros trabajavan. Y estando con mucha dissimulación ligó una cuerda a una almena del muro y se descolgó dél sin ser sentido, y se fue para la trinchea. El qual fue luego tomado por las escuchas que el paxá tenía puestas para aver a quien entrase o saliesse del castillo. Y llevado ante él y por él preguntado dó iva, le dixo: «Señor, vengo a daros aviso cómo sin daño ayáis esta fuerça». «¿En qué manera?», dixo el paxá. Cavallón le dixo: «Conviene, señor, que mandéis mudar la artillería que tenéis asestada contra el castillo, porque a la mesma parte está puesta toda la que ay en él para contra vuestras baterías, y jugando no os dexará hombre a vida ni pieça que no os rompa y quiebre; antes batí contra aquellos dos torreones, porque por allí le avéis de entrar por ser lo menos fuerte dél». Los quales le señaló. Conociendo el paxá que hombre tan de poco y tan bil, que a los de su ley, amigos y conocidos, salía a vender de miedo y temor que tenía de verse ante él no diría el contrario de la verdad, le dio entero crédito; y sin otra más relación, viendo el mucho daño que desde ellos rescibía, porque le avían muerto cien gastadores y turchos de los que hazían la trinchea y llebavan el artillería, la mandó mudar a las partes donde le dixo e ir haziendo otra trinchea más acercándose a la fortaleza, llevando dentro della quinientos escopeteros geníçaros con orden de que, a qualquier hombre que por los torreones, muros o troneras paresciessen, tirasen a derribarle y matarle. Y como la trinchea fue hecha y plantados los quarenta cañones en ella, y entre cada uno sus cestones de arena, tocando sus atambores y gaitas mandó començar la batería contra las defensas del castillo, que estavan hechas sobre los torreones desde donde la jugavan. La qual se començó muy rezia y peligrosa, y de la mesma manera le respondían de los dos torreones matando turchos geníçaros y spachís y gastadores, aunque reciviendo los christianos daño porque aquel día les mataron quatro artilleros y mal hirieron dos y derribaron mucha parte de las defensas, de que Chambarí cobró gran temor. Y venida la noche, el paxá mandó poner en la guarda de las trincheas y artillería otros mil turchos y artilleros descansados, e ir a tomar reposo los

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que aquel día avían travajado, y continuar la batería. Y siempre hazían lo mesmo de Trípol, respondiéndole de los torreones con que, desde que començaron a dar la batería hasta otro día que les derribaron de todo punto las defensas y quitó las vidas una pelota de un cañón que entró por una cañonera a quatro soldados, mataron trezientos y sesenta turchos. Pero como avía llevado los reparos y algunos artilleros y soldados por aquella parte, ya no andava ni parescía gente y a Chambarí se le acrecentó mucho más el miedo y temor, Mos de Aramón, que la vía de Trípol llebava, con buen viento que tuvo en muy poco tiempo llegó al puerto donde estava el armada, puestas en sus galeras y vergantín estandartes y vanderas con flores de lis, para ser conocido de los turchos por francés; y haziendo salba al armada, con algunos de los que ivan con él desembarcó y fue a ver el paxá. Del qual fue bien rescebido, conosciéndole porque por embaxador del rey francés en Constantinopla dizen le tractó y conversó. Pues como Chanbarí cobró el temor grande que dezimos, pensando cómo verse fuera dél mandó juntar todos los cavalleros y soldados que estavan en Trípol. A los quales hizo plática diziéndoles que ya veían las bravas baterías que los turchos al castillo davan, con las quales avían derribado los bestiones que avían hecho sobre los torreones para guarda de su artillería y de la gente que estava dentro, y les avía muerto parte de los artilleros y los demás estavan muy mal heridos, y assimesmo las pelotas que por las cañoneras avían entrado les avían muerto otros soldados y ya ivan derribando los muros, y que a continuarlo, como estava cierto que no le dexarían de continuar, por fuerça les entrarían y ganarían el castillo y todos serían muertos a sus manos y captibos en su poder, y que para remediarlo sería muy mejor tractar partido con el paxá cómo entregándole la fuerça los dexasse ir libres con sus armas y haziendas, mugeres y hijos a los que los tenían, y que, paresciéndoles assí, él lo quería començar a negociar. Oída su propusición, a todos o a la mayor parte, assí de los cavalleros franceses como a los soldados, paresció muy mala y fea. Y teniéndole por hombre de poco y de pusilánimo se miraron unos a otros y estuvieron gran rato sin responderle. Mas aviendo sobre ello comunicado le dieron por respuesta que aún no estavan tan flacos de muros ni tan faltos de artillería y municiones, ni tan necesitados de vituallas y gente porque aquello se deviesse hazer, y que de su parescer no sólo no devía tractarse pero ni aún pensarlo, sino persuadirse y esforçarse a fortificar y guardar su castillo y morir sobre la defensa dél peleando, y que haziéndolo assí cumplirían con

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Dios y con el gran Maestre y con toda la Religión que se lo avía encomendado, y sabrían y ternían noticia cómo avían hecho su dever, y que con hazerlo assí quedarían victoriosos y muy honrados y se ternía dellos buena memoria. Mas no contentándole ni satisfaziéndole a Chambarí esto, lo dissimuló por estonces. La carta que el paxá escrivió a Morataga le fue dada en Thajora; y vista por él, y sabido cómo el armada turchesca avía tomado tierra y tenía cercada a Trípol (que él mucho desseava aver por suya, o por lo menos verla en poder del gran Turcho o de otro de su secta, por escusar los males y daños grandes que de cada día rescibía de los cavalleros y soldados de la Religión que tenía por vezinos, porque le corrían y robavan el campo y muchas vezes hasta las puertas de Thajora sin poderlo remediar) se alegró mucho. Paresciéndole era venido el tiempo en que de aquellos travajos y fastidios podría quitarse con ganarla, mandó tocar sus trompetas y gaitas para recojer y juntar sus turchos y moros. Las quales oídas en la ciudad, y yendo la nueva de mano en mano de cómo en Thajora se avía tocado, por los lugares, aduares y caserías donde estavan de morada, pensando que rebato de los cavalleros de la orden como otras vezes les davan fuesse, cada uno con sus armas fue para Thajora; y siendo juntos, Morataga les dio a entender cómo el armada del gran Turcho tenía cercada a Trípol, con fin de desapoderar della a los christianos que por capitales enemigos tenían, de quien tantos males y daños avían rescibido, y que, para darle todo favor, aunque no lo havría menester, quería que con sus armas le acompañassen al campo turchesco donde estava el paxá. Aviéndole todos oído, con mucha alegría que de la plática rescibieron le dixeron que allí estavan prontos y prestos para servirle como sus vassallos en aquello y en todo lo que más les mandasse. Y assí Morataga escogió entre todos dozientos y cinqüenta hombres de cavallo y quinientos escopeteros, los que para más y más luzidos y de mejores cavallos le paresció, siendo la mayor parte dellos turchos. Con los quales llevando su estandarte y vanderas, tocando sus tronpetas y gaitas, como hombre de guerra fue para do estava el paxá, mandándole llevar un gran presente de aves, carneros, vacas y terneras, y otras vituallas para el armada. Y llegando a la tienda del paxá fue dél muy bien rescibido, y assí de Dragut, su grande y muy especial amigo, y Salarráiz, que con él mucho holgaron.

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CAPÍTULO LXVII Cómo Mos de Chambarí tractó partido con el paxá y le entregó la fuerça de Trípol.

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Viendo Mos de Chambarí la rezia y continua batería que davan a Trípol, y que en dos días que avía que la batían le avían llevado las obras muertas y reparos que en los torreones, para guarda del artillería y artilleros, avía mandado hazer, y muerto los artilleros y soldados que avemos dicho, y començava a derribar los muros, con el mucho temor que se le avía acrecentado tornó a pensar en el negocio. Y aviendo sobre ello mucho pensado, y la contradición que para tractar partido con el paxá en los cavalleros y soldados hallava, secretamente se juntó a consejo con don Pedro de Herrera çaragoçano, thesorero de Trípol, y Simón de Sosa portugués, capitán de gente de cavallo, y Borje mallorquín, cavalleros de la Religión que tenía por grandes amigos, y con Pedro Ariste, gascón alguazil, y García de Guevara, a quien este nombre dizen no pertenescía por serle postizo. A los quales tornó a referir el negocio que el día antes avía propuesto a los cavalleros y soldados, y diziéndoles cómo estava en determinación de tomar partido con el paxá, hora fuesse con su voluntad hora sin ella, por salbarlos y a las mugeres y niños que estavan en el castillo, pues se conoscía que no podía dexar de venir en manos de los turchos y que para ello quería que le diessen su parescer. Los quales aviéndole oído comunicaron el negocio, y no mirando lo que como buenos y leales cavalleros devían, ni a la honra de su maestre y religión, inconsideradamente le respondieron que él tenía bien pensado el negocio y assí convenía se hiziesse sin embargo de la contradición de los cavalleros y soldados que lo estorbavan, y aquello devía llevar adelante y traer a efecto. Y paresciéndole bien a Chambarí, por ser aquello lo que él desseava lo loó y aprovó; y otro día de mañana, entregando las llaves de las puertas del castillo al Simón de Sosa, y encomendándosele y mandándole sin su licencia a ninguno dexasse entrar ni salir dentro, se salió dél por una puerta falsa, llebando con él a Pedro Ariste y a un griego llamado Phelipe, que entendía muy bien la lengua turchesca, y fue en busca de Mos de Aramón de quien dizen ya tenía noticia estava allí. El qual fue tomado por las escuchas del paxá y llevado ante él, y por él preguntado quién era le dixo la verdad y cómo avía salido de Trípol por hablar al cavallero francés, que avía sabido estava en el armada. Al qual el paxá mandó llevar a Mos de

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Aramón y que le dixesse que le entregasse luego a Trípol, dándole a entender cómo aquello le convenía para que él fuesse salbo. Y como Cavallón el portero vio fuera de Trípol a Chambarí, y conosció que los torreones y muros no le harían daño porque por temor del artillería no estavan parados a ellos, llegándose dellos muy cerca a grandes boçes començó a llamar los cavalleros y soldados. Y como le oyeron, algunos se pusieron encima por saber qué quería. Y como los vio les dixo: «Señores, por amor de Dios os suplico me perdonéis porque me salí de con vosotros, y que no me culpéis, porque os doy mi fee como christiano que no fue de mi voluntad, sino porque siendo mandado no lo pude dexar de complir». Maravillados los cavalleros y soldados de lo que le oyeron, le preguntaron les dixesse quién se lo avía mandado. El qual les dixo que aquello no quisiessen saber dél, porque él no lo avía de dezir, mas de que supiessen que avía sido mandado por quien avía podido mandarle, y que sin ninguna falta aquello era la verdad. Y diziéndolo se fue y los dexó, de que no poco maravillados y turbados quedaron de averle oído lo que les avía dicho, no sabiendo qué se pensassen dello. Pues llevado Chambarí a Mos de Aramón, conoscido con él se recibieron alegremente y quedaron por gran espacio juntos. En el qual tractaron del cerco que los turchos tenían puesto a Trípol, rogándole muy encargadamente le fuesse buen tercero para con el paxá. A lo qual Mos de Aramón, que ya el recaudo del paxá le avían dado, se dize le respondió que él tenía sabida y entendida la voluntad del paxá, la qual era porque llebava mandado del gran Turcho de tomar a Trípol, de no alçarle el cerco hasta que la fuerça le rindiesse o por fuerça de armas se la ganasse, y que por aquello no convenía tractar ninguna manera de negociación con él si no pensava en entregársela luego, y que aquello devía hazer, pues por cosa muy sabida sabía que por mar ni por tierra no le podía ir ningún socorro; y por mucho que se fortificasse y defendiesse no podría dexar de ser en su poder, y que, entendido por Chambarí esto, lo puso en sus manos para que negociasse con el paxá. Lo qual dizen Mos de Aramón le loó, diziéndole que aquel era el verdadero camino para salbarse. Algunos quieren dezir que por algún aviso o seña suya Chambarí salió del castillo para hablarse y comunicarse en él, para dar orden cómo entregassen la fuerça a los turchos; y a esto paresce que corresponden las palabras que el portero Cavallón dixo a los cavalleros y soldados. Otros lo contradizen,

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diziendo que no passaría en realidad de verdad, ni a un tal se devería creer por ser christiano, si algún secreto mandado de su rey no llevasse, por ser tan amigo del Turcho, porque siempre ayudasse y favoresciesse sus cosas y negocios para contra el Emperador, de lo qual como adelante diremos el rey se descarga, sino que Chambarí como covarde y muy falto de ánimo lo hizo. Mas empero, sea lo uno o lo otro, que comoquiera que ello aya passado se tiene por cierto el Mos de Aramón tractó los partidos y la manera de cómo Trípol se rindiría en nombre de Chambarí con el paxá; y fin de quatro días que nunca en todos ellos la batería que se dava contra el castillo cessó, se dio orden, según Mos de Aramón dizen dixo a Chambarí, que el paxá prometía que todos los cavalleros, soldados, mugeres y la otra gente del castillo saliessen con sus armas y haziendas que tuviessen, sin que los turchos los enojassen y los embarcassen en las dos galeras y vergantín francesas en las quales se llevassen a Malta, y que, dándole entero crédito Chambarí, paresciéndole avía bien negociado lo acebtó, amando el bivir y aborreciendo el morir como si uviera de quedar inmortal, aviendo corrido el más y mejor tienpo de su vida no queriendo considerar quánto devía mirar por su honra y guardar y complir el pleito omenaje que, como cavallero, avía hecho de no entregar la fuerça sino al gran Maestre y a la Religión, de quien la avía rescibido, o a quien por ellos le fuesse mandado. Eligió el quedar infame y fementido, y ser de todos aborrecido, tenido en poco y menospreciado, haziendo lo que no devía, pudiendo quedar para in eternum muy honrado y dexar memorable memoria de sí con que a muchos dexara con más embidia que manzilla, atreviéndose y aventurándose a morir sobre tal defensa con que salbava la honra y honrava el cuerpo y collocava en la gloria entre los bienaventurados el ánima, que es cosa por que qualquier christiano generoso y virtuoso no sólo se ha de ofrescer a la muerte mas aun dexarse martirizar. Hecho el concierto, las baterían que se davan contra Trípol cessaron por mandado del paxá, no aviendo aún derrivado del muro hasta el cordón; y otro día de mañana, catorze del mes, víspera de Nuestra Señora de agosto, fue para la muralla con los que con él avían salido, y a bozes llamó al capitán Sosa. El qual oyéndole se puso al muro, y conosciéndole le dixo qué mandava. Al qual Chanbarí dixo que abriesse la puerta del castillo y echasse la gente del fuera, porque todos podían salir e ir con sus haziendas libres, salbos y seguros a Malta, porque assí lo tenía concertado. Oído por el Sosa lo dixo a los cavalleros y soldados, y que, pues general de aquella fuerça era, convenía se hiziesse lo que mandava. Los quales se pararon a

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pensar en el negocio, mas, considerando que Chanbarí de todos era muy obedescido y del gran Maestre y de la Religión honrado y respectado, y que por su mucha antigüedad y ancianidad estava muy cerca de ser maestre, y le pertenescía y lo fuera faltando el que lo era, y que lo que él hiziesse sería bien hecho y que a él se le daría y cargaría la culpa de perder a Trípol como la gloria de averla defendido y guardado, no lo contradixeron más de dezir que muy mejor sonaría al gran Maestre y a la Religión, y en general a toda la christianidad, quedavan muertos en Trípol que no les parescería verlos bivos en Malta. Mas dissimulándolo todo, el Sosa apercibió toda la gente, y ayudando y faboresciendo el negocio don Pedro de Herrera y Borje mallorquín y Pedro Ariste sin más dilación, llevando cada uno consigo sus dineros y joyas lo más encubiertamente que podían, para que los turchos dellos no los despojassen, las puertas del castillo fueron aviertas. Por las quales començaron todos a salir, y, como fueron fuera, el paxá mandó despojarlos y tomar por captivos todos los soldados, los quales eran malteses, calabreses e italianos con más dozientas y cinqüenta mugeres y sus hijos, y un clérigo y veinte y dos mercaderes y oficiales, dando solamente libertad a onze hombres muy viejos de que no se podía servir y a ciento y veinte cavalleros franceses que a ninguno dellos captibaron ni despojaron, y a algunos italianos y al don Pedro de Herrera, Sosa y Borje y los que salieron con Chambarí, y otros algunos que por todos fueron hasta ciento y cinqüenta personas. Y mandolos embarcar aunque no con poca quexa que del paxá dava Chambarí, diziendo que no le guardava la palabra que le avía dado. Y quedando Cavallón con su muger y hijos con los turchos para ir en Turchía, porque no descubriesse quién le avía mandado salir del castillo, y también porque tuvo temor que por el aviso que el paxá avía dado, yendo en Malta le justiciarían como lo merescía. El llanto de las mugeres y sentimiento de los soldados que de verse engañados hazían, era de averlos muy gran compassión, considerando los soldados quánto mejor les uviera sido morir defendiendo el castillo y sus personas, mugeres, hijos y haziendas que verse donde estavan, porque primero que se le ganaran se vendieran muy bien, y por ventura fuera tanto el daño que los turchos rescibieran que le dexaran y se fueran. Y ¡ay Dios quánto valiera y aprovechara aquí un buen cavallero o soldado esforçado que se pusiera en no consentir en este negocio, y haziéndose cabeça principal lo contradixera, y cómo le ayudaran! Porque començándolo a tractar, según lo mal les avía parescido la plática y ausencia de Chambarí, todos vinieran de

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concordia a guardar y no desamparar la fuerça, que por casa y morada tenían, y murieran en la defensa della de muy buena gana. Pues como los christianos a Trípol desocuparon y desampararon, el paxá mandó entrar en ella a Morataga con sus turchos, aviendo sido de christianos desde el día de Sanctiago de mil y quinientos y diez que el conde Pedro Navarro, capitán de los Cathólicos Reyes de España don Hernando y doña Isabel de buena y gloriosa memoria, con gente española por fuerça de armas la ganó a los moros hasta este día, víspera de Nuestra Señora deste año de mil y quinientos y cinqüenta y uno que la entregaron a los turchos, quarenta y un años y veinte días. La possessión de la qual se tiene por muy cierto durara para siempre, si el Emperador no la dexara ni apartara de la Corona Real por darla a la Religión. E ya que la dio, si el gran Maestre y cavalleros del consejo della la uvieran mandado fortificar, bastecer y proveer como convenía con tiempo pues no les avía faltado, y constándoles cómo de la venida del armada turchesca les avía constado, pusieran para guardarla un hombre bastante de honra y afrenta que antes muriera que la entregara, y no dexando la fiel encomienda della a un inávil, temerario y de poco como paresció, aunque dizen en otros tiempos le avían encomendado cosas arduas de que avía dado muy buena cuenta, y no dexaran a tan mal recaudo la gente de la isla del Gozo, el armada uviera ganado poca honra y muy menos provecho, porque con la pérdida que en Malta y Cecilia avía rescebido y la que assí en Trípol rescibiera sin osar ir contra África como no avía osado, se bolviera por donde se vino. Pues embarcados los cavalleros, soldados, mugeres y niños, los unos para llevar a poner en libertad a tierra de christianos y los otros para ir al captiberio a la de los infieles, los unos muy tristes y lastimados y los otros muy sentidos y mal contentos, el paxá entró en el castillo, donde halló cien pieças de artillería de bronze, cañones gruessos, culebrinas, medias culebrinas y muchas lombardas de hierro, arcabuzes, escopetas, arneses, coseletes, picas, visarmas, lanças y otras armas de lo qual todo se apoderó. E paresciéndole buena la fuerça, mandó cerrar y reparar lo que de los torreones las baterías avían derribado, y embió a mandar al cavallero italiano y soldados españoles que estavan en el castillejo que luego se le rindiessen y sus personas a su merced, si no querían morir hechos pieças. Y siéndoles dado el mandado y comunicádose sobre ello, aunque considerando que, entregada Trípol al paxá, ellos no podían con fuerça resistirse, tuvieron por mejor allí peleando morir de su voluntad como verdaderos y esforçados

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españoles que darse contra ella por esclabos captibos, si primero el paxá no les prometía y dava señal que no los enojarían ni quitarían sus armas y haziendas, y mandava llevar en las galeras con los cavalleros a Malta. Y assí lo dieron por respuesta al mensajero, que bolvió y lo dixo al paxá. El qual teniéndolos en mucho y paresciéndole que, si tal gente como aquellos pocos fueran todos los que estavan en Trípol, no la uviera tan ligeramente como la uvo, por estorvar el daño que dellos le podía venir tuvo por bien de otorgarles lo que le pidieron, y sacó un anillo de un diamante del dedo y se lo embió por señal de seguridad. El qual por ellos rescibido desampararon el castillo, y, sin que ningún enojo se les hiziesse, fueron rescibidos y embarcados en las galeras con Chambarí y los demás. Por donde cresce más la sospecha que alguna mala trama uvo en este negocio para entregar la fuerça y contra los que estavan en ella, porque como el paxá dizen quebró la palabra a Chambarí también la pudiera faltar a los del castillejo, sin que por ello cobrara más infamia de la cobrada. Embarcados los que avían de ir a Malta, el paxá mandó navegar con ellos a Mos de Aramón, el qual llevó la vía de la isla para dexarlos en ella. Y por que Morataga y Dragut cada uno por sí le pedían la fuerça de Trípol, no estando satisfecho de la fidelidad y lealdad de Dragut, tuvo por bien de darla a Morataga assí por esto, como porque le dio veinte mil escudos en oro y con que hizo pleito omenaje de tenerla por el gran Turcho, y que después de sus días se la dexaría para que hiziesse merced della a quien fuesse servido. Y porque los moros de paz que estavan en Trípol con los christianos algunas vezes avían hecho daño en los moros de Thajora, por que no quedassen sin pena ni del todo castigados, les mandó maltractar de palabras y manos, y quitarles parte de sus haziendas sin rescibirles ningún descargo, aunque si el boto de Dragut, en quien muy poca piedad avía, se tomara, los enpalaran a todos.

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CAPITULO LXVIII Cómo Mos de Aramón echó en la isla de Malta a Chambarí y los que más llebava, y cómo Chambarí se presentó ante el gran Maestre y lo que él proveyó contra él y contra otros, y de una carta que el rey de Francia le embió.

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Mos de Aramón, que la vía de Malta con Chambarí y los cavalleros franceses y pocos spañoles llebava, con buen viento que tuvo en pocos días fue en el puerto de la isla donde los echó en tierra, y sin ver ni hablar al gran Maestre se fue. Y Mos de Chambarí con los que con él ivan fue para el castillo a presentarse ante el gran Maestre; por el qual sabida su venida, y de los que consigo traía, en gran manera se entristeció, entendiendo por ella que Trípol estaría en poder de turchos. Y para saber lo que sobre ello passava, antes que la viesse mandó llamar los del consejo; y siendo juntos, en presencia de todos le preguntó que a quién avía dexado la fuerça de Trípol, que por él y por la Religión le avía sido dada en tenencia y fiel encomienda, pues a él y a quien por ellos le fuesse mandado avía jurado de entregarla, y no a otro. Respondiéndole Chambarí le dixo que el armada del gran Turcho se la avía cercado y batido muy rezio, specialmente los torreones de Sanctiago y Sancta Bárbara, los quales le derribavan por tierra y los muros con ellos, y le matavan los artilleros, cavalleros y soldados, y que, conosciendo que no la podía defender ni salbarse, y que por fuerça se la avían de tomar, le avía parescido darla a partido de salbar las personas y haziendas de los que en ella estavan, y que, aviéndolo con el paxá concertado, le avía quebrado la palabra, porque solamente avía dado libertad a ciento y cinqüenta cavalleros y soldados, y todos los demás se avía llevado captibos. El gran Maestre le dixo que bien que assí fuesse lo que dezía, pues tenía gente de guerra con que resistir los turchos y defenderse, porque no aguardó a que le diessen el salto y peleara y hiziera su poder sobre ello, y que, quando no pudiera y del todo se viera perdido y sin esperança de remedio, lo hiziera. A lo qual Chambarí respondió que si al salto aguardara ya estonces no usaran con él ni con ninguno de misericordia, y que a todos les dieran la muerte sin perdonarles las vidas. Preguntado por el gran Maestre cómo avía passado por estenso el negocio, le especificó declarando con los que se avía comunicado y le avían dado para ello consejo, favor y ayuda como quiera que se cree callasse algo

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de lo que en efecto passó. Todo lo qual el gran Maestre mandó sentar al Secretario de la Religión, y meterle en prisión en el mesmo castillo y parescer ante él al thesorero don Pedro de Herrera y capitán Simón de Sosa y Borje mallorquín y Pedro Ariste y García de Guevara; a los quales mandó preguntar sobre el mesmo negocio y, rescibidas sus confissiones, los mandó llevar assimesmo en prisión. Y vistas todas en el consejo con más información que allí se uvo de los cavalleros y soldados, el gran Maestre preguntó a los del consejo qué les parescía se devía hazer de los presos. Los quales, aviéndolo bien considerado y consultado, le respondieron que por el mal caso que avían cometido eran dignos y merescedores de toda punición y castigo, el qual se les devía dar y no perdonarlos, y que, ante todas cosas, devía mandar proceder contra ellos por justicia y desgraduarlos, y luego remitirlos al braço seglar para que, hecho processo, por los términos del derecho fuessen justiciados en pena de su grave culpa y delicto. Esto quanto a los que eran cavalleros, y hazer luego la remissión de los que no lo eran para que contra todos procediessen y siendo justiciados les fuesse castigo y a otros exemplo y constasse en la christianidad de su maldad y pena que se les diesse. E paresciéndole bien al gran Maestre, lo aprobó y señaló para ello speciales juezes, a quien dio su poder complido. Los quales, hecho el processo en forma, aviéndoles oído sus descargos, a cinco de septienbre pronunciaron sentencia por la qual los desgraduaron y remitieron al braço seglar. El qual mandó ahorcar los seglares y procedió contra los cavalleros desgraduados para darles muerte natural. Y, porque por la confisión de Chambarí y de otros culpados, y más indicios y presunciones que uvo sobre el entregar de Trípol a los turchos, se dize que el rey de Francia entendió que el gran Maestre se quexava dél, porque dezían que avía intervenido su embaxador en el concierto como que le hazía sabidor del tractado, y que por su mandado se avía hecho subreticiamente, agraviándose mucho dello le escrivió con un cavallero de su casa diziendo que él estava muy sentido y no con poca querella dél, por averle puesto en fama de que él uviesse sido en que Trípol se entregasse a los turchos, por estar como estava dello muy inocente y sin culpa, y que aquello no se avía de pensar ni presumir ni tener tal concebto dél, porque antes, como rey christianíssimo que era, assí como lo avían sido los reyes sus antepassados, él ampararía, guardaría y defendería las tierras de la Religión de poder de los infieles, siempre que su ayuda uviesse menester. Y que si su embaxador en ello uviesse intervenido, mandasse hazer dello auténtica

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información y embiársela, que, siendo suficiente, él le mandaría dar tal pena por razón de su culpa, que le fuesse rezio y grave castigo, y dello se tomasse exemplo entre christianos para no hazer casos tan feos y malos, y diesse crédito a lo que cerca dello el cavallero que le diesse su carta le dixesse. El qual con la carta fue en Malta y la dio ante los del consejo al gran Maestre, y después de averse leído, porque a ella más entero crédito se diesse, en nonbre del rey y en su ánima juró y hizo salba ser cierto y verdadero lo que en ella escrivía, y no aver sido en dicho ni hecho ni mandado ni sabidor de ninguna cosa dello. Y por el gran Maestre vista la carta y oída la salba, dixo que le mandaría responder. Sabida la nueva de cómo Trípol era perdida por el visorrey de Cecilia y assí del de Nápoles, ambos lo escrivieron al Emperador, y lo mesmo hizo el gran Maestre, desculpándose a sí y a la orden diziendo aver hecho todo lo que avía sido en su mano y conforme a la possibilidad y poder de la Religión, y cargando la culpa a Chambarí y a la trama que sospechava aver andado de por medio, y suplicándole humildíssimamente no le culpasse en el negocio, porque en realidad de verdad no lo merescía. Y vistas por el Emperador las cartas y entendido lo que por ellas se le escrivía, lo sintió grandemente, y tanto que se tuvo por cierto aver sido una de las cosas que mayor pesar le avía dado, doliéndole en el coraçón que, por aver hecho bien y merced a la Religión, lo uviesse tan mal mirado en no aver puesto mejor guarda y recaudo en fuerça de tanta importancia, especialmente por aver sido ganada por los Chatólicos Reyes sus abuelos, la qual deviera para siempre guardar y conservar. Mas viendo que ya era perdida, y que por estonces no se podía recobrar, con ánimo y voluntad de tornar a recuperarla y restituirla a la Corona Real y resistir el armada del Turcho y hazerla que no fuesse tan osada y atrevida como se avía mostrado, mandó hazer una buena quantidad de galeras y armarlas assí en el reino de España como en los de Nápoles y Cecilia y otras partes, para que, juntas con las que tenía, fuesse armada tan bastante que pudiesse dar la batalla a la del Turcho y salir con la victoria mediante el divino favor. Y por agora dexaremos de tractar desto por dezir lo que en Ungría suscedió, que fue causa principal que el armada bolviesse en Constantinopla.

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CAPÍTULO LXIX Cómo el Rey de romanos embió su Capitán general con gente de guerra a conquistar algunas tierras de su reino de Ungría que estavan en poder del gran Turcho.

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Es opinión de muchos que los reyes de Ungría vienen a reinar por elección de los úngaros, por ser como dizen es tal constitución y espresa ley de aquel reino, comoquiera que nunca dexan de eligir el hijo del rey que reina aviéndoles sido bueno y justo príncipe, y por esta razón no puede venir por vía de suscessión en muger ni varón de ninguna manera si primero no sea eligido. Pues fue assí que, siendo Ludovico rey de Ungría, se tractó casamiento entre él y la sereníssima reina María, hermana del Emperador, governadora que agora es del condado de Flandes, y assí entre su hermano el sereníssimo Rey de romanos con la sereníssima reina, hermana del Rey. Y los matrimonios contraídos vinieron a complido efecto y de voluntad de los úngaros a elegir y jurar por rey y señor al rey don Hernando, muriendo Ludovico sin dexar suscessor. Y estando en esta esperança de reinar, porque el rey no avía hijos, suscedió que el gran Turcho con poderosa armada y exército muy pujante le entró el reino y tomó la fuerça de Belgrado, donde tienen su enterramiento los reyes de Ungría, y entró conquistando el reino. Y sabido por el rey Ludovico juntó de sus vassallos la mayor quantidad que pudo con que le fue a resistir, dexando mandado a un su vassallo varón muy principal llamado Juan Vaiboda, que era duque de Nardel y señor de muchas tierras y vassallos y muy en parentado, a quien tenía por governador de la Trasilvania y señalado por su lugarteniente y Capitán general de su exército, juntasse doze mil cavallos con que le fuesse a servir en aquella guerra. Y como el rey llegó a vista del canpo del Turcho, antes que llegasse el Vaiboda con el socorro, siendo mal aconsejado dio la batalla en la qual se perdió, y assí su exército. Y sabido por Vaiboda, que con los diez mil cavallos iva, se detuvo, y no mirando lo que como bueno y leal cavallero devía, tentado de la cobdicia del señorear y mandar, aviendo sido uno de los que al rey don Hernando avían jurado por rey y señor, hizo una plática en el canpo a los cavalleros y gente que consigo llebava, rogándoles y persuadiéndolos con amorosas palabras y muy largas promessas que allí le eligiessen y jurassen por rey de Ungría, y diziéndoles que, por ser más su natural, les sería mejor rey y haría mayores mercedes. Los quales, no teniendo más fidelidad y constancia que él, teniendo por mejor ser

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perjuros que fieles y que guardar la fee jurada y prometida, le eligieron, y con este injusto título de rey de Ungría bolvió a la Trasilvania y se apoderó de las fuerças della. En las quales puso sus alcaides y guarniciones, y se hizo jurar como si derechamente le pertenesciera la corona. Y como a noticia del rey llegó la muerte del rey Ludovico y la pérdida del exército, sintiéndolo mucho, lo más solepnemente que pudo le mandó hazer sus exequias y llamar los varones, nobles y perlados, cavalleros, ciudades y villas que con sus armas fuessen a servirle, para deshazer aquel nuevo tirano y perjuro rey que por induzimientos y mañas se avía hecho. Y acudiéndole todos los leales con exército formado, le fue a despojar de la Trasilvania y conquistar su propia tierra por lo que avía cometido. Y sabida por Vaiboda su determinación y pujança, no osándole aguardar, le desamparó la provincia y se fue a la ciudad de Buda donde se fortaleció. Y el rey se apoderó de la Trasilvania y quedó con el mesmo título de rey de Ungría, que por la justa y derecha eleción en él hecha le pertenecía. Y hallándose Vaiboda despojado y desfavorescido, a fin de salir con lo que avía intentado, metió al gran Turcho en el mesmo reino con tanta pujança que, no pudiéndole el rey resistir, le ganó la Trasilvania en que le apoderó con título de rey della, demás del reino de Ungría. Y el Turcho fue conquistando casi hasta despojarle del todo, y quedando el Vaiboda en esta possessión y con este título que dezimos, vino a enfermar de muerte, y, certificado que no podía más bivir, dexó por su heredero y suscessor a un su hijo muy pequeño a quien dexava elegido y jurado por rey de lo que posseía y se intitulava, y por sus tutores a fray Jorje Vaiboda su hermano y madama Isabel su muger, con el título de reina, y assí por sus testamentarios, y murió. Y queriendo bolver el rey a recuperar a la corona lo ganado por el Turcho y la Trasilvania, señaló por su lugarteniente y Capitán general de su exército a un su vassallo llamado conde de Salma. El qual con alguna quantidad de gente entró la Trasilvania, y contra la voluntad de la reina y del fray Jorje se le rindieron y entregaron algunos castillos fuertes; y hallando este buen principio, tuvo manera cómo se habló con fray Jorje y le dixo que él y la reina en nonbre del hijo de Vaiboda, pues como sus tutores podían hazerlo, restituyessen al rey la corona de Ungría y assí la Trasilvania, a que ningín derecho tenían, y que les sería lo más sano y provechoso si no querían ver su perdición, porque el rey no podía dexar de prevalescer y recuperarse. Y respondiéndole fray Jorje que lo comunicaría a la reina y se mirarían en ello y le responderían, se despidió dél y púsolo a la reina en plática. Y andando los tractos el conde murió, a cuya causa cessó el negocio y no tuvo fin.

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Pues siendo en este estado los negocios del rey, y en la Germania començó a obrar la mala y perversa secta lutherana, y no del todo los alemanes estavan firmes en la sancta fee cathólica, y sobre ello se avía levantado guerras y contiendas entre los príncipes, cavalleros y señores, como en la historia de aquella guerra diremos, fue estorvo grandíssimo para que el Emperador no diesse ayuda y socorro al rey tan complido como le fuera menester, a cuya causa el gran Turcho se acabó de apoderar del reino de Ungría, como a todo el mundo es cosa muy pública y tan notoria de que no se tiene ninguna dubda. Y continuando la victoria tentó tomarle el Archiducado de Austria, por desheredarle del todo. Lo qual efectuara si el Emperador, como rescibió la corona del Imperio, personalmente y con poderoso exército no le socorriera por la grande y poderosíssima armada con que vino y hízole retirar y bolver a sus tierras. Y estando assí desheredado, passó algunos días hasta que el Emperador, viendo que los alemanes estavan rebeldes en venir a la obediencia de la Sancta Iglesia Romana, con las armas en las manos los costriñó y hizo venir al Sancto Concilio que en el Trento se haze. La qual guerra fue ocasión que el rey fuesse más poderoso que era, porque los boemios que le estavan rebelados con su calor y favor, y por miedo y temor que le tuvieron, sabiendo la prisión del duque de Sassonia y que él iva costeando la Boemia, no apartándose della hasta allanarlos, se le rindieron a su merced, otorgándole tales servicios con que derechamente de allí adelante le reconosciessen. Y viéndose el rey absoluto señor de Boemia y desheredado de Ungría, fin de tres años que estuvo sin guerra juntó alguna quantidad de thesoro con fin de hazer canpo con que tornar a recobrar algunas de las tierras de Ungría. Y por el año de mil y quinientos y cinqüenta y uno, en el mes de junio mandó juntar tres mil úngaros y boemios, assí de cavallo como de pie, con mil y dozientos españoles que el Emperador le avía dado para guarda de sus tierras. Con los quales mandó partir a Juan Baptista Gastaldo, su lugarteniente y capitán general de su exército, a quien el Emperador assimesmo le avía embiado en su servicio, sabiendo ser la persona que le convenía, por tenerle por tal esprimentado, para efectuarlo. El qual, como era apto para tal cargo, llevó el camino que el Rey le mandó. Y sabido por el paxá que el gran Turcho con treinta mil cavallos tiene en Buda en guarnición de Ungría, mandó juntar los veinte mil, y con algunos sanjaques los embió a dar la batalla al campo del Rey. Y sabiéndolo Jan Baptista, y la quantidad de gente que era, confiando más en el favor del omnipotente Dios que en la mucha gente que llebava, porque como avemos

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dicho no eran todos más de tres mil, como prudente y sabio capitán eligió sitio a su propósito para dársela y aprovecharse, y los aguardó y se la dio, y hizo gran matança en los turchos de tal manera que, de todos veinte mil que eran, escaparon muy pocos que no fuessen muertos o presos, y los que se salbaron fueron en Buda y lo dixeron al paxá. Y con la nueva que desta victoria se publicó, teniendo por cierto que el canpo del rey fuesse poderoso, siguiendo la vía adelante se le rindieron algunas villas y castillos, e la ciudad de Moldavi y otras tierras de christianos hazia Constantinopla, tributarios al gran Turcho. Desseando salir de la subieción en que estavan comunicados, por letras unos con otros le escrivieron diziéndole que ellos, como verdaderos christianos, desseavan ayudar y servir a príncipe christiano, especialmente al que sabían que de derecho les pertenescía y devía ser rey y señor, y no estar a obediencia de los infieles. Por lo qual, sabido lo que passava, eran en voluntad de servir al Rey, al qual darían passo y toda la tierra libre para conquistar más adelante, no obstante que el gran Turcho les avía escripto, amenazándolos con la muerte si en su servicio no estavan firmes y con toda constancia, pero que esto devía de ser dándoles algún ayuda con que se pudiessen sustentar, porque de otra manera no podrían. A lo qual Juan Baptista les respondió que él rescibía su buena voluntad y holgaría de hazer lo que pedían, mas que, mientras que lo embiava a hazer saber al Rey, para que en todo proveyesse, perseverassen en la firmeza que publicavan; y escrivió al Rey dándole parte de lo hecho y de aquello que le pedían. El qual dio gracias a Nuestro Señor, assí por lo uno como por lo otro, por llevar tan buen principio, confiando en él le daría mejor fin. Los turchos que escaparon de la rota fueron en Buda y dieron la nueva al paxá. Al qual pesó mucho dello, y temiendo que la muger de Vaiboda, que reina de la Trasilvania era, con la nueva de la victoria se uñiría con el Rey y daría gente de sus vassallos para contra el Turcho, y que junto lo uno con lo otro le darían enojo y travajo, como a manera de amenaza le embió a amonestar y dezir que estuviesse firme a la deboción del Turcho, y ninguna cosa temiesse, pues sabía quánto poderoso príncipe y señor era, y que no la moviessen a la del Rey, aunque sobre ello la induziessen y persuadiessen, si no quería perder sus tierras y quedar desheredada. Y sabido esto por Juan Baptista habló con la Reina y le dixo que no se confiasse dél, por ser como era infiel que no mantenía verdad, pues dello tenía la espiriencia por averla engañado faltando la palabra que avía dado a su marido, porque todas sus palabras y promessas eran con fin de hazer sus hechos y negocios, y que

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antes se confiasse del Rey y le renunciasse el derecho que su hijo pretendía al reino de Ungría y de la Trasilvania, pues como madre y tutriz y legítima administradora de su persona y bienes lo podría hazer, y que haziéndolo assí se conservarían sus tierras y señoríos, porque tomava por defensor dellas al Rey y assí al Emperador su hermano, que era un príncipe muy gran señor y christianíssimo que en todo la favorescería como no viniesse a menos de lo que era sino a mucho más. Y tantas vezes se lo dixo y puso en plática, y súpola también atraer y persuadir a ello, que no paresciéndole mal lo comunicó a fray Jorje. El qual, que primero por el conde de Salma se avía tractado y comunicado con él, aviéndolo bien mirado y considerado, y con otros cavalloeros, conosciendo lo mucho que de la verdad y christianidad del rey se podía confiar, y de la bondad y potencia del Emperador esperar, y de la poca esperança y confiança que de los prometimientos del Turcho se podía tener, y que un día u otro sin que ella lo pudiesse resistir la despojaría, le consejó que lo hiziesse y le entregasse las fuerças de la Trasilvania que por suyas estavan, y que, porque el Turcho procuraría aver su hijo para hazer presa en él hasta aver todas sus tierras, que para quitarle de aquella esperança le mandasse llevar la buelta de Casovia, donde podía estar muy libre y seguro de todo. Y teniéndose la reina por bien aconsejada lo loó y aprovó, e incontinente ante su secretario y muchos cavalleros por testigos hizo la renunciación muy en forma en el Rey, y desenvistió a su hijo y a sí de la corona de ambos reinos aprovándolo fray Jorje. La qual con el cetro y las otras insignias reales le embió con Juan Alonso, sobrino de Juan Baptista, y le escrivió diziéndole que confiando en su bondad, verdad y christianidad ella avía tenido y tenía por bien de desheredar a su hijo y a sí de la corona real de Ungría y de la Trasilvania, como le constaría por la auténtica renunciación que firmada de su nonbre y del de fray Jorje con la corona y cetro y reales insignias le embiava, y estava presta de entregarle las fuerças que della tenía para que hiziesse dellas a su voluntad, con tanto que su Magestad tuviesse por bien de mirar por ella y por su hijo como rey y señor que era, pues sota su amparo real se metía para ser favorescidos y no despojados. Y llegando Juan Alonso al Rey con este despacho a Viena fue muy bien rescibido dél, y por ello le hizo merced. Y escrivió a la reina diziéndole que por el buen miramiento que avían tenido en hazer aquella renunciación, apartándose de lo que no le pertenescía y del favor del Turcho, ella y su hijo serían dél honrados, mirados y respectados como quien eran, y a todo su poder amparados, ayudados y favorescidos como por la obra verían y como sus

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propias tierras no les faltassen y fuessen más acrecentados con el ayuda del favor divino, y que las fuerças mandasse entregar a su general para que pusiesse en ellas la guarda que convenía; y para ello señaló por alcaides a cavalleros que por más fieles y leales tenía. Y escrivió a Juan Baptista diziéndole que le tenía en señalado y grande servicio el que desto avía recebido, y que tomasse la possessión de las fuerças y apoderase en ellas los alcaides que le embiava y les pusiesse las guarniciones que le paresciesse, y las mandasse fortificar, proveer y avituallar lo mejor que pudiesse. Y vista la carta por la reina, poniendo en esecución el cumplimiento della mandó entregar el castillo de Julialba, y assí todos los otros de la Trasilvania. En los quales Juan Baptista apoderó los alcaides, tomándoles pleito omenaje por el Rey, y puso las guarniciones, municiones y vituallas que más pudo; y en los que le paresció aver necessidad de reparos los mandó fortificar, como quiera que no avía tanta gente ni dineros como para ello era menester ni tienpo, porque de todo estava muy falto.

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CAPÍTULO LXX Cómo sabida por el gran Turcho la renunciación de la Trasilvania hecha por la Reina en el Reino, uvo mucho enojo dello, y lo que acordó y proveyó.

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Sabido por el paxá de Buda la renunciación que la Reina por sí y en nonbre de su hijo en el Rey de romanos avía hecho del reino de Ungría y de la Trasilvania, y como le avía embiado la corona, cetro y las otras insignias reales y dádole las fuerças, y como de todas estava apoderado y las mandava fortificar y avituallar, con gran diligencia lo embió a hazer saber al gran Turcho con la rota que avía avido para que en ello proveyesse. Por el qual sabido le pesó y uvo mucho enojo de que la Reina lo uviesse hecho; y para proveer en ello mandó llamar sus paxás, a los quales lo dixo y pidió parescer. Y aviendo consultado el negocio le respondieron que su Magestad no devía tener en poco el negocio, y que con gran presteza devía proveer en él, porque el Rey de los Romanos era más poderoso que solía por aver subiectado a Boemia, con la qual y con el favor del Emperador su hermano, que a todo su poder le ayudaría y favorescería, assí por el deudo que avía entre ellos como por aver dado por muger su hija a su hijo, que de todos sus reinos avían de ser señores, con gran diligencia fortificarían y vituallarían la Trasilvania para conquistar desde allí el reino de Ungría; y que para estorvarle su designo antes que lo pudiesse hazer, devía ir en persona y con su exército a recobrarla por lo mucho que iva en ello. Y paresciéndole bien al Turcho lo aprovó y embió a mandar a su belerbeith de la Romanía, que es su Capitán general de aquella provincia, que con todos los sanjaques y gente que con él estava se fuesse a juntar con su paxá que tenía en Buda, para que con los thártaros, polacos y turchos que les acudiessen se juntassen hasta ochenta mil honbres de pie y de cavallo, y mandó despachar a Thartaria para que treinta mil thártaros se juntassen con ellos y al paxá de Buda de su provisión, y que juntasse assí los polacos y turchos que pudiesse y toda la artillería, municiones, vituallas, gastadores, carros y puentes para mejor efectuarlo. Y hechos todos estos despachos mandó llevarlos a quien se contenían, y llamar todos sus sanjaques y espaquís para ir con sus geníçaros a juntarse con ellos para començar su camino. Y rescibidos en Thartaria y por el belerbeith y paxá, cada uno començó a ponerse en orden para cunplir lo que les embiava a mandar. Y aviendo hecho estas provisiones, y estando de camino para partir, le llegó otra nueva que

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mucho más le dolió, y fue que el sophí le avía entrado con poderoso exército por la vanda de Persia y dado la batalla a su belerbeith, que en aquella guarnición con onze sanjaques tenía, y ronpídole en canpo y le entrava conquistando el reino. Y avido consejo sobre ello, mudó de propósito y cessó la partida, y embió a mandar al belerbeith de Romanía que, juntos los thártaros y polacos con la gente que llebava y la que tenía el paxá de Buda, fuesse a recobrar la Transilvania y llevasse a su poder el hijo de la reina, y si conviniesse sobre ello dar la batalla al exército del rey se la diesse, porque no podía ser tan pujante que no le rompiesse, y como a cosa más importante y de mayor peso se determinó de ir a resistir al sophí con el más poderoso campo que pudiesse, y porque faltando su persona de aquellas partes, sabiendo las guerras que se le avían movido podría ser la Grecia se le rebelasse, y convenía y era muy necessario que en todo quedasse muy buen recaudo, que para guardarla el armada bolviesse a Constantinopla. Y en esto determinado, mandó juntar su cavallería y peones y aparatos de guerra, y escrevir al paxá Senaxú que, vista su carta, sin ninguna dilación bolviese a Constantinopla con el armada. El qual, aviendo entregado en tenencia la fuerça de Trípol a Morataga de la manera que avemos contado, se juntó a consejo con Dragut y Salarráiz para acordar dónde irían desde allí. Y tractando dello estuvieron algunos días sin poder acordarse, porque la opinión de Dragut era fuessen a cercar a Africa y procurar de averla, y Salarráiz, como otras vezes, lo contradezía diziendo que no convenía sino darle una vista, y que esto avía de ser aviendo buelto sobre Malta y tomándola. Y al paxá le parescía que lo uno ni lo otro no convenía hazerse, porque según lo que de ambas ciudades tenía reconoscido y oído no saliría con ninguna dellas; y estando dubdoso e indeterminable, no sabiendo qué hazer le llegó el mandado del Turcho con el qual no le pesó, antes lo tuvo por mejor que tentar lo que tractava. Y dando parte dello a Salarráiz y Dragut, sin perder hora de tienpo mandó embarcar todo lo que en Trípol se avía avido y los turchos, y despedido de Morataga a toda el armada mandó alçar velas y començó a navegar la buelta de Constantinopla. Y sabiendo los venecianos cómo iva a passar por sus puertos, embiaron un rico y estimado presente de muchas joyas ricas a ofrecerle como a persona que tan poderoso cargo del Turcho traía, el qual el paxá no quiso acebtar ni rescebir, diziendo contra ellos algunos improperios y denuestos; y esto se cree fue por razón de la fama en que al Turcho avían puesto de que a Corfo avía querido tomar a traición para dar a entender que no avía sido verdad, comoquiera que ya por muy cierto se tenía uviesse passado assí por

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el dicho del escrivano de la galeota de Dragut y por lo que se dize le escrivió Salarráiz y le dixo Rusta Paxá, y por otras cosas que lo aclararon. De cómo el armada avía ido a Trípol y de la vía que llebava para Constantinopla tuvo noticia el visorrey de Cecilia. Y paresciéndole que ya el paxá no iría sobre África, porque avía tenido nueva no avía osado intentar la empresa della, ordenó que el marqués Anthonio Doria fuesse a ella con algunas vituallas, y de camino truxesse en Cecilia don Álvaro su hijo. El qual lo cumplió y efectuó. Pues como el paxá no quiso acebtar ni rescebir el presente de los venecianos, menos se quiso detener en sus puertos, y passó de largo la vía que llebava por complir el mandado del gran Turcho. Y siguiendo su navegación, llegando cerca de Esclabonia se levantó un mal tienpo en la mar de que corrió fortuna, y se afirma perdió dos galeras y que se anegaron algunas de las desdichadas dueñas y donzellas captibas del Gozo y assí de los turchos, y se vio en grandíssimo peligro el galeón de Barbarroxa y la maona, y el armada rescibió otros grandes daños. Los quales y muy mayores plega al eterno e inmenso Dios, siempre que estos infieles carezcan de su divino conoscimiento y contra christianos hagan jornada con fin de desservirle, los destruya y anegue del todo punto con que les estorve sus malas obras y perversas intenciones. FIN Fue impresa esta obra en la noble ciudad de Nápoles a veinte días del mes de henero, año del nascimiento de nuestro Salbador Jesú Christo de mil y quinientos y cinqüenta y dos años, en casa de maestre Matía impresor a la Vicaria Vieja.

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IL TORCOLIERE • Officine Grafico-Editoriali d’Ateneo

U niversità degli stUdi di n apoli “L’Orientale” finito di stampare nel mese di Novembre 2015

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