Logica ed etica. Senso e non senso nel Tractatus logico - philosophicus

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Descripción

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Tra logica ed etica Senso e non senso nel Tractatus logico - philosophicus

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A mio padre

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L’anima degli uomini deve solo baluginare attraverso le loro azioni e le loro parole, e mai con maggiore chiarezza che nella vita reale. Dunque occorre imporsi certe limitazioni, così come a un pittore non è consentito mettere nel suo quadro tutto quel che vede. Robert Musil

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Indice Introduzione

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Invito biografico

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Logica ed etica

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La filosofia in Wittgenstein e i limiti del senso

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Filosofia: la forma generale della proposizione

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L’essenza del linguaggio e del mondo

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Solipsismo e relazione tra soggetto – mondo

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Etica e volontà

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L’evoluzione del pensiero etico in Wittgenstein

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Uso etico del linguaggio: senso primario e secondario

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Accesso, svuotamento e arricchimento concettuale: implicazioni etiche

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Etica: immaginazione ed immedesimazione

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Il sentiero delucidativo: tra linguaggio ed ontologia

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Il superamento delle proposizioni filosofiche ed il gettar via la scala

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Proposizione 6.54 in chiave risoluta

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Il temperamento intellettuale di Wittgenstein nel Tractatus

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Lettura risoluta o del New Wittgenstein

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Autorevoli letture irresolute

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Lettura ineffabilista

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Il Tractatus. Letture neopositiviste, kantiane e risolute

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Etica normativa e discorsi meta – etici

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A quale tipo di chiacchiera sull’etico occorre porre fine?

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Etica e intuizionismo

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Emotivismo meta – etico

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Wittgenstein e l’emotivismo

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L’intento etico dell’opera

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Introduzione L’intenzione di questo lavoro muove dalla convinzione vi sia in Ludwig Wittgenstein una precisa analisi della natura teorica del pensiero etico. E’ doveroso dichiarare, dal principio, che questo testo è stato ispirato – e guidato nel suo sviluppo – da un importante monografia di Piergiorgio Donatelli, intitolata Wittgenstein e l’etica. Il volume appena citato offre una robusta ricostruzione della riflessione morale wittgensteiniana, collocata all’interno del vivo dibattito metaetico analitico novecentesco, i cui sforzi si sono rivolti verso lo studio tanto della natura linguistica dell’etica quanto delle caratteristiche dei significati riconducibili alla comprensione morale. Questi nuclei tematici, ritiene Donatelli1, innervano il pensiero etico dell’intera produzione filosofica wittgensteiniana, dal Tractatus logico – philosophicus fino alle Ricerche filosofiche, e mettono a nudo l’irriducibilità del significato etico – per come inteso da Wittgenstein – a nessuna delle posizioni antagoniste in campo, siano esse non cognitiviste o cognitiviste. Allo scopo di mostrare la fondatezza teoretica di tale interpretazione della proteiforme opera del filosofo viennese, si vuole far gradualmente affiorare l’etico tracciando – con l’autore – i limiti di ciò che può essere detto in modo sensato, ove per sensato si intende precisamente il carattere comune al numero infinito di proposizioni che assolvono una funzione linguistica descrittiva, quali sono quelle della scienza naturale. Delimitare il perimetro entro cui è possibile esprimere sensibilmente pensieri sensati significa lasciar fuori dai limiti del dicibile ogni proposizione che manca di senso, ovvero che non raffigura alcunché appartenga al mondo interpretato come “tutto ciò che accade” o “insieme di tutti gli stati di cose possibili”. Un tratto determinante della soluzione offerta da Wittgenstein viene derivato da un certo ordine di connessioni tra filosofia ed etica: tanto come la filosofia non deve occuparsi di offrire teorie e dottrine, che per loro stessa natura sono niente più che stringhe di segni privi del potere di agganciare stati di cose – e dunque relegati nella regione metafisica del discorso, ovvero oltre i limiti del dicibile

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari, 1998, IX

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stesso tracciati nel Tractatus logico – philosophicus – così l’etica si offre quale campo di applicazione, d’esercizio pratico del pensiero. Sia filosofia che etica mostrano un carattere fortemente pragmatico, distanziato dalla mera costruzione di edifici intellettuali verbalizzati e trascendenti i limiti entro cui enunciati raffigurino stati di cose nel mondo. Si incontra allora una parentela in tal senso tra etica e filosofia se intendiamo quest’ultima come esercizio di chiarificazione del pensiero e della sua espressione sensibile – ovvero linguistica – sia essa verbale o grafica: entrambe assurgono non tanto ad insegnare qualcosa ma a far fare qualcosa.2 La stessa operazione di chiarificazione dei fraintendimenti linguistici allude ad un fare qualcosa del fraintendimento del nostro linguaggio, ovvero al liberarsene. Il nodo da sciogliere è intrecciato all’inscindibile legame tra filosofia ed etica e si intende offrire uno studio della filosofia del linguaggio di Wittgenstein che operi da riflettore capace di illuminare il sentiero da percorrere per esaminarne l’aspetto etico. Ci si approccerà a tale impresa percorrendo un movimento di comprensione che non può fare a meno di riguardare pensatori che hanno partecipato – con la loro speculazione e per via dei legami affettivi con lo stesso Wittgenstein – alla strutturazione del pensiero wittgensteiniano riguardo la logica e la filosofia, la filosofia del linguaggio, la comprensione del significato etico, fino a fare polvere dei fraintendimenti linguistici e – nella prospettiva dell’austriaco naturalizzato inglese – a prendere, in modo nuovo ed illuminante, contatto con il nostro linguaggio. Ciò a cui Wittgenstein si dedica nel Tractatus logico – philosophicus, unica opera della sua sconfinata bibliografia da egli personalmente mandata in stampa, è la comprensione della proposizione, ovvero un argomento centrale della riflessione dei primi filosofi analitici, Gottlob Frege, G. E. Moore e Bertrand Russell. Già nella prefazione, Wittgenstein esprime, pur dichiarandosi indifferente alla possibilità altri abbiano attraversato sentieri filosofici teoreticamente non distanti dal suo, il proprio riconoscimento nei confronti delle grandiose opere di Frege e 2

Ibidem

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dei lavori dell’amico Bertrand Russell, per avere essi offerto efficaci stimoli alla sua riflessione. A proposito dell’influenza esercitata da Frege, Donatelli ricorda3 ciò che Gertrude Elisabeth Margaret Anscombe ha sostenuto in merito: “le influenze filosofiche su Wittgenstein si limitano quasi esclusivamente a Frege e Russell, che lo introdusse alle opere di Frege. Il Tractatus di Wittgenstein ha catturato l’interesse e ha sollevato l’attenzione di molti, eppure quasi tutto ciò che si è pubblicato su di esso è terribilmente improprio. E se di ciò vi è una ragione, essa è l’aver trascurato Frege e il nuovo cammino che egli tracciò per la filosofia”.4 A prima vista la considerazione di Anscombe sembra impropria poiché una delle ovvietà maggiormente condivise e espresse dagli interpreti del Tractatus è che esso dà seguito a idee sviluppate da Russell e Frege. Tuttavia è lecito pensare Anscombe non faccia riferimento al fatto Frege sia raramente menzionato all’interno dei numerosi studi su Wittgenstein, quanto ad un insufficiente intendimento di chi, umanamente e filosoficamente, egli fosse per Wittgenstein. La comprensione del lavoro del primo Wittgenstein necessità un movimento di immaginazione che sappia almeno pensare quel peculiare contesto filosofico. Il riferimento non è tanto un invito a rispolverare gli scritti di Frege quanto un suggerimento, di metodo, che propone – perché pensato come propedeutico alla comprensione della filosofia di Wittgenstein – di riprendere confidenza con i temi posti in questione da Frege e – soprattutto – con cosa quel genere di temi rappresentassero per il loro autore e per Wittgenstein. In assenza di tale sforzo cognitivo, facciamo un’enorme fatica a cogliere quanto la sua “durezza” sia ispirata all’esempio di Frege. Le critiche di Frege a posizioni filosofiche, come l’idealismo o l’empirismo, rappresentano – in tutta la produzione wittgensteiniana – un modello del modo in cui la delucidazione filosofica nella sua forma più “onesta e penetrante” è in grado di evidenziare come

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Ivi, p. 3 G. E. M. Anscombe, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1966, p. 8

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ogni “ismo” quando sottoposto ad un’analisi impietosa finisce per risolversi nel suo opposto. Non è un caso Frege abbia sostenuto lo psicologismo, se analizzato fino in fondo, finisse per risolversi nel solipsismo, e non è un caso la presunta dottrina contenuta nel Tractatus si auto dissolva nella proposizione 6.54: “Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire gettar via la scala dopo essere asceso su essa.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.” Seguendo lo stesso filo logico, non sorprende neppure la proposizione 5.64: “Il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro.” In questi casi si è arbitrariamente usato il carattere corsivo per dare risalto al verbo “comprendere” inteso, per estensione concettuale, come un processo che allude al “tendere la mano al filosofo”, ed alla necessità di resistere alla naturale predisposizione ad accontentarsi dei significati offerti dal genere di filosofia che trova posto nei manuali; nonché al fine di sottolineare l’importanza dell’avverbio “rigorosamente”, poiché il metodo fregeano e wittgensteiniano sembra ergersi su una necessità di trasparenza che non ammette soste né deviazioni dal sentiero del rigore, dell’onestà intellettuale e del dovere verso se stessi. Sotto una certa luce tanto il Wittgenstein del primo ventennio del novecento quanto quello della fase di transizione in cui si colloca cronologicamente la Conferenza sull’Etica – nonché il secondo Wittgenstein – ci invitano a pensare e a concentrarci rigorosamente, animati dall’intenzione ferrea di fare chiarezza sopra quelle parole – e proposizioni – che noi crediamo di usare nell’unico modo possa dirsi esatto. Quando, in questa sede, si parla di rigore lo si fa usandolo in senso lato, cioè invitando a considerare “l’atto di pensare rigorosamente” come un’azione che appartiene, naturalmente, alla regione dell’etico. In tal senso si sta sostenendo la tesi secondo cui in Wittgenstein il termine etica non individui un ambito filosofico

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quanto un modo ineludibile di filosofare e di vivere in totale onestà verso se stessi e verso gli altri. Estremizzando questo pensiero potrebbe dirsi egli abbia scritto d’etica per tutta la vita ma – ritengo – sarebbe questo, se non argomentato, decisamente fuorviante. Piuttosto lo studio della logica del nostro linguaggio si offre come legato a doppio nodo all’intento etico che il lavoro sulla logica è in grado di mostrare. La posizione appena espressa entra in conflitto con quella degli studiosi che, viceversa, usano porre uno iato tra il Wittgenstein logico, filosofo del linguaggio e studioso dei “fatti” – a loro parere da ricondurre necessariamente a Russell e a Frege – e quello concentrato su tematiche morali che sarebbero – invece – da studiare alla luce delle influenze che su di lui ebbero le letture di Schopenhauer, Tolstoj e Kierkegaard.5

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Cfr. J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci 2010, p. 140 e P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 89

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Invito biografico Una delle possibili difficoltà insite nella comprensione del pensiero di un intellettuale si lega al processo di netta separazione tra l’esegesi della sua opera filosofica e lo sfondo biografico in cui essa ha preso forma. Sembra allora che nel mezzo di questa frattura resti solo il buio e che, conseguentemente, l’opera studiata abbia – come dire – preso vita autonomamente. Allora non intende trascendere in un eccesso di fascinazione per la ricca vicenda biografica di Ludwig Wittgenstein tenere in considerazione il fatto egli fu – lo si potrà intendere pleonasticamente – in prima istanza un essere umano e in conseguenza di ciò il lume – probabilmente – maggiormente radioso del panorama filosofico novecentesco. La copiosa quantità di sue annotazioni evidenziano il culmine di una lunga riflessione in cui le tensioni che innervano il fenomeno detto vita si traducono in parole impresse sulle pagine da lui scritte, ma – e questa inversione a gomito è significativa – quelle stesse parole, ovvero la sua opera filosofica – retroagiscono sul materiale informe che le aveva precedute: osservandolo dall’esterno, analizzandolo, fino anche ad esaltarne il carattere. Indossando queste lenti, gli scritti che hanno preceduto la pubblicazione ufficiale del Tractatus logico – philosophicus, nonché quest’ultimo seguito da altre annotazioni edite postume, fra cui il testo della Conferenza sull’etica del 1929, documentano la complessa circostanza che mostra l’uomo quasi obbligato a scontrarsi contro qualcosa che è – come dire – eccessivamente complesso e che mostra eccedenze di significato talvolta riposte al di fuori della portata conoscitiva dell’essere umano inteso nella sua duplice natura logico – emozionale. “Qualche tempo fa”, scrive Hans Sluga6, “un amico mi ha portato all’antico cimitero di Saint Giles a Cambridge, dove è sepolto Ludwig Wittgenstein. Il luogo era deserto, fatta eccezione per qualche uccello sui cespugli non potati. Con un po’ di fatica abbiamo trovato la tomba tra l’erba incolta. Una semplice lastra nel terreno riporta il nome di Wittgenstein e gli anni di nascita e di morte (1889 –

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Hans Sluga, Wittgenstein, Einaudi, Torino 2012, p.3

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1951) – nient’altro. Le foglie di un albero vicino erano cadute sulla pietra. Qualcuno aveva sparpagliato dei fiori, un paio di monete e, sorprendentemente, il mozzicone di una matita. Ebbi la singolare impressione che fosse tutto giusto. Tutti gli aspetti complessi della vita di Wittgenstein – mi sembrò in quel momento – erano stati ricomposti nella più totale semplicità.” L’esigenza di trasparenza viene a contrapporsi, in modo forte, ad una millenaria tradizione filosofica la quale – sostiene Wittgenstein – ha “accumulato” dottrine, tesi e teorie fino a nascondere le fondamenta su cui tale edificio, tanto nella sua parte comunicativa quanto in quella strutturale, si è erto. Questo tema verrà sviluppato in seguito ma per cogliere il legame tra l’elegante analisi del linguaggio del primo Wittgenstein e l’etica, occorre procedere verso il recupero di una certa confidenza con il funzionamento del nostro linguaggio. Wittgenstein si dedicò all’ardua impresa di ridurre il mondo alla logica attraverso un metodo che intendeva la stessa filosofia come chiarificazione logica di ciò che del linguaggio ci inganna. Il mondo per come esso avrebbe dovuto essere perché il linguaggio potesse esprimerlo doveva offrirsi come un purgato dall’imperfezione. Richiamando la trasposizione cinematografica dello sceneggiatore e regista britannico Derek Jarman7, tale spazio purificato avrebbe assunto l’aspetto di “infiniti acri di ghiaccio brillante estesi all’orizzonte” su cui camminare senza mai scivolare. La trasparenza dell’acqua solidificata in ghiaccio e la volontà di vincere la tendenza a cadere vittime consenzienti di fraintendimenti del nostro linguaggio, sono riassunte in questa figura retorica. Della ricerca di comprensione strutturale e di semplicità – quale processo di scomposizione che giunge a ciò che è atomico – si può, anche al di fuori della sterminata bibliografia postuma di Wittgenstein, trovare un esempio chiaro nel lavoro di costruzione della casa viennese di sua sorella Margarete, commissionato all’architetto – ma ancor prima amico – Paul Engelmann.

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Derek Jarman, Wittgenstein ( Film ), 1h 30m, Regno Unito 1993

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In quel periodo Wittgenstein attraversava una fase di transizione, un momento di estraneazione dal mondo accademico di Cambridge e dalla ricerca filosofica, che agevolò il suo coinvolgimento nel progetto. Concepita nello stile funzionalista di Loos, maestro di Engelmann, la casa sorse priva di qualsiasi decorazione e del tutto estranea ai precedenti stili architettonici. I valori estetici furono espressi attraverso quelli che Wittgenstein considerava forme architettoniche pure. Ne curò i dettagli più minuziosi, dedicandosi rigorosamente a stabilire l’altezza esatta dei soffitti e delle porte di metallo e vetro; assicurandosi i meccanismi dell’ascensore fossero a vista. L’opera fu guidata da un minimalismo estremo che giunse a far penzolare dal soffitto delle lampadine prive di lampadario. Possiamo desumerne che egli non partecipò tanto alla costruzione di una abitazione quanto alla reificazione della logica per mezzo dell’architettura. Robert Musil, contemporaneo di Wittgenstein, rappresenta nelle sue opere una Vienna macerata e caratterizzata da uno spirito bipolare tendente verso la nostalgia per il passato e la quasi fanciullesca curiosità per il futuro. Abbiamo, a ben vedere, a che fare con due poli caratterizzanti l’uomo e pensatore Ludwig Wittgenstein: l’uno si mostra – come dire – nel contesto storico e intellettuale che faceva da sfondo ad una ricerca di conoscenze di carattere tecnico, l’altro effettua un movimento di distanziamento dal primo andando in cerca di una visione cristallina di quel sé che il paradigma accumulativo – caratteristico del progresso scientifico – ha offuscato. Al sopracitato movimento di allontanamento intendo ora riferirmi. E’ noto Wittgenstein, allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruolò nell’esercito austriaco. L’andare volontariamente in guerra, esponendosi deliberatamente alle circostanze più pericolose, era stato da lui inteso come una prova a cui sottoporre il proprio carattere, come un modo per fare i conti con se stesso nel segno della decenza intellettuale. Perché – si potrebbe domandare – l’andare incontro alla morte si vestiva di significati che inerivano il modus vivendi? Una risposta si offre imparentando la nozione di morte – con tutto il suo sfondo di significati – a quella

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di solitudine, ovvero intendendo l’evento che pone fine alla vita come l’apoteosi della solitudine stessa. L’esser soli, in un’accezione che vuole sottintendere il bisogno di emergere – distanziandosene – dal profondo dell’accidentalità intramondana, gli si offriva come l’opportunità di liberarsi dalle difficoltà esterne, di tenersi saldo a dispetto di tutti i poteri. Annota il 26 agosto del 1914: “Io ho deciso di non opporre alcuna resistenza, di alleggerire per così dire la mia esteriorità, per lasciare indisturbata la mia interiorità.”8 L’esser soli creava lo spazio per attuare un esercizio di autodeterminazione rigorosa, il quale – accompagnato dalla necessaria concentrazione – era inteso come il sentiero da non abbandonare in vista di una vita pensata spiritualmente nell’unico tempo a lui caro, ovvero il presente: il momento in cui un uomo ha raggiunto il proprio centro. Animato da sentimenti di intensità a tratti ingestibile, aveva scelto di percorrere una strada assai impervia ma degna, poiché, giunti al suo termine, si guadagnava la prospettiva esterna indicata a volgere uno sguardo fresco e limpido sulle cose che, in una vita mal vissuta, occorrono nello spazio, nel tempo e nel pensiero senza che da esse si sia riusciti a distanziarsi, abbandonando la cecità di chi le ha sempre osservate dal di dentro. E’ evidente le pratiche wittgensteiniane siano investite di significato etico ma ciò su cui si intende insistere è il fatto che tale inclinazione – tanto semplice da estrapolare dalle sue biografie e annotazioni del periodo preso in oggetto – mostri nodali implicazioni filosofiche, a quei tempi – per così dire – ad uno stato germinale. Già allora esse alludevano ad una ricerca che trovò il suo sviluppo nel Tractatus logico – philosophicus. V’era, sullo sfondo, un cogente bisogno di dissolvere questioni a cui nessuna risposta sembrava poter offrire quieto respiro e ciò – come egli era solito dire nel biennio 1914 – 1916 – implicava la ricerca di

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Ludwig Wittgenstein, Diari segreti, F. Funtò (a cura di), Laterza, Bari 1999, p. 55

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quella parola liberatrice e illuminante che di tanto in tanto gli capitava d’essere sul punto di pronunciare. Wittgenstein riusciva a procedere fino a sfiorare il perimetro di quelli che considerava problemi ma, al tempo, non aveva ancora maturato considerazioni di profondità esemplare che ne avrebbero poi indirizzato – e caratterizzato – il lavoro filosofico. Era un po’ come si ostinasse a cercare dall’interno delle risposte a domande il cui valore etico – ammesso esso esistesse – si trovava altrove e come se ancora non cogliesse chiaramente che il nodo da sciogliere non constava nel genere di questioni che egli si poneva quanto nel fatto egli tentasse di risolvere i problemi rispondendo ad essi piuttosto che porsi nella posizione ideale affinché potesse vederli svanire senza lasciare alcuna domanda a cui rispondere. E’ plausibile affermare che le difficoltà da lui incontrate nel cogliere la verità – intesa in senso ampiamente etico – dipendevano, almeno in parte, da un eccesso di volontà – o di pigrizia intellettuale – collocabile all’interno di una impostazione intellettuale ancora di taglio tradizionale: come se il desiderio di applicare alcune nozioni, già possedute, alla contingenza del mondo gli nascondesse la visione che di esso avrebbe potuto avere osservandolo da lontano. A quei tempi maturavano in lui movimenti del pensiero che lo avrebbero indotto a comprendere di avere, per lungo tempo, tentato di aprire la porta tirandola verso di sé mentre, in vista della comprensione da lui agognata, ciò che occorreva fare era, direi, impegnare la porta per ritrovarsi a guardare, dal di fuori, ciò che essa delimitava. Ray Monk sostiene9 che se Wittgenstein avesse trascorso l’intero periodo bellico nelle retrovie, il Tractatus logico – philosophicus sarebbe rimasto ciò che, con ogni probabilità, era nella sua prima concezione del 1915, ovvero un trattato di logica. Si nota, difatti, che le osservazioni contenute nella versione definitiva relative all’etica, all’estetica e al senso della vita, trassero, verosimilmente, origine da un certo impulso alla riflessione filosofica, generato dall’esperienza di gradi di sofferenza, terrore e miseria a lui sconosciuti prima di esperire direttamente la consapevolezza della morte.

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Ray Monk, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991, p. 144

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Verso la fine del 1916 Ludwig Wittgenstein fu destinato ad una unità combattente sul fronte russo, esattamente ad un reggimento d’artiglieria schierato nella zona meridionale del fronte orientale, presso la frontiera romena. Raggiunta la linea del fronte chiese espressamente di essere impiegato come esploratore, funzione che lo esponeva ad altissimi rischi per la propria incolumità. E’ interessante notare come i suoi pensieri e le sue azioni tendessero a far dipendere la doverosa opera di comprensione e chiarificazione del proprio sé, in vista del divenire una persona migliore, dall’altissimo rischio di morire a cui, volutamente, si esponeva con estrema decisione. A rendere lo sfondo ancor più singolare partecipava il rapporto controverso con i compagni in armi, per fronteggiare i quali egli si appellava allo stesso coraggio necessario ad affrontare il nemico vero e proprio. Pur giudicandoli un branco di gente stupida e vile, essi giocavano un ruolo importante sulla scacchiera di Wittgenstein: erano, appunto, necessari – come lo era l’esporsi alla morte il più possibile – a guadagnare una vita nel segno della decenza. La lotta per impedire a se stesso di odiare quella gente – da lui stesso definita “incredibilmente limitata” – era, analogamente al resistere al terrore di morire, una testimonianza della saldezza del proprio agire. Con questo spirito si raccomandava di tentare di comprenderli piuttosto che cedere al più agevole odio verso quelle persone prive di carattere.

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Logica ed etica Fu durante quei mesi, trascorrendo le giornate a domandarsi se la sua forza sarebbe stata abbastanza fedele a se stessa da consentirgli di sopportare l’orrore per il sangue, per la morte altrui e per il pensiero della propria, che si dedicò a scrivere qualcosa sulla logica, sugli oggetti semplici nonché sulla struttura delle proposizioni. Ciò che incuriosisce è l’improvviso comparire di estemporanee considerazioni d’ordine etico non offerte come slegate dalle osservazioni sulla logica ma – piuttosto – come un’integrazione che evidenzia la graduale saldatura tra filosofia, intesa come studio della struttura logica del linguaggio, e materia personale in tutta la sua ineludibile portata morale. Nel giugno dello stesso anno le riflessioni sulla logica furono interrotte dalla domanda: “Che so di Dio e del fine della vita?”, a cui seguiva una sequenza di risposte che si ritiene mostrino come l’interesse filosofico per la logica ed il funzionamento del linguaggio venisse legandosi a domande di carattere etico. Risponde Wittgenstein al proprio quesito: “ Io so che questo mondo è. Che io sto in esso, come il mio occhio nel suo campo visivo. Che in esso è problematico qualcosa che chiamano il suo senso. Che questo senso non risiede in esso ma fuori di esso. Che la vita è il mondo. Che la mia volontà compenetra il mondo. Che la mia volontà è buona o è cattiva. Che, dunque, bene e male ineriscono in qualche modo al senso del mondo. Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre. Pregare è pensare al senso della vita. Io non posso guidare gli eventi del mondo secondo la mia volontà; al contrario sono affatto impotente. Solo in un modo posso rendermi indipendente dal mondo – e dunque in un certo senso dominarlo: rinunziando a influire sugli eventi.”10 A testimonianza del processo di saldatura tra logica ed etica che troverà sviluppo del Tractatus, possiamo confrontare quanto appuntato dei Quaderni con la T. 5.621: “il mondo e la vita sono tutt’uno” e la T. 6.41: “Il senso del mondo

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Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, Amedeo G. Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 217

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dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori da ogni avvenire ed essere – così. Infatti, ogni avvenire ed essere – così è accidentale. Ciò che li rende non accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo.” Wittgenstein del periodo preso in oggetto – sebbene la superficie possa esaltarne il carattere improvvisamente dogmatico a causa dei suoi frequenti riferimenti a Dio, al fato, alla relazione tra “io” e “mondo” – non sembra essersi accontentato di trovare risposte esaustive nella fede, piuttosto pare avere dissetato la propria sete intellettuale attraverso un modo peculiare di praticare la filosofia. I giorni e le notti di Wittgenstein si susseguivano all’interno di un percorso unitario nel quale convergevano: il sentimento di terrore di fronte alla condizione di esploratore che lo esponeva, sul fronte, a divenire un facile bersaglio mobile per l’artiglieria russa; la necessità di porre il più possibile a repentaglio la sua vita, così da guadagnare una visione della sua stessa esistenza che tendesse verso la comprensione delle sue più profonde domande in nome della decenza; la ricerca in campo logico, la quale sempre più veniva intrecciandosi al problema della vita, all’etica. Il 7 luglio del 1918, annotava quanto segue sul suo taccuino: “La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso.”11 Si profilava il bisogno di emergere – come dire – dal profondo dell’accidentalità dei fatti descrivibili, facendo propria una visione d’essi come dal perimetro del mondo. Solo in questo modo poteva attuarsi uno spostamento del piano di lavoro filosofico da fondare sull’abbandono della ricerca di risposte interne ai problemi stessi, in vista di una comprensione perspicua del problema: tanto cristallina e trasparente da portare le domande a dissolversi, come esse non fossero mai sorte.

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Ivi, p. 218

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Lo studio del linguaggio di Wittgenstein si coordinava ad una nuova visione del mondo, in tutte le implicazioni etiche del caso. Da cui: “L’etica non tratta del mondo. L’etica deve essere una condizione del mondo come la logica.” Il legame tra logica ed etica si fa sempre più evidente guardando a questa fenomenologia come ad un processo che accomuna il metodo necessario a comprendere l’essenza del linguaggio alla condizione – o essenza – del mondo. Wittgenstein sosteneva il raggiungimento di tale prospettiva – e su ciò Cora Diamond è concorde12 - fosse non solamente possibile ma anche indispensabile. Pare la forma espressiva utilizzata dall’autore per esprimere tale necessità filosofica tradisca, in parte, l’innegabile influenza di Arthur Schopenhauer sui suoi movimenti di pensiero. In Il mondo come volontà e rappresentazione si allude ad una forma di conoscenza che riecheggia nel lavoro filosofico wittgensteiniano; essa passa per l’abbandono del consueto modo di guardare alle cose dall’interno – modo che colloca il punto d’osservazione necessariamente in un dove, in un quando, in connessione con i perché e i come delle cose – per dirigere, invece, l’attenzione sul semplice essere delle cose per come esse sono. Notiamo, inoltre, che nel discorrere del modo di vedere il mondo dal di fuori in chiave – parzialmente – shopenhaueriana, Wittgenstein si serve dell’espressione latina, usata da Baruch Spinoza13, sub specie aeternitatis, indicando come corretta tale angolatura d’osservazione esterna, non solo nell’ambito dell’etica ma anche in quello dell’estetica: “L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis, e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica.

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Cfr. J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, 2010, p.106 “Dopo che l'esperienza mi insegnò che tutto quello che si incontra comunemente nella vita è vano e futile, vedendo che tutto ciò da cui temevo e che temevo non aveva in sé nulla né di bene né di male se non in quanto il mio animo se ne commuovesse, stabilii finalmente di ricercare se ci fosse un vero bene che si comunicasse a chi l'ama e ne occupasse da solo l'animo respingendo tutte le altre cose: se ci fosse qualcosa, trovata e ottenuta la quale, io potessi in eterno godere continua e somma letizia.” Cfr. Baruch Spinoza, Prefazione al Trattato sull’emendazione dell’intelletto, E. De Angelis (a cura di), SE, Milano 2009 13

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Il consueto modo di vedere vede gli oggetti quasi dal di dentro; il vederli sub specie aeternitatis, dal di fuori. Così che per sfondo hanno il mondo intiero.”14 Incontriamo l’invito di Wittgenstein al consacrare la propria coscienza ad una contemplazione placida, tranquilla del mondo e degli stati di cose che in esso occorrono nel presente più quieto possa immaginarsi. Questa proposta si pone in chiara antitesi con il collocarsi – per così dire – all’interno del mondo e nel pieno turbine di domande e risposte che lo starvi all’interno solleva continuamente. Corre un’analogia con il pensiero del sopraccitato Spinoza, interpretato da Schopenhauer: “Non diverso, del resto, era il pensiero di Spinoza, quando scriveva: Mens aeterna est quatenus res sub specie aeternitatis concipit [La mente è eterna nella misura in cui concepisce le cose dal punto di vista dell’eternità].”15 Occorre, dopo il riferimento alle annotazioni del 1916 di Wittgenstein, fare una precisazione: non è dato sapere se egli stesse in quel periodo rileggendo Schopenhauer o se, plausibilmente, gli ritornassero alla mente passi che si erano profondamente impressi nella sua memoria. Certamente la frequente menzione di termini quali “volontà” – wille – e “rappresentazione” – vorstellung – richiamano in causa l’autore di Il mondo come volontà e rappresentazione. D’altro canto le riflessioni di Wittgenstein sulla volontà e sul sé sembrano volere intenzionalmente ribadire l’idealismo trascendentale schopenhaueriano con annesso il suo dualismo di “mondo come rappresentazione” – ovvero l’universo dello spazio e del tempo – e “mondo come volontà” – ossia l’universo atemporale e noumenico del proprio sé –. Assumendo questa prospettiva allora il mondo e il mio mondo finiscono per essere la medesima cosa. In effetti Wittgenstein, in alcune sue annotazioni, dà adito a questa lettura della relazione tra sé e mondo, per esempio laddove afferma che “l’uomo è il microcosmo. Io sono il mio mondo.”16

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Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, Amedeo G. Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 229 15 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989, pp. 263 - 264 16 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, Amedeo G. Conte (a cura di), Einaudi, 2009, p. 230

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Tale idea si ripresenta, espressa pressoché allo stesso modo, in T. 5.63: “Io sono il mio mondo. ( il microcosmo )”. V’è però un aspetto, non marginale, che distanzia l’idealismo trascendentale schopenhaueriano dalle constatazioni wittgensteiniane, ed esso riluce se si pone una clausola implicita nelle osservazioni sul rapporto tra sagen e zeigen: ciò significa ammettere che la nozione di solipsismo è in gran parte corretta ma lo rimane a condizione non si tenti di dirla – come usò fare Schopenhauer proponendo una dottrina – poiché il solipsismo, tanto quanto la forma logica e l’etica, mostra sé. Frattanto le milizie austriache erano state ricacciate sino ai Carpazi dall’efficace offensiva russa. Le condizioni di vita a cui i soldati erano costretti erano d’estrema difficoltà: freddo, nebbia, pioggia sembravano essere i compagni più fedeli d’ognuno di loro. Scrive il 24 luglio 1916: “Ci sparano addosso. E a ogni colpo la mia anima sobbalza. Mi piacerebbe molto continuare a vivere!”17 In circostanze di simile rischio, la questione dell’io filosofico portatore di valori etici, acquista una particolare rilevanza. Fu durante la ritirata dai Carpazi che Wittgenstein, scoprì, forse per la prima volta, che cosa nel concreto significasse smarrire il proprio sé in preda alla brutalità animale insita nella volontà di sopravvivere. “Ieri mi hanno sparato addosso. Ero privo di coraggio. Avevo paura di morire. Che voglia di vivere ho adesso! E’ difficile rinunciare alla vita quando se ne prova il piacere. Ma proprio questo è il “peccato”, la vita irragionevole, la falsa concezione della vita. Ogni tanto divento una bestia. E allora non riesco a pensare a nient’altro che a bere, mangiare e dormire. Terribile! E allora soffro anche come una bestia, senza possibilità di riscatto interiore. In quei momenti sono in balia

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Ludwig Wittgenstein, Diari segreti, Fabrizio Funtò (a cura di), Laterza, Roma-Bari 1999, p. 116

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delle mie passioni e delle mie repulsioni. E allora è impensabile una vita autentica.”18 La tesi che questa fase introduttiva del lavoro intende sostenere è che l’autenticità ricercata da Wittgenstein – intesa nel suo senso più esteso – investe il rapporto tra lo studio del linguaggio da un punto di vista logico e ciò che sta al di là di quello che lo studio della logica apostrofa come trascendentale, ossia, nello specifico, l’etico. Si ritiene le circostanze collegate all’esperienza al fronte debbano – perlomeno in questa introduzione – fare da cornice allo spirito teoretico delle tesi espresse in questo luogo, poiché utili a tenere in allenamento l’immaginazione e con tale esercizio funzionali ad avere un accesso alla delicata relazione fra analisi del linguaggio – nella dimensione del dire – e condizioni del mondo per come esso si offre. A proposito del 1916, si evidenzia un ennesimo elemento che ricopre una certa rilevanza nel percorso di crescita intellettuale che culminerà con la pubblicazione del Tractatus logico – philosophicus, ovvero il rapporto che allora nacque tra Wittgenstein e Paul Engelmann. Ray Monk19osserva che il rapporto instauratosi tra i due rallentò la quotidiana stesura di annotazioni cifrate da parte di Wittgenstein, come a voler evidenziare il sodalizio nato avesse aperto uno spazio di riflessione che compensava il lavoro di scrittura. Ancora Monk non esita ad affermare che le lunghe conversazioni con Engelmann abbiano indirizzato Wittgenstein verso conclusioni che confluirono nel Tractatus in merito alla relazione tra ricerca logica – ciò che possiamo leggere perché è stato scritto – e ciò che in essa non è espresso – ossia il mistico. Engelmann era fortemente convinto che logica e misticismo fossero germogli imparentati da una comune radice. Coerentemente all’intuizione del legame tra lo studio della logica del linguaggio descrittivo e quanto in esso si mostra – il mistico, l’etico – egli inviò a Wittgenstein, per mezzo di una lettera datata 4 aprile

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Ivi, p. 117 Cfr. Ray Monk, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991, p. 155

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1917, Il biancospino del conte Eberardo di Ludwig Huland, una poesia che doveva rendere chiaro il nesso tra due ambiti tradizionalmente tenuti separati dalla speculazione filosofica. Secondo le parole di Engelmann, quasi tutte le altre poesie, incluse le più amate e note, tentavano di esprimere – descrivere l’inesprimibile mentre in quella meraviglia d’oggettività priva di morale ciò non avveniva. La storia del soldato20 tanto lineare e spoglia riusciva, senza tentarvi attraverso vie descrittive, a raffigurare in solo ventotto righe un’intera vita. Wittgenstein apprezzò enormemente la scelta di Engelmann, definendo la poesia magnifica. “La poesia di Huland è veramente magnifica” scrisse in risposta “Ed è così: quando non ci si studia di esprimere l’inesprimibile, allora niente va perduto. Ma l’inesprimibile è – ineffabilmente – contenuto in ciò che si è espresso!”21 Per stabilire quale legame tra logica ed etica venga instaurato da Wittgenstein nel Tractatus possiamo servirci della proposizione 6.41: “Il senso del mondo deve essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene, non c’è in esso alcun valore – né, se vi fosse avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’essere fuori d’ogni avvenire ed esser – così. Infatti ogni avvenire ed esser – così è accidentale. Ciò che li rende non – accidentali non può essere nel mondo, che altrimenti sarebbe, a sua volta accidentale. Dev’essere fuori del mondo.” Incontriamo un evidente rifiuto della concezione secondo cui i valori – ossia i modi in cui troviamo che il mondo (cioè la nostra vita e quanto cade sotto i nostri occhi) – siano riconducibili a fatti empirici. Questa considerazione sottolinea, evidenzia Donatelli22, il chiaro carattere non naturalista del Tractatus. Tale aspetto è strettamente intrecciato alla trascendentalità attribuita da Wittgenstein sia alla

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Durante una crociata il soldato aveva reciso un germoglio di biancospino per poi piantarlo, al ritorno dalla guerra, nel suo campo. Così il germoglio divenne un ramoscello e poi un grande albero, sotto il quale il soldato, ormai invecchiato, sedeva come all’ombra del ricordo della giovinezza andata. 21 P. Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi, La Nuova Italia, Firenze 1970, cit. in Ray Monk, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991, p. 155 22 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 72-73

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logica che all’etica. Evidentemente, nel caso della logica, il nostro autore non manifesta alcuna intenzione di fornire una demarcazione tra ciò che vi cade all’interno e ciò che non vi cade, poiché l’idea stessa di fornirne una “descrizione” in merito esprime un tratto caratteristico del metodo filosofico denigrato da Wittgenstein. L’avversione in oggetto muove dall’assunto la logica – e così anche l’etica – non siano cose di cui si può parlare in modo neutro alla terza persona, come ne fossimo al di fuori. Interpretazioni contrapposte del Tractatus, quale quella neopositivista o quella d’ispirazione kantiana, ritengono che l’opera si occupi di stabilire i limiti della sensatezza, ovvero le caratteristiche che il linguaggio deve necessariamente avere affinché esso sia linguaggio. Potremmo definire tali tratti precipui come ciò che mette il linguaggio nella condizione di potere toccare la realtà, colmando il divario tra sfera linguistica e mondo. A prescindere da come si sviluppi questa concezione, essa offre un’immagine della comprensione23 come di un’attività ancorata ad un ordinamento logico esterno – appunto trascendentale – nel senso che è possibile indicare fuori del linguaggio ciò che permette la comprensione. Muovendo da questo genere di lettura, sostiene Donatelli24, non dovrà stupire che una spiegazione piuttosto frequente dello sviluppo della filosofia di Wittgenstein ritenga che il passaggio alla speculazione matura comporti un abbandono dell’immagine della comprensione come qualcosa che necessita una fondazione trascendentale. Ad essere messo, pertanto, in discussione è il carattere trascendentale e indicibile dell’ordinamento logico che faceva da perno intorno al quale il linguaggio doveva ineludibilmente ruotare. Nelle Ricerche filosofiche e negli scritti maturi si vedrebbe operare un processo di ancoramento delle possibilità discorsive non a condizioni logiche – trascendentali e ineffabili – ma al riposizionamento del linguaggio nel suo ambiente naturale in cui i termini assumono un significato in funzione dell’uso che di essi facciamo nelle nostre pratiche linguistiche ed extra linguistiche. Una volta ricollocate le pratiche linguistiche apparirebbero autosufficienti rispetto al precedente bisogno di derivarne la sensatezza da condizioni logiche ineffabili. Tornando al Tractatus, ed al comune carattere trascendentale della logica e dell’etica, Wittgenstein vuole

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Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 135-136 Ibidem

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negare la riflessione etica possa essere intesa come qualcosa che è possibile descrivere dall’esterno del punto di vista morale che rende il mondo il “nostro mondo”. Ciò che se ne evince, osserva Donatelli25, è che l’autore incoraggia un cambiamento interiore attraverso l’uso del linguaggio. In tal senso il cambiamento del mondo (quello del felice o dell’infelice), non è un mutamento dei fatti – già predicati come del tutto accidentali – ma del proprio modo di osservarli. Oltre il rimarcare la chiara impossibilità di derivare un valore da un fatto empirico descrivibile (e viceversa), si vuole evidenziare che Wittgenstein non si occupa di concetti morali o di come il rapporto con la realtà possa essere descritto dal di fuori della relazione che stabiliamo con il mondo, ma – in termini etici – egli è interessato al come l’uso del linguaggio faccia progredire (o regredire) il proprio sé. Come sappiamo Wittgenstein scrive che tanto la logica quanto l’etica sono trascendentali. Cora Diamond ha scritto a tal riguardo: “Il significato di trascendentale nel Tractatus è che il segno per qualsiasi cosa sia chiamata trascendentale è la forma generale della proposizione, e non qualche proposizione particolare o un insieme di proposizioni che dicono qualcosa in particolare. L’unica cosa che si potrebbe dire che ha qualche significato – in logica e in etica – è un segno che non dice niente, ma che contiene (in un certo senso) tutte le combinazioni di segni ai quale attribuiamo un senso.”26 Uno dei modi per sviluppare il pensiero espresso da C. Diamond, argomenta Donatelli27, è affermare che se l’etica e la logica non indicano nulla di particolare, ovvero se non possiamo mai indicare qualcosa nella realtà a cui allacciare una proposizione della logica o dell’etica, allora tanto la logica quanto l’etica sono sempre presenti. Se esse fossero dottrine – indi corpi di descrizioni – potremmo individuare uno spazio in cui andarle a cercare ma poiché esse non lo sono, è plausibile affermare esse permeino e condizionino il mondo. Questa onnipresenza dell’etica sottintende l’idea la dimensione morale rappresenti il modo in cui il

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Ivi, p. 117-118 C. Diamond, Ethics, Imagination and the Method of Wittgenstein’s “Tractatus”, p. 85, in Alice Crary and Rupert Read, The New Wittgenstein, Paperback, 2000 27 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 118 26

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mondo è il nostro mondo, il modo in cui tutto ciò che esperiamo ha una coloritura etico – affettiva della quale è logicamente impossibile offrire descrizioni.

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La filosofia in Wittgenstein e i limiti del senso Wittgenstein, in numerose occasioni, espresse un pensiero che tuona come un imperativo: “Segui la strada più dura.” L’ingiunzione a seguire la strada più dura allude, secondo la lettura di James Conant28, al condurre un certo stile di vita. Tale prescrizione ben si accorda con l’idea di intendere il modo di Wittgenstein di concepire l’attività filosofica come strettamente intrecciato a quegli ambiti filosofici che maggiormente si offrono come rilevanti per il compito di vivere decentemente. Fatta questa premessa si giunge agevolmente a scorgere un nesso tra Ludwig Wittgenstein e l’etica. Se si tenta di individuare nella bibliografia wittgensteiniana cenni, segni che riguardino l’etico non si fatica ad individuarne ed è frequente imbattersi in accenni all’argomento del “seguire la strada più dura”. Tale imperativo si presta a numerose letture ma intenderei farne valere, al momento, una in particolare poiché ritenuta largamente aderente allo spirito di questo lavoro. Di fatto, nel vocabolario di Wittgenstein il termine “etica” non designa un’area di indagine indipendente né un campo autonomo della filosofia più di quanto lo faccia la parola “logica”. Egli mostra che sia l’etica che la logica hanno a che fare con la dimensione del pensiero e dell’azione umana. In effetti affrontare una difficoltà filosofica implica la volontà di prender atto che quella certa difficoltà non può essere resa più semplice di ciò che è. In questa accezione la filosofia progredisce a condizione si resista alla tentazione di semplificare il complesso, all’evadere il carattere delle difficoltà che man mano il filosofo incontra, fino anche ad ammettere che il problema che non si sa risolvere può non avere alcuna soluzione. Al fine di intuire il suo metodo filosofico serve tenere fermo il fatto che gran parte delle perplessità filosofiche e esistenziali siano la conseguenza di un fraintendimento del linguaggio e di un modo intorpidito di guardare al mondo. A voler separare nettamente ciò che afferisce all’ambito filosofico da ciò che riguarda la vita, si stenta a comprendere il perché Wittgenstein pensi che un

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J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 125

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lavoro filosofico, rettamente condotto, sia anche un certo tipo di lavoro su sé stessi, o perché egli ritenga non si possa essere più onesti nel condurre il proprio lavoro filosofico di quanto non si sia onesti con se stessi. Sulla stessa linea si presenta l’affermazione: “E’ impossibile scrivere su noi stessi cose più vere di quanto noi siano veri.”29 Quando egli fa riferimento alle difficoltà insite nel percorrere la strada più dura, ovvero quella non ammantata da strati di fraintendimenti linguistici che la renderebbero più agilmente percorribile, tema nodale del Tractatus logico – philosophicus e del suo intento etico, allo stesso tempo Wittgenstein fa riferimento ad una difficoltà tanto filosofica quanto etica. “Sarà rivoluzionario colui che potrà rivoluzionare se stesso.”30 Rivoluzionare se stessi è una questione complessa che sembra indirizzare verso un’introflessione o, per meglio dire, in direzione d’una discesa nel proprio sé che allude ad una successiva risalita. Lasciare che i propri pensieri galleggino in superficie, evitando essi rischino di affondare per poi riemergere chiari, può essere non solo una lacuna che andrà a cristallizzarsi nel proprio lavoro filosofico ma anche un tratto determinante della personalità di chi si occupa di filosofia. In un certo senso lo spirito di una persona si mostra nello spirito che anima la sua produzione filosofica, che a sua volta mostra il carattere del suo autore. Si pensi alle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer31. Wittgenstein sentenzia, dopo una stringente critica alla metodologia dell’antropologo, che lo stesso James Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi. Questa osservazione è rivolta sia al pensiero dell’uomo che all’uomo stesso ed investe tanto la limitatezza e la povertà d’estensione del pensiero di Frazer in ottica metodologica quanto la personalità stessa di un soggetto con scarse capacità immaginative. Se è davvero impossibile scrivere su di noi stessi qualcosa che sia più vero di quanto noi stessi siamo veri, è anche impossibile scrivere in filosofia qualcosa di più vero

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Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, M. Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 1988, p. 71 Ivi, p. 91 31 Ludwig Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Adelphi, Milano 1975 30

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– profondo – di quanto noi stessi siamo veri. Questa, direi, è la direzione verso cui tende la ricerca filosofica di Wittgenstein, ovvero verso una chiarificazione logica del pensiero, svolta attraverso la filosofia del linguaggio, che consenta di vedere in profondità e con estrema chiarezza la natura del problema che ci troviamo davanti. Chiarificazione logica del pensiero e del linguaggio e dimensione etica dell’esistenza vengono come a trovarsi ad agire simultaneamente. In un certo senso l’assenza di un rapporto trasparente con se stessi, la mancanza di coraggio e di volontà, necessari a discendere fin nel fondo del proprio sé, si insinuano in una regione dell’azione che assume le fattezze della dimensione etica della confusione intellettuale. Autori come Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche e Søren Kierkegaard, sostiene James Conant32, condividono con Wittgenstein l’idea che la critica filosofica, se spinta fino al suo livello più interno – ossia quando essa agisce per portare alla luce le forme più nascoste di confusione e disonestà del nostro modo di pensare – operi in una regione in cui diviene impossibile discernere la critica del pensiero di un individuo da quella – di taglio etico – dell’individuo in sé. Scrive Wittgenstein nella prefazione al Tractatus logico – philosophicus: “Il libro tratta di problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: Ché per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può). Il limite non potrà, dunque, venir tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. […] Se quest’opera ha un valore, il suo valore consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri siano espressi. Quanto più si sia colto nel segno. – Qui so

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J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 137

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d’esser rimasto ben sotto il possibile. Semplicemente perché la mia forza è impari al compito. – Possa altri venire e far ciò meglio. […] Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’essere questi problemi risolti.”33 A riprova di tale intenzione morale, si ricorda una lettera che Wittgenstein inviò a Ficker, di seguito ai rifiuti degli editori di Gottlob Frege, Otto Weininger e di Karl Kraus di pubblicare il Tractatus logico – philosophicus, in cui domandava a Ficker se non fosse disposto a prendere sotto la sua protezione la sfortunata creatura. “E forse le sarà di aiuto se le scrivo un paio di righe sul mio libro: dalla sua lettura, infatti, tale è la mia sincera opinione, non ne trarrà un granché, perché non lo capirà e l’argomento le sembrerà del tutto estraneo. Ma, in realtà, il libro non le è estraneo, perché ha un senso etico. Una volta volevo inserire nella prefazione un’affermazione che non vi figura ma che adesso le trascriverò perché potrà costruire per lei una chiave di comprensione del lavoro. In effetti volevo scrivere che il mio lavoro si compone di due parti: ciò che ho scritto, più tutto ciò che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è importante. Grazie al mio libro, l’etico viene per così dire delimitato dall’interno; e sono convinto che, in senso stretto, l’etico sia da delimitarsi solo in questo modo. In breve, credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io, nel mio libro, l’ho definito semplicemente tacendone.”34 Il Tractatus fu il primo di una lunga sequenza di tentativi da parte di Wittgenstein di radicalizzare ciò che aveva imparato da Frege, in particolare di usare un metodo filosofico fondato sulla nozione di “delucidazione”. Nel paragrafo 4.112 del Tractatus si legge che un’opera filosofica “consiste essenzialmente di delucidazioni”.

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Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, pp. 23-24 34 R. Monk, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991, p. 183

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“Delucidare”, per come è inteso nell’opera, indirizza verso un’idea di filosofia da intendersi come “attività” autonoma, almeno in parte, rispetto alla regione della pura teoresi. Wittgenstein sta dichiarando che la filosofia – ciò sostiene Conant35consta di delucidazioni. Quest’ultimo termine viene letteralmente utilizzato nella nota proposizione 6.54 del Tractatus, ove le proposizioni vengono presentate come delucidazioni, approfondimenti, che assolvono il loro compito quando – appena comprese – si finisce per abbandonarle spingendosi al di là di esse. Diego Marconi si è interrogato sul come sia possibile cambiare il nostro punto di vista sul linguaggio senza avanzare una “teoria del linguaggio”36. A tal proposito Donatelli osserva37 che le espressioni assolvono il proprio compito delucidativo facendo appello alle competenze interpretative del lettore, il quale è chiamato da Wittgenstein a farle immaginativamente proprie per poi abbandonarle e andare oltre esse, una volta riconosciutane l’insensatezza. Nella chiave proposta si sostiene Wittgenstein non stia, esclusivamente, cercando di offrire un corpo di proposizioni descrittive a cui il lettore deve credere – laddove il crederle vere e il farle “proprie” connoterebbe il suo lavoro filosofico come “teorico” nell’accezione tradizionale del termine – ma stia chiedendo al lettore di comprendere l’autore che pratica un’attività. Siamo così davanti ad un’inversione di tendenza in parte volta a rifuggire il lavoro filosofico come presentatosi canonicamente. In questo caso Wittgenstein chiede al suo lettore non solo di inserire tra le proprie credenze il suo pensiero e la sua espressione linguistica, ma di applicare al corpus del Tractatus un’attività di delucidazione volta a chiarire il fallimento raffigurativo delle proposizioni che compongono l’opera. Quanto appena scritto risulta più facilmente comprensibile se inquadrato dentro la cornice della T. 6.52, in cui Wittgenstein esprime, con chiarezza esemplare, l’insufficienza espressiva del linguaggio descrittivo – del linguaggio che “dice” – al cospetto degli interrogativi più profondi che costellano la nostra

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J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 163 36 Ludwig Wittgenstein, La filosofia, D. Marconi (a cura di), Donzelli, Roma 2006, pp. VII-XXXVII alla p. XXI 37 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 52

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esistenza nella sua relazione con l’ethos da noi abitato. Le proposizioni delle scienze naturali, anche ipotizzando esse abbiano fornito una risposta ad ogni quesito scientifico, mancano del “potere” di quietare i moti che agitano i nostri animi.

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Filosofia: la forma generale della proposizione Nel periodo in cui scrisse il Tractatus, Ludwig Wittgenstein sposava l’idea la filosofia avesse quale compito l’occuparsi di ciò che è essenziale ma in una accezione del tutto innovativa. Egli indica un modo nuovo di intendere l’attività filosofica legandola al dovere filosofico di indagare su ciò che di essenziale vi è in un simbolo, ossia su ciò che tutti i simboli, asserviti allo stesso uso – scopo, devono avere in comune. A tal proposito si richiama la T. 3.341: “L’essenziale della proposizione è, dunque, ciò che è comune a tutte le proposizioni che possono esprimere lo stesso senso. E così, in generale, l’essenziale nel simbolo è ciò che hanno in comune tutti i simboli che possono servire allo stesso fine.”38 E prosegue nella seguente T. 3.3411: “Si potrebbe dunque dire: Il nome vero e proprio è ciò che hanno in comune tutti i simboli che designano l’oggetto. Risulterebbe così gradualmente che nessuna sorta di composizione è essenziale per il nome.”39 Queste osservazioni tracciano il profilo di un metodo filosofico volto a occuparsi esclusivamente dell’essenza in una chiave che non intende dire qualcosa sopra questi simboli: piuttosto si mostra “cosa” essi condividano affinché possano servire allo scopo a cui servono. Ciò che condividono è mostrato dalla “forma generale delle proposizioni” che contengono i simboli stessi. Seguendo questo sentiero la filosofia, secondo Wittgenstein, dovrebbe essere una attività indirizzata alla chiarificazione logica dei pensieri operata dall’interno del linguaggio, ovvero dalla “posizione” da cui l’unica attività possibile è quella di esibire una qualità ineludibile che i simboli – che possiamo chiamare “nomi” – debbono possedere perché assolvano il compito di “stare per oggetti semplici”. Allora se l’obiettivo è chiarire logicamente il pensiero – e più pertinentemente la sua espressione linguistica – osserviamo che la delucidazione non viene offerta come un processo

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Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 40 39 Ibidem

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analitico che potrebbe operare dall’esterno verso l’interno ma alla maniera di un’indagine interna al linguaggio stesso nella sua struttura logica. Laddove si tratta di forma generale della proposizione si intende evidenziare l’esistenza di una certa forma proposizionale che si offre come struttura da cui derivare tutte le espressioni sensate possibili, le quali significheranno qualcosa di differente in funzione del valore che andrà ad occupare il posto di una variabile comune a tutti gli enunciati – comune perché presente in quella che Wittgenstein connota come – lo si ripete – forma generale della proposizione. Si richiama la proposizione 6 del Tractatus: “La forma generale della funzione di verità è:

. Questa è la forma

generale della proposizione.”40 Ciò che si vuole mettere in evidenza è il fatto che una volta data la forma generale secondo la quale una proposizione è costruita, con essa è anche già offerta la chiave per derivarne un’altra mediante un’operazione e ciò è possibile assumendo che ogni proposizione complessa – molecolare può derivarsi da ciò che è più semplice. Si faccia attenzione: che i simboli presentati nella proposizione siano nomi è solamente qualcosa che vediamo nell’usare i simboli stessi. Questo non è un argomento da lasciare al margine poiché intorno ad esso ruota il concetto di filosofia – che concettualizza in modo nuovo il termine “essenza” – per come Wittgenstein la intese nel periodo in cui mise per iscritto il Tractatus. Corre una differenza sostanziale tra l’avanzare proposizioni filosofiche descrittive – teoriche, come da una meta posizione, e guardare al metodo filosofico pensato internamente al problema stesso. L’autore presenta una disamina di un metodo filosofico che spiega se stesso solamente mentre lo si esegue, con la risultante che ciò che intendevamo chiarire diviene perspicuo solamente all’interno del chiarimento linguistico che attuiamo. Questa innovativa angolatura esclude la possibilità d’espressione di certe caratteristiche proposizioni della filosofia

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Ivi, p. 90

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tradizionale – una delle quali potrebbe essere: “questo è il modo in cui un nome significa un oggetto”. Con buona pace della storia della filosofia occidentale, Wittgenstein si propone di riportare all’interno del linguaggio – ovvero nella sua struttura logica e formale – i problemi sollevati, a suo parere, da un uso improprio dell’espressione del pensiero. Il dire: “le proposizioni sono immagini della realtà” sottintende utilizzare il termine “proposizione” come se parlassimo di qualcosa che possiede certe qualità intrinseche che la collocano al di fuori del mondo linguistico in cui siamo immersi. Silentemente si effettua, in questo modo, un distanziamento cruciale tra ciò che diciamo e quello che pensiamo di avere detto, tra ciò che vi è di accidentale e quello che ci appare essere necessario. Questo movimento di distanziamento dalla formalità strutturale del linguaggio sembra potersi offrire come una chiave di comprensione della confusione tra ciò che di essenziale v’è nel linguaggio e ciò che assurge ad esserlo pur essendone una descrizione fornita dall’esterno. Si noti che usando i termini “essenza” e “accidentalità” si intende illuminare un aspetto specifico della metodologia wittgensteiniana, ossia la relazione – e opposizione – tra sagen (il “dire” raffigurativo) e zeigen (il “mostrare”). Una volta assunto che per Wittgenstein ciò che è essenziale – nel lavoro filosofico – è la questione della generalità di una variabile presente nella forma generale della proposizione, si può comprendere come qualsivoglia descrizione linguistica dell’espressione del pensiero – dall’esterno – generi confusione e problemi assai complessi specie se si tenta di trovarvi risposta muovendo da un interrogativo nebuloso. In questa lettura le proposizioni del Tractatus non sono tentativi di dire qualcosa che non possiamo dire – poiché può essere solo mostrato – ma sono inviti a comprendere il funzionamento logico del linguaggio nella sua dimensione del “dire”, votati a “mostrare” ciò che si trova al di là del linguaggio descrittivo, ovvero il mistico, e nella fattispecie l’etico.

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L’essenza del linguaggio e del mondo L’opposizione tra sagen e zeigen sembra offrirsi come un nucleo tematico centrale nella filosofia del linguaggio di Wittgenstein, proprio alla luce del come un suo fraintendimento possa annebbiare la vista davanti agli usi – ordinari – di stringhe di simboli capaci di significare qualcosa che risiede al di fuori della regione del linguaggio della scienza naturale. Il lavoro filosofico che guarda all’essenza è dunque strettamente connesso all’impegno a non scambiare per essenziale qualcosa che di per sé stesso non lo è affatto, ovvero a non cadere vittime di una acuta forma di pigrizia intellettuale. Quando si menziona tale pigrizia si vuole riferirsi esattamente ad una placida predisposizione a recepire, acriticamente, una risposta alle nostre domande sebbene essa sia fallimentare. Il fallimento intrinseco a certi generi di spiegazione discende da un fraintendimento di ciò che di più importante ed essenziale vi deve essere nella risposta ovvero il potere di fare chiarezza, ed è proprio nella confusione tra l’atto del rispondere e quello del chiarire che si crogiola il tradizionale metodo filosofico criticato – negativamente – da Wittgenstein. La condizione necessaria affinché si ottenga una risposta fedele all’intenzione della domanda, è che si abbia chiaro il problema che desta in noi insoddisfazione e turbamento. Se, però, il problema ha assunto l’aspetto che noi pensiamo esso debba avere perché vi si possa rispondere, allora la filosofia fallisce il suo intento sul nascere, poiché piuttosto che lavorare in profondità elucubra descrizioni funzionali a coordinarsi all’interno del quadro generale che ci attendiamo non venga disatteso. Nel tentativo fallimentare di dire quel quid che può essere solo mostrato, la filosofia tradisce il suo scopo chiarificatore, tentando impotentemente di dire ciò che non può essere detto. Tornado all’interno del linguaggio, notiamo che la presentazione della forma generale della proposizione intende chiarire che il luogo della filosofia non deve essere inteso come esso fosse una privilegiata regione meta discorsiva da cui distribuire dottrine e verità – intendendone l’intenzione in questo modo finiremmo per contraddire anche uno tra i più condivisi enunciati complessi in merito al

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lavoro filosofico, ovvero che “esso differisce dal metodo scientifico descrittivo almeno rispetto a ciò su cui si interroga ed al modo in cui vi risponde – . Accorciare la distanza tra ciò che può essere detto e quello che si mostra in ciò che viene detto inibisce la chiarezza che fa da fondamento all’intenzione filosofica. Quel genere di chiarezza, che più che rispondere ad una domanda vuole dissolvere il problema, può essere raggiunta indirizzando, con coraggio e rigore, la nostra attenzione verso qualcosa che è già davanti ai nostri occhi ma che proprio per la sua estrema vicinanza risulta invisibile – marginale. Quel “qualcosa”, nella prospettiva wittgensteiniana, è dentro la struttura logica del linguaggio. La tesi sostenuta afferma Wittgenstein non intenda, esclusivamente, insegnare in che modo il linguaggio giunga ad esprimersi sensatamente, o in che modo fallisca questo obiettivo, quanto mostrare l’espressione sensibile dell’etico risieda al di là di ciò che possiamo dire sensatamente. Viene, insomma, posta sotto accusa una secolare immagine del fenomeno della comprensione, secondo cui tutto ciò che accade durante gli atti di comunicazione consta nell’associare un certo senso ad un segno proposizionale. Tanto più chiaramente vediamo il linguaggio, di cui comprendiamo e usiamo le proposizione descrittive afferenti alla sfera del “dire”, tanto più perspicuamente giungeremo alla conclusione che in etica non vi sono proposizioni che sanno fare ciò che vogliamo, ciò che intendevamo. Nel Tractatus il perimetro del linguaggio significante è – come – posto davanti ai nostri occhi con una intenzione che va al di là dell’intento teoretico di fornire una dottrina constante di enunciati che descrivono cosa possiamo dire e cosa invece no. Prendiamo la T. 6.42: “Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto.”; e la seguente T. 6.421: “E’ chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. Etica ed estetica sono tutt’uno.” Queste proposizioni dichiarano l’inesistenza di un corpo di espressioni dell’etica ed è dunque plausibile pensare Wittgenstein non stia descrivendo – come vuole la lettura ineffabilista, di cui si parlerà nel proseguo del lavoro – il limite tra la

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regione del linguaggio descrittivo e quella delle proposizioni che esprimono valori etici o estetici, proprio perché la seconda area non esiste autonomamente. Piuttosto essa si mostra laddove si ha cognizione chiara di cosa può essere detto e – nodo fondamentale – del naturale spingersi verso un limite che inibisce l’espressione dei sentimenti o dei significati imparentati con le nozioni di “Bene”, di “Giusto” e via discorrendo. Cora Diamond evidenzia41 che il tipo di comprensione che conseguiamo esibendo il linguaggio sensato dall’interno – cioè assumendo d’esservi immersi – ci offre la possibilità di assumere che la nozione di “proposizione dell’etica” è assai confusa, e di realizzare che tale mancanza di chiarezza non viene risolta attraverso una risposta. La visione di cosa sia l’etica presuppone, dunque, la comprensione che nulla di ciò che può essere detto sensatamente – e solamente ciò che è sensato può essere detto – sa esimersi dal tradire l’intenzione che soggiace a ciò che vorremmo esprimere, il che inficia l’intelligibilità di pseudo proposizioni dell’etico. In T. 5.525 Wittgenstein sostiene: “[…] Certezza, possibilità o impossibilità d’una situazione sono espresse non da una proposizione, ma dall’essere una proposizione una tautologia, una proposizione munita di senso, o una contraddizione […]. La forma generale della proposizione

contiene queste tre

possibilità, ossia ci fornisce una regola – dall’interno del linguaggio – per costruire tutte le proposizioni sensate nonché le proposizioni della logica, incapaci di dire qualcosa sul mondo poiché sempre vere – le tautologie – o sempre false – le contraddizioni – . Nell’indicare le proposizioni sensate, essa esprime anche la possibilità di ogni situazione possibile, di ogni stato di cose possa sussistere nel mondo. Ci offre, insomma, ciò che in T. 5.4711 è definito l’essenza del mondo: “Dare l’essenza della proposizione è dare l’essenza d’ogni descrizione, dunque l’essenza del mondo.”

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Cfr. J. Conant, Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, pp. 100-102

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La forma generale della proposizione rappresenta l’essenza di ciò che può essere espresso attraverso l’unico linguaggio sensato, ovvero quello descrittivo, e ci offre l’accesso all’essenza del mondo, ad ogni stato di cose possibile possa essere descritto coerentemente alla grammatica imposta dalla forma generale di ogni enunciato. Osserviamo dunque un rispecchiamento tra ciò che battezziamo come l’essenza del linguaggio e quello che il linguaggio raffigura, ossia l’essenza del mondo. Ci troviamo al cospetto di una endiadi che evidenzia ciò su cui la volontà – intesa come soggetto etico – può esercitarsi in un mondo in cui “tutto è come è, e tutto avviene come avviene”. Ciò che si vuole sottolineare è il come dall’interno della struttura logica del linguaggio, Wittgenstein metta a disposizione uno strumento di comprensione del legame corrente tra linguaggio e mondo accidentale, sottratto ai nostri possibili atti volitivi. La forma generale della proposizione ci da tutto il linguaggio e tutto il mondo, come totalità delimitata, ossia tutte le proposizioni descrittive e tutti i fatti possibili che compongono il mondo: ci offre linguaggio e mondo. E’ affondando le mani dentro questa materia linguistica fino a maneggiarla e a comprenderla, che si traccia come un cerchio intorno al linguaggio nel suo “esser lì”, davanti a noi. Una volta confinato entro il perimetro della circonferenza esso si offre per quello che è, sia nella sua natura logico – strutturale – descrittiva, che nel suo offrire l’essenza della totalità degli stati di cose possibili. Ecco allora che un problema sembra venir dissolvendosi laddove vedendo chiaramente la diade linguaggio – mondo, scorgendo il linguaggio nel mondo stesso – e vedendone i limiti collimare – possiamo cambiare orientamento alla luce del fatto che le domande che ci ponevamo non hanno ricevuto risposta ma sono semplicemente svanite. Si avverte una caustica vena anacoretica nel sentimento di pacificazione che l’essere umano prova nel vedere che “semplicemente” il mondo è come è, indipendentemente dalla nostra volontà di plasmarlo secondo i nostri fini e desideri. Tuttavia non è questo, come detto, il sentimento a cui Wittgenstein fa riferimento in questo momento di comprensione del nostro ethos, inteso sia come spazio di dicibilità che come luogo d’abitabilità. Al contrario, fa notare Cora

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Diamond42, quando diciamo che l’attività di chiarificazione del linguaggio è in grado di cambiare la nostra prospettiva sul mondo – quel mondo accidentale su cui non esercitiamo alcuna forza – lo stiamo facendo attraverso un uso figurativo del linguaggio. Con questo, per grandi linee, si intende che se abbiamo imparato a concentrare la nostra attenzione su ciò che si può dire, abbiamo creato le condizioni per recedere dal funzionamento del linguaggio sensato ossia dalla dialettica del domandare – rispondere. Abbiamo quindi compreso che le descrizioni che il linguaggio delle scienze naturali ci mette a disposizione non sono attrezzate per offrire risposte ai problemi vitali menzionati in T. 6.52. Ecco, allora, che l’angolatura è cambiata e non ci interessa più il perché la nostra volontà non agisca sul mondo, o il perché le cose stiano “così e così”. Ciò accade in seguito alla dissoluzione di domande che traevano la loro linfa dall’interno del linguaggio sensato ma che appena svanite estendono, figurativamente, il pensiero verso una nozione di mondo da intendersi come qualcosa che può essere quietamente osservato dall’esterno appena si sia ripresa confidenza con il linguaggio sensato. E’ dunque questa la lettura in cui la filosofia, intesa come analisi del linguaggio sensato e sua chiarificazione, si offre come apripista verso la comprensione di ciò che trascende, come l’etica, il mondo ed il linguaggio descrittivo. In ciò consta l’intento etico del Tractatus: occorre intendere lo scopo dell’opera – come dire – associandolo ad un esercizio volto ad affinare la comprensione della propria sensibilità nonché a rendere perspicua la visione soggettiva di un mondo del tutto accidentale o oggettivamente “così come è”. A tal proposito si richiama l’attenzione sulla T. 5.473: “La logica deve curarsi di sé stessa […]” Un modo – possibile – di interpretarne il senso è quello di intenderla come una indicazione del fatto che ciò su cui dobbiamo lavorare – intervenire attivamente – non è l’ordinamento logico, appunto dotato di una autonomia che lo emancipa dal

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J. Conant, Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 106

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nostro intervento, quanto l’etico: ciò vuole indurre il lettore a prendere coscienza del fatto che se vi è qualcosa che necessita le nostre cure quel ché siamo, in larga misura, noi stessi in quanto esseri umani invitati ad una forma di cambiamento personale possibile non appena si sia riacquisito un rapporto onesto con i limiti del linguaggio – mondo.

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Solipsismo e relazione tra soggetto e mondo Secondo Piergiorgio Donatelli43 l’invito alla comprensione non psicologica dell’Io è esplicitamente espresso nella proposizione 5.641 del Tractatus: “V’è, dunque, realmente un senso, nel quale in filosofia si può parlare in termini non psicologici dell’Io. L’Io entra nella filosofia perciò che ‘il mondo è il mio mondo’. L’Io filosofico è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, che è non una parte, ma il limite del mondo.” Prendiamo ora, facendo un balzo indietro nella struttura del libro le proposizioni 5.61 e 5.62: “La logica pervade il mondo; i limiti del mondo sono anche i limiti di essa. Noi non possiamo, dunque, dire nella logica: Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no. Infatti, ciò parrebbe presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché richiederebbe che la logica trascendesse i limiti del mondo; solo così essa potrebbe contemplare questi limiti dall’altro lato. Ciò che noi non possiamo pensare, noi non lo possiamo pensare; né, di conseguenza, noi possiamo dire ciò che noi non possiamo pensare.” “Questa osservazione dà la chiave per decidere la questione, in quale misura il solipsismo sia una verità. Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto; solo, non si può dire, ma mostra sé. Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (dell’unico linguaggio che io comprenda) significano il limiti del mio mondo.” Si può sottolineare come alcuni esegeti abbiano interpretato queste affermazioni in chiave empiristica, attribuendo al solipsismo wittgensteiniano un carattere imparentato con lo scetticismo humiano44 intorno all’argomento dell’esistenza

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari, p. 102 Ivi, p. 103

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delle menti altrui e del mondo esterno45. Tuttavia, prendendo sul serio fino in fondo le affermazioni del Tractatus una lettura empiristica del solipsismo risulta, a parere di Donatelli46, inaccettabile. Wittgenstein, difatti, propone di acquisire la tesi solipsista – la quale postula che “il mondo è il mio mondo” – in relazione al fatto che “i limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Un modo per argomentare il rifiuto delle esegesi empiristiche del solipsismo è quello di abbracciare una nozione di mondo come circoscritto da un confine che fissa anticipatamente quali sono le possibilità. Ne segue che se l’intento è quello di seguire rigorosamente gli inviti alla comprensione di Wittgenstein, dobbiamo intendere il concetto di “mente” – che si desume dall’uso del termine solipsismo come “atto solitario della mente” –, sostiene Donatelli47, come votato a far coincidere il mentale con il regno della logica. Occorre, tuttavia, trattare questo spinoso nucleo del Tractatus logico – philosophicus con il dovuto acume, pena finire per considerare quello che definiamo “il carattere logico del mentale” alla stregua di un “fatto” che potremmo descrivere. Cora Diamond48 ha offerto acuti contributi volti a tenere i lettori del libro al riparo da un impasse di quel genere. Ella rimarca che giungere a trattare il carattere logico della mente non deve essere un modo per cedere alla tentazione di pensare di trovarsi – come dire – ad abitare nei piani più alti di un edificio del quale stiamo vedendo le fondamenta logiche. Piuttosto che adottare un atteggiamento scientifico – descrittivo – psicologico nei riguardi dei processi logici che caratterizzano l’attività mentale, urge si abbandonino i termini che utilizzeremmo per sostanziare l’erronea percezione d’esser posizionati tanto distanti dal logico da poterne dire qualcosa, attraverso l’uso descrittivo di parole come mente o carattere logico del mentale. Sostiene Donatelli49 tali espressioni debbano cadere in disuso per il semplice fatto d’esser chiaramente insensate, poiché se fossero – viceversa – sensate esse saprebbero

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Si ricerchi quanto affermato in G. C. M. Colombo, Introduzione critica al “Tractatus logico – philosophicus, premessa alla prima ed. it. dell’opera, a cura di Id., Bocca, Milano – Roma, 1954, pp. 13-131 46 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 103 47 Ivi, pp.105-106 48 Cfr. C. Diamond, The realistic spirit. Wittgenstein, Philosophy and the Mind, The MIT PRESS, Cambridge 1996, p. 3 49 Ibidem

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offrire una risposta alla domanda “qual’é il carattere logico del mentale?” direttamente dall’interno di ciò che possiamo dire, smentendo il carattere trascendentale che Wittgenstein attribuisce alla logica stessa ed offrendo una descrizione che qualificherebbe la mente come non logica. Nel tentare di ricorrere ad una dottrina che offra descrizioni del carattere logico della mente manifestiamo, dunque, una forma di insicurezza in ciò che facciamo – che è di per sé anticipatamente condizionato dalla grammatica imposta dalla logica quale condizione stessa del mondo – e smascheriamo un recondito bisogno di costruire – come dire – una teoria che dia fondamento alla correttezza della logica. Tale richiesta di rassicurazioni si manifesta in quello che è posto a tema come il nucleo duro del Tractatus, ovvero la confusione logica che induce a scambiare il nonsenso per il senso. I’obiettivo dell’opera è – appunto – quello di tracciare un limite fra ciò che si può dire sensatamente e ciò su cui bisogna tacere ma – e ciò si ritiene importante – quel tacere non allude al mero silenzio quanto alla dissoluzione di un fraintendimento che appena svanito non lascia nulla a cui rispondere. Cora Diamond ha osservato50l’esistenza di insensatezze – come quelle filosofiche ed etiche – che sono intenzionalmente insensate, ovvero debbono esserlo poiché se non lo fossero non potrebbero coordinarsi all’intenzione emotiva che le ha generate. Ergo il significato del tacere – che si vuole approvare – indica il successo ottenuto laddove si è giunti ad avere la meglio sull’insicurezza verso la propria sfera riflessiva che ci induce a considerare sensate stringhe di segni insensate. Tacere – coerentemente con l’intento etico dell’opera dichiarato da Wittgenstein – vuole intendere il dovere verso se stessi – e verso il mondo a cui siamo coordinati – di arrestare le chiacchiere che pongono a tema tanto la logica quanto l’etica, ovvero due ambiti che trascendendo i limiti della sensatezza indi al di fuori della possibilità d’essere detti attraverso le proposizioni del linguaggio scientifico. In questa chiave di lettura il “tacere” si spoglia della sua fuorviante connotazione fisica – legata al mero silenzio – per vestirsi di connotati teoretici

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Cfr. Ethics, Imagination and the Method of Wittgenstein’s “Tractatus”, p. 77, in Alice Crary and Rupert Read, The New Wittgenstein, Paperback, 2000

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più profondi. Essi alludono alla dimostrazione del raggiungimento di una comprensione della logica che – in ultima istanza – consenta tanto di resistere all’illusione filosofica di parlare sensatamente quando non lo si sta facendo, quanto d’avere la meglio sullo stato di insicurezza di cui è innervato il rapporto tra il nostro Io e ciò che facciamo. Ecco, allora, che il silenzio mostra sia l’avvenuto cambiamento della propria relazione con il linguaggio – mondo, sia una maggiore consapevolezza della propria sensibilità. Tornando al problema del cambiamento personale in etica, osserviamo che esso viene a relazionarsi con un’opera rigorosa tesa a vincere certe inclinazioni che strumentalizzano il nostro carattere. Trattare questo nucleo problematico in senso non psicologico intende considerarne il carattere non – come dire – derivandolo dalla sostituzione di un certo gruppo di nozioni con un altro – come potrebbe essere, per esempio, il far proprio un concetto di “Bene” che sia differente da quello a cui eravamo soliti rifarci – ma associando a ciò che stiamo definendo cambiamento personale il resistere all’inclinazione a sfuggire al carattere dell’etica. Sfuggiamo all’etico ogni volta che tentiamo di trovare delle risposte ai problemi della sfera morale – come al “cosa è giusto fare” o al “senso della nostra vita” – all’interno dell’illusione di trovarci, rispetto ad essi, nella posizione opportuna per dirne qualcosa, per rispondere alle domande innescate dal carattere problematico della vita. Questo genere di atteggiamento verso ciò che è problematico discende – sostiene Wittgenstein – dalla tendenza a voler rispondere ai problemi etici attraverso proposizioni sensate ed è – propriamente – dalla distanza tra il carattere insensato e trascendentale dell’etico e quello sensato delle risposte in cui si cerca conforto che nasce il sentimento di insoddisfazione che esperiamo a causa della mancata dissoluzione del quesito. Scrive Wittgenstein nella proposizione 6.4312 del Tractatus logico – philosophicus: “[…] (I problemi da risolvere qui non sono problemi della scienza naturale).” Prosegue nel rimarcare il concetto in T. 6.52: “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i

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nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.” Resistere al carattere dell’etica significa – allora – non scegliere la strada più dura, ovvero non emanciparsi dall’illusione entro cui collochiamo noi stessi nei nostri speciali rapporti con la vita in sé, con gli altri esseri umani, con gli oggetti, con la realtà complessa. E’ in questo modo che si inficia il cambiamento personale da cui passa la comprensione del carattere etico delle nostre esistenze. Perché – se quanto detto rappresenta una forma di auto-inganno incapace di farci sentire “a casa” – l’uomo persiste nell’assecondare la propria inclinazione a resistere all’etico? Si direbbe – rispondendo almeno parzialmente alla questione posta – ciò avvenga a causa di una diffusa assenza di coraggio, concentrazione e risolutezza: qualità che inducono a non barattare il sentirsi – apparentemente – soddisfatti con il risultato eccellente a cui potremmo pervenire seguendo rigorosamente un sentiero di chiarificazione dei problemi che ci turbano, in vista del modo per dissolverli. Ciò su cui si impernia la comprensione dell’etica – e dunque l’intento etico del Tractatus – corre parallelamente allo studio della natura della proposizione presente nel testo. Tale delucidazione del funzionamento logico del linguaggio si propone come un chiarimento del problema etico; chiarimento scaturente dalla comprensione del funzionamento del linguaggio sensato in vista del dissiparsi della tendenza a confondere ciò che trascende i limiti del dire con ciò che può essere pensato e detto. In questa chiave l’opera presenta l’etica non come una dottrina – né come una determinata area specifica dei discorsi – ma come una possibilità di cambiamento connessa all’educare la nostra sensibilità, il nostro occhio sul mondo, in vista della dissoluzione della caligine che rende assai confusa sia la comprensione della struttura logica del linguaggio sia quella della relazione che intratteniamo con la realtà, intesa come totalità di stati di cose preliminarmente presenti nella forma generale della proposizione

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Se comprendiamo il metodo filosofico espresso da Wittgenstein nel Tractatus – e quale tipo di problema filosofico sia coinvolto – vediamo perspicuamente che 53

seguire le osservazioni d’ordine logico – offerte al lettore – vuole significare avere la meglio sull’inclinazione del nostro carattere a stanziare entro i limiti d’una confortevole, rassicurante – ma del tutto ingannevole – illusione filosofica. In questo senso il carattere logico di ciò che Wittgenstein ha scritto si connette all’etico – e dunque al “noi che siamo e agiamo” – seguendo un percorso interno alla nostra stessa logica. Donatelli sottolinea che il riacquistare dimestichezza con noi stessi riguarda la nostra spontanea tendenza a scambiare la forma logica per un fatto come gli altri e quindi a sostanziare l’illusione di riuscire a situare noi stessi fuori dalla logica e fuori del mondo51. Tale errata inclinazione concerne altresì l’idea di poter osservare noi stessi – la nostra condizione umana – nel modo in cui si guardano i fatti nel mondo. In altri termini queste fuorvianti tendenze inducono a considerare i problemi dell’etica come problemi della scienza naturale. Seguendo questa linea esegetica la riconciliazione con noi stessi – ovvero con la nostra condizione umana nel suo più puro carattere etico – vuole invitarci a non cadere nell’impasse di posizionare il nostro sé al di fuori di noi stessi. Riassumendo: cosiccome è erroneo e illusorio cadere nell’inganno di pensarci al di fuori della logica e al di fuori del mondo, altrettanto lo è pensare al nostro sé come se esso fosse un fatto che possiamo descrivere. Una volta fatta propria questa interpretazione, dovrebbe risultare maggiormente agevole cogliere l’intento wittgensteiniano di indirizzarci, attraverso dei cenni52, a mutare la nostra sensibilità tanto verso il linguaggio quanto nei riguardi della nostra condizione esistenziale d’esseri umani. Sarebbe, allora, fuori luogo voler cogliere nella struttura del Tractatus logico – philosophicus l’intento di insegnare qualcosa sull’etica o addirittura di offrire una dottrina morale al lettore, poiché questa errata inclinazione condurrebbe verso la rottura di ciò che tiene legate le proposizioni della sesta sezione dell’opera a quelle che – precedendola – analizzano il carattere logico della proposizione. Il legame tra logica ed etica – di cui si è accennato anticipatamente – verrebbe spezzato per soddisfare la propensione a trattare ciò che può solo mostrarsi (come

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 108-109 Il riferimento è alla nozione di “cenno” riconducibile a G. Frege

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la logica e l’etico) alla stregua di quello che può dirsi sensatamente, come accade con i fatti osservati e descritti dal linguaggio della scienza naturale. La struttura del volume – muovendo dalla disamina della logica del linguaggio e giungendo fino alle proposizioni in cui occorrono le parole “etica”, “mistico”, “estetica”, etc. – e il suo contenuto terminologico rispondono all’intento di offrire delucidazioni sulle questioni che ci riguardano più da vicino, proprio perché internamente connesse alla stessa nozione di vita, intesa nella più problematica accezione. Il fallimento etico consiste – del resto – nell’avere nei riguardi del mondo, di noi stessi, dell’esistenza in ciò che chiamiamo realtà, un atteggiamento derivato da un cattivo uso dell’estensione del pensiero – o dell’immaginazione. E’ esattamente un esercizio errato delle nostre facoltà immaginative – fallace perché fondato sul fraintendimento del linguaggio e di ciò su cui ci stiamo interrogando – che ci consente d’essere agenti – e pazienti – all’interno dell’illusoria situazione in cui finiamo per esprimerci come fossimo distaccati da noi stessi, dal linguaggio e dal mondo.

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Etica e volontà Un modo per approcciarsi al chiarimento in merito alla relazione tra soggetto e mondo, osserva Donatelli53 è quello di tentare di legare l’etica alla nozione di volontà . Per Schopenhauer54 la correlazione esistente risponde al carattere generale dell’etica cristiana e moderna secondo cui il comportarsi virtuosamente rappresenta l’antitesi dell’agire egoisticamente. E’ necessario tuttavia rimarcare che in Il Mondo come volontà e rappresentazione si incontra una sorta di denudamento

del

carattere

ineludibilmente

egoistico

dell’agire

umano,

naturalmente animato da un atto di volizione. La volontà è intesa da Schopenhauer come una forza magmatica e inarrestabile innervante l’intero universo, la cui azione è inarrestabile al punto di non potervi trovare alcun rimedio se non la sua stessa negazione – o noluntas –. In tal senso, dunque, la noluntas schopenhaueriana non si accorda con il nucleo delle teorie etiche moderne fondate sulla diade virtù-altruismo, proprio perché la qualità ineliminabile dell’agire umano viene da lui ricondotta a qualcosa di sostanziale quale la volontà nella sua accezione più egoistica. Chiamare in causa questo tema serve ad avvicinarsi a cosa Wittgenstein, che certo si serve – a tratti – di una fraseologia in cui sembrerebbe riecheggiare lo stile di pensiero di Arthur Schopenhauer, voglia significare utilizzando il termine volontà. Donatelli55 pone la questione in questi termini: Wittgenstein usa – frequentemente – un vocabolario che chiamerebbe in causa Schopenhauer ma mentre il secondo dice qualcosa sull’etica – ovvero offre una teorizzazione della relazione corrente tra volontà e morale – Wittgenstein non fa altrettanto: piuttosto egli si serve della medesima fraseologia per fare chiarezza in vista della dissoluzione dell’illusione che offusca la visione che abbiamo di noi stessi e della realtà. In un primo caso si evince, dunque, un intento speculativo – teorico – esterno al problema sollevato,

53

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p.112 Ibidem 55 Ivi, pp. 112-113 54

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nel secondo l’intento delucidativo è, invece, linguisticamente interno al problema stesso e dunque non animato da alcuna velleità dichiaratamente dottrinale. Ciò che occorre fare è, semplicemente, conciliare l’uso di una terminologia di matrice schopenhaueriana nel Tractatus logico – philosophicus con l’intento etico wittgensteiniano – da lui dichiarato apertamente tanto nella Prefazione quanto in conclusione –, senza cadere nella tentazione di cercare al di fuori dell’opera quei contenuti che servirebbero per sostanziare esegesi del libro che invitano a connotare la nozione di volontà fondandola su elementi che nel Tractatus non si presentano affatto. Si sottolinea che il resistere alla tentazione di rintracciare un’intenzione teorica – ovvero imporsi sull’inclinazione a smarrirsi nella dialettica tra domanda e risposta, caratteristica del linguaggio scientifico – si lega all’intento etico del volume poiché ciò mette in luce il venir meno della tendenza a scambiare il senso per l’insensatezza, ovvero i fatti descritti dal linguaggio scientifico per ciò che solo mostra se stesso. Può ipotizzarsi Wittgenstein, più che conscio dell’attrattiva esercitata dal linguaggio sensato applicato illusoriamente ai nonsensi, si sia servito di questo espediente – come nel “dire qualcosa sull’etica” – per condurre il lettore a riacquisire contatto con il linguaggio una volta guadagnata la visuale necessaria perché al susseguirsi di domande si sostituisca la quieta osservazione del mondo per come esso è. Resistendo alla familiarità instaurata con i nonsensi usati sensatamente – di cui le espressioni dell’etica sono un esempio – la nebbia si dissolve lasciandoci a constatare che non v’è nulla su cui interrogarsi nel momento in cui l’etica non è più intesa come un fatto scientifico che si può descrivere. Le proposizioni dell’etica si offrono come strumentali a confutare il naturalismo etico, il che equivale a dire che per Wittgenstein nozioni afferenti alla sfera morale, come quella di volontà, di io, di vita etc., non devono essere confuse – e neppure possono essere dette – con i fatti di cui possiamo offrire descrizioni scientifico – psicologiche. La volontà, osserva Donatelli56 è intesa come un esercizio attivo della mente che trasforma la visione che abbiamo della realtà; contemporaneamente l’immagine che componiamo del mondo coinvolge anche un cambiamento di prospettiva in 56

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari, p. 113

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senso cognitivo, alla luce del fatto la volontà plasmi attivamente una realtà soggettiva dall’interno di un mondo dato oggettivamente: il mondo soggettivo del felice è differente da quello soggettivo dell’infelice sebbene il mondo oggettivo che condividono coincida con la stessa totalità di stati di cose sussistenti. Osserviamo venir meno la possibilità di distinguere chiaramente quale contributo il soggetto dia al mondo e viceversa, stante la coordinazione instaurata tra l’apporto del soggetto portatore di volontà e il carattere logico della realtà oggettiva ma offerta alle possibilità figurative della mente umana. Valutando da questa angolatura emerge il contributo wittgensteiniano alla confutazione esista – come dire – un luogo esterno da cui si possa descrivere l’etico. Tale tesi anti – descrittivista si concilia con l’interpretazione dell’etico come “esercizio immaginativo” offerta da Cora Diamond, la quale sostiene57 non sia possibile osservare l’etica dall’alto. Difatti ciò che si presta ad essere osservato da quella angolatura è – piuttosto – esclusivamente un insieme di fatti psicologici descrivibili che non hanno a che vedere con il carattere sostanziale dell’etico. Portando avanti il ragionamento di Diamond ci si trova nella condizione di chi deve, onde comprendere l’etico, rendersi disponibile ad immaginare di entrare nel luogo in cui alberga la dimensione etica, sebbene tale luogo – e tale starvi all’interno – non esista. Sviluppando questo plesso di idee stiamo – come dire – cambiando metodologia d’indagine, ossia abbandonando la ricerca di definizioni teoriche – propria del metodo scientifico di indagare i fatti – per poi divenire consapevoli del fatto che la nostra attività volge verso obiettivi puramente delucidativi. Scrive Iris Murdoch: “I concetti morali non si muovono dentro un mondo duro stabilito dalla scienza e dalla logica. Essi stabiliscono, per scopi differenti, un mondo differente.”58 Indi, il mondo morale – dentro cui occorre immaginare di poter entrare sebbene esso non esista nell’accezione di luogo plastico-fisico – non è quello dei fatti

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Cfr. C. Diamond, Ethics, Imagination and the Method of Wittgenstein’s “Tractatus”, in Alice Crary and Rupert Read, The New Wittgenstein, Paperback, 2000 58 Iris Murdoch, The Sovereignty of Good, Routledge, London 1970, p. 28

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naturali di competenza scientifica. Stante tale discrasia tra mondo dei fatti e dimensione del valore, la stessa nozione di volontà – richiamandola in causa – non può essere intesa come un movimento del proprio sé capace di agire dall’esterno su una realtà moralmente neutra. La volontà deve piuttosto venir concettualizzata come una speciale consapevolezza di noi e del mondo – guadagnata attraverso la più volte citata comprensione del funzionamento logico del linguaggio – che ha il potere di trasformarlo in un mondo differente da quello che si osservava quando la caligine e i fumi del fraintendimento linguistico ancora inibivano la nostra visuale. Wittgenstein incoraggia tale rivoluzione del proprio sguardo suggerendo essa possa porsi in essere attraverso un uso del linguaggio – ed una comprensione d’esso – che non assolve esclusivamente compiti comunicativi ma che può, anche, far progredire o regredire la nostra interiorità. Scrive Wittgenstein: “La logica non è una dottrina, ma un’immagine speculare del mondo. La logica è trascendentale.” – e prosegue – “E’ chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. […]”59 Il modo di interpretare la trascendentalità tanto della logica quanto dell’etica – tenendo ferma l’impossibilità di dire qualcosa su ciò che, come etica e logica, solamente si mostra in ciò che viene detto – è quello di acquisire che non esiste alcuna proposizione etica che sappia raffigurare uno stato di cose. Avanzando lungo il sentiero delucidativo osserviamo come un forte sentimento di onnipresenza, contrapposto all’essere un fatto sussistente in un certo momento del tempo ed in un preciso punto dello spazio, accompagna ogni espressione intenda significare pseudo contenuti morali. Urge, dunque, chiarire cosa facciamo laddove impieghiamo proposizioni descrittive in senso etico.

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Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, §6.13 p. 98, § 6.421 p.106

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L’evoluzione del pensiero etico in Wittgenstein Nel Tractatus l’etica viene illustrata attraverso il lavoro filosofico compiuto sulla logica del linguaggio. Può essere d’ausilio soffermarsi sulle connessioni e sulle discontinuità osservabili ponendo in contrasto il Tractatus logico – philosophicus e uno dei primi documenti della nuova fase speculativa wittgensteiniana, ovvero il testo della Conferenza sull’etica, tenutasi nel novembre del 1929 presso la Società degli Eretici a Cambridge. Se siamo dinnanzi a un cambiamento della concezione filosofica ci si attende di individuare mutamenti anche per quanto concerne il pensiero sull’etica. Da questo punto di vista, sostiene Donatelli 60, la Conferenza solleva un numero significativo di problematiche, presentando una visione dell’etica in parte vicina alle posizioni del primo Wittgenstein, in parte differente. Prendendo in esame, per primi, i punti di continuità, si osserva che nel testo della Conferenza Wittgenstein avanza una distinzione circa l’uso che si fa di termini quale “importante”, “giusto”, “buono”, osservando essi possono essere utilizzati tanto in senso relativo quanto in senso assoluto. Nel primo caso sono riconducibili a giudizi di fatto. Se affermiamo questa è una buona sedia, ad esempio, vogliamo intendere che la sedia serve ad un determinato scopo e dunque l’espressione equivale ad una descrizione di fatti. Viceversa nel senso assoluto tali espressioni sono battezzate come nonsensi. La distinzione tra proposizioni in cui occorrono termini come quelli sopraccitati in senso relativo e quelle che cercano di farlo in senso assoluto, riprende una tesi del Tractatus. Esso, infatti, invita il lettore a resistere alla tentazione di identificare ciò che nel testo viene chiamato “etica” con il discorso morale ordinario, in forza del fatto “etico” è solo ciò che si esprime attraverso un uso necessariamente insensato del linguaggio. L’uso errato a cui fa riferimento la Conferenza riprende questo punto. Ludwig Wittgenstein inoltre presenta una serie di esperienze utili a comprendere cosa egli voglia intendere per senso assoluto. Tali esperienze mostrano il carattere mistico, soprannaturale che si riscontra anche nel Tractatus nelle vesti di rifiuto della prospettiva descrittivista, esattamente quella che nella Conferenza l’autore definisce il “modo di vedere scientifico”.

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 140

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“La verità è che il modo scientifico di guardare un fatto non è il modo di guardarlo come un miracolo.”61 Wittgenstein presenta tre esperienze: l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo; di sentirsi assolutamente al sicuro; e quella di sentirsi colpevoli, nel senso che Dio, in qualche modo, disapprova la nostra condotta. Brian McGuinness ha evidenziato62 come le tre esperienze menzionate siano riconducibili a quanto Wittgenstein scrive nel Tractatus intorno alla relazione del soggetto con il mondo. Il parallelo può essere compreso se espresso in questi termini: la meraviglia verso l’esistenza del mondo è l’espressione del vedere le cose come un miracolo e cioè non come un fatto empirico e descrivibile. Tale meraviglia viene a connettersi al sentirsi inadeguati per il mondo, al non saper dare un senso alla propria esistenza e dunque anche al sentirsi colpevoli per come la si conduce. Invece la meraviglia che caratterizza la visione del mondo come un miracolo ha a che vedere con il sentirsi del tutto al sicuro, ovvero liberi da ogni preoccupazione e liberati da ogni scetticismo verso il significato della propria vita. Donatelli suggerisce63 di leggere nelle esperienze di cui si serve Wittgenstein esclusivamente l’intento di illustrare il carattere soprannaturale, trascendentale dell’etica. Con ciò si vuole sottolineare che se, in accordo con il paradigma descrittivista, tali dette esperienze venissero collocate in un certo posto e in un certo tempo, esse diverrebbero descrivibili e dunque perderebbero tutto il loro significato etico, intenzionalmente insensato. Si direbbe, pertanto, nella Conferenza il tema dell’etica venga offerto mostrando il carattere mistico e necessariamente insensato delle espressioni etiche, ovvero in un modo strettamente imparentato con le riflessioni presenti nel Tractatus. La continuità stabilita tra i due testi tende a spezzarsi se si deduce l’impossibilità di emancipare l’etica dalla regione dell’ineffabile dalla Picture theory. In questo caso, per correttezza logica, si dovrebbe assumere che venendo meno quella teoria del significato, ciò che prima non poteva dirsi diviene esprimibile. Ammettendo

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Cfr. L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 17 62 B. McGuinness, The Mysticism of the “Tractatus”, The Philosophical Review 75, 1966, pp. 326328 63 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 141-142

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questa interpretazione diviene complesso non mettere in discussione i giudizi di continuità tra il Tractatus e la Conferenza. Sembra, infatti, che sebbene l’autore caratterizzi le espressioni di valore assoluto come nonsensi, egli li consideri, allo stesso tempo, parti del linguaggio. Ciò può indurre a ricavare dai contenuti della Conferenza la visione di un’attività filosofica preparatoria tesa a realizzarsi nel dare legittimità alle proposizioni etiche all’interno di giochi linguistici dell’etica, il che implicherebbe una continuità rispetto alla caratterizzazione del pensiero morale anche a fronte di un assunto cambiamento di metodo. Donatelli ritiene64 questa linea interpretativa sia insostenibile e fuorviante. Difatti il cambiamento di metodo filosofico è connesso ad un mutamento dell’immagine dei requisiti di sensatezza che non può lasciare immutata l’etica. Ovvero una volta appurata una variazione d’ordine metodologico, le affermazioni sull’etica del Tractatus non partecipano più a regolamentare, per mezzo della loro insensatezza, l’uso del linguaggio, perdendo ragion d’essere e spogliando il Tractatus del suo intento etico, o perlomeno rendendolo inintelligibile. La presa di coscienza di questo problema interpretativo ha indotto svariati esegeti a pensare che nella Conferenza sia espressa una nuova metodologia che altro non può fare che mutare il concetto d’etica espresso nel Tractatus. Il risultato di questa lettura inficia chiaramente la stabilità del testo del 1921. Ad esempio, a parere di Rush Rhees65 il testo della Conferenza presenta una nuova concezione filosofica che ammette l’esistenza di giochi linguistici dell’etica, quest’ultima caratterizzata dalla nozione di “uso etico del linguaggio”. Dall’analisi di Rhees emerge un problematico impiego della nozione di “valore etico assoluto”, eppure presente nel testo della Conferenza.66 Infatti appena pensiamo allo sviluppo della filosofia wittgensteiniana come ad un processo che lentamente abbandona l’idea che vi siano dei limiti del linguaggio che proibiscono l’espressione di enunciati dell’etica, della religione, dell’estetica e

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Ivi, p. 144 Ivi. P. 145 66 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 145-146. A tal proposito Rhees sottolinea che Wittgenstein smise presto di servirsi dell’espressione “valore assoluto”. Difatti, nel corso di una conversazione con i membri del Circolo di Vienna nel gennaio del 1930, egli presentava la distinzione tra valori in maniera differente, suggerendo che le espressioni hanno in etica un duplice significato, ossia quello “psicologico e dunque descrivibile” e quello “non psicologico”. 65

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della filosofia, il concetto di valore assoluto resta senza alcun fondamento teorico. A questo punto ci troviamo nella posizione per valutare in che modo la nozione di insensatezza etica si è sviluppata nel tempo trascorso tra la stesura del Tractatus e quella delle riflessioni poi confluite nel testo delle Ricerche filosofiche. Ciò a cui si assiste è un graduale abbandono dell’immagine, connessa a quella dei limiti del linguaggio, dell’insensatezza dell’etica. L’insensatezza dell’etica – espressa dalla proposizione: “Non vi sono proposizioni dell’etica” – era il modo in cui nel Tractatus Wittgenstein evitava, sostiene Donatelli67, di guardare concretamente all’aspetto che le espressioni etiche assumono nel loro essere utilizzate all’interno delle quotidiane prassi comunicative. Tanto come affermare che “La logica si prende cura di sé” è un modo di circoscrivere l’analisi escludendo da essa dei dettagli che si presume si sistemeranno per proprio conto, sostenere l’assenza di espressioni etiche è un modo di concludere che tutti gli usi etici del linguaggio si risolvono nello stesso modo, e che dunque è superfluo indagarli. Quando, però, Wittgenstein realizzò, passando per le riflessioni degli anni trenta, che le sue osservazioni non erano efficaci delucidazioni filosofiche poiché non riuscivano a sfiorare il linguaggio ordinario con cui l’etica era in stretta relazione, allora l’immagine dell’insensatezza venne, gradualmente, meno. Passando per questo radicale cambiamento metodologico, egli scelse di analizzare quale forma l’uso etico del linguaggio dovesse avere perché la riflessione intorno ad esso fosse profonda. Dell’esplorazione delle risorse interne al linguaggio etico si trovano tracce evidenti nelle riflessioni sull’estetica – che Wittgenstein, come sappiamo, ritiene strettamente imparenta all’etica –, sulla credenza religiosa, sul “vedere come”. Rhees afferma68 che ciò che aveva tenuto separati l’etica (ossia il valore assoluto), e il mondo dei fatti era stata l’idea wittgensteiniana della “forma logica rigorosa di ciò che può venire detto.” Nel Tractatus, osserva Donatelli69 non incontriamo la nozione di valore assoluto proprio perché l’attaccamento al concetto di forma logica impedisce di gettare lo sguardo sul come l’espressione del valore assoluto faccia anche essa parte delle capacità espressive umane. La

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 163-164 R. Rhees, Ethical Reward and Punishment, cit., p. 187 69 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 164 68

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riunificazione dell’etica con il mondo dei fatti – che ammette e anticipa le nozioni di gioco linguistico e di forma di vita – assume l’aspetto del come le persone parlano concretamente del “bene”, del “male”, del “buono” ecc., nel corso delle loro quotidiane prassi linguistiche. A tale svolta si accompagna la scoperta della varietà dei modi in cui le risorse del linguaggio consentono di esprimere il senso etico delle cose e ciò induce ad ammettere la possibilità di esprimerci eticamente, attraverso frasi dotate di una profondità sconosciuta alle descrizioni scientifiche. Si può, legittimamente, osservare che quanto appena affermato dichiara (ancora) la distanza tra l’etica e il mondo espresso attraverso le proposizioni della scienza naturale, ma occorre assumere, a parere di Donatelli70, che esiste un senso in cui la riunificazione wittgensteiniana di etica e realtà empirica ha realmente luogo, un senso rappresentato dall’evidenza che, dagli anni trenta in poi, Wittgenstein pone sotto esame delle potenzialità espressive e delle differenze tra generi di senso, prima rimasti al di fuori delle sue riflessioni in merito alle capacità espressive umane. Negli scritti che seguono la Conferenza, incontriamo una caratterizzazione esplicita del tipo d’uso del linguaggio etico, estetico e filosofico, offerta tramite la contrapposizione di “ragione” e “causa”. Del resto l’opposizione tra ricostruzioni causali (proprie dell’indagine scientifica) e concettuali (proprie dei saperi grammaticali, come la filosofia, attraversa l’intera produzione matura del nostro autore. Donatelli evidenzia71 un generale fraintendimento della riflessione matura di Wittgenstein da parte della critica, fondata su una approssimativa comprensione di cosa contrappone le ragioni alle cause. In linea di massima gli interpreti hanno voluto intenderla in modo radicale, ovvero nei termini di una separazione netta tra lo spazio delle ragioni e quello delle cause. Nel caso specifico dell’etica essa ha inoltre influenzato significativamente lo sviluppo della teoria morale, seppur non in modo coerente al progetto filosofico wittgensteiniano. Infatti l’invito di Wittgenstein a ricercare le ragioni dei comportamenti e non le cause, ha condotto verso un abbandono della prospettiva semantica in etica, intesa come teoria tesa a stabilire le eventuali connessioni tra i termini che occorrono nel linguaggio etico e le loro proprietà reali. Seguendo questo percorso l’obiettivo della teoria morale è

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Ivi, p. 165 Ibidem

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divenuto quello di costruire modelli di ragionamento che fondino il nostro dei concetti etici, e non di scoprire se tale uso mostra un riferimento ad una proprietà morale. All’interno di questo orizzonte interpretativo generale, si è ritenuto che la il passaggio dal Tractatus alle riflessioni degli anni trenta debba essere letto come uno slittamento dalla prospettiva semantica (il valore non sta nel mondo) ad una razionalista, secondo la quale la morale assume la forma delle ragioni avanzate a favore di una certa condotta. Il fraintendimento sopracitato nasce da una lacunosa lettura delle riflessioni wittgensteiniane degli anni trenta, analoga alla fallace interpretazione, sostiene Donatelli72, dell’intento etico del Tractatus. Wittgenstein non vive affatto la preoccupazione di costruire una teoria intorno alla natura linguistica dell’etica, piuttosto – nelle osservazioni degli anni trenta – egli si occupa di mostrare il carattere dell’uso che facciamo del linguaggio in etica. In buona sostanza egli non è alla ricerca, come ha inteso da R. M. Hare73, di una riflessione che contraddica quella causale, piuttosto sostiene che le ragioni servono a farci guadagnare una visione diversa delle cose, a fare in modo “l’altro da noi” veda ciò che noi vediamo. Le “ragioni” rispondono all’uso “secondario” di un’espressione. Del resto Wittgenstein non afferma affatto che il metodo causale scientifico (proprio quindi anche della psicologia) non funzioni per la forma “primaria” che esso assume, piuttosto egli sostiene74, nelle Lezioni annotate da G. E. Moore, che la ricostruzione causale non sia attrezzata per soddisfare la richiesta di intelligibilità richiesta in ambito etico ed estetico. Il contrasto tra cause e ragioni non implica, dunque, una generale avversione per il metodo scientifico nel suo modo di procedere, quanto la sottolineatura del fatto che in estetica e in etica ciò che è richiesto non sono ricostruzioni sinottiche dei comportamenti per via causale. A sottolineare ulteriormente l’inesistenza di un dichiarato rifiuto radicale del procedere per via causale, si rammenta che Wittgenstein ritiene, altresì, che una spiegazione sappia, almeno, “portare all’attenzione” un certo tipo di condotta, fermo restando nessuna descrizione chiarisca la “natura etica” del

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Ivi, p. 166 Cfr. R. M. Hare, Libertà e ragione, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 33 e 299 74 L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 83 73

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fenomeno che si osserva. Gli interpreti del dibattito in ambito morale che hanno spostato il piano di indagine dalla prospettiva semantica a quella razionalista, in forza di presunti argomenti wittgensteiniani, hanno, dunque, ampiamente frainteso lo sviluppo del pensiero di Wittgenstein in merito all’uso del linguaggio in ambito etico. Quanto detto può essere posto in relazione alle opinioni wittgensteiniane a proposito delle ricostruzioni di J. Frazer e delle analisi di S. Freud. Ad esempio, nelle Conversazioni su Freud75, riportate da R. Rhees. Nella psicologia Freud, a parere di Wittgenstein, offre le proprie ricostruzioni come esse fossero di natura scientifico – causale pur non essendolo affatto. Freud presenterebbe invece delle congetture offerte come fondate scientificamente, sebbene il loro scopo sia quello di affascinare, persuadere le menti dei pazienti a concepirsi in modo diverso ed a comportarsi, dunque, in modo differente. Donatelli fa notare76 che le spiegazioni freudiane manifestano il loro carattere “falsamente scientifico” sia perché Freud non può dimostrare (e la dimostrazione è un tratto ineludibile del procedimento causale) esse siano vere, sia attraverso il modo in cui esse divengono efficaci. Questo nodo ci interessa particolarmente. Le descrizioni freudiane raggiungono il loro obiettivo proprio perché non sono, in verità, spiegazioni scientifiche. Difatti il paziente non giunge a ritenerle vere, piuttosto fa di esse un “uso secondario” per dare nuova forma alle proprie prassi comportamentali, mettendo in moto un tipo di fantasia che conduce a scambiare le considerazioni freudiane per leggi causali. La confusione tra uso primario e uso secondario viene a ricollegarsi al come nel Tractatus e nella Conferenza sull’etica lo scambiare il senso assoluto per quello relativo (ovvero il senso secondario per quello primario), fino a proferire nonsensi credendo essi siano sensati, sia il modo per sfuggire al carattere dell’etica. Emerge, dunque, la distinzione radicale tra l’intelligibilità propria dell’etica, della filosofia e dell’estetica, e quella caratteristica delle proposizioni della scienza naturale. A partire dal “ritorno al terreno scabro”, dunque dagli anni trenta in poi, l’indagine wittgensteiniana intorno al funzionamento del linguaggio sottolinea continuamente la profonda capacità critica che appartiene alla filosofia, all’etica e

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Ivi, pp. 122-123 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 168

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all’estetica. Queste sono, appunto, aree riflessive che hanno a che vedere con il “cambiamento del modo di vedere le cose”. Osserva Wittgenstein: “Molto di ciò che facciamo è una questione di cambiare lo stile di pensiero.”77 Lo stile di pensiero da cambiare è evidentemente quello che non soddisfa il grado di intelligibilità richiesto dal discorso etico, ossia il tipo di riflessione scientifica che sentenzia il linguaggio eserciti su di noi una pressione normativa capace di provare scientificamente che ogni risposta di cui andiamo in cerca sia, per così dire, già presente. Il mutare modo di pensare è dunque intrecciato al cambiamento del modo di vedere le cose eticamente. Il punto nodale, osserva Donatelli78, è che la vita del “pensiero morale” – dunque ciò che è una buona o cattiva riflessione etica o ciò che è mera persuasione (come nel caso delle pseudo spiegazioni freudiane) – appartiene a quel genere di attività che non sono solo investite di una responsabilità verso il mondo dei fatti, ma verso il modo di pensare preso in toto. E’ in questa direzione che si sviluppa la filosofia matura di Wittgenstein. Ora utilizziamo un esempio tratto dalle Lezioni sui fondamenti della matematica: “Supponiamo che tu debba dire a quale realtà deve render conto una frase come: ‘Non esiste alcun verde – rossastro’. Dov’è la realtà corrispondente a ‘Non esiste alcun verde rossastro?”79 Possiamo essere tratti in inganno dall’aspetto descrittivo della frase, dalla padronanza dei termini che in essa occorrono, ed a questo punto attribuirle un senso che non possiede, perseverando nel confondere sensatezza e insensatezza, analogamente a come accade con espressioni che sembrano essere similitudini di qualcosa pur non essendolo affatto. La risposta di Wittgenstein, dagli anni trenta in poi, è quella di porre in rilievo la differenza sussistente tra la responsabilità

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L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 95 78 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 171 79 L. Wittgenstein, Lezioni sui fondamenti della matematica, Cora Diamond (a cura di), Universale Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 256

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verso la realtà dei fatti da parte di una proposizione descrittiva e la responsabilità legata all’uso che nei saperi grammaticali – la filosofia, l’etica, l’estetica – si fa di una certa affermazione. Mentre nel caso di proposizioni che esprimono significati della fisica, i nostri enunciati mostrano una responsabilità verso modelli stabiliti anticipatamente, nel caso degli enunciati dell’etica non è possibile applicare alcun metro di giudizio, alcun modello di correttezza prestabilito. Ciò significa che ciò che facciamo con gli enunciati dei saperi grammaticali è, precipuamente, vedere che cosa un certo modello di correttezza (per esempio l’etica cristiana) significa per noi, ossia in che modo esso “entra” nella nostra vita. In questa accezione la riflessione etica assume l’aspetto dell’illuminazione, come accade in filosofia.

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Uso etico del linguaggio: senso primario e secondario Per comprendere quale uso del linguaggio si faccia nelle circostanze in cui esprimiamo significati etici per mezzo di proposizioni della scienza naturale, può essere d’aiuto distinguere la nozione di senso primario da quella di senso secondario nelle proposizioni elementari e nelle loro sintesi molecolari. In questa prospettiva ci viene in soccorso – al di là del dibattito filosofico, ancora in auge, che vede contrapporsi chi sostiene una lettura continuista del corpo di annotazioni dell’intera opera di Wittgenstein agli esegeti che riscontrano una discontinuità tra la prima fase della sua speculazione e quella canonicamente detta “seconda” – il riferirsi a postume raccolte di annotazioni che ben si prestano a indirizzare verso la comprensione di cosa significhi usare eticamente il linguaggio. Scrive Wittgenstein: “[…] Dati i due concetti “grasso” e “magro”, saresti disposto a dire che mercoledì è grasso e martedì è magro, o saresti meglio disposto a dire il contrario? (Io sono propenso a scegliere la prima alternativa.) Ebbene, qui “grasso” e “magro” hanno un significato diverso dal loro significato ordinario? Hanno un impiego diverso. – Dunque, per parlar propriamente, avrei dovuto usare altre parole? Certamente no. – Qui io voglio usare queste parole (con i significati che mi sono familiari). – Non dico nulla sulle cause del fenomeno. Potrebbero essere associazioni che hanno origine nella mia infanzia. Ma questa è un’ipotesi. Qualunque sia la spiegazione, quell’inclinazione sussiste. […]”80 Donatelli evidenzia81 che nel caso in oggetto ciò che avviene non è l’introduzione di un nuovo significato. Esso è lo stesso – e anzi avvertiamo la necessità esso permanga – ma ne vogliamo fare un uso differente da quello in cui un termine occorre in una descrizione di stati di cose. Wittgenstein sta suggerendo – e ciò è considerato, in questo lavoro, strettamente intrecciato all’opera di chiarificazione linguistica e comprensione dell’etica nel Tractatus – che possiamo indicare il significato della parola su cui noi facciamo affidamento in forza della nostra familiarità con essa e che quel termine ci si offre tanto nel suo significato

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Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Mario Trinchero (a cura di), Einaudi, Torino 2009, II, XI, p. 283 81 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 154

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primario (familiare – descrittivo) quanto nell’uso che di esso facciamo, conferendogli un significato secondario. In forza di questo argomento Wittgenstein prosegue asserendo: “Solo colui per il quale la parola ha significato primario, la impiega nel suo significato secondario.”82 Per chiarire la distinzione tra i due tipi di significato menzionati, occorre considerare che il significato ordinario (o primario) di un termine non corrisponde all’esperienza vissuta nel pronunciare o sentire una parola – e dunque neppure all’accompagnamento mentale che ad essa si può attribuire. Ciò viene specificato per evidenziare che i significati dei termini che occorrono nel nostro linguaggio sensato non sono legati – e tantomeno derivati – dal sentimento che si esperisce nel dire quelle parole. Viceversa, il carattere vitale – emozionale ed esperienziale – è il tratto che si accorda a quella stessa parola se usata nel suo significato secondario. Questa distinzione non deve – come dire – indurre ad impigliarsi tra i fili della tela del fraintendimento tra senso e nonsenso: sarebbe, difatti, fuorviante porsi delle domande in merito al significato di un termine usato secondariamente e tentare di rispondervi attraverso il linguaggio descrittivo delle scienze naturali. Ciò che si assume come nodale è tener ferma la consapevolezza che il termine usato in senso primario rappresenta la condizione necessaria affinché se ne possa fare un uso di tipo secondario. Di tale duplice accezione del significato, sottolinea Donatelli, si trova traccia in annotazioni wittgensteiniane inerenti i fondamenti della matematica83, dalle quali si estrapola uno metodologia estremamente vicina a quella applicabile agli enunciati che si fanno portatori di pseudo valori etici. In Lezioni sui fondamenti della matematica, Wittgenstein evidenzia la pregnanza dell’uso che si fa di una espressione in vista del desiderio di coglierne il significato: “20 mele + 30 mele = 50 mele” può non essere una proposizione intorno alle mele; dipende dall’uso che se ne fa. Può essere una proposizione aritmetica, e in tal caso diremo che è una proposizione intorno ai numeri. Ma non c’è qualcosa di

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Ivi, p. 284 Ivi, p. 155

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strano in questo? Come si è prodotto questo cambiamento circa l’oggetto di cui si parla?”84 Il genere di differenza messa in mostra in ambito matematico tra proposizioni descrittive – nel caso si intendano come oggetto le mele – e aritmetiche – laddove l’oggetto sia inteso essere il “numero” – emerge, come nel caso dell’etica, dai differenti usi che facciamo delle parole. Potremmo delucidare ciò che si intende significare asserendo che mentre le proposizioni descrittive si comportano autonomamente – descrivendo per conto loro la realtà –, quelle della matematica e dell’etica sono, invece, connesse a ciò che facciamo con esse. Wittgenstein, in ambito aritmetico, suggerisce di immaginare una sorta di responsabilità verso certi assiomi e verso certe regole, un genere di sentimento di responsabilità che ha molto a che vedere con l’etica. Se proviamo ad applicare questa linea di pensiero al linguaggio etico, otteniamo evidenti tangenze tra i due ambiti speculativi. L’interpretazione che si propone essere percorribile – al fine di comprendere l’intento etico del Tractatus e il contenuto del testo della Conferenza sull’etica del 1929 – indica di desistere dal tentativo di forzare la logica che regola il funzionamento del linguaggio, ovvero di abbandonare qualsivoglia esegesi voglia indicare l’esistenza di un corpo di proposizioni appartenenti alla – inesistente – regione del linguaggio morale; altresì occorre resistere alla tentazione di costruire la nostra tesi in risposta al bisogno di rassicurazione che frustra l’esistenza di chi non ha fatto proprie le nozioni di forma logica, di forma generale della proposizione, di sagen e zeigen. Le vittime del fraintendimento tra senso e nonsenso, abitano una forma di limbo conoscitivo ove tutto ciò che sembra poter lenire il sentimento di inadeguatezza – causato dall’assenza di contatto con il linguaggio sensato, con il proprio sé e con la realtà – viene concepito sotto forma di “risposta teorica” anche laddove la risposta non v’è. Tali vittime, per una mancanza di coraggio e di concentrazione – ma anche di responsabilità verso se stessi e verso la realtà – non hanno compreso che il senso espresso da un enunciato può non accordarsi con la struttura logica della proposizione che lo

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Ludwig Wittgenstein, Lezioni sui fondamenti della matematica, Cora Diamond (a cura di), Universale Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 119

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esprime ma che, nonostante ciò, quella struttura sintattica è l’unica ad essere disponibile. Solo una volta intuito il genere di delucidazione derivabile dalla ripresa di contatto con il linguaggio sensato in cui siamo immersi, si guadagna la prospettiva indispensabile a realizzare che le proposizioni a nostra disposizione sono – per imperativi di natura logica – preliminarmente ordinate e disponibili e che siamo noi – usandole – a determinarne il significato in un modo diverso – secondario – da quello che il loro carattere descrittivo indica primariamente. Scrive Diamond: “I want to suggest that what Wittgenstein called the use of certain expressions in an absolute sense in ethical and religious discourse has certain logical resemblances to what he later called the use of an expression in a secondary sense. I shall first note a few points from the Ethics Lecture, but I shall not expound the arguments. I shall then explain what I take to be his conception of secondary sense, and lastly I shall try to show the connection between secondary sense and some of the problems raised in the Ethics Lecture. Here I shall not be trying to expound Wittgenstein's views. At the beginning of the Ethics Lecture, Wittgenstein notes that words like "right," "good”, “important" are used in a trivial or relative sense, as well as an ethical or absolute sense; later on in the Lecture he makes a similar distinction with "safe" and ''miracle." We have, for example, the use of "this is the right way to Grantchester," where its being the right way is simply a matter of fact. With this, we may contrast speaking of "the absolutely right road. This would be the road which everybody on seeing it would, with logical necessity, have to go, or be ashamed for not going. The tendency to speak in such ways was a tendency to try to go beyond what could be said: "our words will only express facts" and facts are all as it were on a level. We are trying to say that something stands out above the level of the facts. No fact has absolute value: that is to say, any fact is just a fact, on the dead level of all facts. And it cannot be a fact that something has absolute value: it cannot, that is, be a fact that something stands out from the facts.”85

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C. Diamond, The realistic spirit: Wittgenstein, Philosophy, and the Mind, The MIT PRESS, Cambridge 1996, p.225

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Diamond offre una esposizione della spontanea – ma fuorviante – inclinazione umana a spingersi verso i limiti del linguaggio sensato, tentando di valicarne il confine. La citazione presentata vuole ricordare la cogente necessità del realizzare che solo la comprensione del funzionamento logico del linguaggio crea le condizioni indispensabili al cambiamento della propria visione del mondo e del proprio sé. La parentela tra uso primario del significato (o “relativo”, poiché posto in relazione ad uno stato di cose descrivibile) e secondario (o “assoluto” poiché afferente alla sfera di ciò che può solo mostrarsi) intende illuminare da un’altra angolatura la relazione tra senso e nonsenso. Occorre presentare una sottolineatura del carattere del significato inteso in senso secondario – assoluto. Wittgenstein respinge l’idea esso – se inteso come manifestazione indiretta di qualcosa formalmente non presente nella struttura logica dell’enunciato – possa intendersi come un significato “metaforico”. Difatti, osserva Donatelli86, utilizzare una proposizione del linguaggio delle scienze naturali in senso assoluto non deve indurre chi la pronuncia ( o ascolta ) a riconoscere in essa una metafora volta a raffigurare, indirettamente, uno stato di cose. Sebbene le espressioni etiche sembrino essere delle similitudini – e tentino di rinforzare l’inclinazione al fraintendimento su cui dovremmo, invece, avere la meglio – esse non sono, in realtà, simili a nulla che potremmo trovare nel mondo laddove andassimo in cerca di quel quid che pensiamo di stare descrivendo. Per chiarire questo punto si riporta un frammento del testo della Conferenza sull’etica: “Ma una similitudine deve essere una similitudine per qualcosa, e se posso descrivere un fatto usando una similitudine, devo anche essere in grado di descriverlo senza di essa. Ora, nel nostro caso, se cerchiamo di eliminare la similitudine e di asserire semplicemente i fatti che vi stanno dietro, troviamo che questi fatti non ci sono.”87 Muovendo dalla citazione proposta giungiamo a intuire il “mondo espressivo” in cui il carattere del significato secondario trova il proprio posto. Pensiamo alla

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 156 Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 15 87

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capacità di cogliere una certa espressione in un volto oppure all’esecuzione di un qualsiasi brano musicale. Soffermandoci su tale peculiare modalità del vedere – quello che definiamo “vedere come” – riusciamo a trarre interessanti conclusioni, utili a chiarire quale differenza corra tra il “vedere” inteso ordinariamente e il tipo di osservazione che si lega all’uso secondario del significato. Rammentando la forma generale della proposizione possiamo – quasi – osservare davanti ai nostri occhi la coesistenza – in essa espressa – di tutti gli stati di cose possibili e delle loro relative descrizioni. Arrestarsi, tuttavia, al grado scientifico – descrittivo del linguaggio ci offre solamente la possibilità di prendere cognizione del nostro linguaggio nel suo uso primario – relativo. Se, invece, vogliamo comprendere in quale modo il senso di un enunciato venga espresso – e compreso – nel suo significato secondario (o assoluto), occorre congelare il momento in cui l’oggetto – o il fatto – che abbiamo davanti “muta aspetto”. Si dovrebbe essere creato, a questo punto del lavoro, l’atmosfera necessaria a cogliere ciò che si intende nel dire che l’oggetto muta. Rammentando che il mondo è la composizione di tutti gli stati di cose sussistenti e che la nostra volontà non ha alcun potere di variarne la struttura, intendiamo che il cambiamento è da riferirsi a un modo nuovo d’osservare la realtà rispetto a ciò che usavamo fare in precedenza. Ciò che avviene nell’atto di comprensione di una proposizione dell’etica – che altro non è che una proposizione del linguaggio sensato usata nel suo significato secondario – è propriamente la percezione di espressioni – o aspetti – che il linguaggio descrittivo non è in grado di esprimere se inteso nel suo significato relativo. Scrive Wittgenstein: “Descrivo il cambiamento, come una percezione; proprio come se l’oggetto fosse cambiato davanti ai miei occhi.”88 Egli sostiene che il cambiare modo di percepire una proposizione strutturata nell’unico modo in cui essa potrebbe esserlo – o più generalmente il vedere ciò che solo si mostra in ciò che solo possiamo dire – si renda intelligibile a patto tale

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Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Mario Trinchero (a cura di), Einaudi, Torino 2009, II, XI, p.258

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fenomeno sia collocato all’interno del mondo espressivo di cui noi stessi siamo parte integrante e integrata. “La comprensione della musica ha una certa espressione […]. Ad essa appartengono talvolta movimenti, talvolta però solo il modo in cui il pezzo è suonato da chi lo comprende, o il modo in cui questi lo canticchia. [ … ] Chi ascolta la musica ascolterà diversamente (con altre espressioni del volto, ad esempio), parlerà diversamente da chi non la comprende. Ma la sua comprensione di un tema musicale non si mostrerà soltanto nei fenomeni che accompagnano l’ascolto di esso o la sua esecuzione, ma piuttosto in una comprensione per la musica in generale.”89 Il ponte teso tra il pensiero musicale e l’espressione sensibile del pensiero intende indicare il carattere espressivo – diretto che identifica i processi di comprensione di significati d’ordine secondario. Evidenziarne tale qualità – che figurativamente coinvolge gesti, cenni, espressioni, differenti atteggiamenti dinanzi al medesimo stato di cose o alla stessa proposizione – mette in luce che genere di cambiamento personale sia indotto dall’acquisire confidenza con il linguaggio: superare i fraintendimenti linguistici che occorrono continuamente laddove si scambia il nonsenso per il senso – o anche l’uso assoluto del linguaggio con l’uso relativo d’esso – è l’unico sentiero per guadagnare una visuale cristallina su ciò che facciamo quando usiamo la potenza espressiva del linguaggio. Il Tractatus90 dunque non alluderebbe, con la sua conclusione lapidaria, ad un tacere che vieta di formulare proposizioni il cui contenuto comprenda – in senso generale – il Mistico, quanto a porre in essere – previa comprensione della logica del linguaggio – un cambiamento personale necessario a cogliere perspicuamente anche la distinzione tra uso relativo e uso assoluto delle proposizioni sensate. In virtù di questo genere di delucidazione le proposizioni descrittive delle scienze naturali possono mostrare l’etico nel suo carattere ineluttabilmente connesso alla

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Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, M. Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 1988, p. 133 Le nozioni di significato primario e secondario non ricorrono nel testo del Tractatus logico – philosophicus ma in annotazioni scritte successivamente e poi confluite in raccolte pubblicate postume. 90

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problematicità delle questioni vitali che maggiormente turbano – e interrogano – il nostro animo, tenendoci al riparo dalla confusione linguistica derivabile da una scarsa comprensione del legame espressivo corrente tra la struttura logico – sintattica delle proposizioni sensate e ciò che esse esprimono figurativamente in senso secondario. Si ritiene pertinente riportare alcune considerazioni di Merrill B. Hintikka e Jaakko Hintikka in merito al linguaggio sensato a cui Wittgenstein fa riferimento nel suo Tractatus. I due interpreti sostengono91 il significato primario in questione – quando logicamente analizzato – appartenga ad un linguaggio fenomenologico, i cui oggetti semplici sono intesi essere dati sensoriali immediati; suggerendo che la ragione per cui, in accordo con la Picture theory, molte cose potevano essere solo mostrate – ma non dette, come nel caso delle espressioni della metafisica o dell’etica – stava nell’ineffabilità dei misteriosi oggetti semplici wittgensteiniani. Sembrerebbe consigliabile constatare, seguendo la lettura proposta dagli Hintikka, che non solo le relazioni semantiche tra linguaggio e mondo sono ricondotte nel Tractatus a quelle tra i nomi e gli oggetti semplici ma che anche tutte le forme logiche vengono da Wittgenstein ridotte alle forme logiche di tali oggetti semplici ed ineffabili. Così procedendo – come dire – a ritroso, per via analitica, si troverebbe nel carattere ineffabile di detti costituenti del mondo la ragione per cui molte cose possano solamente mostrarsi in ciò che viene detto. Donatelli afferma92 che uno dei possibili fraintendimenti in cui parecchi interpreti incappano nasce da una mancanza di chiarezza rispetto a ciò che ci attendiamo di trovare andando in cerca di un’etica in Wittgenstein. Un possibile errore di fondo è quello di iniziare l’indagine muovendo dall’idea nel Tractatus possa trovarsi un’etica offerta come concezione del mondo da poter descrivere studiando il pensiero dell’uomo Wittgenstein. Nell’interpretazione del Tractatus che Donatelli – e questo lavoro di rimando – fa valere93, l’indagine intorno all’etica intende mostrare l’avversione wittgensteiniana verso le chiacchiere in ambito morale. Ad

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Merrill B. Hintikka, Jaakko Hintikka, Indagine su Wittgenstein, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 100106 92 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 179 93 Ivi, p. 180

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esse viene sostituita un’attività filosofica di delucidazione della forma che il problema etico può assumere. Wittgenstein nel Tractatus offre una distinzione netta tra le proposizioni della logica – che sono tautologiche – e le proposizioni descrittive. Tale separazione ha certamente accontentato la deriva neopositivista. Inserendo in questa riflessione tanto l’uso primario quanto quello secondario del linguaggio, si direbbe l’autore abbia, nel corso dell’evoluzione del suo pensiero, sfumato il confine tra il linguaggio sensato e quello insensato, inserendo, come sostiene Sabina Lovibond94, l’etica – come le altre pratiche riflessive umane – nel mondo sociale condiviso. Secondo questa lettura, che intende attribuire a Wittgenstein una sorta di realismo naturalista, il legame stabilito tra significati etici e pratiche linguistiche condivise e istituzionali, implicherebbe un indebolimento della distinzione tra il livello regolativo e quello regolato. La conseguenza di tale avvicinamento dei requisiti di sensatezza e di ciò che di fatto viene considerato sensato, sostiene Donatelli95, può conciliarsi esclusivamente con le interpretazioni del pensiero wittgensteiniano propense a spostare il livello di convenzionalità delle decisioni individuali verso quello delle decisioni inscritte nelle convenzioni dell’intera società. Lovibond96 appoggia una versione ineffabilista dell’etico nel Tractatus, e considera la distinzione netta tra fatti e valori – per come essa è espressa nel testo – come una concezione di realismo del tutto incoerente, poiché fondata sull’idea di un accesso mistico al mondo dei valori che è respinta dal senso comune scientificamente informato. Sarebbe, ancora a suo parere, nella riflessione matura che la funzione descrittiva viene da Wittgenstein, in parte, dissociata dalla sola regione del linguaggio della scienza naturale, finendo per pervadere tutte le regioni del discorso a prescindere dai contenuti. Viene, dunque, ipotizzato un processo di graduale avvicinamento a quello che potremmo definire “un unico contatto con la realtà” da parte del linguaggio, collegabile al cambiamento di orizzonte che la varietà di giochi linguistici del secondo Wittgenstein mette a disposizione. Tuttavia, l’idea di un

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S. Lovibond, Realism and Imagination in Ethics, University of Minnesota Press, Minneapolis 1983, p. 25 95 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 148 96 S. Lovibond, Realism and Imagination in Ethics, University of Minnesota Press, Minneapolis 1983, p. 25

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unico contatto linguistico con la realtà, seppur depurato da preoccupazioni metafisiche di tipo fondazionale, può risultare inconsistente e scarsamente aderente ai testi dell’austriaco. Simon Blackburn ha ritenuto97 ingiustificato l’appello ad un unico contatto con la realtà, evidenziando che il modo in cui Wittgenstein si è occupato, in particolare, delle proposizioni della matematica – e più in generale di quelle normative – mette a disposizione una varietà di casi in cui l’autore menziona esplicitamente il carattere non descrittivo di certi tipi d’espressione. Ciò che viene discusso da Blackburn è la possibilità, sostenuta invece da Lovibond, tutte le proposizioni condividano la medesima responsabilità nei riguardi della realtà. La proposizione matematica “3 + 3 = 6”, si relaziona con la realtà in maniera diversa in funzione dell’uso che d’essa di sta facendo: può difatti relazionarsi al mondo in quanto proposizione della matematica o, anche, nella forma di descrizione di un fatto empirico. La tesi di Blackburn mette in risalto la preoccupazione wittgensteiniana di offrire delucidazione capaci di mettere in evidenza i casi in cui si creda di utilizzare un enunciato descrittivo benché esso non stia assolvendo alcuna operazione raffigurativa. Sembra, dunque, plausibile, ammettere l’esistenza di una moltitudine di casi che smentiscono l’idea esista un unico accesso alla realtà. Wittgenstein si occupa, appunto, di distinguere situazioni in cui vi è una corrispondenza conoscitiva con la realtà – relazionata all’uso descrittivo del linguaggio – da altre occasioni in cui le nostre proposizioni sono solo secondariamente in contatto con la realtà, in funzione dell’uso che di esse facciamo. Una conseguenza di queste considerazioni è che, pare, anche nella speculazione filosofica del secondo Wittgenstein si rinvenga una distinzione netta tra linguaggio descrittivo e proposizioni dell’etica. Un tentativo di percorrere una via alternativa che presenta una ricostruzione continuista di tipo intuizionista dell’etica di Wittgenstein, è stato compiuto da Cyril Barrett98. Egli ha tentato di spiegare come è possibile mantenere la concezione del Tractatus, imperniata sul carattere insensato dell’etica, rispetto alla tesi, derivata dal quadro generale della riflessione matura, della possibilità di giochi linguistici dell’etica. 97

S. Blackburn, cfr. vari saggi in Essays in Quasi-Realism, Oxford University Press, New YorkOxford 1993, tra cui Morals and Modals, pp. 52-74, e How to be an Ethical Anti-realist, pp. 166181 98 C. Barrett, Wittgenstein on Ethics and Religious Belief, Blackwell, Oxford 1991, Cap. 6

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La sua interpretazione vuole che i giochi linguistici in cui occorrono espressioni etiche rimangano insensati anche nel nuovo quadro filosofico. Secondo Donatelli99 egli ritiene che la Conferenza sull’etica, e soprattutto la disamina dell’estetica e della credenza religiosa – presenti negli scritti degli anni trenta –, nonché la trattazione del tema del “vedere come” (nella seconda sezione delle Ricerche filosofiche), presentino lo stesso carattere, messo in evidenza nell’esame dell’ineffabilità dell’etica nel Tractatus. In tutti i casi menzionati il contenuto della percezione etica o estetica, o della credenza religiosa, o del “vedere come”, è del tutto privo della forma espressiva adeguata perché esso venga espresso. Portando avanti il proprio ragionamento, Barrett ritiene100 che laddove nel giudizio estetico portiamo un nostro interlocutore a riconoscere una certa espressione in un brano musicale o in una poesia, ciò che diciamo è dotato di un significato silenzioso, di un senso che sta “tra le righe”. Analogamente la credenza religiosa non è in grado di esprimere un significato in modo diretto – descrittivo, piuttosto usa delle immagini non volte ad essere prese alla lettera ma utili a funzionare da fonte di ispirazione, di illuminazione perché si veda diversamente. Osserva Barrett101: “Uno che ha una credenza religiosa vede le cose in maniera diversa da uno che non ha una tale credenza. Il mondo gli appare differente.” Ciò che si sta evidenziando è l’uso “indiretto” del linguaggio, caratterizzato dal fatto il senso possa non trovarsi in ciò che appare in superficie. Secondo il parere di Piergiorgio Donatelli102 le considerazioni di Barrett collegano appropriatamente la discussione intorno all’uso indiretto (o secondario) del linguaggio con il tema wittgensteiniano del “vedere come”. Scrive Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: “[…] Puoi immaginare questo volto anche come l’espressione del coraggio? […]”103

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 152-153 C. Barrett, Wittgenstein on Ethics and Religious Belief, Blackwell, Oxford 1991, p. 129 101 Ivi, p. 143 102 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 153 103 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, M. Trinchero (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 190 100

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L’intravedere – o l’intuire – aspetti morali nel mondo sembra avere l’aspetto del “vedere come”, ossia di un “vedere” che non coincide con la percezione immediata di ciò che sta in superficie, ma con una percezione sui generis. Barrett sembra avere ragione quando evidenzia come Wittgenstein sia interessato a una molteplicità di casi in cui certe proposizioni non sono usate per comunicare il significato che è inscritto nella loro struttura logica interna. La possibilità di scorgere il coraggio in un volto, il fatto di trovare un brano di Schubert melanconico, sono esempi degli svariati casi in cui si osserva esserci qualcosa oltre il significato primario – diretto. La sua ipotesi, in sintesi, è che la riflessione matura di Ludwig Wittgenstein metta a disposizione una posizione intuizionista classica, lontana sia dal realismo naturalista di Lovibond sia dall’antirealismo di Blackburn. Tuttavia, osserva Donatelli104, ciò che tali pratiche linguistiche hanno in comune, a ben vedere, non è l’espressione di una sorta di senso insensato, come sostiene Barrett. Si tratta piuttosto di prendere certe proposizioni che hanno un senso e di farne un uso diverso. Nel caso degli enunciati dell’etica non abbiamo a che fare con l’espressione indiretta di qualcosa ma con una forma del tutto diversa di espressione, il cui funzionamento dipende dall’impiegare stringhe di segni che hanno già un posto nel nostro linguaggio e farle divenire parte d’esso in modo differente. Nell’interpretazione del Tractatus che Donatelli105 fa valere, l’idea che vi siano criteri di sensatezza che proibiscono – relegandoli nel silenzio fisico – taluni enunciati è impraticabile in forza del fatto non vi sia nulla da proibire poiché le proposizioni sono sensate o non lo sono. Nel Tractatus, la sensatezza ha l’aspetto della forma generale della proposizione, il che significa che ogni volta riconosciamo una sequenza di segni come sensata noi rinveniamo in essa la forma generale appena menzionata. In questa costruzione intellettuale l’uniformità della forma logica – e l’onnipresenza della logica – garantisce che il linguaggio non abbia bisogno di dipendere da condizioni esterne al nostro stesso comprendere. Donatelli sostiene106 che il metodo filosofico impiegato del Tractatus sia – come dire – “a priori”, poiché esso stabilisce anticipatamente che il linguaggio è in

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 156 Ivi, p. 159 106 Ivi, p. 160 105

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perfetto ordine logico così come lo troviamo, senza vi sia alcun bisogno di andare a verificare se le cose stiano in questi termini. Nel corso della sue riflessioni, a partire dagli anni trenta, si osserverà venire gradualmente meno ciò che definiamo “il mito dell’esattezza logica”, in vista di una prospettiva tesa a riportare le immagini alla loro applicazione, al loro uso, con il conseguente abbandono del mito della chiarezza cristallina – guadagnata logicamente – ed il ritorno al terreno scabro delle pratiche linguistiche intrecciate alle nostre attività extra linguistiche. Se nel Tractatus l’autore utilizza immagini filosofiche atte a mostrare la via per comprendere il mondo nel modo giusto – tra le quali quella centrale e ineludibile è la forma generale della proposizione –, più tardi Wittgenstein vuole propriamente liberarsi dalle immagini filosofiche. Nel Tractatus il mito dell’esattezza logica è quasi l’effetto di un certo modo di pensare al nostro linguaggio. Nello scritto del 1921 viene offerto un esempio del modo di guardare al linguaggio con gli occhi della filosofia, la quale impone un’immagine dell’ordine logico in anticipo (a priori), negando la possibilità di indagare (a posteriori rispetto al detto ordine anticipato) l’uso che facciamo delle nostre espressioni.

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Accesso, svuotamento e arricchimento concettuale: implicazioni etiche Piergiorgio Donatelli, nell’Introduzione al volume di Diamond L’immaginazione e la vita morale, rimarca107 che, a parere dell’autrice del libro, la vita delle nostre considerazioni morali è pervasa dal sentimento e dall’esperienza. Diamond sostiene, prosegue Donatelli 108, che la forza che appartiene all’interesse etico che è venuto formandosi attraverso l’esperienza sia la stessa che appartiene ai concetti. La vita delle emozioni e dell’esperienza possiede la capacità di farci entrare in un mondo concettuale. Assunto il fatto la realtà ci si offra in tutta la sua accidentalità, viene lasciata emergere109 una concezione che Donatelli definisce “pratica” di ciò che conta nel padroneggiare un concetto, argomento in cui si presenta la lezione di Wittgenstein. Nel suo saggio L’importanza di essere umani110, Cora Diamond pone sotto accusa una certa linea filosofica, imparentata con il pensiero di David Hume, per il modo in cui essa si approccia allo studio della natura umana. La linea criticata è quella che connota le emozioni, le esperienze ed i sentimenti umani come oggetti di studio a cui noi prendiamo parte in qualità di osservatori esterni. Si desume che il tipo di conoscenza a cui questo approccio vuole pervenire è di tipo empirico – descrittivo. In alternativa a questa visione Diamond afferma111 l’accesso concettuale alla realtà debba essere inteso come una fenomenologia di cui una descrizione, di tipo scientifico – psicologico, non può rendere conto. Sarebbe dunque più appropriato sostenere che il modo in cui l’essere umano accede per via concettuale alla realtà è analogo al come Immanuel Kant afferma che dovremmo riconoscere la razionalità e la personalità morale come parte di ciò che noi stessi siamo. Scrive Diamond: “Ora voglio sviluppare un paragone tra lo Scrooge di Dickens e uno Scrooge kantiano, il quale (per esempio) potrebbe dare qualche penny al bambino sulla porta in virtù di un rispetto di tipo kantiano per l’umanità del bambino, un rispetto (vale a dire) per la natura razionale del bambino, là dove 107

C. Diamond, L’immaginazione e la vita morale, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2006, pp. 25-26 108 Ibidem 109 Ivi, p. 27 110 Ivi, pp. 87-113 111 Ivi, p. 95

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questo rispetto è inseparabile dal rispetto dello Scrooge kantiano per se stesso in quanto essere razionale, dalla sua comprensione di sé come un essere capace sia di imporre a se stesso la legge morale sia di obbedirle. Questa comprensione di sé dello Scrooge kantiano è molto diversa dalla comprensione che egli possiede in quanto osservatore empirico di se stesso o in genere degli esseri umani come parte della natura.”112 In linea con i contenuti espressi da Diamond in L’immaginazione e la vita morale, si intende stabilire una plausibile connessione tra la vita concettuale e l’intento etico del Tractatus. Tale lettura vorrebbe collegarsi alle circostanze in cui l’attrito tra il nostro patrimonio di concetti e la realtà che interpretiamo attraverso essi, ci impone uno svuotamento concettuale finalizzato a ri–creare le condizioni di pensabilità necessarie ad un accesso etico al mondo. Nell’idea di “svuotamento concettuale” riecheggia l’invito wittgensteiniano ad abbandonare le proposizioni del Tractatus appena riconosciutane l’insensatezza, e più precisamente a porre in essere quel cambiamento di prospettiva necessario a guadagnare una visione non confusa del proprio sé e del mondo. Tanto nel caso dello svuotamento del proprio orizzonte concettuale quanto in quello del “gettar via la scala”, viene illuminata una regione del delicato rapporto fra parole e realtà, in cui le mere descrizioni non sono attrezzate per rimanere fedeli all’intenzione etica che chiede d’esser espressa linguisticamente. Nella visione proposta da Diamond113 i concetti sono intrecciati a ciò che facciamo ed a ciò che “sentiamo nel fare qualcosa”. Posta questa relazione, potremmo sostenere che lo sviluppo della propria sensibilità etica accompagni la conquista di una migliore padronanza del proprio quadro concettuale. L’urgenza d’affinare la comprensione della struttura logica del linguaggio onde ricavarne la prospettiva etica, verso cui Ludwig Wittgenstein invita il lettore, potrebbe considerarsi un rispecchiamento dell’arricchimento nel padroneggiare un concetto. L’educazione dell’accesso etico al mondo – ed al modo da noi utilizzato

112

Ivi, p. 95 Cfr. C. Diamond, L’immaginazione e la vita morale, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2006 pp.25-38 e pp. 59-86 113

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per parlarne – viene come a legarsi all’estensione del proprio patrimonio concettuale entro la dialettica che lega i concetti al senso delle cose, al carattere della gamma di sentimenti che innervano le esperienze attraverso cui entriamo in contatto con l’accidentalità intramondana. Tutto ciò vuole significare che l’avere padronanza d’un concetto non esaurisce le sue potenzialità nel saper sussumere un certo numero di nozioni all’interno d’esso, quanto nel saper prender parte alla vita “con” quel concetto. Cora Diamond ha evidenziato114 significative relazioni d’interdipendenza tra il nostro quadro concettuale e la sua espressione linguistica nei termini di enunciati afferenti alla sfera dell’etica, sottolineando l’importanza morale del possedere “le parole di cui si ha bisogno” per esprimere il proprio patrimonio concettuale. Ne segue che l’intensità e la qualità della nostra esperienza etica – e del nostro ricco, o impoverito, modo di esprimerla – viene a legarsi alla profondità del rapporto che intratteniamo con i concetti. Si sta con ciò implicando che le “difficoltà della realtà”115 possono raggiungerci con intensità differente in funzione di quanto cristallina ci appare la via concettuale attraverso cui accediamo al pensiero etico. Osserva Diamond: “Alcune persone possono meravigliarsi di un certo fatto, perché lo trovano incomprensibile e non riescono ad adattarlo a ciò che sanno del mondo; ma quello stesso fatto, nella prospettiva di altre persone, potrebbe non risultare così sorprendente.”116 Approcciandosi alla comprensione del pensiero etico in Wittgenstein incontriamo luoghi da cui trarre delle considerazioni sul carattere dei nonsensi etici in termini concettuali. Si desidera tentare di trarre delle conclusioni delucidatorie sia dal testo della Conferenza sull’etica, sia dalle lezioni wittgensteiniane sull’estetica, sia dalle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer. Scrive Wittgenstein – fermo restando il sospetto di un rimaneggiamento del testo della Conferenza –: “ Ora, io userò il termine “etica” in un senso un poco più lato,

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Cfr. Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2006, pp. 25-44 115 Ivi, pp. 175-176 116 Ivi, p. 187

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in un senso, di fatto, che include la parte secondo me più essenziale di ciò che di solito viene chiamato estetica. E per farvi vedere il più chiaramente possibile che cosa assumo come oggetto proprio dell’etica, vi presenterò alcune espressioni più o meno sinonime, ciascuna della quali può essere sostituita alla definizione precedente; enumerandole voglio produrre lo stesso tipo di effetto prodotto da Galton117 quando disponeva sulla stessa lastra fotografica un certo numero di fotografie di facce diverse per avere il quadro delle caratteristiche comuni a tutte. E come, mostrandovi una tale fotografia collettiva, potrei farvi vedere quale sia, ad esempio, la tipica faccia cinese, così, passando lo sguardo sulla serie di sinonimi che vi porrò di fronte, sarete in grado, spero, di vedere le caratteristiche tipiche comuni a tutti, e che sono le caratteristiche tipiche dell’etica. Ora, invece di dire che “l’etica è la ricerca su ciò che è bene”, avrei potuto dire che l’etica è la ricerca su ciò che ha valore; o su ciò che è realmente importante, o sul significato della vita, o su ciò che fa la vita meritevole d’essere vissuta, o sul giusto modo di vivere. Io credo che se voi guardate a tutte queste frasi, avrete un’idea approssimativa di ciò di cui l’etica si occupa. Ora quel che colpisce, in tutte queste espressioni, è che ciascuna di esse è in realtà usata in due sensi molto diversi. Li chiamerò il senso corrente, o relativo, da una parte, e il senso etico, o assoluto, dall’altra. Se dico, per esempio, che questa è una buona sedia, ciò significa che la sedia serve a un certo scopo ben determinato e la parola buono, qui, ha significato solo se questo scopo è stato fissato in precedenza. Così quando diciamo che quest’uomo è un buon pianista, vogliamo intendere che può suonare pezzi di un certo grado di difficoltà con un certo grado di destrezza. […] Usate in tal modo, queste espressioni non presentano problemi gravi e di difficile soluzione. Ma questo non è il modo in cui l’etica le usa.”118 L’intenzione è quella di considerare il pensiero etico nel senso lato suggerito da Wittgenstein – nel senso che egli indica come ciò che racchiude l’essenziale di ciò che abitualmente viene nominato estetica –, per evidenziare che genere di connessione può stabilirsi con l’etica intesa per via concettuale. Notiamo che le

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Francis Galton, 1822-1911, esploratore, antropologo e climatologo britannico Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 7-8 118

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espressioni utilizzate in veste esemplificativa da Wittgenstein, non causano – come egli sostiene – difficoltà interpretative. Ciò si evince dal fatto esse siano comprese nella loro natura descrittiva – relativa di stati di cose. Tuttavia esse divengono fonte di difficile interpretazione laddove le si voglia intendere nel loro senso assoluto – etico. Vorrei soffermarmi sulla parentela stabilita dall’autore tra etica ed estetica. Nelle lezioni sull’estetica119, Wittgenstein polemizza con l’idea il linguaggio descrittivo offra una spiegazione di tipo causale agli interrogativi di natura estetica. Insomma egli avversa l’idea un problema estetico – ma qui si vuole intendere l’etica come imparentata con ciò che di essenziale v’è nell’estetica – possa essere risolto per mezzo di una indagine empirica, scientifica, psicologica che offra una descrizione del meccanismo – operante in una qualche zona del sistema neurologico – che da vita alle nostre espressioni linguistiche del piacere o del dispiacere. Ma tanto quanto sono chiamati in causa i giudizi di gusto, così lo sono quelli che siamo soliti posizionare nello spazio della terminologia etica. Scrive Wittgenstein: “Il problema è se questo è il tipo di spiegazione che ci piacerebbe avere quando siamo perplessi di fronte a delle impressioni estetiche. Ecco, ad esempio, un quesito: “Perché queste battute mi fanno un’impressione così particolare? Evidentemente, non è questo che vogliamo, ossia un calcolo, un novero di reazioni, ecc.”120 Il genere di perplessità a cui si sta facendo riferimento può essere messo in relazione con il sentimento di stupore per l’esistenza del mondo, con i quesiti che ineriscono il modo giusto di esistere e con la totalità delle proposizioni insensate che Wittgenstein ha incluso tra ciò su cui bisogna tacere. I dubbi in questione possono essere risolti esclusivamente di seguito alla dissoluzione di domande fuorvianti, generate da fraintendimenti linguistici che inducono a scambiare il nonsenso per senso. La situazione paradossale in cui si incorre è quella raffigurata dall’assumere che non esiste una stringa di segni capace di descrivere il modo in cui un quesito etico abbia trovato risposta, piuttosto facciamo esperienza del dissolversi della domanda stessa quando essa è già scomparsa. A ben vedere è a

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Ivi, p. 81 Ibidem

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questo punto che l’accesso concettuale alle nostre esperienze etiche si offre come plausibile delucidazione della proteiforme opera di Wittgenstein. Laddove si è accennato al bisogno di uno svuotamento concettuale necessario ad “entrare nella vita” provvisti di un patrimonio di concetti abbastanza ricco da consentirci di vedere sotto nuova luce ciò che precedentemente appariva caliginoso, si intendeva giungere a considerare l’importanza della nozione – riscontrata nelle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer – di “rappresentazione perspicua”121. Sappiamo che Wittgenstein include nel processo di rappresentazione perspicua, un denso novero di attività di carattere logico e cognitivo che vanno dal porre in contrasto cose – e concetti d’esse – al trovare, per mezzo dell’immaginazione e dell’invenzione, dei termini intermedi che rendano l’occhio sensibile alle trasformazioni a cui un dato è soggetto. Questa operazione viene suggerita al fine di costruire famiglie di casi raggruppati in funzione di criteri di somiglianza. Da questa angolatura ciò che partecipa a far chiarezza non possiede affatto il carattere descrittivo caratteristico delle proposizioni del linguaggio della scienza naturale, piuttosto manifesta l’intento di disegnare una topica di luoghi concettuali che comprenda membri intermedi tra un concetto e l’altro122. Chi voglia porre in connessione il problema etico – nelle sue parentele con quello estetico – con l’indagine antropologica wittgensteiniana, ambisce a stabilire come i nessi tra concetti giochino un ruolo decisivo nel creare un certo tipo di accesso al mondo e a ciò che di esso ci stupisce – rincuorandoci o sconfortandoci fino ad inorridirci –. Non è dunque il ricorso a pseudo rassicuranti risposte di carattere descrittivo a poter sciogliere i lacci che maggiormente opprimono il nostro petto, quanto il guadagnare un accesso alla realtà sostanziato da una ramificata raffigurazione dei nessi tra concetti che preludono al nostro fare, accennare, agire eticamente.

121

Cfr. Ludwig Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Adelphi, Milano 1975, p. 26 M. Andronico, Antropologia e metodo morfologico, Studio su Wittgenstein, La Città del Sole, Napoli 1998, p.222-228 122

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Etica: immaginazione ed immedesimazione Nell’acceso dibattito interpretativo che ha a cuore la comprensione del Tractatus logico – philosophicus ci imbattiamo frequentemente, rimarca Donatelli123, in una resistenza a leggere l’opera fino alla fine, ossia fino alla proposizione 6.54. Il sentiero interpretativo che si intende essere quello da seguire propone di prendere sul serio l’intero corpo dell’opera – nella sua parte espressamente inerente in funzionamento logico del linguaggio e in quella finale in cui l’autore sentenzia la trascendentalità dell’etica e il suo carattere indicibile. Ora, che non vi siano proposizioni dell’etica significa che qualsiasi uso che facciamo del linguaggio è, dal punto di vista delle sue caratteristiche logiche interne, indifferente all’etico. Se, allora, il linguaggio può comunicare un senso etico non è in virtù di una qualche corrispondenza fra ciò che esso dice e la sua struttura ma in conseguenza del tipo di uso che del linguaggio noi facciamo. Per chiarire ciò di cui si sta parlando è forse pertinente chiarire che fare un certo uso del linguaggio equivale a connettere un’espressione al proprio Io – in modo slegato dalla struttura logica interna dell’espressione formulata –, associando immagini mentali a proposizioni così destinate alla nostra attenzione. Ebbene, laddove una stringa di termini ricade all’interno della nostra attenzione possiamo parlare di un uso coinvolto del linguaggio che è inteso essere l’impiego etico che facciamo delle parole e delle loro combinazioni sintatticamente corrette. Assunto che delimitare l’etico dall’interno indica, in prima istanza, comprendere il funzionamento stesso del linguaggio sensato – ovvero di ciò che possiamo dire e che è indifferente all’etico ed al Mistico tutto –, possiamo affermare che lo stesso Tractatus logico – philosophicus, nel suo dichiarato intento etico, sia un esempio magistrale d’uso immaginativo del linguaggio, in virtù del fatto Ludwig Wittgenstein impieghi delle proposizioni descrittive per giungere a coinvolgere immaginativamente il lettore. Benché il concetto di immaginazione consenta una molteplicità d’usi, nel Tractatus esso viene a sovrapporsi a quello di “immedesimazione”. L’autore si appella, difatti, alle capacità dei fruitori della sua opera di intrattenere immaginativamente il tipo di insensatezze che egli illumina, 123

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 95

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ovvero di “immedesimarsi in lui” – nel senso dell’entrare nell’immagine dell’altro –. Questo movimento verso l’interno è ritenuto nodale poiché resistendo all’invito ad entrare nello pseudo luogo dell’insensatezza ciò che vuole essere mostrato risulterebbe inconoscibile: non possiamo insomma confrontarci con l’insensatezza dall’esterno ma possiamo, almeno, immaginare cosa significhi pensare di credere nell’immagine proposta da Wittgenstein. Ecco allora che usare linguisticamente l’immaginazione viene a coincidere con una sorta di immedesimazione in ciò che l’altro raffigura. Si tenga presente che tale movimento del pensiero verso “l’interno altrui” si connota in modo fortemente personale – ed è indirizzato alla condivisione del sentimento etico del prossimo senza che ciò implichi alcun processo conoscitivo, proprio in forza del fatto che non c’è nulla da comprendere in una insensatezza linguistica. L’immagine proposta concorda con la lettura risoluta di Cora Diamond124, fortemente interessata ad analizzare il carattere collettivo – pubblico che innerva il nostro accesso concettuale al carattere accidentale della realtà. Alle prese con la nozione di immaginazione – nelle sue connessioni con l’etica – si è invitati a resistere alla tentazione di connotarla alla stregua di un fatto psicologico descrivibile in termini naturalistici. Questa lettura sarebbe alquanto fuorviante e rischierebbe di trascinare il lettore in deformazioni – di matrice emotivista – del contenuto etico del Tractatus. Wittgenstein ha infatti – per certi versi – inaugurato un processo di studio propriamente non psicologico dell’etica che trova espressione sintetica nella proposizione 4.1121: “[…] Non corrisponde forse il mio studio del linguaggio segnico a quello studio dei processi del pensiero, che i filosofi ritennero così essenziale per la filosofia della logica? Solo, essi s’irretirono per lo più in inessenziali ricerche psicologiche, e un pericolo analogo v’è anche con il mio metodo.” Si vuole, dunque, evidenziare che il modo in cui l’immaginazione è coinvolta nell’esercizio delle nostre capacità d’immedesimazione etica è risolutamente anti

124

Cfr. Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2006, pp. 59-86 e pp. 87-118

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psicologico, poiché innervato dall’idea si debba resistere alla tentazione di pensare il nostro coinvolgimento immaginativo come qualcosa sopra cui esercitiamo un potere e di cui potremmo fornire descrizioni psicologiche da una posizione esterna. Ciò inficerebbe l’accesso a quello che intendiamo essere il bisogno – in ambito etico – del venirsi incontro, attraverso l’immedesimazione, di un numero determinato di soggetti metafisici alle prese con il medesimo mondo. L’accesso immaginativo all’opera si presta a far entrare il lettore nell’immagine di Wittgenstein ed a stabilire le giuste connessioni tra la comprensione del funzionamento del linguaggio ed il movimento d’immedesimazione attraverso cui il lettore condivide immaginativamente il pensiero etico anti psicologico dell’autore, fino a realizzare che l’uso coinvolto del linguaggio è uno tra i mezzi in nostro possesso per comprendere la portata etica del Tractatus logico – philosophicus. Entrando nel dettaglio, è possibile offrire ulteriori analisi del testo utili a disegnare i contorni di ciò che definiamo accesso immaginativo all’insensatezza dell’opera. Wittgenstein, notoriamente, sentenzia che chi ha compreso le proposizioni che strutturano il volume deve andare oltre esse, ossia deve – per così dire – “gettare via la scala dopo che vi è salito.” In tale affermazione si coglie agevolmente l’implicatura che vuole gli enunciati in oggetto abbiano qualcosa che non funziona come dovrebbe. Ebbene, ciò che non va è che esse non sono vere e proprie proposizioni se per “vere e proprie proposizioni” vogliamo intendere quelle capaci – come gli enunciati della scienza naturale – di raffigurare la realtà, o esserne delle immagini125. Il problema è appunto sollevato dal fatto che ciò di cui esse dovrebbero essere delle immagini non è traducibile in forma descrittiva ma può solo mostrarsi nel linguaggio. La realtà che esse dovrebbero raffigurare è la forma logica, ovvero ciò che la proposizione e uno stato di cose devono avere in comune affinché l’enunciato assolva la sua funzione raffigurativa. Notiamo dunque che l’impossibilità della filosofia d’esprimersi attraverso proposizioni descrittive è indotta dalle regole dettate dalla stessa Picture theory. Le

125

“La proposizione è una immagine della realtà. – La proposizione è un modello della realtà quale noi la pensiamo.” (T. 4.01)

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conseguenze di tale dottrina determinano la causa per cui Wittgenstein nega l’esistenza di proposizioni filosofiche in almeno due sensi: 1. Per potere enunciare – tramite descrizioni – la sintassi logica del linguaggio chi la enuncia dovrebbe posizionarsi fuori dal linguaggio e, dunque, fuori del mondo. Tale processo raffigurativo è impossibile in forza del fatto una proposizione può essere un’immagine di un possibile stato di cose a patto tra essi corra una corrispondenza formale, riassunta nella nozione di forma logica. 2. Se la forma logica – e le regole della sintassi logica – fossero enunciabili nella veste di proposizioni filosofiche, allora esse dovrebbero essere (tornando al primo punto) descrizioni ed ogni descrizione rappresenta una possibile configurazione di oggetti che avrebbe potuto coordinarsi altrimenti. Le ipotetiche descrizioni del funzionamento del linguaggio diverrebbero confutabili creando lo spazio per la paradossale situazione in cui una proposizione che dice che “il pensiero e la sua espressione sensibile sono fatti ‘così e così’” potrebbe venire negata. Ciò condurrebbe al pensare e al dire esattamente l’inverso di ciò è stabilito essere impensabile e indicibile. Proposti questi chiarimenti dovrebbe esser comprensibile l’uso – per così dire – “strategico” di proposizioni insensate – e dunque da abbandonare non appena riconosciutane l’insensatezza – travestite da enunciati dotati di senso. Il lettore che ha accolto con benevolenza e rigore l’invito di Wittgenstein a cogliere il senso etico del Tractatus logico – philosophicus, osserva Donatelli126, ha trovato la strada per entrare immaginativamente nell’intenzione posta in essere dall’autore ed ha pensato, previo un movimento d’immedesimazione, ciò che Wittgenstein stesso pensava. Potremmo raffigurare la situazione descritta come un incontro tra autore e lettore, avvenuto in circostanze ideali, ovvero quelle in cui entrambi stanno intrattenendo immaginativamente la stessa nozione di insensatezza. Il lettore ha fatto – per così dire – ciò che i cenni di Wittgenstein lo invitavano a fare, ovvero ha inteso che le proposizioni del Tractatus sono delle delucidazioni 126

Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 101

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proprio in forza del loro carattere insensato. Il filosofo – o il “cercatore di verità”, come Wittgenstein preferiva essere definito127 – non chiede, infatti, che le sue proposizioni siano comprese – del resto non potrebbero esserlo poiché insensate – ma domanda che ad essere compresi siano lui stesso e il suo metodo filosofico. Per guadagnare una visione perspicua dell’attività svolta da Wittgenstein, il lettore deve praticarla in prima persona, e ciò significa che egli deve operare un processo delucidativo su sé stesso analogo a quello che Wittgenstein ha esercitato su di sé nello scrivere il Tractatus logico – philosophicus. In questo modo prende forma una speciale coordinazione tra autore e lettore del tutto estranea al tradizionale intento

filosofico

di

carattere

educativo



dottrinale.

Sulla

scorta

dell’insegnamento fregeano, Wittgenstein invita il lettore ad impegnarsi rigorosamente in una attività di immedesimazione con l’autore – spinta in avanti fino a far sì le due intenzioni si sfiorino – e al contempo domanda di portare avanti quella attività delucidatoria finché sia rimasto nulla da dire di ciò che il lettore credeva si sarebbe infine detto – e nulla da credere di ciò che immaginativamente il lettore si sarebbe aspettato di dover apprendere –. Il pensare rigorosamente un problema fino alla fine coincide con la dissoluzione delle domande indotte dall’errato modo di guardare a ciò che si considerava esser problematico.

127

Ray Monk, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991, p. 11

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Il sentiero delucidativo: tra linguaggio e ontologia Anche i pensieri, talvolta, cadono immaturi dall’albero.128 Qualcosa di analogo al contenuto della sopracitata annotazione fu ciò che, direi, rese – e ancora rende – complesso interpretare il Tractatus logico – philosophicus, fin dalla sua embrionale genesi nel periodo bellico. Pertiene ad una lettura profonda – e condotta fino in fondo – dell’opera, ricondurre ad un fraintendimento della logica del linguaggio e della sua relazione con gli stati di cose raffigurati quel modo ingenuo, nonché superficiale, di considerare le proposizioni esclusivamente quali stringhe di segni per mezzo dei quali un significato viene espresso. Limitare l’analisi della struttura del Tractatus alle conseguenze di questo punto di partenza, può condurre a porre uno iato tra proposizioni sensate e proposizioni che non rispettano le regole di raffigurazione imposte dalla teoria della proposizione come immagine, cioè incapaci di raggiungere la realtà perché frutto di un sentimento arbitrario e soggettivo. Wittgenstein, se ascoltato – letto fino alla fine – non sembra interessato ad occuparsi della regione del linguaggio insensato poiché ritiene – lo si evince restando fedeli all’articolazione delle proposizioni del Tractatus – l’unico linguaggio esistente sia quello sensato e che, di conseguenza, il solo pensare stringhe di segni apparentemente significanti sia un effetto del fraintendimento della relazione linguaggio – mondo. Il piano problematico deve essere, in un certo senso, lasciato lì dove Wittgenstein lo ha chiaramente posizionato: il Tractatus logico – philosophicus si occupa di un problema filosofico che non è da intendersi esclusivamente come una analisi del come le proposizioni esprimono sensi ma anche del come l’interna capacità raffigurativa viene fraintesa fino a giungere a scambiare ciò che è insensato per sensato. Se guardiamo la struttura interna del Tractatus, rileva Donatelli129, possiamo rilevare come esso non faccia altro che mostrare che il linguaggio o è capace di esprimere sensi – e dunque di raggiungere la realtà –, oppure non è

128

Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, M. Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 61 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 38

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affatto “linguaggio” ma solo immaginazione soggettiva. Questo indica che la disamina di carattere logico in merito alla distanza tra proposizioni e mondo non rappresenta il problema sollevato dall’opera. Piuttosto il Tractatus, osserva Donatelli130, dovrebbe esser letto come una dimostrazione che la questione sul come un enunciato raffigura sensatamente un fatto si pone solo di conseguenza ad un fraintendimento della logica interna del linguaggio. Questo genere di impasse è, per esempio, quella in cui si imbatte chi pretende di formulare proposizioni filosofiche, ovvero nonsensi interpretati come essi fossero carichi di senso. Sembra coerente, pena una ulteriore deviazione dall’intenzione dell’opera, rimanere fedeli alla sentenza che trova posto in T. 5.473, ovvero l’invito a lasciare la logica si prenda cura di sé. Chiamando in causa la logica del linguaggio si sollevano questioni che irrobustiscono il fraintendimento del contenuto del Tractatus. Difatti il percorso tracciato da Wittgenstein per chiarire il perché fraintendiamo la relazione tra linguaggio e mondo, non satura il vuoto lasciato all’autonomia funzionale da egli riconosciuta alla logica. Evidentemente questo carattere del suo pensiero non si offre agevolmente a chi in esso voglia scorgere, necessariamente, una catena di asserzioni come formulate dall’interno del mondo di parole e di cose da noi esperito. Con ciò si intende sottolineare che la dimensione logica del linguaggio non soddisfa, nell’immediato, la richiesta di soluzioni – risposte che è caratteristica del tradizionale modo di occuparsi di filosofia. Indossando le lenti di Wittgenstein, le proposizioni che comunemente utilizziamo sono da considerarsi di per sé – per il loro rispondere alla loro grammatica – nell’unico ordine in cui esse possono trovarsi, e ciò che si deve afferrare è che tale ordine si basa su una verità che precede la nozione di “proposizione vera laddove lo stato di cose raffigurato ne verifichi il contenuto.” Quell’uso del termine “vero” – per estensione “verità” – vuole caratterizzare il fatto che la logica del linguaggio, nel panorama entro cui potremmo immaginare presentarsi le nostre proposizioni, sta “a monte” rispetto a ciò di cui essa è la grammatica, ovvero le proposizioni stesse. 130

Ibidem

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E’ stato sovente notato che nel corpus del Tractatus non trovi spazio una nozione di linguaggio che imparenti le pratiche linguistiche agli individui – o gruppi di essi – che le esprimono. Tale osservazione, commenta Donatelli131, si auto – confuta nelle risposte rinvenibili nella successiva produzione wittgensteiniana, specie nelle nozioni di gioco linguistico e di forma di vita. Tuttavia tale critica mossa al Tractatus si direbbe essere fondata solamente in parte: il Tractatus infatti esprime chiaramente il fatto la correttezza logica preceda gli usi che l’essere umano fa del linguaggio e rimarca tale correttezza non possa essere indagata invertendo l’ordine gerarchico – ossia tentando di derivare la logica del linguaggio risalendovi induttivamente dalle pratiche linguistiche. A dispetto di ciò quello che confuta l’idea l’opera si disinteressi dell’essere individui comunicanti, sta nell’intenzione del lavoro di Wittgenstein, volto proprio a dissolvere i problemi in cui inciampa chi scambia il nonsenso per il senso, allorché si crede di avere compreso qualcosa sebbene altro non si sia fatto che conservare lo status impigrito di chi non sa resistere al “sentirsi a casa” dentro un’illusione filosofica. Si evince sia errato rimproverare al Tractatus il totale disinteresse per ciò che investe lo statuto dell’essere “umani”, proprio poiché l’opera vuole aprire gli occhi al lettore – certamente a uno speciale genere di fruitore intellettualmente particolarmente vivo e curioso – per salvarlo da una esistenza imperniata sul fraintendimento del linguaggio e del mondo, una volta egli abbia guadagnato la giusta prospettiva da cui osservare il complesso intreccio tra correttezza logica del nostro linguaggio e mondo, ovvero tra logica e realtà ontologica. Wittgenstein tende la mano al lettore, invitandolo ad un cambiamento personale che fuga, lo si ripete, ogni esegesi del Tractatus logico – philosophicus incapace di cogliere la cogenza dell’intento etico che lo anima. Può essere utile chiarire cosa si sia inteso per “illusione filosofica”, poiché essa non può spiegarsi per mezzo del sopracitato fraintendimento del linguaggio se non si comprende, in prima istanza, in che modo esso si generi e risolva nella sua auto dissoluzione. Osserveremo allora che i problemi filosofici non riguardano la logica, ma riguardano noi – in quanto esseri umani – e che il lavoro filosofico, per

131

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 39

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come inteso da Wittgenstein, è propriamente un lavoro sul proprio sé, sul proprio modo di vedere le cose e sul cosa da quelle cose ci si aspetta di ottenere. In questa prospettiva la filosofia si offre come una attività assai complicata ma non perché essa lo sia in sé per sé, piuttosto perché per sbrogliare la matassa che noi stessi abbiamo ingarbugliato, essa deve compiere movimenti tanto complessi quanto complicati da sciogliere sono divenuti i nodi. Il pensiero wittgensteiniano – menzionando non solamente i contenuti del Tractatus logico – philosophicus ma anche svariate annotazioni ad esso successive, quali quelle raccolte in Pensieri diversi e in Osservazioni filosofiche – non solo tiene in considerazione il carattere umano dell’esser vivi ed alle prese con la diade linguaggio – mondo, ma anzi è proprio all’interno di tale originaria condizione esistenziale che esso si sviluppa. Se, sostiene Wittgenstein, si intende rendere perspicuo come il linguaggio può esprimere sensi allora occorre garantire che ad ogni proposizione corrisponde un senso, ergo serve stabilire che un enunciato, una volta analizzato – ovvero appena ne sia stata rivelata la forma logica – mostri di essere in contatto con uno stato di cose possibile nel mondo. Questo genere di corrispondenza isomorfica si rende necessaria affinché la capacità di una proposizione di raffigurare un fatto non richieda ulteriori enunciati che verifichino tale potere. In T. 3.23, possiamo leggere: “Il requisito della possibilità dei segni semplici è il requisito della determinatezza del senso”. Indi non vi sono segni semplici che non significhino un oggetto semplice: se vi è una proposizione essa deve essere composta da segni sensati, oppure non v’è alcuna proposizione. Donatelli sottolinea132 che comprendere una proposizione non significa afferrarne il senso in una accezione che vuole collocare il “senso” in una dimensione neutrale rispetto alle sua contemporanea afferenza alla sfera del linguaggio e a quella del reale. Quel genere di neutralità sarebbe fortemente imparentato con la nozione di “dottrina provvista di risposte” – fornite da un meta piano del discorso – ai quesiti sopra cui ci interroghiamo.

132

Ivi, p. 40

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E’ evidente il tipo di connessione tra linguaggio e mondo sia deliberatamente slegato da una interpretazione del senso dell’enunciato che si evinca tramite una spiegazione messa a disposizione dal linguaggio descrittivo. Wittgenstein afferma, in T. 4.022, che “La proposizione mostra il suo senso. La proposizione mostra come le cose stanno, se essa è vera. E dice che le cose stanno così.”133 La nozione di mostrare è da lui utilizzata proprio per evidenziare un tipo di relazione tra linguaggio e mondo dei fatti che non sarebbe altrimenti possibile. Il mostrare indica il carattere diretto – indi non offerto da spiegazioni offerte dal linguaggio del dire – tra due dimensioni altrimenti non relazionabili. Ma esso è tanto diretto e intessuto nella correlazione tra logica del linguaggio e struttura del mondo, da non potere fungere da medium tra segno linguistico e stato di cose raffigurato. Contrariamente a quanto intuitivamente si potrebbe pensare, Wittgenstein sostiene che noi non attribuiamo un senso al segno proposizionale ma che, piuttosto intuiamo il senso nel segno. Spogliato della funzione di intermediario tra linguaggio e mondo e poi privato del potere – invece attribuitogli da B. Russell e G. E. Moore – di porci in contatto con una certa entità, il senso viene da Wittgenstein inteso come la semplice interpretazione del segno proposizionale che ci dice che le cose, nel mondo, stanno “così e così”. Osserviamo un netto rovesciamento del modo di intendere il funzionamento del fenomeno della comprensione se si è afferrato il come la nozione di senso viene dissolta da Wittgenstein. Riassumendo: il senso di un enunciato – e si è rammentato che tutti gli enunciati possibili sono necessariamente sensati – non è un quid che noi attribuiamo al segno proposizionale ma qualcosa che è “lì dentro il linguaggio ed il mondo”, che si mostra in modo diretto offrendosi alla nostra intuizione. Cosa rimane, dunque, dello iato tra linguaggio e realtà – prima di Wittgenstein risolto con l’arbitraria attribuzione di un senso, dall’esterno, ad un enunciato descrittivo – se in un atto di

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Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 45

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comprensione linguistica ciò che conta è una sensatezza intrinseca che precede ogni intervento dall’esterno? La risposta è “nulla” poiché la domanda si è dissolta – ed essa mostra la coordinazione d’ordine logico – ontologico che soggiace ad ogni atto di comprensione e comunicazione all’interno di un’area in cui i confini del linguaggio e del mondo collimano. Notiamo ora come la connessione tra enunciato e senso non si presenta più come un argomento a proposito del quale possiamo dire qualcosa ma come un modo di fare chiarezza sia sulla natura logica della struttura dell’enunciato che sul senso, già presente internamente, che la proposizione proietta fuori di sé, nel mondo. La separazione tra il concetto di “enunciato” e quello di “senso” dovrebbe ora apparire dissolta: internamente a questo chiarimento le nozioni di linguaggio e mondo giungono a toccarsi senza che si ci appelli ad alcuna proposizione esplicativa – descrittiva del linguaggio della scienza naturale ossia senza che tale corrispondenza venga intesa solo dopo essere stata spiegata da una teoria. Tenuto fermo il carattere intuitivo – e non arbitrario o convenzionale – dei fenomeni di comprensione di una stringa di simboli, si può affermare, data la relazione tra nomi semplici ed oggetti semplici e considerato l’ordinamento formale che ne pone in corrispondenza isomorfica le rispettive coordinazioni, che ciò che viene compreso è la possibile sussistenza di stati di cose. Ma cosa sono gli stati di cose sussistenti se non la realtà stessa, ovvero l’essenza del mondo? Ora si mostra con maggiore chiarezza quanto una lettura dell’opera che accentua la priorità dell’aspetto – idealmente – teorico e linguistico sia impropria tanto come lo sarebbe quella che vuole esautorare la pregnanza di tutto ciò che rimanda allo studio del linguaggio appannaggio di una forma di realismo che si interessa più della realtà. L’aspetto etico – oltre che logico – di questa prospettiva mette in evidenza come il mondo stesso sia – come dire – interno ai nostri atti di comprensione e quanto con esso siamo in contatto. Ciò implica, a patto questa espressione di derivazione emozionale venga accettata, una sorta di abbraccio tra logica ed etica che vuole chiarire la metodologia filosofica wittgensteiniana – per

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molti esegeti controversa e interpretabile da svariate angolature – appena puntellato quello che ne è un pilastro fondativo: comprendere la logica del linguaggio significa non solo riacquisire dimestichezza con uno strumento per noi irrinunciabile in quanto parte stessa della nostra natura comunicativa134, ma anche – e soprattutto nell’ottica di questo lavoro – mostrare che in assenza di una comprensione perspicua di tale struttura la stessa realtà da noi abitata ci si offre come un fenomeno ipnotico e caliginoso.

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Si richiama la proposizione 5.542 del Tractatus logico – philosophicus: “Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo. […]”

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Il superamento delle proposizioni filosofiche ed il gettar via la scala Offerta una sinossi, volutamente orientata ad evidenziare la parentela tra logica ed etica e – più chiaramente – tra linguaggio e mondo, credo ci si possa inoltrare fino alle proposizioni al termine dell’opera. Si è inteso, coerentemente con la tesi di Donatelli135, che il metodo appropriato di lettura del Tractatus logico – philosophicus – sia quello di prendere radicalmente sul serio le proposizioni dell’opera riguardo la sensatezza proposizionale fino al punto in cui, compresa la natura unicamente sensata del linguaggio, il confine tra senso e nonsenso viene dissolvendosi, lasciando la mano del lettore solo nel momento in cui egli ha finalmente guadagnato una prospettiva libera da ostacoli sul binomio linguaggio – mondo. Sul finire – siamo alla penultima proposizione – del Tractatus incontriamo una conferma di questo metodo di lettura in T. 6.54: “Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa.) Egli deve superare queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.136 Si può comprendere l’opera di Wittgenstein si stagliasse come una enorme nube se collocata nell’orizzonte logico che dominava il panorama anglosassone. Affermare che la comprensione perspicua – etica del mondo si potesse ottenere solamente dopo la dissoluzione delle proposizioni descrittive del Tractatus equivaleva ad alludere ad un uso dell’attività filosofica allora metodologicamente inconcepibile proprio perché in rottura con la necessaria distinzione tra senso e nonsenso, tra linguaggio e mondo. In linea di massima i lettori del volume hanno sovente manifestato profonde difficoltà nel seguire le indicazioni contenute in T. 6.54, poiché la loro intenzione di seguire alla lettera l’invito di riconoscere

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 40 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 109 136

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l’insensatezza delle proposizioni dell’opera entrava in conflitto con il rigore logico su cui il Tractatus si impernia. Sembrerebbe ciò che ha destato maggiore confusione sia stato l’accostarsi ai fenomeni di comprensione rimanendo fedeli ad uno sfondo paradigmatico che fu tipico delle letture neopositivistiche – dunque fondato sulla pretesa il rigore logico e la chiarezza fossero caratteri irrinunciabili del metodo filosofico. Tanta resistenza a negare l’esistenza di una forma di comprensione – come dire – chiara ma derivata dall’analisi del linguaggio – e dunque riposta altrove rispetto ai luoghi dell’analisi – ha fomentato un animato dibattito critico tra chi negava la metodologia wittgensteiniana offrisse il quadro generale del funzionamento del linguaggio in vista di scopi etici e non puramente logici. Di tale reticenza ad ammettere la forma di comprensione messa a tema nel Tractatus fosse, anche nella sua innovativa formulazione e intenzione, comunque disponibile alla mente umana, si trova traccia in svariate osservazione messe per iscritto dai contemporanei di Wittgenstein. Allo scopo di sottolineare la distanza tra il piano speculativo wittgensteiniano e quello dei suoi critici, mi pare pertinente sottolineare che alcuni dei termini utilizzati dalla critica per simboleggiare ciò in cui ritenevano il Tractatus logico – philosophicus risultasse inottemperante aggancino, anche in senso esteso, parole chiave del genere di comprensione verso cui Wittgenstein invitava il lettore. Scrive Bertrand Russell: “Tutta la materia dell’etica, ad esempio, è da Wittgenstein ubicata nella regione mistica, inesprimibile. E, tuttavia, egli riesce a comunicare le proprie opinioni etiche. Wittgenstein potrebbe difendersi replicando che ciò, che egli chiama il Mistico, può essere mostrato, pur non potendo essere detto. Può essere una difesa plausibile. Tuttavia, io non posso non confessare che essa mi lascia con una sensazione di disagio intellettuale.”137

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Ivi, p. 18

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Non intendeva Wittgenstein lenire il disagio intellettuale proprio attraverso il recupero di un rapporto con il linguaggio – mondo che mostrasse come a monte vi fossero fraintendimenti linguistici e a valle sentimenti imparentabili con le nozioni di disagio e confusione? Frank P. Ramsey, ricorda Piergiorgio Donatelli138, dichiara ancor più chiaramente le critiche di Russell a Wittgenstein: “La filosofia deve pur servire a qualcosa e noi dobbiamo prenderla sul serio; essa deve chiarire i nostri pensieri e le nostre azioni. Altrimenti si tratta solo di una nostra disposizione su cui dobbiamo vigilare, e di un’indagine che fa vedere che le cose stanno proprio così; cioè la principale proposizione della filosofia è che la filosofia è un nonsenso. E dobbiamo allora prendere sul serio il fatto che essa sia un nonsenso e non pretendere, come fa Wittgenstein, che è un nonsenso importante!”139 Lo sdegno di Ramsey verso il solo accennare al fatto la nozione di nonsenso sappia legarsi a un ché di importante non manifesta chiaramente la situazione tipica in cui due individui osservano lo stesso fenomeno da angolature differenti? L’uno cercando di vederlo chiaramente dall’esterno e l’altro – F. P. Ramsey – attribuendogli le qualità che esso deve possedere perché una risposta possa, apparentemente, collocare l’oggetto d’indagine entro uno schema concettuale preesistente e dato per certo. Russell e Ramsey sembrano volere ad ogni costo – disagio intellettuale incluso – trovare una confortevole collocazione delle affermazioni che concludono il Tractatus di Wittgenstein all’interno del quadro neopositivista. Notiamo un atto di forte resistenza – o di forte superficialità – verso l’acquisire testualmente la chiara dichiarazione che solamente colui che ha compreso l’autore, infine riconoscerà l’insensatezza di ciò che ha detto. Wittgenstein non dice che le sue proposizioni vanno comprese – e di fatti esse sono insensate e non raffigurano nulla – ma, piuttosto, invita ad andar incontro alla sua intenzione e per riuscirvi – per così dire – occorre prendere sul serio gli enunciati del Tractatus, onde riacquisire

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P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 48 F. P. Ramsey, I fondamenti della matematica e altri scritti di logica, Feltrinelli, Milano 1964, p. 278 139

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confidenza con il linguaggio sensato, per poi realizzare che quella sensatezza viene dissolvendosi al cospetto di domande a cui il parlare sensato non è in grado di rispondere. Ciò mostra la cogenza del salire, di gradino in gradino, per la scala con estrema serietà affinché – appena giunti in cima – si vedano i gradini con altri occhi. Se ci si accetta l’invito dell’autore la nozione di mistico si spoglia del carattere – implicitamente attribuitogli da Russell e Ramsey – d’oscura forma di comprensione collocata oltre l’irrinunciabile unico regno della sensatezza caro alla deriva analitica, per collocarsi su un piano problematico il cui interesse è prettamente etico poiché risiede nell’aiutare il lettore a vedere chiaramente come egli stesso si pone rispetto ai propri atti di comprensione, ovvero nei confronti del proprio sé, della propria vita e del mondo come un tutto delimitato. Cambiare lo sguardo del fruitore dell’opera si veste di significati che potrebbero, intuitivamente, colorarsi di tinte psicologiche. Si tenga fermo che laddove la parola “psicologia” trova posto in questa disamina essa intende sussumere una serie di movimenti di immedesimazione psicologica nell’autore che Wittgenstein sembra richiedere ai lettori, tra i quali – per sua stessa ammissione – percorrerà un sentiero di comprensione facilitato proprio chi abbia, almeno una volta, pensato i pensieri ivi espressi.140 Relativamente a cosa Wittgenstein intenda significare invitando al “gettar via la scala dopo esserci ascesi”, è particolarmente profonda l’osservazione di Diamond. “The problem is how seriously we can take that remark, and in particular whether it can be applied to the point (in whatever way it is put) that some features of reality cannot be put into words. Let me illustrate the problem this way. One thing which according to the Tractatus shows itself but cannot be expressed in language is what Wittgenstein speaks of as the logical form of reality. So it looks as if there is this whatever-it-is, the logical form of reality, some essential feature of reality, which reality has all right, but which we cannot say or think that it has. What exactly is supposed to be left of that, after we have thrown away the ladder? Are

140

Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 23

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we going to keep the idea that there is something or other in reality that we gesture at, however badly, when we speak of 'the logical form of reality', so that it, what we were gesturing at, is there but cannot be expressed in words? That is what I want to call chickening out. What counts as not chickening out is then this, roughly: to throw the ladder away is, among other things, to throw away in the end the attempt to take seriously the language of 'features of reality'.”141 Appena giunti in cima alla scala, e dunque appena divenuti padroni della nozione di forma logica del linguaggio e del mondo, il linguaggio descrittivo delle scienze naturali mostra d’essere strutturalmente inappropriato a descrivere la realtà poiché, sostiene Cora Diamond, guadagnata una prospettiva più ampia sopra il linguaggio ed il mondo, diviene superfluo offrirne una descrizione delle caratteristiche elencabili per mezzo del linguaggio del “dire”.

141

Cora Diamond, The Realistic Spirit, Wittgenstein, Philosophy and the Mind, The MIT PRESS, Cambridge 1996, p. 182

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Proposizione 6.54 in chiave risoluta Le differenze interpretative fra le esegesi del Tractatus logico – philosophicus sono frequentemente riconducibili al modo di intendere la penultima proposizione dell’opera, nella quale viene dichiarato al lettore che le proposizioni dell’autore ottemperano al loro scopo delucidativo a patto egli le riconosca come insensate. Il problema a cui qualsivoglia lettura del libro non può sottrarsi, riguarda il sorgere d’un quesito ai limiti dell’ovvietà, ossia la domanda sopra il come una proposizione che è insensata possa assolvere funzioni delucidatorie. Chiamiamo in causa la proposizione 5.4733 del Tractatus: “Frege dice: Ogni proposizione legittimamente formata deve avere un senso; ed io142 dico: Ogni possibile proposizione è formata legittimamente, e, se non ha un senso, è solo perché noi non abbiamo dato un significato ad alcune delle sue parti costitutive.” Rileggendo attentamente l’enunciato individuiamo la presenza del termine “solo”, posizionato, nella struttura della frase, laddove esso deve stare per evidenziare il fatto che esiste un solo modo in cui una proposizione può essere insensata, appunto quello che deriva dalla mancata attribuzione di un significato a qualche componente che occorre nella sua struttura. Ciò sembra esprimere chiaramente Wittgenstein non ammetta l’esistenza di enunciati composti “illegittimamente”. Assecondando la lettura risoluta, osserva Donatelli143, Wittgenstein non mira a tracciare un limite tra le parole – e le strutture sintattiche in cui occorrono più termini – capaci di esprimere un senso e quelle – come dire – munite di una sorta di senso difettoso. In sostituzione di questa chiave interpretativa gli interpreti risoluti sostengono il libro intenda mostrare che ogni dottrina che si pone l’obiettivo di tracciare un limite al pensiero – e alla sua sensibilizzazione linguistica – attribuisce a se stessa il potere di poter pensare il problema della sensatezza da ambo i lati del limite del dicibile, ovvero di potere pensare ciò che

142

Il corsivo è una mia scelta arbitraria, volta a sottolineare la contrapposizione, nella fattispecie, tra la nozione di sensatezza in Frege e in Wittgenstein 143 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 50

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non è pensabile e, dunque, nemmeno dicibile. Se lo scopo dell’opera è condurre il lettore a riconoscere l’insensatezza delle proposizioni che compongono il libro, come ha mostrato J. Conant144, si nota che tale obiettivo non vuole essere centrato attraverso una teoria del significato munita di strumenti argomentativi necessari a bandire certe espressioni dal regno della sensatezza – il che implicherebbe l’esistenza d’espressioni linguistiche collocate in una regione del linguaggio insensato –. Piuttosto, osserva Donatelli145, il cambiamento a cui Wittgenstein invita il lettore risiede nel condurlo verso una visione chiara del modo in cui egli si pone nei confronti della propria comprensione – e cioè nei confronti di sé e della propria vita. Detto cambiamento non tocca la logica ma l’ immedesimazione psicologica nell’intenzione dell’autore, ossia lo sperimentare, in prima persona, cosa significhi sostenere fino in fondo una teoria per poi sperimentare il dissolversi del bisogno che ha avviato l’intera impresa filosofica.146 Nella Prefazione possiamo leggere: “Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: Ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo, dunque poter pensare quel che pensare non si può). Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso.”147 Ciò sottintende che se tentiamo di spingersi oltre il limiti del linguaggio che già utilizziamo, finiamo per imbatterci in costruzioni linguistiche che sono insensate nell’unico modo in cui esse possono esserlo, ossia nel loro essere semplici nonsensi. Sembra mancare, a parere degli interpreti risoluti, l’intenzione di insegnare a identificare i nonsensi per via teorica, mentre è evidente il libro si metta a disposizione del lettore che, tenacemente, voglia emanciparsi dai

144

Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 50 e J. Conant, Throwing Away the Top of the Ladder, in C. Diamond, The realistic Spirit, Wittgenstein, Philosophy, and the Mind, the MIT PRESS, Cambridge 1996, cit. in particolare p. 344 145 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 49-50 146 C. Diamond, The realistic Spirit, Wittgenstein, Philosophy, and the Mind, the MIT PRESS, Cambridge 1996, pp. 179-204 147 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 23

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fraintendimenti linguistici muovendo dalla comprensione – interna – del linguaggio che già adopera, al fine di non cadere vittima dell’illusione esperita da chi crede di usare il linguaggio sensatamente anche quando non vi riesce. Il modus suggerito dal Tractatus logico – philosophicus è quello di entrare – come – dentro le illusioni e farle implodere dall’interno, ovvero giungere alla dissoluzione dei fraintendimenti linguistici di seguito ad un ritorno dentro il linguaggio sensato ed alla comprensione del suo funzionamento. Interpretando Wittgenstein in questa maniera, si vorrebbe evidenziare l’urgenza di prendere concretamente sul serio quanto l’autore ha scritto. Si sostiene, difatti, un accentuato grado di concentrazione e austera serietà siano necessari a resistere alla tentazione di non comprendere l’intento etico del libro. Sarebbe più rassicurante e confortevole immergersi, pigramente, nell’oceano di parole riversate da Wittgenstein – collocandosi al sicuro dentro la dimensione del linguaggio descrittivo e della dialettica domanda/risposta – ma ogni esegesi imperniata su questa decisione tradirebbe tanto l’intenzione etica mostrata dal libro quanto la ricezione d’essa da parte del lettore, ossia la possibilità di acquisire una visione cristallina del linguaggio e del mondo. L’opera cerca di mostrarci, attraverso ciò che vi viene detto, che oltre i limiti del linguaggio non si cela alcuna verità ineffabile. Accettata questa condizione l’intento wittgensteiniano diviene accessibile: le sue delucidazioni avranno avuto successo esclusivamente se siamo giunti a considerarle insensate, cogliendo lo spirito che anima la proposizione 6.54, in tutta la sua profondità: “Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve – per così dire – gettar via la scala dopo essere asceso su essa.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede chiaramente il mondo.” I lettori risoluti sostengono che quanto manifesta la comprensione dell’intenzione di Wittgenstein si concretizzi allorché siamo davvero in grado di gettar via il corpo di asserzioni che strutturano il libro. Nell’attimo stesso in cui abbiamo recuperato un rapporto onesto con il nostro linguaggio e, conseguentemente, con

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noi stessi – e con il mondo al quale siamo coordinati – siamo pronti a liberarci della scala, metafora dell’insieme di proposizioni sui limiti del linguaggio e su ciò che di ineffabile si vorrebbe fosse posizionato oltre essi.

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Il temperamento intellettuale di Wittgenstein nel Tractatus “Il mondo è tutto ciò che accade”. La prima proposizione del Tractatus tuona come una sentenza volta a decretare il limite che segna ogni possibile esperienza conoscitiva. Pare non esservi nulla da conoscere al di fuori dei fatti nel loro intrinseco carattere contingente. Tale fattualità si offre come invalicabile poiché né oggetti logici, facendo riferimento alle critiche mosse da Wittgenstein a Russell, né leggi necessarie possono porsi a fondamento dell’universale contingenza dei fatti. Sembra pleonastico, a primo acchito, domandarsi se in un mondo dominato dal caso, o in un mondo ove, citando la T. 6.41, “non c’è alcun valore” possa trovare spazio un’etica. Tuttavia la domanda si pone e se essa può porsi, coerentemente con il pensiero wittgensteiniano, ad essa si può provare a rispondere. In questo panorama costellato d’interrogativi ci si interroga anche sul cosa possa divenire la scienza, una volta appurato non vi sia nel mondo – entro i suoi limiti interni – alcun principio causale e necessario. Laddove la contingenza fa da padrona ed uno stato di cose è un fatto accidentale – ossia una coordinazione di oggetti semplici del tutto contingente – viene meno la possibilità esso sia, in qualche modo, vincolato causalmente ad un altro con il risultato che la stessa credenza nei nessi causali diviene superstizione. Dove un’etica può trovare il suo spazio vitale in tale orizzonte? Questi interrogativi sono alla base della sesta sezione del Tractatus, che conclude la parte scritta dell’opera esprimendo i risultati delle analisi precedenti tramite una valutazione di tutte le discipline che aspirano a una conoscenza universale. La successione dei temi ricalca uno schema divenuto corrente almeno da Kant in poi: in primo luogo la logica (dalla T. 6.1), poi la matematica (dalla T. 6.2); a seguire le scienze fisiche e meccaniche, considerate come paradigmi generali d’interpretazione fenomenica (dalla T. 6.3); seguono, in conclusione l’etica (dalla T. 6.4) e la metafisica (dalla T. 6.5).

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Tutte queste discipline sono animate da una aspirazione tipicamente filosofica, laddove per filosofia – tradizionale – Wittgenstein intende quel genere di speculazione fisica – o metafisica – che assurge a spiegare un fenomeno tenendosi a distanza da esso, offrendosi come complesso di proposizioni ognuna delle quali non descrive – pur utilizzando il linguaggio descrittivo – il fatto da spiegare. Questo tipo di impasse è, come già accennato, dovuto al fraintendimento di ciò a cui la filosofia deve dedicarsi ovvero alla chiarificazione logica del pensiero e della sua sensibilizzazione grafica e fonica. Ogni filosofia che si è proposta come dottrina ha fallito, o meglio tradito, l’obiettivo di riavvicinare l’essere umano al linguaggio e dunque al “suo” mondo. Donatelli osserva148che larga parte degli interpreti di Wittgenstein ha riconosciuto una continuità nella particolare concezione metafilosofica wittgensteiniana, identificata nel rifiuto della filosofia come teoria sistematica e come spiegazione. Tuttavia, in cosa consista tale rifiuto non risulta affatto chiaro e accade sovente esso sembri avere a che fare con la sostituzione di concezioni sistematiche con semplici “visioni”. Ad esempio, Michael Dummett sostiene149 in merito al metodo filosofico comune sia al Tractatus

che alla Ricerche filosofiche: “E anche quando ci occupiamo di

sradicare qualche specifico malinteso, non lo facciamo sostituendo qualche teoria corretta a quella erronea, poiché non stiamo affatto operando in una regione in cui si richiedono delle teorie. Quello che tentiamo di fare è di sostituire una visione chiara ad una distorta. […] Quando il filosofo ha finito il suo lavoro allora noi vediamo le cose nel modo giusto. Non c’è nulla tuttavia che possiamo asserire come risultato del lavoro del filosofo: una visione non distorta non è essa stessa oggetto di visione.” Donatelli fa notare150 che l’immagine del vedere il mondo nel modo giusto, che troviamo in T. 6.54, sembra spingere, nella lettura di Dummett, verso la tesi secondo cui l’attività filosofica non può divenire una teoria sistematica poiché la filosofia si occupa non dell’oggetto del nostro pensiero ma del modo complessivo in cui pensiamo. Tuttavia, prosegue Donatelli, far propria l’idea vi sia una visione

148

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 52 M. Dummett, La verità e altri enigmi, Il Saggiatore, Milano 1986, pp. 45-67 150 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 53 149

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giusta (tra le altre), ineffabile ma esistente, tradisce in pieno la richiesta wittgensteiniana di resistere al potere delle proposizioni dell’opera, cioè non conduce al gettar via la scala. L’impostazione del Tractatus interdice ogni velleità di trascendenza qualsivoglia sistema filosofico possa avere avuto, per varie ragioni tra cui una elementare: il mondo non è un fatto ma un insieme di fatti; indi ogni dottrina si sia proposta come spiegazione del “fenomeno – mondo” nella sua totalità altro non è che un insieme di non – sensi. Si richiamano alcune proposizioni che dalla T. 6.01 conducono alla dichiarazione che conclude l’opera in T. 7 e si tenti di esperire che genere di atmosfera pervade questa sezione conclusiva del Tractatus. T. 6.01: “Le proposizioni della logica sono tautologie.” T. 6.13: “La logica è non una dottrina ma una immagine speculare del mondo. La logica è trascendentale.” T. 6.21: “La proposizione della matematica non esprime un pensiero.” T. 6.234: “La matematica è un metodo della logica.” T. 6.341: “La meccanica newtoniana, ad esempio, riduce la descrizione del mondo in forma unitaria. Immaginiamo una superficie bianca, con sopra macchie nere irregolari. Noi diciamo ora: qualunque immagine ne nasca, io posso sempre avvicinarmi quanto voglio alla descrizione dell’immagine, coprendo la superficie con un reticolo di quadrati rispondentemente fine e dicendo d’ogni quadrato che esso è bianco, o nero. A questo modo avrò ridotto la descrizione della superficie in forma unitaria. Questa forma è arbitraria, poiché avrei potuto impiegare con egual successo una rete di maglie triangolari o esagonali. […]” T. 6.4: “Tutte le proposizioni sono di pari valore.” T. 6.41: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso deve esser fuori d’ogni avvenire

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ed esser – così. Infatti ogni avvenire ed esser – così è accidentale. Ciò che li rende non accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’esser fuori del mondo.” T. 6.42: “Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla che è più alto.” T. 6.421: “E’ chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. ( Etica ed estetica sono un tutt’uno )” T. 6.423: “Della volontà quale portatore dell’etico non può parlarsi. E la volontà quale fenomeno interessa solo la psicologia.” T. 6.43: “Se il volere buono o cattivo altera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio. In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o crescere in toto. Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice.” T. 6.44: “Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è.” T. 6.52: “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.” T. 6.522: “Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico.” T. 6.53: “Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare -, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno […]” T. 6.54: “Le mie proposizioni illuminano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. ( Egli deve, per

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così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa. ) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.” T. 7: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.” Ad una prima lettura ciò che potrebbe suggestionare maggiormente il lettore è la critica verso la credenza che le discipline elencate, con speciale accento sull’etica ai fini di questo lavoro, possano spiegare il mondo fenomenico afferendo a leggi necessarie, univoche, universali da applicare al mondo in toto. Pensiamo alle proposizioni della logica, ed in particolare alle tautologie: esse sono sempre vere ma “non dicono nulla” del mondo, ovvero sono insensate; le proposizioni della matematica, che Wittgenstein intende come equazioni, o anche pseudo – proposizioni, non esprimono alcun pensiero; nel mondo non v’è alcun valore e se anche vi fosse esso non avrebbe valore; le risposte agli interrogativi scientifici non riescono, nella migliore delle ipotesi, neppure a tangere i margini meno dolenti dei nostri dubbi più profondi. Da questa serie di considerazioni, dense di significati interni, scaturisce la sentenza che invita il lettore a tacere in merito a ciò che non può essere detto, ovvero descritto. Cora Diamond nel suo saggio Ethics, Imagination and the metod of Wittgenstein’s Tractatus151, afferma che il senso del sinistro che caratterizza la parte conclusiva del Tractatus – atmosfera, a suo parere, riscontrabile anche nelle osservazioni di Wittgenstein su Frazer – è connesso alla difficoltà di superare la distanza tra il senso della meraviglia, della gioia, dell’orrore, del disgusto e di una sterminata varietà di sensazioni tipicamente umane, e la loro traduzione in termini linguistici. Il problema posto dalla relazione tra ciò che si prova e le parole utilizzabili per esprimerlo rappresenta una questione assai viva in Diamond, acuta e accreditata interprete di Wittgenstein, offrendosi come strumento funzionale allo studio dell’ineffabilità dell’etica nel Tractatus logico – philosophicus. La lettura del suo saggio “La difficoltà della realtà e la difficoltà della filosofia”152mette a disposizione esempi di circostanze in cui la propria sfera emotiva – e mentale – non giunge a tradursi

151

Cfr. Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2006, p. 40 152 Ivi, p. 175

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verbalmente. Questo fenomeno si collega all’esperienza che la mente fa quando essa è incapace di contenere ciò che incontra. Per trattare l’argomento in questione, Diamond si serve di una poesia, scritta a metà novecento, da Ted Hughes, intitolata Six young men. La contingenza espressa nel testo poetico descrive lo stesso autore mentre osserva una fotografia in cui sono raffigurati sei uomini sorridenti, seduti in un luogo che gli è familiare. Il poeta riconosce il vecchio muro della foto, la sponda ricoperta di mirtilli. La poesia evoca l’idea i sei giovani uomini avrebbero potuto sentire la valle echeggiare lo sciabordio dell’acqua che scorreva e che ancora, nel momento in cui l’autore osserva l’immagine, scorre. Qui si incontra un dilemmatico contrasto tra la permanenza dello sfondo, riconosciuto ed ancora presente e “vivo”, e il fatto i sei uomini immortalati sulla pellicola siano trapassati. Nell’arco di sei mesi da quando la foto fu scattata, essi erano tutti deceduti, lasciando del loro “calore vitale” una immagine dura e fredda. L’ultima strofa della poesia recita: That man’s not more alive whom you confront And shake by the hand, see hale, heat speak loud, Than any of these six celluloid smiles are, Nor prehistoric or fabulous beasts more dead; No thought so vivid as their smoking blood: To regard this photograph might well dement, Such contradictory permanent horrors here, Smile from the single exposure and shoulder out One’s own body from instant and heat.

153

La polarità intrinseca nell’immagine può portare alla follia, tanto è intenso il movimento di vicendevole autoesclusione tra il calore dei loro visi sorridenti e il fatto tanto tepore vitale sia, altresì, intrecciato al pensiero dei loro corpi gelidi e morti. Viene da sé la fotografia potrebbe essere interpretata in modo meno drammatico, come potrebbe fare un bambino – con una padronanza concettuale

153

Ibidem

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del contenuto della foto piuttosto superficiale – il quale non comprende ciò che Diamond definisce “difficoltà della realtà”, implicandone la sua densa natura contraddittoria se messa in relazione al rapporto in cui sta con il nostro accesso mentale ad essa. Il bambino potrebbe chiedere chi sia uno degli uomini raffigurati e qualcuno potrebbe rispondergli che si tratta di suo nonno; se il bambino possiede un concetto di “morte”, egli domanderà come mai suo nonno sorrida se non è più vivo. In buona sostanza il piccolo osservatore porrà le sue domande come dal di fuori di un gioco del quale egli non conosce le regole, e verrà introdotto alla comprensione di quella immagine tramite un insegnamento che include la spiegazione, per lui intelligibile, che suo nonno lì sorrideva perché era ancora vivo. Viceversa la prospettiva interpretativa di cui si fa portavoce Hughes è quella di chi vive l’orrore della contraddizione interna al sincronico richiamo al calore della vita ed al gelo della morte, vita e morte legate in gran parte alle nozioni di calore, di felicità, di freddo, di pallore, d’assenza. In questo caso, sostiene Diamond154, il linguaggio descrittivo è come scaraventato fuori dal gioco entro cui poteva esprimersi, in virtù dell’orrore – o del rispetto – al cospetto di una simile contraddizione concettuale. Questo genere di esperienze vengono, nel saggio preso in oggetto, presentate come un esempio di circostanze in cui la realtà mostra di possedere un carattere tanto complesso e dicotomico quanto denso di continui richiami concettuali che sanno imparentare nozioni di segno opposto: un carattere la cui complessità induce il pensiero a resistergli, portandoci, anche per via della sofferenza vissuta durante l’esperienza, a relegare nella regione dell’ineffabile circostanze analoghe a quella raccontata. La difficoltà esposta non è estranea al sentimento che accompagna l’esperienza della contingenza del mondo del tutto accidentale proposto da Wittgenstein. Si evidenzia che il carattere problematico della realtà, esperito anche attraverso il bisogno di eluderne le difficoltà tacendone, messo in evidenza da Cora Diamond attraverso la poesia di Hughes, affiora, rivelandosi in tutte le sue implicazioni etiche, nell’auto dissoluzione del Tractatus.

154

Ivi, p. 176

115

Laddove Wittgenstein dichiara che nessuna risposta alle domande di carattere scientifico è capace di soddisfare i nostri più autentici e vitali interrogativi (cfr. T. 6.52), è implicato il linguaggio descrittivo sia certamente l’unica espressione sensata del pensiero ma anche che – non essendo esso attrezzato per rispondere ai quesiti che ci ossessionano – il suo stesso uso finisce per sovrapporsi al tentativo inevitabile di oltrepassarne i confini. I lettori del Tractatus, sottolinea Donatelli155, hanno sovente attribuito all’opera di Wittgenstein un’oscurità che non sembra rispecchiare il desiderio di chiarezza logica espresso dal suo autore. Tale osservazione è rivolta in particolare alle prime interpretazioni del testo, influenzate dall’orizzonte neopositivista: esse mostrano un rigore del quale non pare, dice Donatelli156, essere rimasta traccia nelle letture più recenti. Tuttavia, con riferimento, tra gli altri, a B. Russell, a F. P. Ramsey157 ed alle conclusioni distruttive di Karl Popper158, i contemporanei di Wittgenstein nel tentativo di prendere sul serio l’impegno wittgensteiniano di tracciare un confine tra senso e nonsenso, riconobbero in esso un metodo ambiguo a causa, prosegue Donatelli159, di un errato approccio al testo. Se leggiamo con attenzione ciò che Wittgenstein afferma, non si riscontra in esso – come sia Ramsey che Popper ritennero – l’invenzione di forme oscure di comprensione ma l’invito a tenersi saldi all’unica via di comprensione possibile, appunto perché una volta assunto non vi sia che una forma di comprensione – quella imperniata sulla padronanza della struttura interna del linguaggio – il sostenere vi sia un regno della sensatezza appare, infine, inutile e insensato.

155

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 48-49 Ibidem 157 Cfr. p. 79 158 “La filosofia di Wittgenstein è priva di senso, e l’autore stesso ammette che sia tale. “Invece” – come dice il Wittgenstein nella sua Prefazione – la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono, dunque, dell’avviso d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi.” Ciò dimostra che […] possiamo risolvere “definitivamente” problemi formulando nonsensi. Cfr. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici. Hegel, Marx e i falsi profeti, II, Armando, Roma 1974, pp. 391-393, n. 51 159 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 50 156

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Lettura risoluta o del New Wittgenstein La lettura risoluta del Tractatus logico – philosophicus di Wittgenstein è stata proposta principalmente da Cora Diamond e James Conant a partire dalla fine degli anni ottanta. Il suo annuncio è contenuto in un saggio di Diamond, Throwing Away the Ladder: How to Read the Tractatus160, pubblicato nel 1988 e poi raccolto all’interno del noto volume della stessa autrice The Realistic Spirit: Wittgenstein, Philosophy and the Mind. Tale interpretazione ha nettamente alterato la prospettiva da cui guardare alla produzione filosofica wittgensteiniana, posizionandosi all’origine di un vivo dibattito animato dagli interpreti che in essa si sono, più o meno espressamente, riconosciuti. Tra gli autori recentemente indicati da J. Conant come risoluti compare anche Piergiorgio Donatelli. Un denso contributo alla comprensione di cosa si indichi per leggere il Tractatus risolutamente è offerto dal saggio di Silver Bronzo “La letteratura risoluta e i suoi critici: breve guida alla letteratura”161, al quale sarà opportuno rifarsi per tentare di sciogliere alcuni nodi. Tradizionalmente, si usa individuare due momenti speculativi wittgensteiniani: un primo, naturalmente culminato nella pubblicazione del Tractatus, ed una seconda fase che ha assunto una funzione correttiva rispetto alla prima. La lettura risoluta considera il Tractatus come il portale sotto cui è necessario passare per comprendere la notevole mole di appunti e pubblicazioni postume del filosofo – Ricerche filosofiche incluse –. In accordo con questa interpretazione la nozione di filosofia – e del modo di praticarla – che è centrale nel Tractatus non si esaurisce nelle ottanta pagine circa dell’opera. Difatti gli interpreti risoluti considerano l’intento dell’unica opera da Wittgenstein pubblicata in vita come un passaggio indispensabile per comprendere l’articolato proseguo della sua attività filosofica, fino alla sua morte. Ciò verso cui si orienta, dunque, la delucidazione dei problemi che chiameremmo “filosofici” è un’operazione che intende metterli

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C. Diamond, Throwing Away The Ladder: How to Read the Tractatus, The Realistic Spirit: Wittgenstein, Philosophy and the Mind, the MIT PRESS, Cambridge 1996, pp. 179-204 161 Silver Bronzo, La lettura risoluta e i sui critici: breve guida alla letteratura, in J. Conant, Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 269-287

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in contrasto rispetto al modo in cui li formuliamo – diciamo. Piergiorgio Donatelli evidenzia162 il carattere prettamente linguistico delle nostre prassi comunicative, sottolineando come, in alcuni casi, la forma grammaticale delle proposizioni da noi formulate – in accordo con la sintassi che regola la combinazione dei simboli – tradisca l’intenzione che sta a fondamento di quella necessità espressiva. Il contrasto a cui si accenna vuole riferirsi ad una speciale difficoltà nel far sì le nostre intenzioni linguistiche collimino con le parole che dovrebbero tradurle nel linguaggio. E’ questo il caso delle proposizioni che formuliamo mossi da una intenzionalità etica – ma anche afferente alla sfera della religione, dell’estetica e degli ambiti discorsivi non confinabili entro i limiti del linguaggio descrittivo –. Questa considerazione mette in luce un problema ma non ne elimina il suo frequente ripresentarsi. Quando, porta come esempio Donatelli163, in un enunciato del tipo “1 è un numero” manifestiamo l’intenzione filosofica di descrivere le caratteristiche formali del numero in questione, come fossimo posizionati al di là del novero di concetti – a noi familiari – che entrano in connessione con la nozione di “1”, avvertiamo la distanza esistente tra ciò che sentiamo e le parole attraverso cui crediamo di potergli dare espressione. Poiché siamo del tutto immersi in un mondo concettuale l’operazione di posizionarci oltre esso non risulta possibile logicamente ed ecco allora che per dare forma linguistica alla nostra intenzione filosofica ci troviamo a porre in relazione un certo concetto con uno – ad esso imparentato – tramite il quale possiamo usare una descrizione senza tradire l’intenzione di partenza. Pensiamo alla proposizione “sopra il tavolo è posata una mela”, e notiamo che essa ci da modo di usare il concetto di “1” senza che si mostri alcun contrasto tra intenzione linguistica e forma espressiva. Viceversa, come detto, se ciò che intendiamo esprimere assume forma linguistica muovendo da una regione che pensiamo situata al di là dello sfondo di forme e concetti che ci precede – e segue – allora avvertiamo una insoddisfazione indotta dal fatto la proposizione espressa tradisce l’intenzione che la ha generata.

162

P. Donatelli, Wittgenstein. La filosofia come critica, in J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, Carocci, Roma 2010, pp.11-12 163 Ibidem

118

Il Tractatus identifica problemi filosofici della famiglia di quelli legati a questo genere di confusione in cui, data una intenzione filosofica, ciò che diciamo di conseguenza diviene necessariamente insensato, ovvero incapace di offrire una descrizione pur tentando di farlo. Oltre che rivolgersi a un certo tipo di confusione filosofica – e dunque legata ad un modo errato di intendere la filosofia e il suo scopo – resa manifesta dalle nostre pratiche linguistiche, il Tractatus logico – philosophicus traccia una via di interpretazione e comprensione delle proposizioni che tentano di esprimere una eccedenza di significato, collocata all’interno di “quel di più che mostra sé”, che l’autore sussume dentro la nozione di “mistico”. La filosofia – lo si vuole ricordare – è un lavoro di chiarificazione di tale confusione, il cui compito preminente è diagnosticare il fraintendimento e dunque mostrare come dissolverlo. Dato che abbiamo a che vedere con questo peculiare genere di confusione, si desume la soluzione del problema non possa stare nell’assumere le nostre espressioni filosofiche siano capaci, nel modo in cui sono ordinate, di dissolvere il problema per mezzo di risposte. Al cospetto di un problema che richiede una soluzione, la soluzione non può trovarsi in una risposta alla domanda se prima non si è fatta chiarezza sul carattere della domanda ovvero sulla causa dell’insoddisfazione che manifesta l’incongruenza tra intenzione e proposizione. Come sottolinea Cora Diamond164 la “filosofia” cambia il suo obiettivo: con Wittgenstein essa diviene una attività di chiarificazione che giunta al termine mostra come “il nostro desiderio filosofico richiedeva risposte diverse da quelle che credevamo ci fossero necessarie per quietare le nostre domande”, il che equivale – parzialmente – a dire che la soluzione a un problema giunge appena il problema è stato privato delle qualità che credevamo esso dovesse necessariamente possedere. La trasformazione del nostro desiderio filosofico si svolge tentando di far implodere dall’interno l’attaccamento alle parole tramite cui esso ha acquisito, per noi, quell’aspetto. Questo tipo di medicina ha effetto se si va incontro all’intenzione dell’autore, condividendone quel certo tipo di

164

Ivi. P. 120

119

preoccupazione, la quale, come evidenziato da James Conant165, consiste nel prendere di petto una diffusa forma di pigrizia intellettuale che induce a non intraprendere la “via più faticosa”. Definire in cosa consista tale pratica non è affatto semplice ma ci si approssima se si crea una analogia tra “la via più dura” e la “pretesa rigorosa di giungere a dire ciò che intendiamo”. Attraverso questa metodologia ferrea si può dissolvere il contrasto tra intenzione e proposizione, fino a vedere il problema svanire. L’attività filosofica non è diretta all’espressione – e l’insegnamento – di verità necessarie piuttosto a riorientare il nostro rapporto con il linguaggio in modo da recuperare la familiarità con le parole – e con il loro uso – che abbiamo perduto di vista. Possiamo affermare il lavoro filosofico si offra come terapeutico e che il sintomo che fa da campanello d’allarme d’una possibile patologia sia il sentimento di insoddisfazione avvertito allorché le nostre proposizioni tradiscono il sentimento da cui muove l’intenzione che soggiace all’enunciato. L’attività a cui si accenna mostra l’inesistenza di proposizioni intese come dispiegamenti o insegnamenti (il che – risolutamente – sottintende la Picture theory non sia che un inutile nonsenso); ad esse vengono sostituite delle delucidazioni – o chiarificazioni – sia delle nostre stesse proposizioni che dei nostri blocchi, dei nostri irriflessivi attaccamenti ad un certo modo errato di usare il linguaggio, privandolo del suo potenziale espressivo. In T. 4.0031, Wittgenstein afferma: “Tutta la filosofia è “critica del linguaggio.” E’ in questa accezione che il lavoro filosofico percorre, secondo J. Conant166, la via più dura, offrendosi quale strumento trasformativo, previa chiarificazione, del legame tra intenzione e traduzione linguistica di quest’ultima. Questo approccio posa su un assunto, propedeutico, relativo alla nostra “natura linguistica” ed al nostro essere individui comunicanti e ineluttabilmente votati alla comprensione. Questa qualità essenziale evidenzia, ancor di più, il carattere non meramente dottrinale dei contenuti del Tractatus. Osservando da questa angolatura si può concepire agevolmente come l’essere umano non necessiti di una “teoria da

165

Cfr. J. Conant, Sul seguire la strada più dura, In J. Conant, Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, pp. 125-165 166 Ibidem

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apprendere e far propria” per esprimersi sensatamente appunto poiché egli è di per sé un essere incapace di emanciparsi dalla comunicazione verbale. Il termine “lettura risoluta” è stato utilizzato per la prima volta da Ricketts167 e usato all’interno di un testo stampato da Warren Goldfarb nella sua recensione al volume di Diamond “The realistic spirit”. Esso fa rifermento a come si dovrebbe interpretare la proposizione 6.54 del Tractatus. Richiamandola: “Le mie proposizioni servono come delucidazioni in questo modo: colui che mi comprende le riconosce infine come insensate, dopo averle usate come scalini per salire attraverso esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito).”168 Interpretando in modo irresoluto la T. 6.54 si considerano gli enunciati dell’opera come insensati – non descrittivi – ma comunque capaci di comunicare delle verità metafisiche sulla natura del pensiero, del linguaggio e del mondo. In buona sostanza gli interpreti risoluti rimproverano alle letture ortodosse dell’opera di dichiarare l’insensatezza delle proposizioni in cui si articola il testo, per poi attribuire loro una funzione esplicativa d’un contenuto, quale è la teoria della proposizione come immagine. Il contenuto, in chiave di lettura risoluta, essendo state le espressioni assunte come insensate, non dovrebbe esservi. A parere di C. Diamond e J. Conant questa interpretazione è lacunosa e contraddittoria, ecco perché ad essa contrappongono la lettura risoluta, ovvero quella che legge la T. 6.54 come una dichiarazione wittgensteiniana della semplice insensatezza delle proposizioni che compongono l’opera. Vediamo dunque venir meno l’idea che l’insensatezza degli enunciati possa coesistere con il potere di significare verità o con la rappresentazione di qualcosa di ineffabile. Esattamente questo genere di critica è rivolto ad uno tra i bersagli polemici preminenti in J. Conant e in C. Diamond – nonché in alcuni interpreti considerati pionieri della lettura risoluta, tra cui Rush Rhees – ossia la lettura “ineffabilista”,

167

Cfr. Silver Bronzo, La lettura risoluta e i sui critici: breve guida alla letteratura, in J. Conant, Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 270 168 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 109

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il cui punto di vista implica le proposizioni del Tractatus svolgano, seppur insensate secondo le condizioni di sensatezza imposte dalla teoria raffigurativa del linguaggio, la funzione di “mostrare” una dottrina del linguaggio ineffabile. L’espressione “lettura risoluta” deriva – principalmente – dal nome della raccolta The new Wittgenstein169 e dal ruolo da essa giocato nel tracciare i lineamenti ed i canoni a cui un nuovo modo di interpretare Wittgenstein ha inteso essere fedele. Si tenga presente che i saggi sul Tractatus occupano solo la seconda parte di questa raccolta di saggi, seguendo quelli inseriti nella prima sezione dedicata alla Ricerche filosofiche. Ciò che possiamo battezzare come una forma di “inversione cronologica” offre uno spunto di riflessione interessante. In effetti la prima parte di The new Wittgenstein, al cui interno sono raccolti vari saggi tra cui spiccano quelli di Stanley Cavell, maestro di J. Conant, e John McDowell, offre una lettura della seconda produzione filosofica wittgensteiniana che intacca la solidità del predicato “nuova” se attribuito alla lettura risoluta di Conant – Diamond. Si osserva, appunto, come già negli anni sessanta170 un nutrito gruppo di interpreti fondavano la propria interpretazione del pensiero dell’austriaco sulla necessità di comprendere la natura dei problemi filosofici per come espressi, in particolare, nelle Ricerche filosofiche. Si può osservare, dunque, che l’intendere la filosofia non come attività costruttiva – sul modello offerto dalla scienze naturali – ma, per meglio dire, nelle vesti di una attività terapeutica tesa a curare – o dissolvere – la patologica tendenza del nostro intelletto ad impigliarsi in una rete di difficoltà, precede il lavoro sul Tractatus di Conant e Diamond. Già Stanley Cavell171, in riferimento alle Ricerche filosofiche, faceva notare che se la filosofia ambisce a darci conoscenza, essa non è quel genere di conoscenza che desidera teorizzare su verità empiriche o metafisiche, poiché – piuttosto – essa lavora per indirizzarci verso la conoscenza di noi stessi e della nostra tensione a fraintendere il significato di certe parole, cadendo vittime consenzienti di illusioni filosofiche

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A. Crary, R. Read (eds), The New Wittgenstein, Routledge, London and New York, 2000 Il volume da cui è tratto l’intervento di S. Cavell confluito nella raccolta The New Wittgenstein, sviluppava temi che l’autore aveva iniziato a presentare sin dall’inizio degli anni sessanta, cfr. S. Cavell, The Claim of Reason, Oxford University Press, Oxford 1979 171 Cfr. S. Cavell, The Availability of Wittgenstein’s Later Philosophy, in “The Philosophical Review”, 71, 1962 170

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che si offrono come occasione per eludere la responsabilità verso noi stessi e nei riguardi dell’ethos in cui comunichiamo e agiamo. Per Conant e Diamond ciò che Cavell evidenzia come tratto precipuo degli scritti del “secondo” Wittgenstein, è già presente nel corpo del Tractatus logico – philosophicus, il che vuole essere un loro invito a non frazionare nettamente la speculazione wittgensteiniana, quanto a comprenderne i “momenti” scorgendone un carattere di continuità – somiglianza. Analogamente a quanto Cavell aveva fatto con le Ricerche filosofiche, Conant e Diamond hanno sostenuto sia impossibile comprendere il Tractatus se non si accede, anticipatamente, alla specifica concezione della filosofia che lo anima. Si nota, dunque, la lettura risoluta del Tractatus abbia ereditato, senza nulla togliere al profondo lavoro interpretativo di Diamond e Conant, una metodologia già in uso presso alcuni interpreti delle Ricerche filosofiche. Torniamo ora alle critiche che la lettura risoluta rivolge al metodo esegetico degli interpreti tradizionalisti o ineffabilisti, cui si è accennato sopra. Nel quadro ineffabilista l’obiettivo del testo è quello di comunicare una dottrina, ovvero di portare il lettore a cogliere una teoria che non può essere detta ma solo mostrata. Dal punto di vista risoluto, commenta S. Bronzo172, l’ineffabilismo commette l’errore di trincerarsi nella diade sagen/zeigen – presente oltre che nel Tractatus anche in altri appunti dello stesso periodo –, piuttosto che considerare il binomio dire/mostrare come l’ultimo piolo della scala che occorre gettare via. Le interpretazioni irresolute intendono la nozione di “teoria” in senso “tecnico – specifico”, ovvero quale insieme di dottrine volte a individuare la regione del dicibile. I lettori risoluti riconducono questa lettura tradizionalista – ineffabilista a l’Introduzione al “Tractatus”di Wittgenstein di G. E. M. Anscombe. Credere vi sia un contenuto ineffabile significa intendere il silenzio – a cui Wittgenstein si riferisce in T. 7: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”173 – come lo spazio di pensabilità entro cui cercare quel quid teorico che non può essere detto.

172

Silver Bronzo, La lettura risoluta e i sui critici: breve guida alla letteratura, in J. Conant, Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 278 173 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 109

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Tale tacere è dunque intriso di un genere di comprensione che rappresenta Ludwig Wittgenstein come definitivamente rassegnato a non poter dire ciò che può essere solo mostrato, come accadrebbe, assecondando le letture ineffabiliste, con l’etica. A tal proposito Donatelli174sostiene che le osservazioni di Wittgenstein nel Tractatus sono rivolte a dissolvere il pensiero esista una posizione esterna, analoga a quella da cui gli ineffabilisti leggono il silenzio wittgensteiniano, dalla quale sia possibile assumere un atteggiamento descrittivo sia verso la parte del testo che si occupa della struttura logica del linguaggio sia verso le proposizioni sull’etica. Questa interpretazione coincide con la lettura dell’etica come esercizio immaginativo offerta da Cora Diamond, ovvero con l’entrare immaginativamente nella regione insensata dell’etica benché, in realtà, non vi sia alcun “dentro”, ovvero nessun contenuto ineffabile. Di fianco alla lettura ineffabilista si presenta, con qualche punto di delicato contatto, quella neopositivista che condivide l’idea il Tractatus sia ispirato da una intenzione teorica, ovvero quella di “insegnare una dottrina del significato” che includa tra le proposizioni dotate di senso le descrizioni di fatti empirici e i loro casi limite, ovvero tautologie e contraddizioni. Il nucleo problematico – tuttavia – è che tale dottrina va incontro ad una sua auto dissoluzione interpretativa se si osserva come le stesse proposizioni componenti l’opera siano incapaci di passare il rigido test di sensatezza imposto dalla teoria del significato che dovrebbero esprimere. Tale difficoltà potrebbe essere aggirata – assecondando la prospettiva neopositivista – collocando le proposizioni del volume entro la sfera di un meta – linguaggio che descrive la struttura del linguaggio oggetto. Secondo gli interpreti risoluti questa interpretazione non è capace di cogliere un aspetto nodale della filosofia di Wittgenstein, ossia che l’oggetto d’indagine del Tractatus sono il pensiero ed il linguaggio in quanto tali e non un particolare tipo di linguaggio come può intendersi essere quello sensato. Preso atto di ciò diviene insensato interrogarsi su qualsivoglia presunto contenuto ineffabile, etica inclusa. L’approccio ineffabilista si mostrerebbe lacunoso anche nel suo approcciarsi alla diade sagen/zeigen. Sottoponendo a un duro esame le tesi ortodosse, si nota che 174

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 115

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attribuire la funzione linguistica del “dire” alle proposizioni descrittive di stati di cose non aiuta a distinguerne nettamente lo statuto da quello delle espressioni insensate. Queste ultime non dicono né mostrano nulla, tuttavia svolgono una funzione decisiva se si ammette esse differiscano da quelle che abbiamo incluso nella regione del dire. Il quadro ineffabilista, anche laddove rimane fedele al non attribuire la funzione del “mostrare” alle proposizioni non descrittive, si presenta poco attrezzato poiché non sa distinguere sufficientemente la dimensione del dire da quella del mostrare. Tale impasse sembra inevitabile laddove “ciò che viene mostrato” viene considerato una sorta di sequenza di pseudo proposizioni afferenti ad un contenuto ineffabile. Si può notare come la distanza tra detto e mostrato si riduca se ciò che viene mostrato “nel dire” è a sua volta una quasi – proposizione. Diamond, a tal proposito, ha insistito nell’affermare175 che le letture ineffabiliste non rendono conto della profondità della distinzione tra dire e mostrare, poiché ogni modo di connotare il mostrare come una forma curiosa di dire ciò che è ineffabile farebbe ancora parte della scala che occorre gettare via. La lettura risoluta porta avanti l’idea – obbedendo alla sentenza di Wittgenstein stesso – che le proposizioni del Tractatus debbano essere considerate come meri nonsensi, nel modo più rigido possibile. Esse sono, dunque, interpretate come sequenze di simboli logicamente insensati, i quali vengono raffigurati da S. Bronzo come un “balbettamento completamente sconnesso”176. Perché – ci si può domandare – Wittgenstein si sarebbe, allora, preso la briga di scrivere un’opera del tutto insensata?. Questa questione mette in campo almeno un altro complesso argomento ovvero il chiarire in che modo un nonsenso possa assolvere una funzione delucidatoria. I lettori risoluti hanno sovente affrontato questa domanda distinguendo – con un evidente richiamo a Gottlob Frege – tra il valore logico delle nostre parole e quello psicologico, ovvero evidenziando come stringhe di segni equivalenti da un punto di vista logico possano, tenendo presente

175

Silver Bronzo, La lettura risoluta e i sui critici: breve guida alla letteratura, in J. Conant, Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 279 176 J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 282

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il principio di contestualità fregeano, differire nei loro effetti psicologici.177 Oltre che intendere in modo rigoroso il nonsenso del Tractatus – il che richiama l’invito al percorrere la via più dura in filosofia evitando di rendere semplice ciò che è fortemente complesso – ne sottoscrivono le implicazioni come i pilastri di una metodologia filosofica corretta. Laddove la critica li accusa d’emanciparsi dal fare i conti con le regole sintattiche che presiedono alla formazione di enunciati sensati, gli esegeti risoluti rispondono che “credere” alle proposizioni del Tractatus logico – philosophicus – interpretandole come portatrici di una teoria – rappresenti un fraintendimento dell’intento dell’opera, comune a chi intende il volume come un manuale. L’approccio austero – risoluto al nonsenso suscita anche le critiche di chi considera volutamente non chiara la distinzione tra la profondità dei nonsensi e la superficialità delle descrizioni sensate di stati di cose. A tal proposito gli esegeti risoluti rispondono che enfatizzare il carattere non sensato del linguaggio è in grado, sempre in forza del principio di contestualità, di difendersi da qualsiasi critica di matrice logico – descrittiva, a condizione la prospettiva da cui si critica non si posi sul concepire atomisticamente la composizionalità delle proposizioni. Sostenere la totale insensatezza – e dunque l’assenza di un contenuto sottostante – delle proposizioni del Tractatus si offre come un modo rigoroso di rimanere fedeli al dichiarato intento etico dell’opera. Se il senso del libro è un senso etico e se l’unico modo per delimitare l’etico è quello di farlo dall’interno – tacendone – ecco, allora, presentarsi l’occasione di resistere alla tentazione di fare propria una teoria altrui acriticamente. E’ in questa accezione che lo “spontaneo e confortevole” ricercare un contenuto ineffabile e mostrato viene avversato dai lettori risoluti, fedeli – lo si sintetizza – sia all’idea il Tractatus logico – philosophicus non contenga alcuna dottrina, sia alla totale insensatezza delle proposizioni che ne compongono la struttura argomentativa.

177

Ivi, pp. 282-283

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Attualmente, il confronto tra lettura ortodossa e lettura risoluta è assai acceso e contrappone, come sostiene Marilena Andronico178, due esegesi inconciliabili del Tractatus: 

La lettura risoluta sostiene tutte le proposizioni dell’opera, eccezion fatta per la Prefazione e per alcune proposizioni conclusive, siano letteralmente insensate e pertanto da considerarsi meri nonsensi, senza alcuna distinzione tra nonsensi ininfluenti ed altri illuminanti. L’esito del testo è perciò interpretato come terapeutico e volto a mostrare semplicemente la situazione paradossale in cui si troverebbe un filosofo laddove egli volesse elaborare teorie del linguaggio – come la Picture theory – e del mondo.



Viceversa la lettura ortodossa interpreta la conclusione paradossale del Tractatus come una conseguenza inaggirabile della teoria raffigurativa del linguaggio e delle diadi sagen/zeigen e contingente/necessario. In sintesi le letture tradizionali accettano l’ineffabilismo come un prezzo che Ludwig Wittgenstein paga per avere concepito dogmaticamente l’indagine sull’essenza del linguaggio e della proposizione nei termini di una ricerca del’unità formale che già deve trovarsi nella realtà. Agli interpreti risoluti viene, inoltre, rimproverato di contraddire numerose evidenze testuali che avvalorano la lettura ortodossa e di applicare, retrospettivamente, la prospettiva delle Ricerche filosofiche, ribaltando l’indicazione fornita dall’autore nella Prefazione di queste ultime: “Improvvisamente mi parve che avrei dovuto pubblicare quei vecchi pensieri coi nuovi, e che questi ultimi sarebbero stati messi in giusta luce soltanto dalla contrapposizione col mio vecchio modo di pensare, e sullo sfondo di esso.”179

178

Cfr. Marilena Andronico, Ludwig Wittgenstein, APhEx, Portale italiano di filosofia analitica, Giornale di filosofia, Network, N°6 giugno 2012 179 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Mario Trinchero (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 4

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Autorevoli letture irresolute Come accennato, l’epilogo del Tractatus è stato – e resta – tra i temi più discussi all’interno dell’acceso dibattito intorno all’opera di Wittgenstein. La polarità esistente tra il contenuto di carattere logico – filosofico e l’affermata insensatezza del corpo di proposizioni che struttura il testo, ha affascinato e indotto al suo studio un più che significativo numero di interpreti. Sappiamo che per Wittgenstein – in accordo con la teoria della proposizione come immagine – quello che si può dire è solo ciò la cui negazione sarebbe ancora una possibilità, così che quale delle due possibilità sia quella realizzata nel concreto – ergo quella vera – può scoprirsi solo attraverso il confronto dell’immagine linguistica con la realtà. Gertrude Elisabeth Margaret Anscombe mette in rilievo180 come un ruolo assai importante nel Tractatus sia svolto da ciò che, pur non potendo esser detto, tuttavia si mostra nelle proposizioni che dicono “varie cose che si possono dire”. Urge, però, mettere in evidenza una significativa distinzione tra proposizioni meramente incoerenti e confuse e espressioni che sono tentativi di dire ciò che non può esser detto. Sottolinea Anscombe: “mentre ‘Qualcuno non è il nome di qualcuno’ intende dire qualcosa di affatto giusto, a proposito di ‘Qualcuno è il nome di qualcuno’ dobbiamo dire che quel che una tale proposizione intende non solo non è giusto, ma è completamente incoerente e confuso; e questo distrugge completamente la supposizione che vi sia qualcosa dietro la pretesa asserzione. Nondimeno vi sono delle espressioni fonetiche che, se non altro, suonano come tentativi di dire l’opposto delle cose che sono ‘affatto giuste’ in questo senso; e vi sarà più errore, o più oscurità, in simili tentativi che nel cercare di dire le cose che ‘si mostrano’ anche se esse sono realmente indicibili.”181 Questa distinzione presenta una possibile lettura del perché Ludwig Wittgenstein considerasse utili gli enunciati del Tractatus, seppur insensati secondo la teoria

180

G. E. M. Anscombe, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1966, pp.148149 181 Ibidem

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che essi stessi provano ad esporre. Chi li abbia usati come gradini per salire “attraverso di essi e oltre essi”, riceverà da tali proposizioni un aiuto a guadagnare la giusta visione del mondo. Ciò implica che il lettore avrà imparato, per mezzo del carattere “almeno utile” delle insensatezze, a vedere ciò che il linguaggio mostra piuttosto che perseverare nel confondere ciò che è sensato con ciò che è insensato. Esiste una correlazione del tutto speciale tra le verità logiche e “ciò che si mostra nel linguaggio sensato ma che non può venir detto”. Tautologie – e loro negazioni, ossia le contraddizioni – sono qualificate da Wittgenstein come espressioni che non dicono alcunché, come proposizioni insensate mancanti della polarità vero/falso; nonostante ciò esse mostrano qualcosa, ovvero la logica del mondo. Di tutte le cose che non si possono dire e si “mostrano” – tra cui ovviamente occorrono le proposizioni dell’etica – la preminente nel Tractatus è “la logica dei fatti”. Anscombe osserva182 che gli enunciati non possono raffigurare la logica della realtà e che niente in essi può stare per essa, ovvero che le proposizioni possono solamente riprodurla. Tentare di descrivere ciò che esse riproducono condurrebbe ad una “ripetizione”, ad un “balbettio”. Con ciò si intende sottolineare che se, per esempio, provassimo a spiegare la più semplice delle asserzioni, diremmo che una certa parola significa “questo o quello”, che un’altra significa “questo o quello” e che insieme esse significano “questo o quello”. Dal tentativo di descrivere – dire – ciò che trascende il limite del dicibile non trarremmo altro che una stringa di segni del tutto simile a quella che volevamo spiegare, ciò perché ogni tentata manipolazione del nostro linguaggio si collega a una trama infinitamente fine:

182

Ivi, p.150

129

“Come può l’onnicomprensiva logica, specchio del mondo, usare uncini e manipolazioni così speciali? Solo perché essi contessono tutti un reticolato infinitamente fine, il grande specchio.”183 Wittgenstein afferma, dunque, che ogni tentativo di dire ciò che si mostra viene, ineluttabilmente, a connettersi allo specchio del linguaggio, la cui struttura logica riflette il mondo come un “tutto limitato”. “La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata. Il sentimento del mondo come totalità delimitata

184

è il sentimento

mistico.”185 Anscombe invita a comprendere l’accezione in cui la nozione di “mistico” – al cui interno risiede l’etica – entra nel testo wittgensteiniano del 1921, collegandola ad una sensazione comune a tutti gli esseri umani ed espressa in T. 6.52, laddove – come si ricorderà – l’autore afferma che se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero neppure sfiorati; per poi concludere il paragrafo sentenziando: “Certo, allora, non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.” Ciò vuole significare che la risposta alle più cogenti domande della vita – quali quelle relative a il senso del mondo ed al senso della relazione tra noi e la realtà – giunge allorché si è interrotto il processo che ci vede coinvolti nell’interrogarci in merito a questioni vitali: questioni che si presentano perché non si è stabilita quale relazione intercorra tra l’uomo e il mondo. Le proposizioni conclusive dell’opera, con particolare riferimento al luogo in cui Wittgenstein afferma che il senso del mondo deve essere fuori di esso e che nel mondo non vi possa essere alcun valore, poiché se vi fosse anche esso dovrebbe essere contingente – e quindi poter non

183

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, § 5.511, p. 104 184 Cfr. Max Black, Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1967, p.361 “Limitare qualcosa vuol dire porla in contrasto con qualcos’altro, come quando, tracciando una linea, noi poniamo in contrasto le cose che stanno dalle due parti di essa.” Così, stupirsi dell’esistenza di un mondo – del solo fatto esso esista così com’è – è una causa del sentire mistico. 185 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, § 6.45, p. 108

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essere – (T 6.41), raffigurano, dice ancora Anscombe186, l’autore come se egli fosse osservato da un mondo con un viso, i cui tratti si rendono chiari solamente attraverso la logica. Una faccia può guardarti con espressione felice, triste, buona o cattiva, e con più o meno espressione. In questi termini Wittgenstein parla di un mondo che cresce o descresce come un tutto, ovvero che è più o meno espressivo in relazione alla trasparenza del rapporto che abbiamo stabilito – per via logica – con esso. Ora, il mondo considerato per come esso è strutturato, ossia per come le cose contingentemente stanno indipendentemente dalla nostra volontà morale, è oggetto della logica; il mondo considerato come la propria vita è oggetto dell’etica; se poi considerato come oggetto di contemplazione è oggetto dell’estetica. Il “sentire mistico” è il sentire il mondo come un tutto “limitato”, cioè il sentire che c’è qualcosa oltre il mondo. Al regno del mistico appartiene tutto ciò che per Wittgenstein ha valore assoluto: l’etica, l’estetica, la religione ovvero quanto trascende i limiti del mondo/linguaggio. Il valore non è nel mondo ma “fuori” di esso187, è qualcosa di non accidentale, di indistruttibile e increato di cui non v’è alcuna traccia nel mondo dei fatti che possiamo descrivere e con ciò si intende che “nel” mondo non v’è nulla che possa appagare la sete mistica d’essenza. Tuttavia, sebbene non vi sia nel mondo alcun valore – né possano esservi leggi etiche in accordo con le quali si può essere premiati o condannati – esiste un modo di vivere che possiamo definire “etico”, caratterizzato dal fatto che esso lascia immutato ogni stato di cose pur trasformando il soggetto metafisico, il “limite del mondo”. In questa accezione si direbbe la vita felice – intesa come pacifica e priva di speranze – possa, plausibilmente, esser considerata il premio che si ottiene attraverso un atto di abnegazione che culmina nel rinunciare alla realtà fattuale in tutta la sua contingenza. Si ritiene utile richiamare la proposizione 6.4 del Tractatus:

186

G. E. M. Anscombe, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1966, p. 159 Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, § 6.41, p. 106 187

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“Tutte le proposizioni sono di pari valore.” L’aggettivo “di pari valore” (gleichwertig), ipotizza Luciano Bazzocchi188, potrebbe avere giocato un ruolo cruciale nell’irruzione del tema etico nel testo del Tractatus, difatti compare per la prima volta in un’annotazione del 24.4.1915, in cui Wittgenstein afferma che “nella logica (nella matematica) processo e risultato s’equivalgono. (Perciò niente sorprese)”.189 Osserviamo che nei Quaderni, nel discorrere di logica e matematica, Wittgenstein si serve dell’espressione “s’equivalgono”, mentre nel Tractatus, in tema d’etica, egli utilizza “di pari valore”. Lo slittamento semantico sul concetto di “ugual valore” dallo sfondo logico – matematico a quello etico, è supposto essere parte della connessione tra logica ed etica di cui l’autore andava in cerca negli anni immediatamente precedenti alla pubblicazione dell’opera e poi sviluppato nel Tractatus all’interno della dialettica tra “comprensione del funzionamento logico del linguaggio” e “ intenzione etica del testo”. Come è stato assunto, per Wittgenstein, una proposizione è un’immagine di uno stato di cose possibile, ed è vera se ciò che essa raffigura è un fatto, falsa se non lo è. Si comprende l’espressione se si conosce anticipatamente la coordinazione tra oggetti semplici nel mondo che la verificherebbe. Direi che le proposizioni etiche non sembrano poter avere questa forma, come si osserva, ad esempio, nel caso della proposizione “non uccidere”, difatti se anche qualcuno commette un omicidio, il fatto empirico posto in essere non falsifica l’espressione imperativa “non uccidere”. Un’espressione di valore non può essere una descrizione di fatti e pertanto non può esserne un’immagine. Sebbene le proposizioni dell’etica non rispettino il rigore logico imposto dalla Picture theory, è innegabile, rimarca H. O. Mounce190, che le persone tendano ad esprimere in qualche modo ciò a cui attribuiscono un valore. Nella Conferenza sull’etica Wittgenstein sostiene che tali tentativi godano di uno statuto speciale, in quanto espressione di una tendenza da

188

Luciano Bazzocchi, L’albero del Tractatus, Mimesis, Milano 2010, p. 106 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 180 190 H. O. Mounce, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, Marietti, Genova 2000, p. 109 189

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difendere in forza del fatto che ogni volta che qualcuno tenta di esprimere qualcosa che non si può dire, viene mostrato qualcosa di veramente importante. L’idea di fondo è che qualcosa possa essere mostrato anche là dove niente viene detto sensatamente e che il quid che si mostra svolga una funzione. Negare la possibile utilità delle espressioni prive di senso, suggerisce H. O. Mounce191, esprime l’approccio al problema di chi considera una proposizione insensata come una mera stringa di segni inintelligibili, come un vaniloquio incomprensibile. Tuttavia tale modo di intendere il nonsenso è assai limitato e fuorviante poiché non ammette le possibili funzioni che ciò che si mostra può assolvere. Immaginiamo l’impossibilità di sollevare un peso poiché ciò richiederebbe forze superiori a quelle che abbiamo a disposizione. In questo caso l’impossibilità ha avuto una funzione piuttosto chiara, ossia quella di farci – almeno – tentare di compiere l’azione e di farci immaginare come sarebbe stato riuscire nel compito. Piuttosto differente sarebbe il caso in cui si tentasse di mostrare l’impossibilità di costruire una certa figura geometrica, poiché la dimostrazione avrebbe come effetto quello di mettere in evidenza che non c’è nulla che corrisponda a ciò che intendevamo fare. Non è che la costruzione fosse concepibile ma impossibile da realizzare; piuttosto essa non era concepibile. E’ pur vero che non potremmo negare di avere fatto “qualcosa” mentre tentavamo di costruire quella figura geometrica ed è a questo punto che possiamo interrogarci su “cosa” facciamo quando cerchiamo di “costruire” proposizioni che sono prive di senso. Prendiamo in esame la proposizione: “gli dei sono immortali”. E’ evidente essa non possa raffigurare uno stato di cose nel mondo e la battezziamo, dunque, come insensata. Pensiamo, ora, alla sua negazione “gli dei non sono immortali” e osserviamo che anche essa è del tutto priva di potere raffigurativo ma evidenziamo, anche, che una sembrerebbe, a molti, meno insensata dell’altra. Ciò vuole significare che una svolge, se non altro, la funzione di impedire che l’altra venga asserita. In questi pressi sta il punto: le asserzioni insensate – tra cui occorrono anche le proposizioni dell’etica – non sono dei meri vaniloqui inintelligibili ma delle espressioni che generano confusione poiché sembrano sensate in quanto

191

Ivi, p. 118

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composizioni di parole che usiamo frequentemente. Il problema non sta, dunque, nella scarsa dimestichezza con i termini che utilizziamo quanto nel fatto essi non siano, talvolta, governati dalla sintassi logica, dalle regole che, riflettendo la forma logica, stabiliscono che le parole possano essere impiegate per dire – descrivere sensatamente qualcosa. Jacques Bouveresse mette in risalto l’uso insensato del linguaggio che riguarda i casi in cui – come avviene nelle espressioni dell’etica, dell’estetica, della religione ed in quelle metafisiche in generale – si suole utilizzare termini a noi familiari in modo non raffigurativo. Egli evidenzia192 la compresenza di due caratteri delle nostre pratiche linguistiche, ovvero di ciò che potremmo definire “linguaggio inorganico”, corrispondente all’emissione di suoni, e del “linguaggio organico” inteso come tutto ciò che si “intende dire”, che si “vuole dire”, che – appunto – si mostra in ciò che diciamo. Nel testo della Conferenza sull’etica del 1929 Wittgenstein propone un caso esemplare di ciò che possiamo definire una proposizione insensata ma capace di mostrare qualcosa in ciò che essa non dice: “Mi meraviglio per l’esistenza del mondo”193. Osserviamo che le parole, prese una per una, hanno per noi un chiaro significato ma che, allo stesso tempo, esse non rispettano le regole dettate dalla Picture theory contenuta nel Tractatus. Osserva puntualmente J. Bouveresse: “Ora appunto la proposizione “il mondo esiste” assomiglia alle tautologie in quanto anche essa lascia ai fatti una latitudine totale. L’esistenza del mondo non è uno stato di cose che possa essere rappresentato nel linguaggio; perché il linguaggio è in condizione di rappresentare soltanto ciò che potrebbe anche non darsi.”194

192

Intervista a Jacques Bouveresse: Wittgenstein, filosofia e linguaggio. http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=451 193 Ludwig Wittgenstein, Lezioni e Conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Michele Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 12 194 Jacques Bouveresse, Wittgenstein, Scienza, Etica, Estetica, Laterza, Roma 1982, p. 81

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Dunque, il carattere organico appartiene alle espressioni ineffabili tanto quanto quello inorganico che assolve la funzione di mostrare “ciò che si intende dire” o il “dove si vuole arrivare”. Ci si soffermi a considerare come le proposizioni che chiudono il Tractatus – in riferimento alla T 6.522: “Ma c’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico.”; alla T. 6.53: “[…] Nulla dire se non ciò che può dirsi [...]”; alla T. 6.54: “[…]E’ allora che egli vede rettamente il mondo.”; alla T. 7: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.”195 – siano qualificabili come nonsensi ma, nello stesso momento, come enunciati che tentano di esprimere l’ineffabile (il Mistico) se inteso come il sentimento che, messo in moto dall’intuizione dell’esistenza di qualcosa di inesprimibile, ci induce a scontrarci contro i limiti del linguaggio e del mondo. In effetti, il punto di partenza di Wittgenstein si basava sull’assunto fosse possibile pensare – dire – solo ciò che ha una forma logica, cioè un senso possibile ed empiricamente verificabile. Posto questo limite, le stesse nozioni di “trascendentale” ed “ineffabile” debbono essere insensate. Tuttavia, sottolinea Pierre Hadot196, se è possibile dire solamente ciò che ha una forma logica allora la stessa nozione di forma logica è ineffabile poiché per “pensarla” occorrerebbe uscire dal linguaggio, oltrepassarne il limite. Da ciò si deduce che l’impossibilità di dire ciò che il linguaggio sensato mostra – la sua struttura logica o ciò che lo trascende, come l’etica – non inficia la possibilità di cogliere il carattere evocativo – seppur logicamente inesatto – di ciò che non si può dire in termini descrittivi. Max Black osserva che l’atteggiamento di Wittgenstein rispetto al mistico è oscillante e a tratti equivoco197. Da una parte pare acquisito che per lui il mistico c’è ma tale evidenza è, dall’altra parte, messa in bilico dal fatto ogni tentativo di esprimere il mistico, sia dicendolo che mostrandolo, non possa che condurre all’assurdo. In forza di questo duplice carattere del trascendentale, i positivisti logici hanno usato il Tractatus come loro testo di base, trascurando ogni sua

195

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 109 196 Pierre Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Barbara Chitussi ( a cura di), Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 49 197 Max Black, Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1967, p.360

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tendenza verso il misticismo. Tuttavia, questa manipolazione arbitraria del testo – che ne fa propria una parte e ne ignora un’altra – trascura il fatto il misticismo di Wittgenstein – o “l’impulso al mistico” – sia uno dei più forti nuclei tematici dell’intero testo. Anche acquisendo che tutte le osservazioni del Tractatus vanno considerate insensate – e sono quindi destinate ad essere messe da parte appena se ne sia appreso il carattere – sarebbe un grossolano errore, prosegue Max Black198, permettere che la conclusione dell’opera infici – in toto – l’indubitabile insegnamento che il testo mette a disposizione di chi lo abbia compreso. In questo senso non si può seriamente dubitare che la teoria del significato, seppur esposta per mezzo di proposizioni non descrittive, e il metodo filosofico utilizzato da Wittgenstein debbano necessariamente essere compresi entro ciò che è messo a disposizione d’ogni lettore dell’opera. Si può – però – sottolineare che ciò che complica l’interpretazione del Tractatus logico – philosophicus è un effetto del desiderio wittgensteiniano di ridurre il linguaggio (e dunque la comunicazione) alla dimensione del “dire”. Si potrebbe addirittura rimproverare a Wittgenstein di non avere mai fornito un’illustrazione perspicua del tipo di attività filosofica che praticava e proponeva ma è anche possibile guardare al problema da un punto di vista leggermente differente. In un certo senso rappresenta un errore non tenere presente che, nell’uso del nostro autore, la parola “senso” ha due opposti e non solo uno. Quando esaminiamo una proposizione per verificare se essa sia dotata di senso o meno, possiamo ottenere tre risultati distinti: 

La proposizione può avere senso, cioè essere sensata (sinnvoll), nel qual caso essa esprime una proposizione empirica, una descrizione di fatti.



La proposizione può essere “priva di senso”(sinnlos).



La proposizione può essere “insensata”(unsinning), ossia cercare di dire l’esatto contrario di ciò che un’espressione empirica, sintatticamente ben formata, può voler raffigurare.

198

Ivi, p.363

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Si tenga presente che sebbene nel linguaggio ordinario l’espressione “privo di senso” sia pressappoco un sinonimo di ciò che si intende dicendo “insensato”, nel caso di Wittgenstein le cose non stanno propriamente in questi termini. Nella accezione da lui intesa, “privo di senso” (e anche “pseudo-proposizione”) non predica necessariamente una qualità negativa attribuibile per ragioni logiche ad un enunciato. Questa osservazione trova riscontro nel testo laddove l’autore asserisce che “tautologia e contraddizione sono prive di senso”199. Sarebbe contorto credere Wittgenstein intendesse screditare discipline a lui care come la logica e la matematica, specie rammentando che poco dopo egli afferma che tanto la logica quanto la matematica appartengono al simbolismo ed esibiscono la logica del mondo. “La logica del mondo, che le proposizioni della logica mostrano nelle tautologie, è dalla matematica mostrata nelle equazioni.”200 La loro funzione precipua è quella di mostrare qualcosa circa la logica delle loro parti costituenti, e ciò si può ottenere combinando tali elementi in proposizioni limite, da cui sia stato scisso il nesso empirico con il mondo. Ora, se si comprende l’utilizzo (ad esempio nel calcolo) che può farsi delle proposizioni prive di senso – come le tautologie o le equazioni – si realizza che le asserzioni che mostrano qualcosa senza dire nulla (come le proposizioni dell’etica, a loro volta incapaci di descrivere alcunché pur parendo essere la similitudine di qualcosa) non sono affatto inutili e tantomeno ineffabili, alla luce del fatto esse siano comunicabili a chi comprende come usarle. Valutando l’opera da quest’angolo d’osservazione diviene possibile salvare gran parte delle proposizioni che articolano la struttura dell’opera – ossia tutte quelle che “almeno” non contraddicono la sintassi logica – e dunque si può “non gettar via la scala” – non ogni gradino d’essa – onde emanciparsi parzialmente dal nichilismo che permea la conclusione paradossale del Tractatus.

199

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, §4.461, p. 61 200 Ivi, p.99

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Queste riflessioni, osserva Max Black201, evidenziano una relazione causale tra il fraintendimento di ciò che Wittgenstein intendeva per “proposizione priva di senso” – che si è chiarito essere qualcosa di comunicabile e di assolutamente differente da un vaniloquio – e le interpretazioni del Tractatus che qualificano il “silenzio” wittgensteiniano come un cono d’ombra da estendere a tutto il corpus dell’opera.

201

Max Black, Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1967, p. 365

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Lettura ineffabilista Gli interpreti ineffabilisti del Tractatus logico – philosophicus hanno ritenuto che laddove Wittgenstein afferma che "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”202, egli implichi l’esistenza di un contenuto di cui non possiamo parlare.203L’esegesi ineffabilista connette, dunque, l’ineffabilità dell’etica con una forma di cognitivismo, ossia individua in quel contenuto indicibile un possibile oggetto di conoscenza. Questa lettura dell’etica tiene in forte considerazione le immagini visive che incontriamo nel sesto gruppo di proposizioni che occorrono nel Tractatus, facendo battere l’accento sul fatto sia la visione del mondo sub specie aeterni (T. 6.45), sia la corretta visione del mondo (T. 6.54), siano esattamente visioni attraverso le quali ci viene mostrato quel contenuto ineffabile sopra cui Wittgenstein obbliga a tacere. Scrive Wittgenstein: “Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico.” (T.6.522) Gli ineffabilisti, osserva Donatelli204, sostanziano il carattere contenutistico – e cognitivo – dell’etica ed evidenziano l’importanza della sfera del pensiero morale rispetto alle altre aree della riflessione umana. Osserviamo che questa deriva meta etica tende a diramarsi in direzioni differenti – caratterizzando l’etica come esperienza mistica, oppure accostandola all’idealismo, all’intuizionismo etico ecc.– imparentate da un denominatore comune, ovvero la convinzione vi sia un contenuto ineffabile, non fattuale ma afferrabile dal soggetto conoscente, che la prospettiva etica sulla realtà riesce a mettere in risalto. Uno dei percorsi intellettuali frequentemente attraversati per sostenere queste tesi, è quello di far valere l’evidenza rappresentata dalla mancata corrispondenza tra la struttura formale delle proposizioni etiche e ciò che esse comunicano. Ciò induce a sostenere che non tutti i nonsensi sono sullo stesso livello, ovvero che alcuni sono più importanti di altri, in quanto, sebbene la forma fallisca nel comunicare il

202

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 109 203 Cfr. M. Black, Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1967, p. 364 204 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 77

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contenuto, riesce comunque ad indicarlo. Secondo Donatelli205l’interpretazione del Tractatus che tradizionalmente incarna questa lettura è quella di Erik Stenius206, fondata sull’idea vi siano numerosi casi in cui forma e contenuto si dividono senza inficiare la possibilità il contenuto venga afferrato. Urge evidenziare che il Tractatus logico – philosophicus non mostra speciali indicazioni utili ad attribuire a Wittgenstein l’intenzione di intendere il Mistico – e l’etica – nell’accezione suggerita dagli ineffabilisti. Per sopperire a tale mancanza di fonti nel corpus dell’opera, questi ultimi hanno individuato altrove elementi che sostanzino il loro lavoro esegetico, ad esempio nei Quaderni preparatori, redatti tra il 1914 e il 1916, e tra le pagine delle svariate biografie di Ludwig Wittgenstein. Risulta piuttosto evidente la credibilità del quadro interpretativo presentato dagli ineffabilisti sia inficiato dalla manifesta assenza nel testo di elementi atti a chiarire quale fosse la concezione etica di Wittgenstein. Questo aspetto risulta particolarmente importante se si richiama alla mente la lettera indirizzata a Ludwig von Ficker dall’autore. In essa il libro è presentato come caratterizzato da un senso etico, senso etico che, rileva Donatelli207, deve categoricamente essere ricercato nel volume e non in alcuna concezione – o fonte – ad esso esterna. Si tenga presente l’estratto da una lettera inviata da Wittgenstein al suo traduttore inglese C. K. Ogden, in risposta alla richiesta di quest’ultimo di alcuni chiarimenti che potessero agevolare la comprensione dell’opera: “Sono veramente molto dispiaciuto di non poterle mandare i supplementi. Non vi può essere alcuna ragione per stamparli. […] I supplementi sono esattamente ciò che non deve essere stampato. A parte che non contengono veramente alcuna delucidazione, ma sono ancora meno chiari del resto delle mie proposizioni. Per quanto riguarda la brevità del libro, sono terribilmente dispiaciuto di ciò; ma cosa posso fare?! Dovesse pure spremermi come un limone non ne ricaverebbe niente.

205

Ibidem Cfr, E. Stenius, Wittgenstein’s “Tractatus” ”: A Critical Exposition of its Main Lines of Thought, Blackwell, Oxford 1960, p.212 207 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 79 206

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[…] Perciò non sia adirato se non posso allargare il mio libro. Lo farei se potessi.”208 Che il libro basti a se stesso indica che esso fornisce tutti gli strumenti per comprenderne lo scopo filosofico. Il Tractatus logico – philosophicus è, appunto, considerato dal suo autore come concluso e articolato nel giusto modo perché esso si prenda cura di sé. Da ciò si conclude che ogni indagine filosofica in merito all’opera debba rinunciare a quella sorta di vagabondaggio letterario a cui gli ineffabilisti sono soliti ricorrere per compensare l’assordante suono del silenzio con cui Wittgenstein concluse il testo. La prospettiva ineffabilista si ostina, osserva Donatelli209, a ritenere che l’etica wittgensteiniana sia fondata su un contenuto inesprimibile che ricopre un ruolo fondamentale per la soluzione del problema della vita. In verità l’opera, come detto, non contiene illustrazioni di tale contenuto. Tra le righe troviamo indicazioni che segnalano una differenza tra la relazione conoscitiva con il mondo da una parte e quella etica dall’altra; incontriamo cenni sulla forma che il problema assume ma nessuna indicazione su un contenuto che agisca da soluzione del problema. In tal senso J. Bouveresse ha sostenuto210che l’ambizione di Wittgenstein in merito all’etica nel Tractatus, è “topica”, ovvero indirizzata ad assegnare all’etica il proprio luogo senza cercare di penetrarvi. Donatelli evidenzia211 che pensare l’etica del Tractatus Logico – philosophicus in chiave contenutistica presenta, in mancanza di riscontri concreti nel testo, un aspetto artificiale. Di fronte alle lapalissiane difficoltà nel rintracciare l’agognato contenuto etico che il Tractatus dovrebbe celare in forza del carattere ineffabile dell’etico – come preannunciato – la deriva ineffabilista tende a diramarsi e a caratterizzare l’etica in vari modi funzionali – almeno negli intenti degli esegeti – a trovare il quid di cui si è alla ricerca. Se volessimo rintracciare quali qualità dovrebbe possedere il contenuto in questione, possiamo supporre esso dovrebbe sapere render conto

208

Ludwig Wittgenstein, Letters to C.K. Ogden with Comments on the english translation of the “Tractatus Logico – philosophicus”, G.H von Wright (a cura di), Blackwell, Oxford 1973, pp. 46-47 209 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 78 210 Cfr. J. Bouveresse, Wittgenstein, Scienza, Etica, Estetica, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 4 211 P. Donatelli, Wittgenstein l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 79

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della dialettica tra la pars logica dell’opera e il sesto gruppo di proposizioni, in cui occorrono termini quali etica, estetica e Mistico. Ecco, allora che quel quid ineffabile viene colorato di tinte mistiche. Vien da sé la nozione di “misticismo” sia in se stessa piuttosto ambigua ma – constatato ciò – la si vuole cercare di intendere nell’accezione in cui la propose Bertrand Russell nel suo saggio intitolato Misticismo e logica212. Egli sosteneva il fallimento del misticismo in quanto dottrina utile a fini conoscitivi ma – al contempo – esprimeva un apprezzamento verso di esso se considerato nell’accezione di “atteggiamento verso la vita”. Nell’opera in oggetto offriva una disamina degli elementi che caratterizzano l’esperienza mistica, riassumendoli in quattro punti: 1. La presenza di una intuizione in opposizione alla ragione. 2. Il rifarsi ad una unità di fondo del mondo. 3. La negazione della realtà del tempo. 4. La negazione dell’opposizione tra bene e male da parte della realtà. Brian McGuinness ha sostenuto213 che le quattro caratteristiche dell’esperienza mistica individuate da Russell, siano rinvenibili nel Tractatus logico – philosophicus. In effetti Wittgenstein allude ad un’intuizione del mondo inteso come totalità delimitata, riscontrabile nella proposizione 6.45: “La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata –. Il sentimento del mondo come totalità è il sentimento mistico.” Ancora in T. 6.45 Wittgenstein afferma – implicandolo – che le soluzioni ai veri problemi della vita si trovano al di fuori dello spazio e del tempo, ovvero osservando il mondo dal punto di vista dell’eternità, la cui nozione non necessita d’essere posizionata né spazialmente né temporalmente. In ultima istanza anche la contrapposizione tra bene e male – entro i limiti del mondo come totalità – viene rifiutata da Wittgenstein in alcune considerazioni in merito alla nozione di “volontà”, eticamente intesa come il modo giusto o errato di vedere un mondo nel quale non esistono il bene o il male. La relazione tra io metafisico e realtà

212

Bertrand Russell, Misticismo e logica, TEA, Milano 2010 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 80

213

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accidentale non lascia spazio ad una interpretazione del mondo come una totalità in cui abbia senso porre in contrasto il concetto di bene a quello di male, ciò in forza del fatto tanto l’uno quanto l’altro siano derivabili dalla giusta o sbagliata visione del “proprio mondo” . T. 6.423 “Della volontà quale portatore dell’etico non può parlarsi. E la volontà quale fenomeno interessa solo la psicologia.” Viene evidenziata la frequenza con cui Wittgenstein utilizza il sostantivo “totalità”: totalità di stati di cose, totalità di proposizioni vere, totalità di oggetti, mondo come totalità delimitata ecc. In accordo con B. Russell – che già nella sua introduzione al Tractatus aveva ipotizzato le totalità a cui Wittgenstein attribuiva carattere ineffabile fossero l’oggetto del suo misticismo – B. McGuinness sostiene214 il susseguirsi di argomenti nell’opera sia identificabile come un’unica esperienza mistica al cui interno si trova un sentimento inesprimibile, il cui possesso coincide con la risoluzione dei problemi della vita. L’interpretazione dell’etica in chiave mistica, sostiene Donatelli215, riduce l’etico a un ché di subalterno, marginale rispetto alla nozione di totalità sulla quale battono le argomentazioni di Russell e McGuinness. Inoltre la risoluzione dei problemi vitali viene così sottratta alla sua relazione con una giusta visione del mondo per venire ricondotta all’esperienza – ovvero a un dato mentale, un fatto descrivibile – che ogni individuo fa del sentimento mistico. Accentuare il carattere risolutivo di una mera esperienza entra in conflitto con il noto antipsicologismo wittgensteiniano e impoverisce la portata filosofica del Tractatus, che – ricorda Donatelli216 – si sviluppa anche in risposta a problemi filosofici sollevati da Russell e Frege. Possiamo inoltre osservare che nella filosofia del linguaggio incontriamo – nel corso di tutta la sua riflessione – il rifiuto di un’analisi del significato che entri in connessione con uno stato mentale. Altrettanto accade con l’etica nel caso di

214

Ibidem Ivi, pp. 81-82 216 Ibidem 215

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Wittgenstein: egli osserva217, difatti, che la volontà etica non è il fenomeno mentale che può interessare la psicologia e – in connessione con la nozione di volontà – che l’Io filosofico è non l’uomo, il corpo umano o l’anima umana di cui tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico che sta al limite del mondo – e che, dunque, non ne fa parte –. Mentre il punto di vista di Wittgenstein respinge qualsiasi tentativo di far equivalere il nostro senso etico delle cose a qualche contenuto identificabile nella mente o nel mondo, l’interpretazione ineffabilista mistica concepisce il carattere unitario del Tractatus in termini epistemologici (scientificamente conoscibili e descrivibili). Così nella Conferenza sull’etica: “[…] Secondo me uno stato mentale – intendo per esso un fatto passibile di descrizione – in un senso etico, non è né buono né cattivo.”218Ancora nel testo della Conferenza, Wittgenstein si interroga219su cosa sia il bene, concludendo che se intesa in senso “etico assoluto” una simile preoccupazione morale non ammette risposte che quietino l’animo indicando qualcosa che sta “nel” mondo. In accordo con questo modo di intendere la questione etica, Wittgenstein introduce del Tractatus le immagini dell’eternità, della visione del mondo fuori del tempo e dello spazio (sub specie aeternitatis), della fusione con il mondo che B. McGuinness interpreta come aspetti di ciò che si prova nel fare una “esperienza” mistica. Tuttavia, sottolinea Donatelli220, benché le immagini introdotte dall’autore richiamino qualcosa di cui si fa esperienza, esse non servono – se intese come fatti psicologici o esperienziali – all’obiettivo wittgensteiniano di mostrare come il senso etico delle cose possieda un carattere che nulla ha da spartire con un’esperienza interna al mondo. Si sostiene la parte del volume relativa allo studio della logica del linguaggio e quella in cui compare il termine etica procedano parallelamente e senza slegarsi l’una dall’altra all’interno della nozione di “mondo come tutto limitato”. L’immagine cambia drasticamente se invece si tenta di sviluppare una lettura

217

Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, § 5.641, p. 90 218 Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, p. 10 219 Ivi, p. 7 220 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 83

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unitaria – che tiene insieme lo studio della logica del linguaggio e l’intento etico – del Tractatus in chiave metafisica, attribuendo sia alla parte logica che al significato etico la capacità di rivelare un contenuto che rappresenta il fondamento trascendentale del mondo, inteso come oggetto di rappresentazione o come oggetto di volontà. Seguendo questa pista, l’indagine wittgensteiniana sulla natura della proposizione e quella sulla volontà etica si trovano ad essere accostate alle nozioni schopenhaueriane di “mondo come rappresentazione” – nell’accezione di “mondo di cui è possibile fornire immagini linguistiche” – e di “mondo come volontà”, ovvero il mondo connotato nella sua essenza noumenica che mostra sé all’interno delle rappresentazioni. Uno dei modi in cui le esegesi ineffabiliste procedono è, sottolinea Donatelli221, quello di rintracciare dei punti di contatto – spinti ben al di là del riconoscere la presenza nel Tractatus di una fraseologia che richiama, a tratti, quella di Schopenhauer – tra etica ed idealismo. Nella fattispecie la separazione, operata da Wittgenstein, tra fatti e descrizioni sensate di fatti – da una parte – e volontà etica, insensatezza e misticismo – dall’altra – viene correlata alla duplice natura del soggetto schopenhaueriano, inteso nei termini di soggetto conoscente e di soggetto della volontà. Questa analogia mira – secondo gli interpreti risoluti – a ricavare degli a priori tanto della conoscibilità del mondo (il che implica tale conoscenza venga espressa per mezzo di descrizioni) quanto del dispiegamento della volontà etica, in vista di un’interpretazione del Tractatus logico – philosophicus che mira a qualificarlo come indagine sulle condizioni – date aprioristicamente – della conoscenza e della volontà. Sembrerebbe il risultato a cui si vuole pervenire, l’individuare un contenuto ineffabile trascendentale evocato dalla proposizione 7 dell’opera, sia stato stabilito preliminarmente e che l’interpretazione sia poi stata adattata, in un secondo momento, a ciò che si era già deciso dover essere la spiegazione (o teoria) corretta. E’ evidente una lettura idealistica dell’etica necessiti della nozione ineffabilista di insensatezza, ossia di quel contenuto indicibile che Wittgenstein avrebbe inteso, in buona sostanza, insegnare. In questa chiave le proposizioni insensate, seguendo l’affermazione

221

Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 87

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dell’autore, che compongono l’opera offrirebbero una dottrina atta a descrivere l’essenza del mondo. P. Donatelli222evidenzia le esegesi ineffabiliste operino applicando la nozione di “ineffabilismo” in modo talvolta “fine – leggero” oppure “profondo”. Ad esempio E. Stenius presenta una lettura che può essere connotata come “fine”, sostenendo223 gli enunciati di Wittgenstein debbano essere intesi come analisi sottili di problemi legati alla natura logica del linguaggio ma asserendo, anche, che le proposizioni finali dell’opera richiedono una interpretazione idealistica: in sintesi il Tractatus sarebbe fondato su una struttura argomentativa solida che, una volta giunti al termine del libro, andrebbe riletta in chiave idealistica in vista del disvelamento della soggiacente indagine sugli a priori della conoscenza e della volontà. Se l’interpretazione di Erik Stenius non abusa eccessivamente della nozione di “insensatezza illuminante” – che intendiamo come sinonimo di delucidazione” – per sostanziare la tesi il Tractatus contenga un ineffabile contenuto mistico volto ad indagare l’essenza del mondo, altrettanto non potrebbe dirsi – ad esempio – di Eddy Zemach224, il quale opera – facendo cadere pesantemente l’accento sul carattere mistico delle affermazioni wittgensteiniane – una trasfigurazione del Tractatus logico – philosophicus. A suo dire l’intera opera è attraversata da una forma di misticismo che rende le osservazioni intorno alla logica – ed ogni elemento tecnico o argomentativo – un mascheramento di soggiacenti indagini sul carattere “essenziale” della realtà. L’opera finisce per essere interpretata come una complessa metafora che Wittgenstein mette in campo per rappresentare la sua concezione del mondo. Le esegesi di A. Janik e S. Toulmin hanno fatto propria la tesi fortemente ineffabilista di Eddy Zemach, addirittura – potremmo dire – inasprendone i toni. Il riconoscimento dell’insensatezza dei propri enunciati

222

Ivi, p. 88 Ibidem 224 Eddy Zemach, Wittgenstein’s philosophy of the mystical http://www.jstor.org/discover/10.2307/20124042?uid=3738296&uid=2&uid=4&sid=2110645061 3041 223

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richiesto da Wittgenstein225 viene da loro utilizzato per attuare un’operazione di chirurgia interpretativa volta a separare la riflessione sulla struttura logica della proposizione dall’intento etico dell’opera, quest’ultimo relegato all’interno di una sfera pre – filosofica che è intesa rispecchiare, meramente, la soggettiva vicenda biografica di Wittgenstein. La critica del linguaggio viene in questo modo “giustificata” dall’influenza che sull’autore ebbero B. Russell e G. Frege – intesi come coloro i quali fornirono a Wittgenstein gli strumenti teoretici per analizzare la struttura della proposizione. Viceversa la concezione del mondo è ricondotta sia al contesto viennese sia all’idea (presente in una linea letteraria e filosofica a cui possono essere ricondotti tanto Schopenhauer quanto Kierkegaard e Tolstoj) che l’indagare sul significato della vita, sull’etica, sulla relazione tra soggetto e mondo o sull’estetica, richieda una metodologia non fondata scientificamente ma – invece – propria del modo di procedere delle arti e in particolare del tipo di linguaggio utilizzato in poesia. Ebbene, le proposizioni che analizzano la natura logica del linguaggio rivestirebbero una funzione allegorica, avendo in realtà lo scopo di circoscrivere e proteggere – nascondendola – l’avversione wittgensteiniana per il paradigma scientifico accumulativo caratteristico della Vienna dei suoi tempi226. Possiamo immediatamente osservare che il fondare l’intenzione etica dell’opera su elementi esterni all’opera stessa – in particolare sopra circostanze storiche e culturali – è ottenuto attraverso l’impoverimento e il volontario fraintendimento del contenuto filosofico del Tractatus: è come se le proposizioni che formano l’armatura logica del testo fossero state pensate appositamente per porre al riparo un pensiero – meramente indotto dalla propria biografia – che le precedeva dal principio. Qualunque sia l’intensità con cui si applichi la lettura ineffabilista al Tractatus logico – philosophicus, ciò che si vuole tenere fermo è che tale metodologia interpretativa non rinuncia a voler trovare all’interno – o all’esterno – dell’opera un contenuto che miri ad agire da insegnamento traducibile attraverso una stringa

225

“Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse […]” in Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 109 226 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 89-90

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di segni carichi di sensatezza, ovvero una descrizione. Questa prospettiva inficia gravemente sul nascere – addirittura rovescia il quadro generale – l’accettazione quieta del carattere insensato delle proposizioni wittgensteiniane. Ciò che non deve finire al margine della riflessione è esattamente l’importanza di entrare immaginativamente nell’insensatezza indicata dall’autore, poiché è proprio tale carattere intenzionalmente insensato ad adempiere gli obblighi delucidativi che gli enunciati di Wittgenstein si propongono di rispettare. L’impressione generale, secondo Donatelli227, è che l’ineffabilismo prenda troppo sul serio le affermazioni sull’etica contenute nel Tractatus, fino a perdere di vista le affermazioni wittgensteiniane in merito alla natura del linguaggio come unica dimensione riflessiva a nostra disposizione.

227

Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 76-79 e p. 95

148

Il Tractatus. Letture neopositiviste, kantiane e risolute Un modo di pensare il rapporto tra senso e nonsenso è quello di considerarne il carattere come qualcosa di fortemente imparentato con la condizione umana. In questa chiave di lettura la nozione di limite si offre allo sguardo sia dall’interno che dall’esterno, con conseguenze divergenti. Esso, dal di dentro, costituisce una sorta di armatura logica che sentenzia i propri universali criteri di asseribilità; dal di fuori, invece, il limite illumina una regione che il nostro linguaggio è incapace di sfiorare. Questa premessa, che potrebbe avvicinarsi ad una lettura kantiana del Tractatus, si offre come spunto per rendere conto delle proposizioni finali dedicate all’etica, al mistico e al senso delle cose. Wittgenstein – come a questo punto sappiamo – posiziona questi temi al di là di ciò che è stato delimitato dall’interno e dunque oltre il limite entro il quale il linguaggio esprime pensieri sensati. Donatelli evidenzia228 l’importanza di soffermarsi sul modo in cui le letture di taglio neopositivista – con riferimento a R. Carnap in Il superamento della metafisica e alle posizioni di G. P. Baker P. M. S. Hacker – e quelle che potremmo definire kantiane, presentino risultati analoghi. Baker e Hacker, allineandosi parzialmente sulla linea di pensiero di Carnap, affermano229 che ogni linguaggio possibile è governato da un complesso sistema di regole della sintassi logica. Tali regole devono determinare le possibilità combinatorie dei simboli, e in questo modo delimitano le possibilità del senso. Le regole della sintassi logica, a loro parere, sono di due tipi. In prima istanza ci sono regole che determinano le modalità combinatorie delle proposizioni elementari attraverso i connettivi logici. In secondo luogo occorrono regole che determinano il modo in cui i nomi, che sono i rappresentanti degli oggetti, si combinano per formare proposizioni elementari. Ciò che accomuna tale interpretazione del pensiero di Wittgenstein a quelle kantiane è l’idea condivisa che il Tractatus si proponga di stabilire i requisiti di ciò che possiamo chiamare “linguaggio”. Donatelli osserva230che D.

228

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 29-30 Cfr. G.P. Baker, P.M.S Hacker, An Analytical Commentary on the Philosophical Investigations, II, Wittgenstein. Rules, Grammar and Necessity, Blackwell, Oxford 1985, pp. 34-41 230 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 30 229

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Pears, nel suo primo volume su Wittgenstein, afferma che la teoria del significato wittgensteiniana stabilisce certi criteri generali per le proposizioni elementari. “Vi deve essere un limite definito a ciò che viene asserito, e perciò vi deve essere un limite definito allo sguardo sulla realtà presentato da un’immagine o da una proposizione fattuale.”231 Pears riconosce nella teoria del significato esposta da Wittgenstein un carattere metafisico analogo a quello della Critica della ragion pura di Kant, ovvero indica che tanto nel Tractatus quanto nel testo kantiano gli autori si occupano di fornire dei punti di riferimento che giacciono al di fuori del sistema della conoscenza fattuale e che possono, trascendendola, orientarla. A parere di Donatelli, dunque, la differenza tra le letture neopositiviste e quelle kantiane concerne la natura dei requisiti stabiliti dalla teoria filosofica. Secondo le prime si tratta di requisiti convenzionalmente stabiliti, secondo le seconde essi sono invece necessari e mostrano il carattere fondamentale del pensiero e della realtà pensata. A dispetto di tale distanza circa i requisiti imposti per via teorica, entrambe le interpretazioni riconoscono nelle espressioni di Wittgenstein dei chiari contributi alla costruzione di una teoria del significato. Se è da considerasi errato accennare ad una regione dell’ineffabile lo è altrettanto concentrarsi esclusivamente su una zona della sensatezza, salvo non ci si lasci ingannare da ciò che sta in superficie. Questo genere di netto frazionamento del binomio dicibile – indicibile, offerto come punto di partenza per una esegesi del primo Wittgenstein, può venire derivato da una atrofia intellettuale che – per così dire – “manifesta un impellente bisogno di risposte”. Serviamoci di una affermazione di Erik Stenius: “Nel vocabolario logico – empiristico “insensatezza” significa qualcosa di puramente negativo. L’identificazione operata da Wittgenstein dell’inesprimibile con il mistico sembra mostrare che per lui insensatezza ha un carattere piuttosto

231

D. Pears, Wittgenstein, Viking Press, New York 1970, p. 65

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positivo. La parola tedesca Unaussprechlich non significa soltanto inesprimibile ma anche ineffabile.”232 Ciò che è battezzato come insensato sembra voler significare qualcosa di più denso del mero “essere inesprimibile”. Stenius sembrerebbe prendere alla lettera Wittgenstein, laddove sostiene che nell’opera sia espresso il modo per giungere ad una proposizione muovendo da costituenti semplici che non hanno, in partenza, a che vedere con il contesto generale della proposizione in cui essi vengono ad essere coordinati. In effetti Wittgenstein apre il volume con una serie di affermazione che ineriscono l’ontologia – il mondo, la sostanza del mondo, i fatti, gli oggetti semplici – e procede fino a includere nella propria disamina il linguaggio ed il rapporto che quest’ultimo intrattiene con il mondo. E’, pertanto, comprensibile le letture neopositiviste e kantiane – ma più generalmente quelle ortodosse – riconoscano un carattere manualistico al Tractatus, connotandolo come portatore di una teoria del significato. Giustificare questa interpretazione, tuttavia, non implica il farla propria e può anche dirsi che sia esattamente tale spontanea interpretazione a rendere possibile una risoluta lettura di segno opposto. La comprensione del testo non pare essere evidentemente connessa alla ricezione delle presunte dottrine in esso contenute e ciò sembrerebbe essere espresso da Wittgenstein nella proposizione 4.112: “Philosophy aims at the logical clarification of thoughts. Philosophy is not a body of doctrine but an activity. A philosophical work consists essentially of delucidations. Philosophy does not result in “philosophical propositions”, but rather in the clarification of propositions […]”233 Nello specificare quale intende essere lo spirito del lavoro, Wittgenstein sembra presagire – e sapere – che il suo libro verrà letto come un manuale, ovvero come un insieme di proposizioni filosofiche che debbono essere comprese e apprese da chi si sentirà in dovere di riconoscerne la cogenza argomentativa, la chiarezza

232

E. Stenius, Wittgenstein’s “Tractatus”: A Critical Exposition of its Main Lines of Thought, Blackwell, Oxford 1960, p. 223 233 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus, Routledge Classics, NY 2001, p. 29

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espressiva, il carattere dei nuclei teorici. Contrariamente a quanto appena detto, proprio manifestando – come in T. 4.112 – la propria intenzione, Wittgenstein dà l’impressione di richiedere al lettore un altro genere di attenzione. Si suppone che quest’ultimo sia invitato ad una lettura “intelligente” al punto da fargli cogliere che ciò che è esposto non è una teoria del significato – linguaggio. Ci troviamo, dunque, nel mezzo di un significativo crocevia, mostrato dall’attrito tra i sentori di Wittgenstein e le sue richieste al lettore. Attrito capace di rendere conto, in parte, del perché, tradizionalmente, il Tractatus sia stato interpretato come un’opera teorica. Resta però il fatto che, alla luce delle dichiarazioni dell’autore, è certamente lecito e necessario interrogarsi su quale lettura dell’opera si presti a non interpretarne il corpo come un insieme di teorie. Già nella Prefazione234 – quando Wittgenstein afferma che il delimitare il regno del linguaggio sensato offre come risultato il dissolvimento di ciò che sta oltre il limite – troviamo uno spunto interessante per interpretare le varie tematiche affrontate da un’angolatura differente. Larga parte degli esegeti, muovendo dal presupposto il Tractatus dovesse insegnare loro qualcosa di cui non erano già al corrente, ha dato per assunto che le proposizioni inerenti l’ontologia e il linguaggio, nonché intorno al modo in cui il linguaggio si connette al mondo raffigurandolo, si stessero offrendo come i pilastri su cui posare la comprensione linguistica. Nella prospettiva di chi rinviene una dottrina del Tractatus, sostengono gli interpreti risoluti, le affermazioni sulla natura del mondo e sul linguaggio sono, insomma, la spiegazione del come una proposizione acquisisce senso e del come è compresa durante un atto di comprensione. Tale approccio risale dall’atomico verso il molecolare, nel senso che deduce la sensatezza di una proposizione nel suo complesso dall’analisi di componenti atomici – come i nomi semplici e gli oggetti semplici – di per se stessi estranei al regno della sensatezza linguistica. La prospettiva cambia se piuttosto che cercare una soluzione a un problema – come quello del tracciare i limiti entro cui confinare ciò che può essere detto

234

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 23

152

sensatamente – ci si offre alla possibilità di volere vedere le difficoltà non “risolversi” ma “dissolversi”. Davanti ad un problema con la natura delle proposizioni, gli esegeti ineffabilisti – tradizionalisti non sembrano poter resistere al movimento del pensiero che richiede una soluzione a quel problema. Tuttavia Wittgenstein non esita, già nella prefazione all’opera, a sottolineare che i problemi filosofici sono frutto di fraintendimenti del nostro linguaggio, dando la sensazione di alludere al fatto vi sia un problema ma che la natura di questo problema è resa vischiosa dal modo in cui la stessa filosofia si occupa d’esso. Posto così l’intento dell’opera si presta ad una interpretazione centrata sull’intenzione di giungere non a soluzioni garantite dalla filosofia – tradizionalmente intesa quale corpus di proposizioni con scopo educativo – ma a dimostrazioni235 dell’inefficacia del metodo filosofico. Guardando al Tractatus da questa prospettiva esegetica possiamo evidenziare, sostiene Donatelli236, il venir meno dell’apparente bisogno di intendere l’opera come una teoria che renda conto del modo in cui una proposizione, presa nella sua interezza, appartenga alla regione del sensato pur essendo una coordinazione di elementi pre – proposizionali che assolvono solo la funzione di stare per oggetti semplici nel mondo. Ci imbattiamo, insomma, sia in studi di taglio ortodosso che attribuiscono all’opera un contenuto dottrinale sia in letture risolute, quale del resto è quella di Donatelli, propense al vedere il problema svanire, una volta assunto il lavoro filosofico consti di delucidazioni e cenni – inviti al lettore – piuttosto che di stringate spiegazioni. Quando si menziona il termine spiegazione, esso mostra una certa analogia con la parola risposta. Wittgenstein scrive nel Tractatus, come detto, che lo scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri, ma non si esime anche, nella sua menzionata lettera a L. von Ficker, dal sottolineare l’opera consti di due parti, ovvero quella che è stata scritta e quella che non lo è stata. Quando si dice che il libro traccia i limiti dell’etico – di ciò che non si può dire – dall’interno a cosa si allude se si tiene conto che l’etico è ciò di cui Wittgenstein, nel testo, esprime solo il carattere trascendentale ed ineffabile?

235

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 36 Ibidem

236

153

A parere di Cora Diamond237è fuorviante pensare di tracciare i limiti dell’etico dall’interno, specie considerata l’intenzione del libro, ovvero quella di chiarificare ciò che pensiamo, diciamo e facciamo. Se tale è l’intenzione di Wittgenstein, e pare esserlo, in che modo l’attività filosofica può offrire una chiarificazione del pensiero e delle proposizioni etiche passandole sotto totale silenzio? Diamond offre, a tal proposito, una esegesi238 assai profonda, rifacendosi all’analogia che Wittgenstein riconosce tra l’effetto di un’opera d’arte e quello di un’opera filosofica. Una melodia, un dipinto o una poesia hanno il potere di incidere sulla prospettiva del fruitore, mutando l’interpretazione che egli può dare dell’opera d’arte e altrettanto sa fare l’opera filosofica. Possiamo pensare che un’opera d’arte mostri un certo argomento anche quando essa non lo fa espressamente – ovvero ci induca a riconoscere nel particolare una qualche forma di estensione verso una forma di universalità – soggettiva. A tal proposito si incontrano, già prima della pubblicazione del Tractatus, degli scritti giovanili wittgensteiniani sulla relazione corrente tra etica ed estetica. L’opera d’arte, egli sostiene intorno al 1916, è l’oggetto osservato sub specie aeternitatis così come la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. L’opera d’arte – si faccia attenzione – offre l’opportunità di guardare ad essa dall’esterno, antiteticamente rispetto a quanto siamo soliti fare, ovvero al guardare le cose dall’interno. Ciò che preme sottolineare è che osservare un’opera d’arte dall’esterno la connota spazialmente all’interno di uno sfondo che altro non è che il mondo nella sua interezza. L’artefatto – o la meraviglia naturale – possiede la capacità di evocare qualcosa di diverso da ciò che essa sta mimeticamente – e strutturalmente – rappresentando. Si ripensi al piacere con cui Wittgenstein lesse la poesia di L. Huland Il biancospino del Conte Eberardo, considerata un esempio efficace del rapporto tra sagen e zeigen. Esempi di questa sorta sono assai utili a cogliere la relazione tra opera d’arte ed etica, se si riesce a coglierne l’aspetto figurativo che viene a collegarsi alle nostre pratiche linguistiche. Nel momento in cui catturiamo con il pensiero il carattere che noi abbiamo riconosciuto ad un’opera d’arte, essa cessa di

237

Cit. in J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, pp. 100-101 238 Ibidem

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essere la mera produzione di un artista, o un semplice oggetto tra gli oggetti complessi presenti in natura. E’ questo il genere di visuale universale che può guadagnarsi nel caso di un prodotto artistico e che – da qui siamo partiti – si ritrova nel lavoro filosofico applicato al mondo. Serve ora tentare di sviscerare, come il lavoro filosofico sappia trasformare la nostra prospettiva sul mondo e a tal fine si può riferirsi ad alcuni passaggi del Quaderni, in cui è descritto il nostro abituale modo di vedere le cose dall’interno prima della trasformazione che induce la nostra prospettiva a posizionarsi al di fuori del mondo – come potrebbe immaginarsi agire lo sguardo di un volatile che, planando, osservi dall’alto verso il basso un tutto delimitato –. Il lavoro filosofico sortisce i suoi effetti, osserva Diamond239, se riesce nell’intento di “tirarci fuori dal mondo di cose in cui siamo immersi”. Essere “dentro” un mondo implica averne una certa visione, nonché il possedere una particolare presunta conoscenza di esso, delle sue parti, delle parole che utilizziamo per parlarne. All’interno di questa bolla di sapone non facciamo altro che pensare – e dire – che le cose stanno “così e così”, e se anche immaginiamo che le domande, e le risposte, della filosofia abbiano una forma e una profondità diversa da quelle delle proposizioni della scienza naturale non facciamo altro che illuderci di avere padronanza di una differenza della quale non abbiamo alcuna cognizione. Confondendo – nell’atto di appagare il bisogno di trovarci in qualche modo in pace rispetto alle nostre più cogenti questioni vitali – la dimensione del dire con il compito della filosofia, mal interpretiamo l’etico. Riteniamo che le questioni che investono il significato della vita, della morte, di ciò che esiste, del bene ecc., differiscano in qualche modo dalle domande di carattere scientifico ma perseveriamo a credere sempre che ciò di cui andiamo in cerca sia un corpo di risposte ad un certo tipo di domande. In buona sostanza insistiamo a posizionarci dentro il nostro mondo – esclusivamente descrivibile all’interno della dimensione del dire – con la cui destabilizzante accidentalità allacciamo una relazione fondata sulla dialettica fra domanda e risposta. Il problema a cui si fa riferimento sta nel carattere delle risposte: da esse ci si aspetta l’aggiunta di qualcosa alle nostre

239

Ibidem

155

conoscenze ma a patto il nostro quadro generale, osserva ancora Diamond240, non ne venga stravolto. La dimensione interna è definibile con un “dimorare nel mondo della sensatezza”, entro i cui limiti poniamo interrogativi e vi rispondiamo senza discostarci dalla dimensione descrittiva del linguaggio. Viene alla luce un dilemmatico rapporto con la nozione di “senso” allorché siamo come immersi in esso. Il senso, benché sia una nozione che sta sullo sfondo del nostro orizzonte conoscitivo assolve – come dire – una funzione normativa anche in assenza di una chiara idea dello statuto ontologico del suo stesso concetto. Esso ricorda l’idea di “divinità” per via della sua inconoscibilità e del carattere normativo da esso esercitato. Si provi a immaginarsi all’interno di una stanza in cui sono contenuti un certo numero di oggetti con i quali intratteniamo delle relazioni cognitive coordinate, logicamente, all’ambiente in cui vi entriamo in contatto. In una situazione limitata come questa la nostra prospettiva è – come dire – resa “miope”, intendendo che essa non sa spingersi oltre la descrizione del perimetro che delimita il mondo di parole, oggetti – e relazioni tra essi – e concetti a cui ci riferiamo senza osare pensare come apparirebbe questo spazio d’abitabilità e dicibilità se guardato dal di fuori. Wittgenstein presentandoci il carattere descrittivo – sensato di ciò che diciamo, ci offre l’opportunità di fare un passo indietro rispetto al mero “domandare e accumulare risposte.” Nelle sue intenzioni retrocedere rispetto al binomio domanda/risposta, ha strettamente a che vedere con il guadagnare una visione differente del cosa significhi occuparsi di filosofia. Ciò che viene emergendo è dunque una duplice trasformazione che investe tanto la visione tradizionale della filosofia quanto quella dell’etica ed allo stesso tempo illumina il legame inscindibile tra questi due ambiti speculativi. Nel 1929241 Wittgenstein accenna alla cogenza del porre fine alla chiacchiera sull’etica ma tale invito coesiste con il dichiarato bisogno di tenere in massima considerazione la tendenza umana a tentare di formulare proposizioni in grado di rispondere alle più penetranti

240

Ivi, p. 102 Cfr. Testo della Conferenza sull’etica, in L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001 241

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domande sul senso della vita. Cora Diamond sostiene242 che laddove Wittgenstein denigra l’usuale modo d’occuparsi d’etica egli stia prendendo le distanze dai Principia Ethica di G. E. Moore, intendendo evidenziare come i discorsi sulla sfera morale incoraggino l’incapacità di vedere il mondo correttamente. Spingendo avanti le osservazioni di Cora Diamond, potremmo affermare che la naturale tendenza a spingersi oltre i limiti del linguaggio significante sia la manifestazione dell’idea che le espressioni sensate non possono soddisfare il naturale desiderio di parlare del valore autentico delle cose, del bene, del male, del senso del mondo e del nostro stesso senso in riferimento a quest’ultimo. Il tentativo di comprendere ciò che ha valore non trova soddisfazione “nel” mondo. Ecco che l’attività filosofica, chiarificando la regione delle espressioni sensate per via logica, svolge un compito etico ovvero riesce a porre davanti ai nostri occhi i lineamenti del linguaggio significante dall’interno, senza assumere posizioni da una eventuale distanziata prospettiva filosofica. Quanto più chiaramente, dichiara Diamond243, vediamo il linguaggio tanto più perspicuamente capiamo che, in etica, nessuna espressione sensata sa fare ciò che vorremmo. Su questa linea di pensiero si posiziona Donatelli affermando244 che l’attività filosofica che viene portata a termine nel Tractatus delimita l’etico dall’interno, lasciando emergere in modo evidente quanto il lavoro sulla logica sia in realtà un lavoro sull’etica. Si ritiene utile accennare anche a un documento di James Conant, propriamente rivolto a chiarire che tipo di critica i lettori risoluti rivolgano alle interpretazioni tradizionaliste. La lettura standard – ortodossa del Tractatus, sostiene Conant245, è concentrata su un cento modo di intendere la distinzione tra ciò che può essere detto e ciò che può solo essere mostrato. La forma logica, per esempio, che una proposizione deve avere in comune con lo stato di cose che l’enunciato raffigura non può essere detta; essa è invece mostrata nell’espressione che la contiene. A questo punto sembrerebbe essere stato assunto possa affermarsi si dia il fatto che

242

J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 102 243 Ivi, p. 103 244 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 67-68 245 Cfr. J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, pp. 46-49

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ogni proposizione dotata di senso possiede una forma logica. Tuttavia attribuire alla forma logica lo statuto di un fatto induce ad ammettere l’esistenza di almeno due tipi differenti di fatti, ovvero quelli che compongono la realtà empirica – di cui si può parlare sensatamente – e quelli del tipo “il fatto che la forma logica esiste”, di cui non si può parlare. I secondi finiscono per essere intesi dagli esegeti ortodossi come “quasi – fatti”, ovvero qualcosa che somiglia a un fatto poiché lo possiamo pensare in modo corretto o scorretto ma che giace a un livello troppo profondo, strutturale, perché di esso si possa dire qualcosa per via raffigurativa. Accade, secondo Conant246, che chi legge in modo “standard” il Tractatus risolve i “quasi – fatti” in questioni che il nostro pensiero cerca, invano, di afferrare se esso si occupa della struttura interna del linguaggio e del mondo, ovvero di un “qualcosa” che è collocato troppo in profondità (rispetto a un fatto descrivibile) perché se ne possa parlare. L’impossibilità che il linguaggio raffiguri “quasi – fatti” viene interpretata come una limitazione del linguaggio. Tuttavia trattasi di una limitazione che la critica irresoluta tratta in modo particolare, ritenendola “necessaria”. Essa infatti porta avanti l’idea che quando cerchiamo di formulare proposizioni sulla forma logica stiamo provando ad enunciare i presupposti essenziali di qualsiasi linguaggio dotato di senso. A questo punto il carattere “non contingente (anzi necessario) dei limiti del linguaggio” serve a sostanziare la tesi secondo cui cercando di descrivere i presupposti essenziali di ogni linguaggio significante si violano le condizioni che rendono possibile il discorso sensato. Leggendo il Tractatus in questo modo, come farebbe la lettura ortodossa, lo si espone ad una obiezione definita da Conant247 “devastante”: il testo “dicendo” come la forma logica viene mostrata, presuppone l’esistenza di un linguaggio illogico che, secondo quanto esso mostra, è capace di fare ciò che la “necessaria limitazione” prima menzionata dovrebbe impedirgli. Per aggirare questa impasse il libro viene letto come il tentativo di suggerire indirettamente ciò che esso non può esprimere direttamente. Si intende quindi che esiste, in profondità, un insieme di quasi – fatti ineffabili verso cui si può almeno dirigere l’attenzione per mezzo delle proposizioni insensate che compongono l’opera. Assolvendo tale funzione i

246

Ibidem Ibidem

247

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nonsensi del Tractatus ci consentirebbero di vedere rettamente il mondo. Il nucleo problematico viene così spostato, ritiene Conant248, dalla questione che riguarda ciò che può essere pensato ed espresso a quella che concerne il mostrare certi contenuti ineffabili. L’impressione che l’obiezione “devastante” venga così risolta è, a parere suo, una mera illusione indotta, almeno in parte, dall’uso strategico che svariati interpreti, fedeli alla lettura standard del Tractatus, usano fare di alcuni espedienti atti a produrre confusione e a “sottrarsi ai problemi di fondo”. Uno di questi è il porre tra virgolette alcuni termini (“verità”, “fatto”), in modo da potere impiegare un concetto senza dover spiegare in che accezione lo si sta utilizzando. Un altro espediente assai frequente è la rassicurante espressione “in senso stretto”, in frasi del seguente tipo: “Se le proposizioni delucidatorie del Tractatus sono nonsensi, come possiamo comprenderle? Esse sono insensate “in senso stretto”, però non sono meri nonsensi: esse costituiscono invece una forma profonda di nonsenso impiegabile per comunicare un certo tipo di conoscenza.” Nel Tractatus, non compare alcuna distinzione esplicita tra “mero nonsenso” e “nonsenso profondo”. Nonostante ciò gli interpreti irresoluti sostengono249 che tale formulazione è indispensabile perché si renda comprensibile ciò che il testo vorrebbe dire, se solo potesse. In questo modo si afferma il pensiero che il libro di Wittgenstein si regga in piedi tramite l’assistenza dei suoi commentatori.250

248

Ibidem Cfr. Max Black, Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1967, pp. 360-363 250 Cfr. Cfr. J. Conant, C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, P. Donatelli (a cura di), Carocci, Roma 2010, p. 49 249

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Etica normativa e discorsi meta – etici L’influenza della filosofia d’area anglosassone che corrisponde, in larga misura, a quell’impostazione filosofica detta analitica, ha offerto, a partire dall’inizio del ventesimo secolo, disamine chirurgiche in pressoché ogni ambito speculativo. Tale preminente apporto della filosofia di lingua inglese incide in modo evidente anche in campo etico e può addirittura dirsi che la tradizione analitica si offra come riferimento fondamentale nell’odierna ricerca in campo morale. Volendo sintetizzare i caratteri di questo approccio alla filosofia, non possiamo non menzionare la sua caratteristica attenzione per il linguaggio, per la chiarezza espositiva, per l’argomentazione rigorosa e per la centralità da essa riconosciuta alla scienza quale argomento sopra cui imperniare ogni esperienza conoscitiva. Noti filosofi di Cambridge di inizio ventesimo secolo, tra i quali G. E. Moore, B. Russell e – naturalmente – Ludwig Wittgenstein, anche ponendo non ne siano stati i padri fondatori, hanno segnato fino in profondità la natura di questa tradizione. Coerentemente con il nucleo teoretico di questo lavoro, ritengo decisivo, ai fini di una comprensione perspicua del nodo problematico rappresentato dalla diade Wittgenstein – etica, posare lo sguardo sull’approccio analitico all’etico. Tra i caratteri ineludibili della metodologia in oggetto incontriamo la tematizzazione della distinzione tra i diversi livelli d’analisi, ovvero tra i differenti piani entro cui l’indagine etica si muove. Un primo grado d’analisi è quello di carattere normativo e valutativo, ossia quello nel quale in funzione di determinati criteri e standard – normativi o valutativi – giudichiamo determinati caratteri, persone e azioni, come giusti o buoni, indirizzandoci verso una forma di comprensione condivisa di cosa, per esempio, sia doveroso fare e di cosa sia imperativo non fare. Questo primo livello d’analisi prende il nome di etica normativa. Un secondo grado dell’indagine etica si è invece concentrato su aspetti che paiono non riguardare primariamente eventuali giudizi di valore sopra le persone e le loro prassi comportamentali, orientandosi verso lo studio di fattori concettualmente importanti per comprendere lo statuto dei giudizi morali e di quelli di valore, ovvero, in buona sostanza, lo statuto dell’etica stessa in toto.

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Tale secondo livello, detto già dalla metà del novecento “meta – etica”, si propone come un discorso sull’etica, ergo non si presenta come un insieme di proposizioni dal carattere normativo ma come una indagine che pone sotto esame: 

Questioni di tipo semantico ossia di comprensione del significato delle proposizioni dell’etica per come sono esse espresse in rapporto al mondo.



Questioni di tipo ontologico che si interrogano sulla natura oggettiva, o meno, dei principi etici e dei concetti ad essi interconnessi.



Problematiche d’ordine logico e d’inferenza nei discorsi su norme e valori.

La dimensione del linguaggio si presta all’approcciarsi all’ambito dei fatti e a quello dei valori. E’, difatti, piuttosto evidente le pratiche linguistiche contengano varie forme di discorso, funzionali in modi differenti.251Da quando l’analisi del linguaggio ha iniziato ad interrogarsi sul modo in cui le proposizioni esprimono valori, è – come dire – venuta sostanziandosi una categoria del discorso, appunto quello normativo, qualificato da precise caratteristiche e di rimando diverso dagli altri ambiti discorsivi. Approfondendo la questione, potremmo individuare due tipi principali di discorso, ovvero: 1. quello normativo, prescrittivo, precettivo, direttivo. 2. quello descrittivo, dichiarativo, assertivo, indicativo. In effetti queste due regioni della sfera del linguaggio si distinguono, in prima istanza, per la funzione che le loro proposizioni assolvono. Ammettendo la dicotomia presentata potremmo legare il discorso descrittivo alla sfera dell’essere, e quello normativo a quella del “dover essere” – includendovi l’insieme degli enunciati che contengono il verbo “dovere” e ne implicano la negazione, ossia il “non dovere”. Se la funzione del linguaggio descrittivo è quella di descrivere uno stato di cose, o potremmo dire “qualcosa che è (nel mondo)”, ciò non accade affatto con il linguaggio prescrittivo. Laddove il linguaggio si fa veicolo di valori,

251

L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Carocci, Roma 2006, p. 223

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o per rimanere coerenti alla nomenclatura usata, di doveri, esso mostra la peculiare caratteristica di non poter esser ridotto a neutra descrizione di fatti o azioni, ma di essere funzionale all’intenzione di mostrare ciò che sia giusto – o sbagliato – fare, nonché all’influire sulle condotte altrui. Mentre il linguaggio descrittivo può anche riguardare la raffigurazione di azioni, quello prescrittivo non si interessa d’altro che di come “si agisce”. Menzionare quali siano gli oggetti di questi due ambiti del linguaggio serve a illuminare un altro aspetto: il linguaggio prescrittivo, normativo, direttivo e precettivo non è una composizione di proposizioni il cui unico oggetto è la dimensione etica. E’ evidente, infatti, come questo uso del linguaggio trascenda la sfera morale per applicarsi in altri ambiti, certo imparentati con quello morale ma dotati di una propria autonomia, quale quello giuridico, per esempio. Si nota che uno dei modi, da Platone ad oggi 252, maggiormente utilizzato per porre a tema la coppia “dovere – essere” è quello di considerare il “dover essere” una forma particolare dell’essere. Da ciò emerge il carattere problematico insito nel discorrere di tali, filosoficamente preminenti, nodi concettuali ed esistenziali. “Dover – essere” ed “essere”, valori e fatti: questa si presenta come la netta divisione tra due ambiti tradizionalmente strettamente imparentati. Come già evidenziato, ma si ritiene opportuno ricordarlo, è con una indagine di secondo livello, rispetto a quella normativa, che si presentano nuclei problematici d’altro spessore. La meta – etica, si interroga, lo ripetiamo, sull’oggettività, la natura – e dunque lo statuto ontologico – delle proposizioni dell’etica, indipendentemente dal contenuto specifico degli enunciati o dei giudizi esaminati. Tale indagine di secondo livello sembra proporsi in modo maggiormente neutro rispetto al metodo dell’etica normativa, ma si tenga presente che, complice il terreno scivoloso su cui si procede addentrandosi in questo ambito di ricerca, i piani del discorso possono venire a sovrapporsi e, perlomeno, non essere delimitati da confini netti, con esiti teorici e posizioni assai differenti. Nell’ottica di questo lavoro i risultati a cui la deriva analitica giunse dovrebbero essere considerati metodologicamente inficiati da un errato svolgimento del 252

Cfr. Luca Fonnesu, Dovere, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze) 1998, p. 21

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lavoro filosofico, a sua volta corrotto in partenza dalla pretesa di utilizzare il linguaggio descrittivo per dire ciò che può essere mostrato. E’ plausibile credere Wittgenstein avrebbe manifestato il proprio dissenso invitando chiunque abbia discorso d’etica a comprendere che su essa non si poteva chiacchierare.

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A quale tipo di chiacchiera sull’etico occorre porre fine? Una sinossi dell’approccio mooreano all’etica si propone come funzionale a rispondere alla domanda posta. Pubblicati nei primissimi anni del ventesimo secolo, I Principia Ethica costituiscono una novità nel modus di riflettere sull’etica e sul significato dei suoi termini. In apertura G. E. Moore rimarca che in etica, come in tutti gli atri ambiti filosofici, le frequenti aporie a cui il filosofo va incontro sono dovute ad una impasse di tipo logico e metodologico, ovvero al tentare di rispondere a delle domande senza aver ben chiaro a quali domande si voglia rispondere. Risulta dunque preliminarmente indispensabile fare chiarezza in tal senso attraverso l’analisi, così da rendere la comprensione dei termini che si sono rintracciati cristallina. In assenza di una visione limpida dei costituenti ultimi del problema, ciò che è messo in questione nasconde se stesso. Sebbene Moore non abbia considerato l’analisi come l’unico metodo possibile per l’attività filosofica, sarebbe poco fertile credere di aggirare in altro modo la comprensione di un problema senza averlo anticipatamente scomposto nelle sue componenti non ulteriormente irriducibili. Occuparsi filosoficamente d’etica significava per Moore indirizzarsi verso un particolare tipo di conoscenza, ovvero verso la conoscenza di tipo morale. In effetti benché sia certamente compito della ricerca in campo etico quello di occuparsi della verità delle proposizioni etiche e delle ragioni che soggiacciono alla formulazione di proposizioni di questo genere, si può concordare con Moore nel sostenere che l’indagine etica non possa essere contenuta all’interno di un perimetro tanto ristretto da non consentire di portarsi oltre lo studio del carattere, eticamente corretto o meno, delle persone e dei loro atti ed enunciati. Intendere l’etica quale disciplina filosofica autonoma deve allora includere – senza poterla eludere – la ricerca della definizione del termine “Buono”. Nei Principia Ethica il concetto di “Buono” è fondativo, poiché è da esso che derivano altre nozioni di carattere etico, come ad esempio quella di “Dovere”. Il nucleo teorico dei Principia consiste nell’indefinibilità di “Buono”.

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“Se mi si chiede “cosa è ‘buono’?”, la mia risposta è che buono è buono, e qui si chiude la questione. Ovvero: se mi si chiede come si deve definire “buono”? la mia risposta è che non può essere definito, e ciò è tutto quello che ho da dire”253 L’indefinibilità linguistica di “Buono” non ne è l’unica qualità precipua, difatti essa si posa sul fatto “Buono” sia per Moore non una nozione complessa, e dunque analizzabile, ma semplice – atomica – non ulteriormente scomponibile. Trovandosi di fronte a nozioni di per se stesse semplici, come “Buono” o “Blu”, non possiamo spiegare a chi già le conosce cosa esse siano poiché solo ciò che è complesso è definibile per via compositiva. Non possiamo definirle come faremmo con il concetto complesso di “Cavallo”, scomponibile nelle diverse parti e qualità che caratterizzano l’animale di cui si possiede il concetto. Ne segue che sia nel caso del “Blu”, un predicato semplice e naturale, sia nel caso di “Buono”, predicato semplice ma non naturale, siamo ineluttabilmente incapaci di offrire definizioni. Il percorso logico di Moore verrebbe a dissolversi solamente nel caso si acquisissero come vere due possibilità, entrambe categoricamente rifiutate dal filosofo: che il concetto di “Buono” sia complesso oppure che il termine “Buono” non sia significante. Il suo ragionamento mostra un carattere non solo critico verso metodologie filosofiche che precedettero il prender forma della deriva analitica, ma anche costruttivo. La pars construens, in tal senso, consiste nel servirsi dell’indefinibilità e della semplicità di “Buono” per difendere lo statuto autonomo dell’etica e della sua terminologia. L’intenzione di ricavare una definizione di “Buono”, di “dire” alcunché di supposte proprietà di tale concetto semplice, è da Moore definita una fallacia naturalistica, anche quando, come nel caso di “Buono”, non si tratti di concetti e proprietà naturali. Con Moore, e fino ai giorni nostri, il termine “naturalismo” non indica più necessariamente il tradizionale spiegare i fatti per mezzo di processi fisici, naturali – in contrapposizione con le spiegazioni metafisiche che ricorrono a qualcosa che trascende la natura stessa per giustificare i fenomeni –, ma la posizione che deriva un valore da una descrizione e viceversa.

253

G. E. Moore, Principia ethica, cit. in Luca Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica. Carocci 2006, p. 226

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Si richiede un chiarimento espositivo in merito a ciò che abbiamo appena definito “naturalismo”. Quello meta – etico è una forma di cognitivismo che rifiuta la ferrea divisione tra fatti e valori, sostenendo l’idea il piano dei primi possa essere riportato a quello dei secondi e viceversa. Si sottolinea che i fatti da cui il paradigma naturalista deriva conclusioni normative e prescrittive, non sono fatti necessariamente empirici – naturali, ma possono essere di tipo spirituale, religioso, metafisico. Questa sottolineatura vorrebbe far risaltare una frequente imprecisione nell’uso del termine naturalismo di cui un esempio può operare da chiarimento. Una forma di naturalismo meta – etico, sovente criticata in senso negativo, è quella di Herbert Spencer, il quale, nel secondo ottocento, sulla base di una presunta legge dell’evoluzione biologica e di quella storico – sociale, posata sull’assunto i forti sopravvivono e i deboli periscono, provò a trarre la conclusione prescrittiva che “i forti devono sopravvivere e i deboli debbono soccombere”.254 Tornando a Moore, dunque all’intuizionismo, è possibile utilizzare una immagine visiva per raffigurarne la posizione: se un tale, durante una passeggiata, vedesse mostrarsi gradualmente un castello oltre una collina, dalla parte superiore della torre più alta verso il basso, si aspetterebbe che sotto il castello vi sia il terreno su cui esso è stato costruito. Il noto quadro di Magritte “Il castello dei Pirenei” (1959) mostra una raffigurazione utile a dare plasticità alla critica di Moore verso chi si aspetta di trovare qualcosa al di sotto di ciò che è di per sé semplice, quale il “Buono”. Possiamo dire che Moore, nei Principia ethica, veda una dicotomia tra fatti e valori, offrendo una lettura intuizionistica dell’etica basata sull’assunto il “Buono” sia un concetto semplice, non analizzabile, non descrivibile ma solo intuibile per mezzo di una intuizione non empirica. Tale distinzione tra fatti e valori sarà fortemente presente nella riflessione wittgensteiniana contenuta nel Tractatus logico – philosophicus e in altri luoghi della sua bibliografia postuma, tra cui il testo della nota Conferenza sull’etica del 1929.

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Cit. in Luca Fonnesu, Dovere, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1998, p. 27

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Se questo è forse uno dei pochissimi punti di tangenza tra il lavoro di Moore e quello di Wittgenstein è altresì evidente non si possa tendere un ponte tra i rispettivi approcci metodologici. In Moore riluce quel genere di discorso sopra l’etica, ovvero articolato per mezzo di proposizioni descrittive, avversato da Wittgenstein. Nella fattispecie sembra del tutto inconciliabile con il carattere trascendentale dell’etico espresso nel Tractatus, “chiacchierare”, come si ritiene Moore faccia, servendosi di descrizioni in merito a ciò su cui occorre tacere per ragioni d’ordine logico. Fu in quel di Oxford che l’intuizionismo meta – etico si sviluppò particolarmente, con H. A. Prichard e W. D. Ross, seguendo, ampiamente, la strada tracciata da Moore. E’ possibile elencarne alcuni assunti fondamentali: 1. Il “Buono” possiede un carattere irriducibile, ossia non analizzabile. 2. Il “Buono” è dotato di valore intrinseco ergo esso è solo intuibile ma non è mai descrivibile, argomentabile, poiché solo ciò che complesso può essere chiarito – spiegato. 3. I giudizi morali non possono essere ridotti a mere proposizioni soggettive, pena tentare di dire ciò che non è descrivibile attraverso un linguaggio descrittivo, quale è quello della psicologia, per esempio. 4. L’intuizionismo rigetta il naturalismo, ovvero l’ammettere che enunciati valutativi o prescrittivi possano essere derivati da enunciati descrittivi e viceversa. 5. Gli intuizionisti ritengono che i giudizi morali siano dotati di un valore di verità e possano, dunque, essere veri o falsi, qualora essi corrispondano o meno ad un fatto morale. La loro meta – etica è dunque una posizione cognitivista. Con il termine cognitivismo si intende un approccio secondo cui gli enunciati morali posseggono il medesimo status di quelli attraverso cui esprimiamo una conoscenza, ovvero quelli delle proposizioni descrittive delle scienze naturali. Ciò implica che il nostro proferire frasi indicative – valutative, come “Ludwig è buono”, è soggetto ad un processo di verificazione che rende gli enunciati veri o falsi. Perché le proposizioni valutative siano vere esse devono corrispondere ad un

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determinato fatto morale oggettivo, esistente di per sé e non solo per noi. Ne segue che il cognitivismo postula l’esistenza di fatti morali oggettivi, quali il fatto che “il genocidio è sbagliato” o il fatto che “è giusto aiutare il più debole”. La verità o falsità degli enunciati morali si deriva dalla concordanza o discordanza delle proposizioni morali con/da fatti morali ontologicamente autonomi. Una formulazione particolarmente chiara del cognitivismo etico, o realismo filosofico – morale, si trova nelle Memorie di una casa morta di F. M. Dostoevskij255: “Ma, nonostante ogni possibile punto di vista, ognuno consentirà che ci sono dei delitti che sempre e dappertutto, secondo tutte le leggi possibili, fin dal principio del mondo si 256 sono stimati incontestabili delitti e tali si stimeranno finché l’uomo rimarrà uomo” .

Si sottolinea che, al di là dei numerosi punti di contatto elencati, l’intuizionismo meta – etico di Prichard e Ross affianca alla nozione centrale di “Buono”, quella di “Giusto” e di “Dovere” morale. Si noti che nel corso della seconda metà del novecento il dibattito in campo etico ha messo in evidenza una insufficienza dell’approccio meta – etico intuizionistico, nonché la possibilità di riabilitare il naturalismo avversato da Moore. Nel testo della Conferenza sull’etica del 1929, Wittgenstein sottolinea il carattere non conoscitivo dell’etica, affermando che l’etica “non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza.”257 E’ possibile leggere in questa affermazione una critica rivolta a Moore, il quale attribuiva piuttosto chiaramente uno statuto scientifico – cognitivista all’etica, conferendole la capacità di insegnare qualcosa sul “perché qualcosa nel mondo è come è”. Dovrebbe risultare evidente quanto tale intento teorico mooreano – sostanziato da fatti etici nel mondo e corrispondenti enunciati morali sottoponibili a processi di verificazione – entri in conflitto con il carattere contingente della totalità degli stati di cose per come intesi da Wittgenstein. L’interesse per l’etico – formulato da Moore – sembra desiderare vi sia una domanda giusta a cui dare una risposta 255

Rafael Ferber, Concetti fondamentali della filosofia, Einaudi, Torino 2009, p.139 F. Dostoevskij, Memorie di una casa morta, Rizzoli, Milano 2004, parte I, cap. I, p.26 257 L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, (a cura di Ranchetti), Adelphi, Milano 2001 256

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esaustiva e rassicurante. L’autore dei Principia Ethica si mostra, agli occhi di Wittgenstein, come consenzientemente immerso nella dimensione del descrivere – dire – offrire risposte da una distanziata prospettiva filosofica. Approcciarsi ai problemi maggiormente cogenti dell’esistenza costruendo un edificio intellettuale posato sull’esistenza di proposizioni capaci di corrispondere a fatti etici, la cui esistenza è spiegata da un enunciato della dimensione del dire, si offre, a parere di Wittgenstein, come un metodo di ricerca privo del coraggio di affondare le mani nelle acque più torbide per vedere se – il che non è detto – sotto v’è qualcosa. Peter Geach, filosofo britannico e professore di logica all’università di Leeds, muovendo dalla speculazione di Moore, e nello specifico dalla sua nozione di “Buono”, si è occupato di rendere chiara una distinzione tra aggettivi meramente predicativi, quali l’uso di “Blu” con funzione predicativa, e aggettivi quali “Buono” afferenti alla sfera etica e non assimilabili a termini che predichino qualità naturali di un soggetto. A suo parere la funzione di un aggettivo quale “Buono” è attributiva, ovvero tale qualità viene attribuita in forma predicativa ad un individuo a patto egli possegga determinate caratteristiche irrinunciabili. Pertanto la proposizione “Paul Klee fu un buon pittore” diviene comprensibile – e interpretabile – presupponendo certe caratteristiche ineludibili del soggetto – nella fattispecie la padronanza di spiccate capacità pittoriche o l’attenersi ai canoni entro cui collocare il genere astratto – a cui viene attribuito un predicato della regione morale del discorso. Distinguere la funzione predicativa da quella attributiva vuole mettere in rilievo un’insufficienza teorica da parte di G. E. Moore, ritenuto colpevole di avere arrestato l’analisi della nozione di “Buono” ad un livello superficiale, per via della rinuncia ad osservare secondo quali dinamiche tale predicato diviene intelligibile durante la sua attribuzione o la sua comprensione. La proposta wittgensteiniana di porre fine alla chiacchiera sull’etica – cioè di emancipare l’etico dalla dimensione linguistica del “dirne” qualcosa in veste teorica – mostra evidenti segni di sé nelle ultime proposizioni del Tractatus, proprio laddove – il riferimento è evidentemente ancora alla 6.54 – l’autore dichiara che solamente chi avrà superato – e riconosciuto come insensate – le

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proposizioni dell’opera vedrà dissolversi il problema che affligge chi persevera nel non intendere in che modo l’etico si illumini per via logica.

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Etica e intuizionismo Potremmo provare a considerare l’intuizione etica come caratterizzata da un atto di percezione – non assimilabile alla percezione sensibile – rivolto verso contenuti non empirici. Proseguendo su questa via interpretativa finiremmo per elaborare un’altra possibile variante ineffabilista, ovvero l’intuizionismo etico. Esso può essere inteso secondo due caratterizzazioni peculiari: 1. Secondo l’idea mooreana di un atto di percezione rivolto da un soggetto ad un contenuto atomico, non empirico, nel corso di una esperienza in cui è coinvolta la sfera dei valori. 2. Secondo l’immagine della percezione di una verità morale che si rende disponibile alla mente in maniera non inferenziale, ovvero la cui verità non è derivata, come in H. A. Prichard. Una lettura dell’etica di Wittgenstein in accordo con la nozione mooreana descrive il sentimento etico – ma anche quello estetico e quello mistico in generale – come un’esperienza dotata di un proprio oggetto. Tali esperienze sono intese essere percezioni di un genere particolare poiché la loro attenzione volge non verso oggetti empirici – in questo caso parleremmo di percezione sensibile – ma verso oggetti emozionali. Gli autori, tra cui Jaakko Hintikka, sottolinea Donatelli258, che hanno sposato questo paradigma caratterizzano il sentimento mistico, le esperienze estetiche, il sentimento etico come esperienze munite di un proprio oggetto. Essi sono soliti rifarsi agli argomenti contenuti in uno scritto giovanile sull’estetica di G. E. Moore: “Quando dici che un particolare color rosso è bello, intendi che provi un’emozione piacevole nel contemplarlo; e quell’emozione costituisce immediatamente un oggetto diverso: non è più un tipo di rosso, distinguibile in base a puri criteri intellettuali; non ti è più dato solamente come oggetto di conoscenza, ma ti è veramente dato come oggetto di sentimento.”259

258

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 83 Saggio domenicale letto il 24 novembre 1895, riportato parzialmente in P. Levy, G. E. Moore and Cambridge Apostles, Weidenfeld and Nicolson, London 1979, pp. 170-173 259

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Laddove parliamo di oggetti del sentimento – o di oggetti emozionali – può sorgere la domanda se tali oggetti abbiano qualcosa in comune con gli oggetti semplici menzionati da Wittgenstein nel trattare quella certa corrispondenza formale riassunta dalla nozione di isomorfismo strutturale. Potremmo domandarci se tali oggetti emozionali possano occorrere nelle coordinazioni di oggetti che strutturano gli stati di cose e – posta questa domanda – rifarci alle risposte degli specialisti. Se riteniamo, come fanno gli Hintikka260, che detti oggetti facciano parte di quelli di cui Wittgenstein parla nel Tractatus, allora diviene letteralmente vero che il mondo (la totalità degli oggetti che occorrono negli stati di cose sussistenti) di una persona che ha esperienze di valore è diverso da quello di una che non ne ha. Gli Hintikka, osserva Donatelli261, seguono l’invito di Moritz Schlick a considerare l’esperienza etica, e in generale quella mistica, alla stregua di un contenuto emozionale. L’ipotesi di Schlick ammette262 la possibilità che gli oggetti emozionali con i quali entriamo in contatto attraverso le esperienze di valore, possano coordinarsi con altri oggetti per comporre stati di cose. Ciò viene ritenuto plausibile in forza della tesi un contenuto possa essere interpretato come un oggetto del discorso nel momento in cui esso viene predicato all’interno di una proposizione, altresì come un oggetto del sentimento nell’attimo in cui d’esso si fa una esperienza emozionale, ovvero quando l’oggetto è divenuto qualcosa di differente da ciò che era prima che la sua intuizione generasse in noi piacere o dispiacere. Tuttavia, sottolinea Donatelli263, l’interpretazione intuizionista di Schlick e degli Hintikka, non sembra potersi applicare all’etica nel Tractatus logico – philosophicus. Ci troveremmo, infatti, a legare l’etica ad un contenuto oggettuale che parteciperebbe a dichiarare la sensatezza di una proposizione del linguaggio. Ammettendo tale avvicinamento tra esperienza etica e contenuto oggettuale, verrebbe a dissolversi il carattere trascendentale e insensato dell’etico chiaramente espresso da Wittgenstein.

260

M. B. Hintikka, J. Hintikka, Indagine su Wittgenstein, il Mulino, Bologna 1990, pp. 110-112 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 84 262 Cfr. M. Schlick, Forma e contenuto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 109-110 263 Ibidem 261

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La seconda versione dell’intuizionismo etico, per cui si è citato H. A. Prichard, sembra offrire soluzioni maggiormente soddisfacenti. Potremmo intendere – per così dire – che lo scopo delle proposizioni del Tractatus sia quello di indicare un contenuto inesprimibile per via discorsiva sensata ma che si mostra alla nostra attenzione. L’intuizione gioca, in questo caso, il ruolo di portare alla nostra attenzione delle verità morali senza passare per un processo inferenziale, data la loro supposta natura autoevidente. In buona sostanza ciò che Wittgenstein mostra nel Tractatus raggiungerebbe la nostra mente aggirando l’impossibilità d’esprimere ciò che non si può dire nel “dire”. La versione dell’intuizionismo in esame, sottolinea Donatelli264, sembra imparentarsi con il tipo di intuizione che è coinvolta, da Wittgenstein, nel riconoscere ovvietà quali sono le tautologie e le contraddizioni. Ciò equivale ad estendere il carattere precipuo dell’intuizione ad ambiti di ricerca tra loro diversi come sono l’etica e il calcolo logico. Così, ad esempio in Prichard, incontriamo una variante del modello intuizionista, che potremmo definire “intuizionismo razionale”265, la quale sostiene l’analogia tra la percezione delle verità etiche e quelle matematiche, accomunate dall’essere intese come ovvietà esperibili per via intuitiva. E’ però coerente con quanto Wittgenstein sostiene nel Tractatus rintracciare verità etiche autoevidenti che godano della stessa autonomia non inferenziale delle proposizioni della logica? La risposta, a parere di Donatelli266, tende ad essere negativa se si considera che l’interpretazione intuizionista che abbiamo definito “razionale” è – come dire – basata su una sovrapposizione di considerazioni filosofiche che appartengono a momenti diversi delle analisi condotte nel Tractatus. Il tipo di intuizione coinvolta nella logica – o nella matematica – agisce in vista della comprensione delle implicazioni logiche di un segno proposizionale mentre il raggiungimento di una verità autoevidente non si guadagna, invece, in ambito etico poiché il contesto in cui la riflessione morale si sviluppa non è lo stesso in cui trova il suo svolgimento il pensiero logico. Osserviamo, infatti, che nel caso dell’etico, e quindi di ciò che il linguaggio può solo mostrare, sono

264

Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 85 Ibidem 266 Ibidem 265

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coinvolte nozioni estranee all’ambiente logico, quali quelle di limite del mondo, di volontà, di soggetto metafisico ecc. In buona sostanza ciò che si mostra alla nostra attenzione, previa intuizione, nel caso della logica possiede il carattere di una verità autoevidente – non derivata da altri contenuti di verità – mentre in quello dell’etica ad esser mostrato è lo sfondo in cui l’etica – il cambiamento personale – gradualmente si svolge. Cyril Barrett ha presentato267, a sua volta, una lettura intuizionista del Tractatus, sostenendo che ciò che è insensato può risultare comunque illuminante, ovvero che le proposizioni filosofiche funzionano da segnalatori, pioli di una scala, che indicano un’intuizione di ciò che non può essere detto sensatamente. In modo analogo le espressioni dell’etica segnalerebbero la via per intuire verità altrimenti precluse alla sfera discorsiva. Sebbene il caso della percezione di una verità autoevidente, per come presentato, in particolare, da Cyril Barrett, si presti a interpretare ciò che il linguaggio non può dire ma solo mostrare, resta in piedi un’obiezione radicale all’idea qualsivoglia lettura intuizionista sappia rendere conto dell’etica nel Tractatus. Difatti l’insensatezza viene reinterpretata in una chiave che vuole ad ogni costo saturare ciò che Wittgenstein ha dichiarato essere vuoto, privo di contenuto, appunto insensato. Il risolvere, laddove la risoluzione non è stata affatto richiesta dall’autore del volume, le insensatezze delucidatorie del Tractatus attraverso l’intuizione di pseudo verità autoevidenti – e dunque inaccessibili discorsivamente – non rispetta la richiesta di riconoscimento del carattere insensato che accomuna, richiamando la T. 6.54, le proposizioni dell’opera. Tale metodo, osserva Donatelli268, mostra il mancato confronto con l’istruzione finale per mezzo della quale Wittgenstein invita il lettore – che ha attraversato l’intera opera – a gettare via la scala.

267

Cfr. C. Barrett, Wittgenstein on Ethics and Religious Belief, Blackwell, Oxford 1991, p. 17 Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 83-86

268

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Emotivismo meta – etico La tradizione intuizionistica vide svilupparsi contemporaneamente un approccio analitico dell’etica e delle sue proposizioni di carattere non – cognitivistica, che nega ai giudizi morali la possibilità d’essere “conoscenza genuina solo intuibile”. E’ interessante notare che il non – cognitivismo, nella versione emotivistica, prende piede presso numerosi rappresentanti dell’empirismo del primo novecento, alcuni dei quali, come nel caso di Bertrand Russell e Rudolf Carnap, avevano inizialmente aderito alle tesi intuizionistiche di G. E. Moore.269 Va sottolineato che l’interesse preminente degli autori che sposarono, seppur attraverso improvvise virate, la lettura emotivistica, trovò la sua ragion d’essere nella proposta teoretica di separare il linguaggio d’ordine etico – valutativo da quello scientifico – descrittivo. Indi il nucleo del problema si prospettò nelle vesti di una cogente necessità di tracciare un limite tra etica e scienza, in virtù di considerazioni epistemologiche d’ordine generale. Anche a fronte dell’atteggiamento polemico verso la tesi nodale degli intuizionisti – ovvero, ricordiamo, che l’etica si fonda sull’intuizione di verità non analizzabili – i non cognitivisti, e dunque anche gli emotivisti, condividono il rifiuto del naturalismo. Ciò risulta facilmente intelligibile se si tiene fermo il perno attorno a cui gira l’approccio analitico emotivistico – non – cognitivista, ossia l’atto di separazione netta dell’etica e delle sue proposizioni dalla scienza e dalle espressioni descrittive. Diviene allora comprensibile la negazione dell’assunto naturalista secondo cui, come già accennato, non è possibile derivare valori etici, ma anche estetici, da proposizioni descrittive – scientifiche e viceversa. Gli intuizionisti – cognitivisti posano l’argomentazione etica su una conoscenza intuitiva di nozioni non descrivibili né riducibili, quale è quella di “buono” nei Principia ethica di Moore, ovvero sulla convinzione tale intuizione “pura” assuma un carattere cognitivo andando a rendere possibile la conoscenza di fatti etici ontologicamente autonomi, nonché la verità o falsità delle proposizione valutative

269

Cfr. Luca Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica. Carocci, Roma 2006, p. 236

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e normative che li descrivono. A differenza loro, gli emotivisti – non cognitivisti posano i giudizi d’ordine morale non sull’intuizione di verità etiche prime, ma sopra le emozioni ed i sentimenti, i quali non hanno nulla a che vedere con la verità o falsità oggettiva delle proposizioni che li esprimerebbero. Benché non esista, né in Russell né in Wittgenstein, un’opera che abbia trattato sistematicamente esclusivamente d’etica, contrariamente al terzo grande filosofo di Cambridge Moore, sarebbe, sostiene Luca Fonnesu, errato sostenere che ciò sia frutto di un qualche disinteresse dei due filosofi per le questioni morali.270 Entrambi si soffermano a riflettere sovente sull’etica nel corso della loro evoluzione intellettuale, mostrando interessanti tangenze con le posizioni non – cognitivistiche.271 Tornando a Bertrand Russell, fatta eccezione per un lavoro da egli intitolato Elementi di etica (1910) – in cui il filosofo appoggia una posizione cognitivistica e oggettivistica dei giudizi morali che richiama fortemente l’intuizionismo di Moore nei termini in cui le nozioni della regione etica del discorso vengono inquadrate come realtà auto evidenti, platoniche – troviamo l’elaborazione più articolata della sua posizione meta – etica in uno scritto del 1935, intitolato Religione e scienza. Lo stesso titolo del libro richiama la necessità teoretico – analitica, in vista di una teoria della conoscenza forte, di tenere separati i valori etici dai fatti scientifici e dunque il dominio dei giudizi di valore da quello delle espressioni di stati di cose. Il carattere non – cognitivo dell’etica è dichiarato apertamente da Russell:

270

Luca Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica. Carocci, Roma 2006, p. 238 271 A mio parere la tradizionale frattura tra scienze dello spirito, da cui derivano le proposizioni della letteratura, della poesia o della storia, tanto per citare due esempi evidenti, e scienze della natura con il proprio corpo di espressioni descrittive, sembra manifestare un’insufficienza intrinseca laddove si tenti di approcciarsi analiticamente al modo in cui comprendiamo proposizioni che non sono meramente descrittive – scientifiche. Suggestioni morfologiche di provenienza goethiana potrebbero indirizzare verso soluzioni che sappiano rendere conto della dinamicità del linguaggio stesso e delle sue molteplici capacità espressive.

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“La scienza può discutere le cause dei desideri o i mezzi per attuarli, ma non può contenere nessun giudizio genuinamente etico, perché si riferisce a ciò che è vero o falso.”272 I giudizi morali sono per Russell l’espressione dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni, dei nostri desideri, dei nostri timori, ma non hanno alcun rapporto diretto con la verità o la falsità. Questo carattere avulso ad ogni criterio di verificazione, in totale antitesi con i discorsi della meta - etica cognivistica, segna uno iato tra giudizi etici – valutativi e proposizioni scientifiche – descrittive. Coerentemente con il paradigma non – cognivistico, l’emotivismo di Russell in Religione e scienza, rivendica il carattere soggettivo dei valori e l’inesistenza di fatti etici oggettivamente presenti nel mondo, del genere “il fatto che vi siano azioni universalmente e trans – temporalmente oggettivamente giuste o sbagliate a cui corrispondano giudizi valutativi sottoponibili a verificazione in funzione della loro coerenza con tali fatti etici ritenuti ontologicamente autonomi.” Altra interessante formulazione emotivistica fu quella delineata da Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards in Il Significato del significato273,1923, in cui viene evidenziata la distinzione tra una funzione simbolica del linguaggio ed una funzione emotiva dello stesso. Benché la disgiunzione risulti complessa, osserva Fonnesu274, e a tratti sembri svilupparsi attorno a un filo teso e pronto a spezzarsi, i due filosofi fanno battere l’accento sulla funzione simbolica del linguaggio scientifico, ovvero quella di comunicare conoscenza tramite descrizioni vere o false di fatti empirici, rispetto alla funzione emotiva del linguaggio etico – morale al quale viene, sovente, ingannevolmente riconosciuta una capacità simbolica. Alcune parole, essi sostengono, sono simbolicamente e scientificamente insature, o addirittura vuote, ma emotivamente efficaci; tanto efficaci che nell’atto di proferirle ed in quello di comprenderne il senso durante uno scambio linguistico, 272

B. Russell, Religione e scienza, p.193, cit. in Luca Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica. Carocci, Roma 2006, p. 239 273 C. K. Ogden, Richards, Il significato del significato, Garzanti, Milano 1975 274 Cfr. Luca Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Carocci, Roma 2006, p. 241

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paiono simboleggiare fatti, descriverli, sebbene il loro uso si presti esclusivamente a manifestare il nostro atteggiamento verso “questo o quello” o ad incitare ad agire “in questo modo o in quell’altro”. Anche in questo caso si accentua la frequente confusione tra valori e fatti e, implicitamente, la necessità di tenerne gli statuti separati. Per Wittgenstein, come sappiamo, una proposizione è una immagine di uno stato di cose possibile, ed è vera se il fatto che essa raffigura è sussistente, falsa se esso non lo è. Ne segue che comprendere una proposizione richieda una competenza ineludibile, ovvero sapere cosa accadrebbe nel mondo se essa fosse vera. Non sembra le asserzioni di valore possano essere verificate attraverso il confronto con il fatto che esse vogliono significare. Per esempio l’espressione imperativa “Non rubare” non è falsa se qualcuno ruba ovvero un possibile stato di cose nel mondo non verifica o falsifica tale proposizione. In linea di principio, chi commette un furto viene redarguito perché “sebbene rubi non dovrebbe farlo”. Riflettendo sul possibile legame tra espressioni di valore e fatti ad essi coordinabili, pare non esservi alcuna relazione poiché i giudizi di valore, così come quelli normativi, non sono descrizioni di ciò che accade nel mondo. La distinzione tra fatti raffigurabili – verificabili e valori è una delle tesi sostenute da Wittgenstein nel Tractatus logico – philosophicus. Sul finire del volume, esattamente nella proposizione 6.4, egli afferma: “Tutte le proposizioni sono di pari valore”. Questa espressione significa che tra le proposizioni non compaiono distinzioni di valore ovvero, citando parzialmente la T. 6.42: “Né quindi vi possono essere proposizioni dell’etica”. Il senso di una proposizione – e inevitabilmente il modo in cui se ne afferra il significato – sta nel raffigurare qualcosa di cui si dia il fatto che sia “così”, oppure no, e tale senso necessita si conosca cosa accadrebbe nel mondo se una certa proposizione x fosse vera. E’ intuibile che “ciò che si dia il fatto sia configurato in

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un certo modo nel mondo” e “ciò che ha valore” siano elementi distinti, e che tale distinzione non possa che venire estesa alle proposizioni che ad essi fanno capo. Leggiamo la proposizione 6.41 del Tractatus: “Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non c’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso deve essere fuori d’ogni avvenire ed esser – così. Infatti ogni avvenire ed esser – così è accidentale”. Immaginiamo che qualcuno dubiti che “prendere a pugni un uomo solo perché è stato scortese” non abbia valore. Si potrebbe provare a indurlo a comprendere che agire brutalmente porta con sé delle conseguenze penali. Questo genere di valore è quello che Wittgenstein definisce “relativo”275, ovvero dipendente dalle conseguenze di ciò che sta “così e così”. Non è però certamente questo il tipo di valore che il filosofo ha in mente facendone menzione nel Tractatus. Egli si riferisce invece al valore che è possibile rintracciare nell’etica e nell’estetica e che non può essere inferito da uno stato di cose nel mondo. Porterei un altro esempio per sviscerare questo nodo concettuale: supponiamo che qualcuno voglia mettere in discussione l’assoluto valore etico della parabola del Buon Samaritano276. In questo caso sarebbe del tutto fuorviante tentare di fargli cambiare opinione facendo leva sulle conseguenze di quell’azione poiché nessuna di esse potrebbe avere più valore dell’azione in se stessa. Ogni stato di cose, descrivibile attraverso il linguaggio scientifico, possa essere ipotizzato come conseguenza del gesto del Buon Samaritano non ha valore. Affermo ciò rimanendo fedele alla 6.41. Ciò che invece ha valore in senso “assoluto” è inesprimibile mediante proposizioni descrittive ma si mostra attraverso un utilizzo differente delle proposizioni a nostra disposizione, già ordinate e pronte per usi che non sono esclusivamente descrittivi.

275

Cfr. L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Ranchetti (a cura di), Adelphi, Milano 2001, pp. 8-10; Luca Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica. Carocci, Roma 2006, pp. 240-241 276 Il Santo Vangelo e Atti degli Apostoli, Vangelo secondo Luca 10,25-37, Edizioni Paoline, Alba 1948

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Nella sua Conferenza sull’etica277del 1929, Wittgenstein ha sottolineato la differenza che corre che tra la relatività di un valore e la sua assolutezza. Se dicessimo a qualcuno, traendo spunto dal testo della Conferenza tenutasi a Cambridge, che egli dovrebbe trattar meglio i suoi genitori, e costui rispondesse di non volerlo fare, ebbene noi gli risponderemmo che lui “deve” migliorare la sua condotta e le sue prassi nei loro confronti. In questo caso, il valore intrinseco nel “trattar bene un genitore” non dipende da qualcosa che sia sta “così e così”, che sta nel mondo quale totalità di stati di cose sussistenti. Questo genere di valore acquista, dice Wittgenstein, valore assoluto – come si diceva – e non può essere espresso mediante proposizioni della scienza naturale ma – e ciò è nodale – si “mostra” in esse. L’ineffabilità del valore, dell’etica, così come dell’estetica, è un tratto precipuo del pensiero di Wittgenstein: sia nel Tractatus che nel testo della Conferenza sull’etica la tendenza irresistibile a dire ciò che può essere solo mostrato non è offerta come la conseguenza di una confusione logica, anzi tale naturale “avventarsi contro i limiti del linguaggio” viene vivacemente difeso alla luce del fatto, sostiene Wittgenstein, che quando qualcuno cerca di dire qualcosa che può essere solo mostrato, ciò che si mostra è qualcosa di enormemente importante.

277

L. Wittgenstein, Lezioni e Conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, (a cura di) Ranchetti, Adelphi, Milano 2001, pp. 8-11

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Wittgenstein e l’emotivismo La lettura del Tractatus come un Lehrbuch, evidenzia Donatelli278, si riflette sulla comprensione dell’etica. Difatti laddove si ritiene che Wittgenstein si occupi di mettere a disposizione un criterio di sensatezza delle espressioni, ciò non potrà non avere conseguenze per l’etica in quanto area del discorso. Si ritiene che lo studio wittgensteiniano del funzionamento logico del linguaggio non debba essere inteso come attrezzo esclusivamente funzionale a tracciare un confine netto tra ciò che possiamo e non possiamo dire. L’obiettivo finale di Wittgenstein non pare essere riducibile a questo. Difatti, qualificando gli approfondimenti dell’autore in merito alla struttura interna della proposizione come rivolti – inequivocabilmente – a sentenziare che le proposizioni sensate sono le sole a poter essere dette e le insensate debbono essere relegate nella regione del silenzio, non renderemmo conto dell’interesse dell’autore per il funzionamento degli atti di comprensione del linguaggio. Pensiamo, dunque, al lavoro di Wittgenstein collocandone gli scopi nell’orizzonte in cui l’analisi del linguaggio è precipuamente atta a far luce nelle zone d’ombra ove senso e nonsenso si confondono tra loro allorché utilizziamo proposizioni che non raffigurano alcunché pur credendo esse siano immagini sensate di qualcosa. L’insensatezza, sottolinea Donatelli279, concerne quello che potremmo definire il significato cognitivo o descrittivo, tuttavia essa lascia aperta la possibilità sequenze insensate di segni sappiano esprimere sentimenti e emozioni. Piuttosto che porre noi stessi dei limiti interpretativi a ciò che Wittgenstein intese mostrare – così da rilevare nell’opera niente più che una teoria del significato alle prese con ciò che è sensato ed esprimibile e ciò che non lo è – potremmo rivolgere l’attenzione al di là di ciò, soffermandoci su quello che, in conclusione d’opera, emerge dalla critica logica del linguaggio nelle sue implicazioni etiche inerenti l’uso quotidiano di proposizioni incapaci di raffigurare stati di cose possibili ovvero insensate. Le difficoltà a cui la nozione di significato inteso nell’accezione

278

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 69 Ibidem

279

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cognitivista o descrittivista va incontro, ci appaiono evidenti appena vi ci si appella perché renda conto di come concatenazioni di segni grammaticalmente corrette possano tradire efficacemente – dove l’avverbio “efficacemente” vuole implicare la forza comunicativa di tali proposizioni – l’uso raffigurativo del linguaggio sensato esplicato dalla Picture theory. Quel tradimento è un carattere inaggirabile delle espressioni etiche. Tra le interpretazioni ineffabiliste del Tractatus logico – philosophicus deve essere ricordata quella emotivista, guidata dall’idea che stringhe di segni sappiano esprimere simbolicamente le sensazioni che caratterizzano la nostra vita emotiva e dunque sentimentale. Rudolf Carnap, ricorda Donatelli280, sostenne una lettura del tipo in questione in Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio: “L’analisi logica denuncia, perciò, l’insensatezza di ogni conoscenza che presuma di cogliere qualcosa di trascendente l’esperienza. […] Questo giudizio vale inoltre per ogni filosofia normativa o dei valori, cioè per ogni etica o estetica come discipline normative. Infatti, nella stessa opinione dei filosofi dei valori, la validità oggettiva di un valore o di una norma non si può verificare empiricamente, né dedurre da proposizioni empiriche; ciò vuol dire, dunque, che non può neppure venir espressa (con una proposizione insensata). In altri termini, o si adducono delle caratterizzazioni empiriche per “buono” o “bello”, e per tutti gli altri predicati in uso nelle scienze normative, o no. Nel primo caso, una proposizione contenente tale predicato diventa un giudizio di fatto, empirico, ma non un giudizio di valore; nel secondo caso, diventa una pseudoproposizione. In nessun caso, si può costruire una proposizione esprimente un giudizio di valore. […] Le (pseudo-)proposizioni della metafisica non servono alla rappresentazione di dati di fatto né esistenti (allora di tratterebbe di proposizioni vere), né inesistenti (allora si tratterebbe, per lo meno, di proposizioni false), ma servono solo alla espressione del sentimento della vita.281”

280

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 69-70 R. Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, pp. 526-528, cit. in Piergiorgio Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma – Bari 1998, p. 70 281

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Incontriamo un argomento analogo in Linguaggio, verità e logica, di Alfred Jules Ayer: “Ci disporremmo a mostrare che, nella misura in cui sono significative, le affermazioni di valore sono normali affermazioni scientifiche; e, nella misura in cui non risultano scientifiche, non sono significative nel senso letterale della parola ma sono semplicemente espressioni di emozione, che non possono essere né vere né false. […]”282 Donatelli osserva283 che Carnap e Ayer presentavano le loro concezioni come letture in linea con il carattere del Tractatus logico – philosophicus, per un lasso di tempo inteso come “l’affermazione più drammatica della teoria emotivista”284. Gli interpreti menzionati derivano l’insensatezza dell’etica dall’inapplicabilità di alcun principio di verificazione285 che mostri una proposizione dell’etica possa essere una descrizione di stati di cose – o di fatti empirici, verificabili –. Questa esegesi mette in luce almeno due caratterizzazioni da essa derivabili: 1. La negazione di una concezione naturalista dell’etica, secondo cui le (pseudo)proposizioni del discorso morale sarebbero in possesso di requisiti di sensatezza che renderebbero possibile derivare un giudizio di valore da un fatto empirico e viceversa. 2. Perché questa interpretazione del Tractatus possa reggersi sulle sue gambe è necessario coordinare l’investigazione filosofica alla conditio sine qua non che sancisce tra certi termini etici e determinati sentimenti esista un legame riconosciuto convenzionalmente dai parlanti, onde evitare si finisca per attribuire a qualsiasi termine il potere di esprimere un sentimento solo soggettivo – il che renderebbe ogni parola una possibile traduzione segnica di sentimenti personali –. Osserviamo, dunque, che tale concezione della terminologia e fraseologia morale afferma l’esistenza di una regione propria del linguaggio etico – condiviso – i cui

282

A. J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1961, cap. 6 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p.70 284 Cfr. M. Warnock, Ethics Since 1900, Oxford University Press, London 1960, p. 92 285 P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 70 283

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criteri di significato non sono verificabili empiricamente, poiché tali espressioni non descrivono alcunché, ma sono espressivi – ovvero ricondotti al potere di esprimere sentimenti d’approvazione o disapprovazione, rispetto alla dimensione morale della situazione che si sta esperendo. Lungo questo sentiero interpretativo si fa largo la nozione di significato emotivo accanto a quella già presente nel panorama neopositivista di significato descrittivo. L’affermare l’esistenza di un linguaggio morale da parte di Carnap, affonda le radici nella critica mooreana al naturalismo – già commentata in questo lavoro – contenuta nei Principia Ethica, e dunque nella demarcazione netta tra fatti e valori. Tuttavia (pur assumendo il non naturalismo sia un carattere che accomuna Wittgenstein e i teorici emotivisti) se applicata al Tractatus, rimarca Donatelli286, la lettura emotivista si rivela assai problematica proprio per l’assunzione dell’esistenza di un duplice regno linguistico che affianca al linguaggio sensato – descrittivo, quello insensato ma capace di comunicare emozioni. Si richiama una chiara delucidazione wittgensteiniana dell’impossibilità logica di ammettere l’esistenza di valori all’interno del mondo inteso come totalità di stati cose sussistenti: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori d’ogni avvenire ed esser – così. Infatti, ogni avvenire ed esser così è accidentale. Ciò che li rende non – accidentali non può essere nel mondo, che altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’esser fuori del mondo.”287 Alla T. 6.41, segue – in accordo con la teoria raffigurativa del linguaggio – la negazione dell’esistenza di proposizioni dell’etica, in forza del fatto una espressione non possa esprimere nulla di ciò che è più alto288, ovvero nulla che trascenda lo stato di cose del quale una stringa di segni può essere un’immagine linguistica. Osserviamo Wittgenstein introdurre la distinzione tra ciò che sta nel mondo – l’insieme di fatti predicati nel loro carattere del tutto contingente – e ciò

286

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp.72-73 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Amedeo Conte (a cura di), Einaudi, Torino 2009, § 6.41, p. 106 288 Ibidem, §6.42 287

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che sta oltre il limite del mondo, ovvero ciò che deve poter essere non accidentale per servire da condizione assoluta dell’accidentalità intramondana. Evidentemente il riferimento è tanto alla logica quanto all’etica289, entrambe “battezzate” come condizioni – che non potrebbero essere altrimenti – del mondo. E’ proprio il comune carattere trascendentale attribuito dall’autore alla logica, in T. 6.13, e all’etica in T. 6.421, che sembra non potersi conciliare con la lettura emotivista.290 L’argomento emotivista, stabilendo l’esistenza sia del linguaggio descrittivo che di quello etico – capace di esprimere emozioni attraverso sequenze di segni malformati – si rivela, osserva Donatelli291, come nient’altro che una versione della demarcazione wittgensteiniana tra senso e nonsenso. Aderendo al testo si desume agevolmente che l’intenzione di Wittgenstein non possa essere intesa come indirizzata a stabilire una distinzione fra ciò che cade sotto il regno della logica e ciò che starebbe oltre essa, poiché avventurarsi lungo quel sentiero condurrebbe ad ammettere la possibilità di potere guardare la logica dall’esterno – di posizionarsi al di là d’essa – finendo per non rispettarne il carattere normativo, grammaticale, regolativo d’ogni espressione linguistica. Oltre che interpretare arbitrariamente il volume, trascurandone alcune tesi inaggirabili, l’argomento di R. Carnap – nonché quello di A. J. Ayer – finisce per dare un nome differente al tema che fa da sfondo a tutta l’opera. Con ciò si intende mettere in evidenza è che l’emotivismo trascura l’impossibilità di aggirare il carattere trascendentale della grammatica logica. Rimanendo fedeli al testo del Tractatus deduciamo conclusioni inconciliabili con l’esistenza di un regno del linguaggio morale. Già nella Prefazione, Wittgenstein anticipa un aspetto precipuo tanto del suo metodo di indagine quanto della sua tesi, ossia che il limite – del dicibile – non potrà che essere tracciato dall’interno del linguaggio (sensato) e che tutte le proposizioni che non troveranno posto al suo interno, saranno meri nonsensi. Ne segue l’etico non potrà, pena un tradimento dello studio della struttura logica della proposizione – e quindi un

289

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 73 Ibidem 291 Ibidem 290

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fraintendimento del testo – che essere mostrato all’interno dell’unico linguaggio a nostra diposizione: quello descrittivo – raffigurativo della scienza naturale. Da queste considerazioni emerge l’ennesima ragione d’attrito tra i contenuti dell’opera e la lettura ineffabilista di taglio emotivista, evidente nella diversa caratterizzazione che autore ed esegeti emotivisti danno del termine etica. Notiamo, infatti, che nell’accezione emotivista essa – ed il suo ipotizzato corpo di proposizioni malformate – sarebbe una sorta di mascheramento, sotto forma di linguaggio solo apparentemente significante, di semplici espressioni d’emozioni (indi l’etico circoscriverebbe un corpo di espressioni di sentimenti). Nel Tractatus292, in contrasto con la lettura appena descritta, evidenzia Donatelli293, Wittgenstein non allude ad una parentela tra l’etica e l’espressione d’emozioni quanto a un problema che coinvolge sia il trovare il senso del mondo, sia il risolvere il problema della vita, previa comprensione del funzionamento logico del linguaggio. Detta comprensione è la condizione indispensabile affinché si realizzi il cambiamento personale utile a delucidare la natura problematica della vita e a realizzare che ciò di cui il soggetto necessita non è racchiuso in un corpus di risposte ad interrogativi scientifici, ma nella dissoluzione dei problemi vitali causati da una mancanza di dimestichezza con le nozioni di senso e nonsenso. Anche menzionando la relazione intrattenuta fra soggetto e mondo – linguaggio, argomenta Donatelli294, la lettura ineffabilista in oggetto manifesta delle lacune difficilmente colmabili. Le affermazioni di Wittgenstein suggeriscono che la relazione etica con il mondo, connessa a certe espressioni insensate, coinvolge il cambiamento complessivo della propria realtà, in un modo non riconducibile alla menzione di un sentimento. Ridurre una pseudoproposizione etica all’espressione sensibile di un’emozione non tiene in considerazione svariate nozioni poste sotto esame da Wittgenstein nel testo. Nello specifico, l’autodissoluzione dell’opera dichiarata in T. 6.54, l’ammissione della totale insensatezza delle proposizioni che strutturano il volume e del loro operare solo da delucidazioni, suggerisce una

292

Ivi, p. 75 Ibidem 294 Ibidem 293

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relazione etica con il mondo (la visione sub specie aeterni) che investe la visione che della realtà si guadagna praticando il percorso delucidativo wittgensteiniano. Da questa angolatura è possibile comprendere legittimamente il richiamo al concetto di solipsismo in chiave non empirica. Difatti in T. 5.62 Wittgenstein dichiara: “ […] Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (dell’unico linguaggio che io comprenda) significano i limiti del mio mondo.” Le analisi sulla forma generale della proposizione avevano, a questo punto dell’opera, già sviscerato il legame intrinseco tra stati di cose e immagini linguistiche d’essi, ponendo il nostro io al cospetto di un unico mondo e di un unico linguaggio logicamente ordinato. La nozione wittgensteiniana di soggetto metafisico rende insoddisfacente una spiegazione emotivista dell’ipotizzato regno discorsivo dell’etico. Solamente un soggetto empirico – ma ciò non intende Wittgenstein – posizionato dentro il mondo, potrebbe mostrarsi funzionale a sostanziare la tesi che vorrebbe gli enunciati insensati etici siano espressioni d’emozioni indotte dalla relazione con la realtà di cui si è parte. La coordinazione tra soggetto metafisico – posto “al limite” del mondo e non “nel” mondo – e totalità degli stati di cose non pare alludere ad una relazione causale tra emozione ed espressione sensibile del sentimento, ma ad una coordinazione tra soggetto e mondo in cui non è più chiaro quale contributo l’uno dia all’altro e viceversa, alla luce del fatto il linguaggio e il mondo sono la stessa vita del soggetto, ovvero tutto ciò che egli è. Indossando queste lenti, esplica Donatelli295, l’etica diviene il tipo di relazione che il soggetto metafisico (che cresce in toto o decresce in toto insieme al mondo) intrattiene con la realtà296. Ciò vuole significare che non è possibile influire su una parte del mondo ma che, piuttosto, è possibile cambiarne la visione – e crescere con esso – solo se a cambiare è il modo di osservarlo, accettatane l’accidentalità. A questo punto il mondo del felice – di colui che ha accettato la natura contingente della realtà previa comprensione logica della diade

295

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 76 Cfr. G. Piana, Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein, Il Saggiatore, Milano 1973, p. 137

296

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linguaggio/mondo – differisce da quello dell’infelice, pur osservando essi il medesimo insieme di stati di cose. Pare la lettura emotivista del Tractatus posi su una interpretazione arbitraria di ciò che indagare l’etica possa avere significato per il suo autore, con la conseguente enfatizzazione di uno pseudo interesse per la dimensione espressiva dell’etico che non trova riscontri forti nel testo dell’opera. L’interpretazione in oggetto, sostiene Donatelli297, non sembra saper prendere sul serio le affermazioni sull’etica e trasforma il sentimento mistico in una emozione tradotta linguisticamente. In questo modo viene tradito l’obiettivo di trovare nell’opera un’illustrazione del senso etico delle cose.

297

Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp.69-76 e p. 95

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L’intento etico dell’opera Wittgenstein esprime con chiarezza quale sia il compito del lettore, affermando che il libro avrà raggiunto il suo obiettivo se il fruitore attraverserà l’intera l’opera fino a comprendere l’insensatezza delle proposizioni che la strutturano. Lo scopo del Tractatus logico –philosophicus è quello di comprenderne l’autore e – con ciò – di cogliere che le sue affermazioni sono insensate. A tal proposito Donatelli evidenzia298che tanto quanto è insensata la parte del testo che si occupa dello studio della logica del linguaggio, altrettanto lo è quella che dichiara l’esistenza di qualcosa fuori del mondo che costituisce il senso stesso della realtà, della vita. Perché, si domanda Donatelli299, dato il carattere insensato che pervade l’intero volume dovremmo limitarci a gettare la scala per quanto concerne i pioli della logica filosofica e risparmiare quelli che riguardano l’etica? In realtà seguendo alla lettera le istruzioni impartite da Wittgenstein al termine del Tractatus, è l’intera opera – ovvero l’insieme delle dottrine che essa presenta – che chiede d’essere immaginativamente compresa e poi consapevolmente gettata. Alla luce di questa considerazione le diverse impostazioni interpretative – passando tanto per quelle cognitiviste quanto per quelle non cognitiviste – sono il risultato del rifiuto di leggere il Tractatus fino alla proposizione 6.54, ovvero fino al finale d’opera in cui Wittgenstein chiede al lettore di resistere all’attrazione esercitata da tutte le teorie che essa espone. La proposta di Donatelli300 invita a leggere le affermazioni sull’etica e a prenderle sul serio fino alla fine per poi abbandonarle. Questa operazione implica il distanziamento dalle esegesi di taglio emotivista (che impoveriscono il pensiero wittgensteiniano riducendo il Mistico all’espressione di una emozione) ed il rifiuto dell’attaccamento pre – filosofico alle dottrine etiche caratteristico delle letture ineffabiliste. La possibilità di porre in essere questa alternativa lettura del Tractatus è inscindibilmente legata alla comprensione di ciò che Wittgenstein vuole mostrare attraverso lo studio della struttura logica del linguaggio nonché al legame tra esso e l’intento etico

298

Cfr. P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 94-96 Ibidem 300 Ibidem 299

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dell’opera. Si osserva, a riprova di tale connessione, che le affermazioni sull’etica che si aprono con T. 6.4, costituiscono, in base al sistema notazionale utilizzato nel volume, dei commentari della T. 6 sulla forma generale della proposizione. A ciò si vuole aggiungere che le affermazioni dedicate all’etica (T. 6.4 – 6.4321) sono illustrazioni della proposizione 6.4, in cui Wittgenstein afferma che tutte le proposizioni sono di pari valore (da cui segue non possano esservi proposizioni dell’etica). Cognitivisti e non cognitivisti hanno cercato all’interno degli usi insensati del linguaggio il carattere dell’etica, non prendendo alla lettera ciò che l’autore ha espresso chiaramente in merito all’ineffabilità dell’etico. Wittgenstein afferma, appunto, che tutti gli usi del linguaggio sono sullo stesso piano e ciò, suggerisce Donatelli301, significa evidentemente che qualunque espressione si utilizzi il suo senso etico non avrà nulla a che vedere con le caratteristiche logiche interne di quella stringa di segni. Ergo l’etica non è esprimibile nel senso che nessun suo enunciato è comprensibile in virtù della propria struttura logica. In effetti laddove Wittgenstein menziona nozioni connesse alla sfera dell’etica (come per esempio quelle di premio e di castigo), non pare farlo allo scopo di disfarsene. Piuttosto il suo interesse verte sull’analisi logica di tali espressioni al fine di mettere a nudo i problemi filosofici a cui esse possono dare origine. La negazione di discorsività all’etica è propriamente il modo in cui Wittgenstein illumina l’etico per come egli lo intese, ovvero come un’ineludibile e spontanea tendenza dell’essere umano. E’ l’ordine che stabiliamo essere quello in cui dobbiamo concatenare le riflessioni sugli argomenti wittgensteiniani a delineare una lettura del Tractatus fedele all’intenzione dell’autore – ed al suo metodo – oppure sviata e inappropriata. Con ciò si intende dire che nel momento in cui Wittgenstein menziona nozioni che non potrebbero occorrere nel linguaggio sensato e descrittivo, egli non sembra farlo per volersene disfare. Non esiste nel testo una chiara indicazione del fatto egli abbia articolato la struttura dell’opera perseguendo l’obiettivo il lettore ne ricavasse esclusivamente un contenuto teorico che potesse indicare ciò che può essere detto e ciò che non può esserlo. Pur trovandoci alle prese con una teoria del significato chiaramente rivolta a tracciare

301

Ibidem

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un confine tra senso e insensatezza, non possiamo ignorare il fatto tale dottrina sia funzionale alla riflessione intorno a quel genere di proposizioni insensate che l’essere umano usa spontaneamente, rispondendo alle proprie naturali tensioni a tentare d’esprimere ciò che non è riducibile ad una descrizione. Viene da sé che le nozioni di volontà, di etica o di estetica, rappresentano l’espressione sensibile insensata (ma non precipuamente ineffabile) del problema del fraintendimento tra senso e nonsenso, inteso come dilemma tanto filosofico quanto esistenziale. La reale difficoltà a cui si va incontro utilizzando proposizioni etiche consiste nell’irriducibilità della forma logica di quelle espressioni alla forma generale della proposizione, o – per così dire – coincide con il tradimento del funzionamento logico del linguaggio inteso come sintesi di enunciati sensati e di espressioni della logica – sempre vere o sempre false – non descrittive e dunque insensate. Al cospetto delle proposizioni che contengono giudizi di valore, espressioni di sentimenti piacevoli o spiacevoli, inviti all’azione e via discorrendo, ci troviamo come scaraventati al di fuori del regno della dicibilità sensata, intendendo con ciò che tali espressioni non solo non sono descrittive, in termini raffigurativi, ma non sono né vere né false. La riflessione wittgensteiniana in merito al problema etico deve essere interpretata per come essa emerge dal percorso delucidativo che chi legge il Tractatus logico – philosophicus è invitato a seguire e a praticare. Indi quando si parla di etica serve caratterizzarne il concetto per come esso è desunto dalle analisi di taglio logico che Wittgenstein conduce, pena travisare del tutto l’intenzione che innerva il testo. L’etica non è un ambito filosofico con un proprio corpo di descrizioni che – si potrebbe dire – precede Wittgenstein e sul quale egli si sofferma a riflettere animato dall’intenzione di predicarne il carattere in termini ineffabilisti di varia sorta. Al contrario non v’è etica se non la si intende come l’orizzonte a cui si ha accesso tramite delucidazioni logiche atte a dissolvere la caligine che ci impedisce una cognizione precisa dell’uso che facciamo del linguaggio. Con ciò, oltre a rimarcare l’intreccio che tiene unite logica ed etica nel testo, si vuole evidenziare un’analogia di assoluto interesse tra quelli che sono intesi essere autentici problemi di pertinenza filosofica – cioè l’uso ingannevole e apparentemente sensato di nonsensi – e le questioni di vitale importanza che tagliano trasversalmente l’esistenza. L’analisi della struttura logica del linguaggio

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è la lente focale attraverso cui vedere ingrandite tutte le possibili coordinazioni tra stati di cose: ogni contemplabile forma l’ethos da noi esperito avrebbe potuto accidentalmente assumere. L’etica, allora, entra filosoficamente nel Tractatus logico – philosophicus a patto si sia messo piede nello spazio di pensabilità che l’autore vuole rendere perspicuo al lettore. E’ plausibile affermare che appena acquisito un accesso cristallino al linguaggio e alla realtà alla quale siamo coordinati, l’autodissoluzione dell’opera acquisti un pregnante significato etico in forza delle implicazioni che essa porta con sé. Si ritiene che assumere l’insensatezza delle proposizioni che compongono il testo illumini un tipo di comprensione che tiene in massima considerazione tanto la spontanea intenzionalità dei nonsensi etici quanto una congerie di caratteri dell’esistere, tra cui si evidenziano le inclinazioni personali, la propria sensibilità, l’immaginazione quale strumento di condivisione dell’insensatezza. Per di più la descrizione di uno stato di cose – dell’essere qualcosa “così e così” – non sembra possedere il potere iconico per rendere conto del sentimento di onnipresenza che accompagna le più comuni attività linguistiche umane. Possiamo, a questo punto, affermare, in accordo con la tesi di Donatelli302, che il Tractatus logico – philosophicus ha un senso etico per esser esso stesso un’azione etica303. La possibilità di delimitare l’etico dall’interno – ovvero di chiarirne filosoficamente la natura – è evidentemente il modo in cui Wittgenstein intende risolvere certe ansie filosofiche intorno a questo tema, in vista del porre fine al genere di chiacchiera che altro non manifesta se non una reiterata forma d’inquietudine morale.

302

P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 124 Cfr. P. Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 81 303

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