L\'allontanamento dell\'omicida nella Biblioteca dello ps. Apollodoro.(II Jornadas Predoctorales en Estudios en la Antigüedad y la Edad Media. Κτῆμα ἐς αἰεὶ: El texto como herramienta común para estudiar el pasado. Barcelona UAB 19-20-21 Novembre 2014)

October 5, 2017 | Autor: Stefano Acerbo | Categoría: Greek Law, Classical Mythology, Mythography, Herakles
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Descripción

L'allontanamento dell'omicida nella Biblioteca dello ps. Apollodoro. In questo intervento vorrei fornire un breve saggio di uno dei molteplici modi in cui può essere indagata la tradizione mitica greca. Le leggende mitiche narrano una serie di azioni compiute da divinità e, soprattutto, eroi di cui le guerre e l'uccisione di mostri rappresentano una parte assai grande, ma non unica: la disputa per il potere, la conquista della sposa, l'assegnazione di onori, gli scambi di doni e le violenze sono temi altrettanto importanti. In tali vicende si possono delineare contesti di tipo istituzionale che si concretizzano, a volte, in forme facilmente riconoscibili quali assemblee, tribunali e vincoli matrimoniali, altre volte, in particolari gesti o comportamenti aventi un forte valore simbolico destinato a sancire uno stato di cose. Nella mia ricerca perseguo uno studio mirato al riconoscimento e alla contestualizzazione di tali elementi all'interno della tradizione mitografica, e specificatamente nella sua espressione più compiuta, ovvero la Biblioteca dello ps. Apollodoro. Uno simile studio, all'interno delle leggende eroiche, è stato praticato quasi esclusivamente in riferimento ai poemi omerici. Nella loro ricchezza, l'Iliade e l'Odissea presentano numerose descrizioni di assemblee, agoni e contese di tipo giudiziario che si possono estendere fino a divenire veri e propri spaccati di vita sociale. L'individuazione di alcune norme costanti ha permesso di definire un quadro sociale dotato di coerenza e rapportabile a un contesto storico: quello che Finley ha definito il mondo di Odisseo. Molte sono state le critiche a un tale approccio anche in ragione della eterogeneità del materiale che si ritrova nei poemi epici1. Ciononostante, nei poemi è individuabile un nucleo coerente riportabile a un certo contesto storico: studiosi quali Ulf e Raaflaub, pur giungendo spesso a conclusioni differenti da Finley, hanno ribadito che i cantori, nel rappresentare l'universo in cui agiscono gli eroi, si basavano sulla propria esperienza e, pertanto, riflettevano pratiche e istituzioni a loro famigliari. La mia ricerca è costretta a muoversi su una base molto meno salda: una coerenza di questo tipo è un elemento estraneo alla tradizione mitografica. Il mitografo di età ellenistica, e poi imperiale, non si approcciava alla materia mitica nella stessa maniera dell'aedo, ovvero riplasmandola come un qualcosa di vivo, bensì il mito era ormai tradizione letteraria, da conservare e trasmettere in una forma ordinata. Lo ps. Apollodoro tende ad azzerare il più possibile la voce del narratore e, per quanto è possibile, non altera volutamente la materia per adeguarla al contesto storico a lui prossimo. Esempio straordinario di ciò sono gli elementi assai arcaici non più compresi ma che la tradizione mitografica ha conservato, pur dando vita a vere e proprie assurdità logiche. E così, le realtà istituzionali riflesse nei racconti mitici mutano al variare delle fonti impiegate: la poesia epica arcaica, la tragedia classica, la lirica corale, la mitografia antica e la poesia ellenistica. Ognuno di questi generi riplasmava la materia a seconda della realtà circostante, ma, allo stesso tempo, conservava preziosi elementi ricevuti dalla tradizione precedente. Ovviamente la misura di ciò cambia notevolmente tra un genere come, per esempio, la tragedia che, in base alle esigenze performative, stabiliva un rapporto tra i racconti del tempo eroico e la realtà contemporanea della polis attica, e la poesia erudita ellenistica che, con spirito antiquario, mirava al recupero di rare tradizioni antiche. Pertanto è necessario ricercare un approccio differente che invece di essere penalizzato da questa complessità, riesca a valorizzare le caratteristiche proprie della mitografia, prendendo nella dovuta considerazione il variare di significato che una stessa immagine mitica poteva assumere nel corso della diacronia. Particolarmente utile risulta il metodo della polivalenza delle immagini praticato da Louis Gernet nella fase più matura della sua produzione e a lungo elaborato in appunti mai compiuti oggi riuniti nel volume Ploivalence des Images. 1

Tale quadro è reso ancor più composito dal fatto che la tradizione aedica avendo avuto una vita plurisecolare, ha conservato una serie di “fossili” di epoche antiche e ha subito influssi di aree differenti come quella vicino orientale.

La Biblioteca si presta a essere uno straordinario strumento, non per cogliere un preciso momento storico, ma per ripercorrere la diacronia delle tradizioni cogliendo, in forma quasi sincronica, il continuo mutare della valenza assunta dalle immagini mitiche. La difficoltà nell'orientarsi in questo percorso è data dal fatto che la Biblioteca fornisce rari riferimenti sicuri: i racconti sono presentati in maniera per lo più anonima. Ma proprio gli elementi istituzionali, essendo confrontabili con contesti sociali e riflettendo forme di civiltà, possono funzionare da elementi spia. Sono le tracce lasciate dagli ambienti in cui le tradizioni mitiche sono state plasmate e riplasmate. Un'operazione di questo genere deve partire dalla coscienza della complessità e pertanto vanno evitate operazioni meccaniche: in primo luogo, quando si ritrova un elemento spia che riporta a un certo contesto, non tutto il racconto deve essere riportato al medesimo quadro storico. L'eterogeneità del materiale confluito nella Biblioteca è tale che, all'interno dello stesso racconto, si possono sovrapporre più fonti. Alcuni episodi, o parentesi, spesso risultano provenire da fonti differenti da quella principalmente seguita, senza che lo ps. Apollodoro avverta il lettore, e senza chiari segnali sintattici. In questa relazione cercherò di far apprezzare la ricchezza di questa complessità e come è possibile muoversi al suo interno. Per farlo mi concentrerò su di un tema ben preciso ovvero la sanzione dell'omicidio, e, nell'impossibilità di dar conto dell'intera questione, mi soffermerò specialmente su di un caso particolarmente felice per questo tipo di studio: quello dell'uccisione di Lino da parte di Eracle. La sanzione dell'omicidio prevede, normalmente, l'allontanamento dell'assassino, indipendentemente dalle circostanze in cui è avvenuto il fatto. Fattori quali la mancanza di volontarietà sembrano non giocare alcun ruolo2: La situazione non è molto dissimile da quella normalmente rappresentata dai poemi omerici: a dominare è ancora l'impero della famiglia che non permette un esplicarsi autonomo della funzione giudiziaria. Sebbene questa risulti essere la norma che governa le questioni di omicidio all'interno delle tradizioni eroiche confluite nella Biblioteca, non mancano una serie di eccezioni, delle quali la più rilevante è offerta dalla storia mitica dell'Attica. In questo caso un vero e proprio tribunale, l'Areopago, è chiamato a giudicare quattro casi di omicidio, e la sua sentenza è dotata di un'autorità tale da poter sottrarre l'imputato al desiderio di vendetta dei parenti della vittima. L'emanciparsi della funzione giudiziaria viene a coincidere con le origini mitiche della polis: la nascita di un istituto quale l'Areopago è avvertito come un momento fondamentale dell'affermarsi della comunità dei cittadini. Altrove realtà e istituti propri della polis emergono in contesti in cui non risultano coerentemente inseriti ma dove, piuttosto, appaiono come un corpo estraneo. Proprio queste incongruenze così evidenti, sono indizi preziosi nello studio delle tradizioni eroiche, infatti sono i segni più facilmente individuabili della stratificazione presente all'interno del discorso mitico. Un chiaro esempio è fornito dall'uccisione di Lino da parte di Eracle. L'uccisione del musico causa un'azione giudiziaria nella quale Eracle ottiene l'assoluzione grazie alla lettura del testo di una legge attribuita a Radamanto. Questa azione giudiziaria, oltre a essere assente dalle altre fonti, si caratterizza per essere una semplice parentesi priva di ogni conseguenza sul corso delle vicende: nonostante l'assoluzione piena, Eracle viene allontanato da suo padre e mandato a vivere tra i pastori: decisione che risponde alla norma consuetudinaria legata a principi gentilizi. D'altronde l'inefficacia della sentenza è una logica conseguenza del fatto che manchi un contesto tale da renderla applicabile. Un simile funzionamento oggettivato della giustizia richiede l'esistenza della polis, processo che si delinea nella storia mitica di Atene ma che è da escludersi per la Tebe dell'infanzia di Eracle. 2

Peleo si rende colpevole di due omicidi: nel primo caso uccide premeditatamente il fratellastro Foco, tentando persino di occultarne il cadavere (III 162), nel secondo caso uccide del tutto involontariamente, durante la caccia al cinghiale Calidonio, Eurizione l'uomo che l'aveva accolto e che gli aveva dato in sposa la figlia: in entrambi i casi le conseguenze sono le stesse: l'eroe è costretto all'esilio (lo ps. Apollodoro usa entrambe le volte il participio φυγών).

Per cercare di comprendere le origini di questa parentesi giudiziaria sarà fondamentale considerare alcuni elementi di tipo procedurale, che permetteranno di confrontare questo processo con fasi del diritto storico a noi note. Ma dapprima è necessario fare un rapido cenno al poco che conosciamo sulle testimonianze più antiche riguardo all'incontro tra Lino ed Eracle. Come si è detto, non conosciamo nessun'altra fonte che riporti il processo intentato a Eracle; ma anche l'uccisione del musico non è certo uno degli episodi più noti all'interno della biografia dell'eroe. Esso fa la sua prima comparsa nella ceramica ateniese, dove viene rappresentato più volte in un ristretto lasso di tempo che dal 490 a.C. giunge fino al 450. Anche le poche tracce dell'esistenza di tradizioni letterarie rimandano alla città attica, dove l'episodio era oggetto di trattazione in alcune opere teatrali, come testimoniano il dramma satiresco Lino di Acheo di Eretria, attivo nella seconda metà del V secolo, i frammenti dell' Eracle di Anassandride (vissuto nel IV secolo) oltre che di una commedia di Alessi (attivo a cavallo tra il IV-III secolo). Dai pochi frammenti e dalle rappresentazioni vascolari emerge un'immagine negativa dell'eroe: esso appare come uno scolaro pigro, insensibile all'educazione musicale e interessato solo al cibo. È soprattutto una pittura vascolare ad attribuire un'estrema gravità al gesto dell'eroe: Lino mentre viene colpito è seduto su di un altare. È probabile che, a questo livello, la cacciata dell'eroe fosse una conseguenza naturale senza alcun bisogno di un processo, e di sicuro la gravità del gesto e la caratterizzazione negativa dell'eroe escludevano la possibilità di un'assoluzione piena e, pertanto, di una riabilitazione. È, ora, possibile prendere in considerazione il racconto del processo fornito dalla Biblioteca: tutta l'azione giudiziaria si concentra in un unico momento determinante: la lettura da parte di Eracle della legge di Radamanto. L'uso del verbo παραναγιγνώσκω non lascia alcun dubbio: la legge di Radamanto è una legge scritta ed Eracle non si limita a citarla, ma ne offre una lettura ad alta voce. Questo secondo elemento è decisivo in quanto si ricollega a un elemento procedurale collocabile nel tempo: per ritrovare la prima attestazione storica della lettura ad alta voce del testo di una legge bisogna risalire fino all'orazione di Andocide Sui Misteri, proprio all'inizio del IV secolo, mentre nelle orazioni del V secolo non si ritrova mai, al contrario le leggi vengono parafrasate sul momento con citazioni a memoria. Nel IV secolo questa pratica diviene diffusa ed è spesso indicata proprio dal verbo ἀναγιγνώσκω. Ciò può essere messo in connessione con i mutamenti della procedura giudiziaria che si ebbero con la restaurazione della democrazia, dopo il colpo di stato oligarchico dei trenta tiranni. Pertanto, se si tiene conto del carattere ateniese della tradizione e delle considerazioni fin qui svolte, ci sono buone ragioni di presumere che la fonte che ha trasmesso allo ps. Apollodoro l'episodio del processo, fosse un autore che aveva una famigliarità con la procedura di IV secolo. Rimane ancora un elemento da prendere in considerazione: ovvero il dettato della legge, esso, come si vedrà da un lato permetterà di ottenere una conferma alla datazione che si ricava dallo studio degli elementi procedurali, dall'altro estenderà la profondità storica del piano diacronico compreso nel racconto. Nella sua forma pura (ὂς ἂν ἀμύνηται τὸν χειρῶν ἀδίκων κατάρξαντα, ἀθῷον εἶναι) questa legge non si riferisce specificatamente a un caso di omicidio: è Eracle ad applicarlo a una simile situazione. Se astratto dal contesto narrativo della Biblioteca la legge di Radamanto è, semplicemente, un'affermazione del principio esprimibile con la forma ἦρξε χειρῶν ἀδίκων: l'ἀδικεῖν ricade interamente su colui che ha spezzato l'equilibro; è principio fatale che costui ne paghi la giusta conseguenza. Questo è un principio che si basa su una concezione religiosa assai antica di equilibrio cosmico che, non solo si ritrova frequentemente nella letteratura arcaica, ma che aveva mantenuto una presa sulle coscienze ancore nel V e IV secolo. In questa forma, un tale principio difficilmente poteva esplicarsi in una legge fissata, giacché manca di regole puntuali e definite che permettano di guidare le comunità nel loro agire: non stupisce, pertanto, che nella sua attestazione legale certa, ovvero la legge di Draconte, tale principio venga circoscritto a dei casi ben precisi. Ciò mi porta a ritenere che una legge con un dettato identico a quella letta da Eracle non fu mai in vigore in nessuna città della Grecia: la norma di Radamanto non è altro che la trascrizione, sotto forma di legge, di un principio che trae le sue origini da un fondo di

pensiero assai arcaico. E proprio di questo tipo dovevano essere le leggi che venivano attribuite ai mitici giudici cretesi Minosse e Radamanto: ciò che si desiderava ancorare a un passato venerabile e sacralizzato da un rapporto diretto con il divino, non erano singole norme riferite a casi specifici, ma i fondamenti quasi sapienziali che presiedevano al loro pensiero giuridico. Ma l'uso di un simile principio in relazione a omicidi è di estrema attualità proprio nel periodo a cavallo tra V e IV secolo: tanto nella fittizia terza Tetralogia di Antifonte, quanto nel racconto del processo di Eveone, narrato nella contro Midia di Demostene, si ritrovano due casi, quasi identici a quello di Eracle, in cui la difesa si giustifica appellandosi a principi del tutto simili a quelli sanciti dalla legge di Radamanto. La testimonianza di Antifonte è particolarmente importante: l'artificiosità del suo discorso, e l'arbitrario uso del “principio di causa”, fa trasparire l'importanza dell'attività dei sofisti nel tentativo di estendere l'applicazione di un simile principio in un ambito da cui la legge di Draconte l'aveva escluso, o, almeno, assai limitato. A questo punto traggo le conclusioni di questa rapida analisi cercando di mostrare la complessità di piani differenti che si è riuscita a individuare all'interno di un breve passo dalla Biblioteca. A inizio V secolo in ambiente ateniese fa la sua prima comparsa il racconto dell'uccisione di Lino. Successivamente nel IV secolo l'episodio venne ripreso e rifunzionalizzato in base al dibattito giuridico contemporaneo. Un ambito in cui ciò può essere avvenuto è rappresentato dal dramma attico, dove, come si è visto, il rapporto tra Eracle e Lino era oggetto di trattazione, e che mostra una sensibilità e un'attenzione alle tematiche giuridiche. All'interno di questo processo, veniva riutilizzata e risemantizzata un'antica norma consuetudinaria di ordine religioso, piuttosto che giuridico che era stata attribuita al mitico legislatore cretese Radamanto. Questi diversi piani temporali nel discorso mitografico dello ps. Apollodoro vengono fatti convergere in una continuità narrativa, all'interno della quale solo certe incongruenze fanno intuire la complessità della tradizione. Questa complessità, a causa della limitatezza della nostra conoscenza, è destinata a sfuggirci nella sua interezza, ma in alcuni casi è, per lo meno, possibile cogliere singoli momenti del processo di trasmissione del mito andati quasi completamente perduti.

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