L\'estetica del mito: dal modernismo al postmoderno

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Descripción

Quadrimestrale Anno XV, n. 3, settembre-dicembre 2013 Direttore: Tommaso SCAPPATICCI Direttore Responsabile: Luigi PELLEGRINI Capo Redattore: Antonio D’ELIA Comitato Scientifico: Carmine CHIODO (Università di Roma “Tor Vergata”), Dante DELLA TERZA (“Harvard University”), Luigi Maria LOMBARDI SATRIANI (Università di Roma “La Sapienza”), Nicola MEROLA (Università degli Studi della Calabria), Piergiorgio PARRONI (Università di Roma “La Sapienza”), Pasquale TUSCANO (Università di Perugia). Direzione: Piazza S. Tommaso, 43 - 03031 AQUINO [email protected] Redazione - Amministrazione: Via Camposano, 41 - 87100 COSENZA GRUPPO PERIODICI PELLEGRINI - Tel. 0984 795065 - Telefax 0984 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it E-mail: [email protected] [email protected] Iscritta al n. 151 del Registro Stampa presso il Tribunale di Cosenza Iscrizione R.O.C. N. 316 del 29/08/01 ISSN 1722-5531 Abbonamento annuale: € 31,00; sostenitore: € 62,00; estero: Europa € 31,00; Nord e Sud America € 52,00; un numero € 13,00. Per i versamenti utilizzare il conto corrente postale n. 11747870 intestato a: Pellegrini Editore, Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza (Italy). Gli abbonamenti s’intendono rinnovati automaticamente se non disdetti 30 giorni prima della scadenza. I dattiloscritti, le bozze di stampa e i libri per recensione debbono essere inviati alla Direzione. La responsabilità di quanto contenuto negli scritti appartiene agli autori che li hanno firmati. Gli articoli non pubblicati non vengono restituiti.

SAGGI E STUDI

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SOMMARIO

Anno XV, n. 3, settembre-dicembre 2013

SAGGI E STUDI: Antonio Catalfamo, Velso Mucci: la poesia del dolore e la dialettica dei “tre presenti” 3 Alberico Guarnieri, La discesa agli inferi dell’erede. Una lettura de Il Podere di Federigo Tozzi 26 Antonello Catani, Feticci, reliquie e cannibali

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NOTE E DIBATTITI: Salvatore Alosco, Ortega y Gasset : Goethe, un ritratto inedito 95 Nino Arrigo, L’estetica del mito: dal modernismo al postmoderno 103 Tommaso Scappaticci, LettureDuemila: Tiziano Scarpa 109 RECENSIONI: Antonio Catalfamo, Il racconto della realtà (Tommaso Di Brango) p. 116; Ignazio Apolloni, Lady Macbeth (Carmen De Stasio) p. 117; Paolo Bonacchi, Dalla società delle api alle città-stato del futuro (Carmelo R. Viola) p. 121; Emiliano Fittipaldi, Così ci uccidono (Giuseppe Natale) p. 124 LIBRI RICEVUTI 127

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LETTERATURA & SOCIETÀ

NINO ARRIGO

L’estetica del mito: dal modernismo al postmoderno

Nel 1923, recensendo l’Ulysses di Joyce, in un articolo intitolato Ulysses, Order and Mith, Eliot sosteneva che «il metodo mitico è semplicemente un modo di controllare, ordinare e dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e di anarchia che è la storia contemporanea»1. L’intento di trascendere la Storia e il conseguente bisogno di ordine e perfezione, da affermare sul caos del presente, erano già stati espressi dal poeta ne La terra desolata: benché sia una dimostrazione del caos, La Terra desolata tratta in realtà del bisogno d’ordine. Esso utilizza il paradigma della fertilità come struttura di una visione trascendente […] l’ordine estetico delle parole raggiunto dal poema intende ergersi come richiamo al potere della Parola onnicomprensiva2.

La posizione di Eliot sembrerebbe scadere nel dogmatismo. Lo stesso autore non cercherà affatto di nascondere questo atteggiamento, dichiarandosi piuttosto: «classico in letteratura, monarchico in politica, e anglocattolico in religione»3. Nella visione austera di Eliot, dunque, il mito diventerebbe mera forma, la Parola che contiene (e controlla) tutte le parole, il “significante” da cui scaturiscono tutti i possibili “significati”. Ma, coincidendo con la   Cfr. T. S. Eliot, Ulysses, Order and Myth, in «The Dial», LXXV, 1923, pp. 480-483, contenuto in R. Ceserani, Il materiale e l’immaginario, Torino, Loescher, 1989, pp. 741-744. 2   L. Coupe, Il mito. Teoria e storia, Roma, Donzelli, 1997, pp. 18-19. Ma la Terra desolata è un’opera profondamente ambigua e ambivalente, un’“opera aperta”, a tal punto da consentire (anche al di là delle intenzioni del suo autore) una lettura opposta a quella di Coupe. 3   Cfr. T. S. Eliot, Opere 1904-1939, tr. it., Milano, Bompiani, 1992, p. XXVIII. 1



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tradizione codificata, tra le cui braccia cercherebbe e troverebbe riparo, il mito annullerebbe la ricerca e l’immaginazione, esorcizzando, attraverso il ricorso al dogma, la «conoscenza della metamorfosi»4. L’estetica eliotiana sembra pertanto ignorare «la dialettica tra l’immaginazione e la realtà»5, appellandosi «alla tradizione classica o almeno a una sua versione austera, piuttosto che romantica»6. Laddove, infatti, il Romanticismo accoglieva “la protesta dell’individuo”, il “modernismo”7 – di cui lo scrittore inglese è uno degli illustri rappresentanti – predica invece la “spersonalizzazione”. Ma avere una tradizione, come sostiene Cesare Pavese, «è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla»8. Ora, se possiamo cogliere una diversa concezione del mito nel passaggio dal “modernismo” al “postmoderno”, potrebbe essere la seguente: laddove nel modernismo il mito si interessa delle «radici» – e nessun altro esempio potrebbe essere più calzante, in proposito, della poetica eliotiana – nel postmoderno si interessa degli «itinerari»9. A questo punto occorre, però, una precisazione. Non è nostra intenzione aderire ad una visione lineare ed evolutiva della storia. Siamo pertanto consapevoli, usando le etichette di “modernismo” e “postmoderno”, di incappare in delle riduzioni, che tuttavia, allo scopo di chiarire ed esemplificare al meglio i nostri concetti, non potranno che risultarci utili. A tal proposito, non possiamo che condividere in pieno le seguenti dichiarazioni di Remo Ceserani: Ogni proposta di periodizzazione storica è un fatto interpretativo nostro […] le etichette che noi usiamo, come per esempio quella di modernità e postmodernità, hanno un’esistenza solo nella nostra mente, sono utili strumenti per capire e mettere ordine fra le nostre ricostruzioni e tuttavia non hanno una loro esistenza sostanziale e necessaria

  Cfr. R. Calasso, Il terrore delle favole, in I quarantanove gradini, Milano, Adelphi, 1991.   L. Coupe, cit., p. 24. 6   Ibidem. 7   Come nota puntualmente Ceserani: «la difficoltà a usare un termine come “modernismo” e a preferire semmai “modernità” o “il moderno” deriva dal fatto che “modernismo” ha avuto una sua ampia diffusione nella chiesa cattolica, applicato al movimento riformatore di fine Ottocento e primo Novecento promosso da Maurice Blondel, Alfred Loysi, George Tyrrel ed Ernesto Bonaiuti e sfociato nella condanna di Pio X con l’enciclica Pascendi del 1907. Fra i più pronti a superare ogni remora e a introdurre anche in italiano il termine “modernismo” sono stati gli anglisti» (R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 17). 8   C. Pavese, Il baleniere letterato, in Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1968, p. 84. 9   Cfr. L. Coupe, p. 60. 4 5

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nelle cose e nella realtà: sono interpretazioni più o meno convincenti, ma anche inevitabili semplificazioni di situazioni molto complesse. E le realtà complesse, per loro intrinseca natura, hanno la proprietà di contenere elementi fra loro contraddittori, tendenze contrastanti, novità e persistenze, forze innovative e conservatrici. Le realtà storiche non obbediscono a leggi deterministiche che uniformano a sé ogni singolo aspetto della vita materiale, di quella delle coscienze, di quella dell’immaginazione10.

Ma, dopo questa (utile) digressione, non ci resta che ritornare al nostro tentativo di definire (ri-definire) il mito. Una visione del mito inteso come ricerca, possibilità permanente, quale sembra profilarsi nel postmoderno, potrebbe appartenere anche a Cesare Pavese. Per lo scrittore piemontese il mito è «un’interiore immagine estatica, embrionale, gravida di sviluppi possibili, che è all’origine di qualunque creazione poetica»11, ma «la poesia è altra cosa. In essa si sa d’inventare, ciò che non accade nel concepire mitico […]. La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti»12. E ancora: Un mito è sempre simbolico; per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere in molteplici fioriture. Esso è un evento unico, assoluto; un concentrato di potenza vitale da altre sfere che non la nostra quotidiana, e come tale versa un’aura di miracolo in tutto ciò che lo presuppone e gli somiglia13.

Quello che risulta interessante in questo passo, oltre la corrispondenza tra mito e simbolo contrapposti all’allegoria, è che il mito, pur essendo un «evento unico, assoluto», è capace di «molteplici fioriture». Dunque la sua dimensione non sembra certo quella della stasi e della fissità dogmatica eliotiana. Il mito, nello scrittore langarolo, non coinciderebbe, dunque, con la tradizione («avere una tradizione è meno che nulla»), bensì con la ricerca («è soltanto cercandola che si può viverla»). La visione estetica dello scrittore piemontese sembrerebbe dunque av-

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R. Ceserani, , Raccontare il postmoderno, cit., p. 104. Cfr. C. Pavese, Il mito, in Saggi Letterari, cit., p. 315. C. Pavese, Del mito, del simbolo e d’altro, in Saggi letterari, cit., p. 274. Ivi, p. 273. NOTE E DIBATTITI

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vicinarsi a quella eliotiana: entrambi approdano alla tradizione classica, anche Pavese è un classicista, «rustico», se vogliamo sposare l’etichetta di Elio Gioanola14, ma pur sempre classicista. Ma laddove Eliot si preoccupa essenzialmente delle “radici”, Pavese si preoccupa degli “itinerari”. Nella visione dello scrittore piemontese mistificazione e demistificazione, mito e logos sarebbero complementari e compresenti nella mitopoiesi. Il logos è la voce del mito, la sua “lingua” (allegoria) e il mito è la facoltà di parlare (la «Parola omnicomprensiva» di Eliot), il “Linguaggio” (simbolo). Potremmo accostare questa dialettica a quella saussuriana tra langue e parole, significante e significato. A questo punto, dunque, non sarebbe più azzardato definire “utopistica” la visione pavesiana del mito, e “conservatrice” quella eliotiana. Entrambe affonderebbero le loro radici nel Romanticismo e da esso si divaricherebbero ma, laddove la prima sembra proiettata verso la postmodernità, più propensa a considerare il mito in una dimensione laica, secolare e ironica, la seconda (quella eliotiana) è piuttosto ancorata a quella visione tragica, austera e trascendentalista tipica del “modernismo”. La visione per così dire “utopistica” del mito, sembra essere condivisa da Paul Ricoeur. Anche per il filosofo, infatti, il mito apparterrebbe alla dimensione della possibilità. Al suo interno sarebbe attiva la dialettica tra «ideologia» (logos-modernità) e «utopia» (mito-postmodernità), ma laddove l’ideologia «ha la funzione di preservare, di conservare», l’utopia è invece «sempre uno squarcio su un luogo inesistente»15, la forza riformatrice. L’ideologia coinciderebbe dunque con la “tradizione”, la società organizzata sulla cultura e sul codice, il logos che dà voce alla forza fantastica del mito. L’utopia con la forza perturbatrice del mito, che riattiva la tradizione impedendo che si irrigidisca, si sclerotizzi, diventi dogma. Umorismo vs Ironia Alla visione “tragica” di Eliot, Lawrence Coupe oppone, piuttosto, una “visione comica” del mito, riscontrabile già nell’Ulysses joiciano (recensito, per l’appunto, da Eliot) ma, ancor più chiaramente, nell’ultimo romanzo del grande scrittore, Finnegans Wake (1939):

  Cfr. E. Gioanola, Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, Milano, Jaca Book, 2003.   Cfr. P. Ricoeur, Conferenze su ideologia e utopia (1986), tr. it., Milano, Jaca Book, 1994 (citato da L. Coupe, cit., p. 70). 14 15

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