La \"Tempesta\" interpretata

July 14, 2017 | Autor: Donatella Valentino | Categoría: Iconography, Iconology
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Descripción

Giorgione Attraverso le interpretazioni iconologiche de “La Tempesta”

Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Studi Storico-Artistici Corso di Iconografia e Iconologia 2013/2014 Docente: Prof. Caterina Volpi

Donatella Valentino

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Autore: Giorgione (Castelfranco Veneto,1478- Venezia, 1510) Titolo: La tempesta Datazione: 1505-1508? Dimensioni: 82x73 cm Collocazione: Gallerie dell'Accademia, Venezia Tecnica e materiali: Olio su tela Genere: Paesaggio con figure

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Giorgione è, senza dubbio, il pittore più misterioso e sfuggente del panorama cinquecentesco italiano e la Tempesta è, tra i suoi dipinti, il più discusso ed enigmatico. “El paeseto in tela cun la tempesta, cun la cingana et soldato, fo de man de Zorzi de Castelfranco”1 Così Marcantonio Michiel nel suo manoscritto, intitolato Notizia d’opera di disegno, ci descrive la tela che per tutto il Cinquecento rimase nella collezione Vendramin, come attestano alcuni inventari dell’epoca, per poi comparire nel 1664 e nel 1680 in due inventari della collezione del mercante veneziano Cristoforo Orsetti. Non sappiamo dove fosse collocato nel Settecento ma intorno al 1800 diventò proprietà di Girolamo Manfrin. Più avanti il dipinto fu acquistato dal principe Giovanelli. Lo Stato italiano, qualche anno dopo, riuscì a sottrarlo alle pretese dell’America e depositarlo nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia. La Tempesta è un dipinto a olio di piccolo formato(82x73), raffigurante una donna con un bambino e un uomo, in un paesaggio sotto un cielo minaccioso, nel quale guizza un lampo, che fin dal primo Cinquecento non si è mai mosso dalla città lagunare, con una storia

abbastanza documentata

e una iconografia

apparentemente semplice. Perché gode, dunque, di una fama così immensa? Che cosa rappresenta in realtà la Tempesta, raccontata in così poche parole da Michiel? E, ancora, chi è Giorgione? Quali erano i rapporti con i committenti nella Venezia di inizio Cinquecento? Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione, appartiene alla categoria dei grandi nomi della pittura rinascimentale di cui, nonostante la grande popolarità, si conosce davvero poco e in materia biografica e riguardo la produzione artistica. Si è

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Aikema B., La Tempesta, Milano 2003, pag.5

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addirittura supposto che Giorgione non sia mai esistito. Il presunto autoritratto del pittore, tramandatoci da una stampa seicentesca di Wenzel Hollar, lo ritrae nella guisa di Davide, con la testa di Golia, dall’aspetto “protoromantico”, con lunghi riccioli e sguardo intenso.2 Nato nel 1473 a Castelfranco Veneto con il nome di Giorgio Gasparini o Zorzi da Castelfranco e morto nel 1510, realizza nel 1508 l’affresco del Fondaco dei Tedeschi a Venezia, raffigurante un nudo femminile, oggi frammentario, rovinatissimo, dunque ingiudicabile ma attribuito con certezza al pittore veneziano. Per le altre opere si tratta di attribuzioni alcune approssimative altre documentate come quelle assegnate al pittore dagli elenchi di opere d’arte nelle collezioni dell’Italia settentrionale compilati da Michiel. Michiel assegna a Giorgione tre quadri:  La Venere, “La tela della venere nuda, che dorme in un paese con cupidine fù de mano de Zorzo da Castelfranco; ma lo paese e cupidine furono finti da Tiziano”(nell casa di Gerolamo Marcello, ora a Dresda).3

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Aikema B., cit., pag.9 Michiel M., Opere in Venezia, in Notizia d'opere di disegno nella prima metà del secolo XVI, esistenti in Padova, Cremona, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia, Biblioteca nazionale marciana, Iacopo Morelli, 1800, pp. 64 e ss. 3

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 I Tre filisofi, “La tela a oglio delli 3 phylosophi nel paese, de riti ed uno sentado che contempla li raggi solari cum quel saxo finto cusi mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco, et finita da Sebastiano Veneziano” ( nella casa di Taddeo Contarini, venezia; ora a Vienna)

 La Tempesta

La Notizia di Michiel fu scoperta solo attorno al 1800, in coincidenza con l’entrata dell’opera nella collezione Manfrin. Dunque prima dell’Ottocento si aveva un’idea di Giorgione come pittore associato ad un genere di pittura e ad un linguaggio formale del tutto diversi da quelli che gli sono stati assegnati con gli studi in epoca romantica. Giorgione, nell’epoca del romanticismo, veniva esaltato come il pittore del sublime e del mistero, realizzatore di soggetti sublimi e misteriosi che avevano 5

quel senso del poetico e del segreto, elementi di una pittura “spirituale”- come scrive l’inglese Walter Pater-che sembrerebbe divinamente ispirata e paragonabile alle più alte espressioni musicali.4 Gabriele D’Annunzio, nel Fuoco, parlando del pittore della Tempesta considera Giorgione come l’Epifania del Fuoco, “piuttosto come un mito che come un uomo”. Chi è allora Giorgione? Il pittore delle “teste”( per ritratti ed autoritratti), delle figure monumentali, dei grandi effetti, o piuttosto il raffinato interprete di un mondo umanistico e arcadico? La critica moderna secondo Bernard Aikema assume una posizione di cauto compromesso, accettando sia le opere accertate dalle fonti cinquecentesche (Michiel, Vasari) sia quelle attribuite nel secolo successivo, dai critici veneziani Ridolfi e Boschini, ma egli ritiene che i risultati ottenuti non sono soddisfacenti e la Tempesta si ritrova ad essere piazzata come una sorta di “icona” al centro di un gruppo di opere a grandi figure da una parte e paesaggi arcadici dall’altra. Il discorso che ci interessa più da vicino riguarda però un altro tema: se sia possibile o no recuperare il significato originale dell’opera. La tavola delle Gallerie veneziane continua a suscitare il suo misterioso fascino, non essendo giunti ad una univoca chiave interpretativa dell’opera. Come la Primavera del Botticelli, la Tempesta è , di sicuro, il dipinto di epoca rinascimentale che ha generato il numero più alto di letture critiche, raffinate congetture ed analisi dotte che, tuttavia, potremmo riassumere in tre filoni di interpretazione diversi fra loro, secondo la ricostruzione di Bernard Aikema.

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Aikema B., cit., pag.15

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Il primo filone è quello che interessa la maggior parte degli storici dell’arte, tuttora; ovvero quello della ricerca di un testo letterario che spiegherebbe l’iconografia del dipinto. Il secondo filone interpretativo è opposto al primo. Secondo i suoi sostenitori la Tempesta non ha un tema vero e proprio; si presenta invece come un dipinto senza soggetto, come “poesia pura”, come “emancipazione iconografica”, o come direbbe N.Huse (1989) una “emancipazione formale e funzionale”. Il terzo filone abbraccia l’idea che la Tempesta non debba necessariamente illustrare un esatto soggetto letterario da ricercare in un testo e l’approccio iconologico insiste sulla ricostruzione dei contesti storico-antropologico, socioculturale ed ideologico del dipinto( che si lega a ciò che Aikema scrive nel suo saggio). Il problema posto da tali differenti impostazioni di ricerca iconografica e iconologica sono riconducibili ad un contrasto fra le qualità espressive del paesaggio, che contiene in sé il fascino suggestivo dell’opera tutta e la parte figurativa, cui si vuole conferire il ruolo di illustrazione di un riferimento letterario ben preciso. Tra le varie voci critiche che hanno ricercato il significato della Tempesta ricordiamo quelle di Arnaldo Ferriguto (1922), di Maurizio Calvesi (1962), di Salvatore Settis (1978) e di Edgar Wind (1992). Partendo da quella più recente, quella di Bernard Aikema(2003), ripercorriamo quelle dei suddetti critici, analizzando i punti salienti della loro ricerca. Aikema propone un confronto con alcune opere pittoriche contemporanee, provenienti dalle regioni nordalpine e dalla Germania meridionale. Queste opere

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rivelano una vicinanza alla nuova pittura tonale introdotta da Giorgione e ai suoi suggestivi paesaggi popolati da figurine, il cui significato appare indecifrabile.

Aikema propone gli esempi di Lucas Cranach il Vecchio e il suo “Riposo dalla fuga in Egitto” del 1504, a Berlino (Gemaldegalerie Alte Meister);

di Albrecht Dürer , “Mostro Marino”, 1498;

e dell’inciosione di Albrecht Altdorfer “Coppia di amanti in un paesaggio”, 1504.

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In questi fogli dei disegni danubiani ritroviamo alcune delle caratteristiche dei dipinti veneziani: figure sedute sotto alberi in una vegetazione piuttosto opulenta, con scorci di montagne e castelli, che fanno pensare al San Girolamo del Lotto giovanile del 1509, oggi a Castel Sant’Angelo, Roma e alla Tempesta.

Seppure sia uno studio basato su indicazioni formali molto forti non trova, almeno per il momento, alcun sostegno nei documenti dell’epoca. Tuttavia, sappiamo che intorno alla fine del Quattrocento e la prima metà del secolo successivo, fra le città della Germania meridionale come Augusta e Norimberga e quelle venete erano frequenti i rapporti commerciali ed è possibile immaginare che i disegni danubiani siano giunti nella città lagunare; tra l’altro la presenza di Dürer a Venezia nel 15051506 conferma quanto detto. Interessante il confronto tra la Tempesta e

la Famiglia del satiro di Albrecht Altdorfer del 1507.

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Entrambe di piccole dimensioni e realizzate per committenti privati, presentano una simile ambientazione: la vegetazione, in una prospettiva suggestivamente atmosferica, fa da sfondo ad un gruppo di figure nude e seminude dall’enigmatico significato. E’ evidente che il dipinto dell’Altdorfer rappresenti un gruppo di figure selvagge e satiri, componente tematica che verso la fine del Quattrocento ha assunto valenza positiva, intendendo simboleggiare lo stato puro, naturale e felice degli uomini, incontaminato dalla civiltà. Seguendo questa tesi il significato di tale opera e di tutte le altre danubiane sopracitate, non è sempre legato ad un tema letterario o allegorico, piuttosto ad un concetto generale, ad un’idea, aspetto che può avvalorare la questione portante del secondo filone interpretativo della Tempesta. La vera differenza tra la Tempesta e i dipinti danubiani consiste nell’atmosfera: la Stimmung. La violenta espressività “selvatica” dei quadri e delle incisioni tedesche manca nell’opera di Giorgione, in cui domina un’aria tranquilla di discendenza bucolica, nonostante l’imminente arrivo della tempesta, che sembra non turbare l’animo dei protagonisti. Le due figure in primo piano (il soldato e la cingana, secondo Michiel) sono esempi di vita semplice e rustica e mostrano una dolcezza e una pacatezza d’animo assente nelle figure dell’Altdorfer. La Tempesta evocherebbe, dunque, un mondo primitivo ma ingentilito e semicivilizzato( si noti la presenza della colonne spezzate, rimando all’antichità classica), immagine antitetica dell’universo primordiale selvaggio e, talvolta, feroce così come concepito dagli artisti tedeschi.

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Le connotazioni arcaiche della Tempesta rimandano anche ad una tradizione letteraria italiana che richiama le teorie, che circolavano all’epoca, sugli inizi del processo di civilizzazione e che si rifanno ad autori quali Lucrezio, Esiodo e Ovidio. La prima teoria risale a Lucrezio e al suo De rerum natura in cui l’esistenza dei primi uomini, sulla terra era aspra e solo col duro lavoro essi avrebbero migliorato la loro condizione. Si pensi al trionfo degli uomini sui satiri, nella pittura del fiorentino Piero di Cosimo; la seconda teoria è opposta alla prima e fa riferimento ad Esiodo e Ovidio, ritenendo che l’uomo primitivo sarebbe vissuto in uno stato di felicità e abbondanza andato perduto a causa della sua imperfetta natura; il processo di civilizzazione assume, quindi, carattere negativo e si rispecchia in una serie di immagini, venete, di carattere bucolico come la Dejeuner sur l’herbe attribuita a Tiziano e conservata al Louvre, o la cosiddetta Venere del Pardo anche essa di Tiziano e collocata nel museo del Louvre a Parigi.

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Giorgione rappresenta, in risposta ai disegni tedeschi, un mondo semplice ma dignitoso che serba in sé tutti i motivi classici, arcadici e italiani, mettendo in campo nella sua Tempesta tutti i topoi della tradizione bucolica: la boscaglia, il fiume, le rovine, il sentiero, il ponticello. Anche il fulmine, preludio di un temporale, rientra in tale discorso. Una precisazione che Aikema fa verso la fine del suo saggio fa riferimento ad un esame radiografico, effettuato intorno al 1930, che ha rilevato un esteso pentimento. Al posto del giovane soldato, se davvero è un soldato la figura maschile sulla sinistra, c’era una donna nuda. Il cambiamento è stato a lungo oggetto di discussione tra gli iconologi. C’è da dire, però, che Giorgione sostituendo la fanciulla seduta con un giovinetto stante non ha fatto altro che accentuare la gentilezza e la grazia della civiltà mediterranea, protagonista del dipinto. Il giovane, infatti, veste in maniera elegante, calze lunghe aderenti di colori diversi, una camicia bianca sciolta e il rosso coprispalle, indumenti che lo connotano come uno della “compagnia della calza”, come veniva chiamato un gruppo di giovani patrizi dell’aristocrazia veneta. Il bastone lungo sul quale si regge, forse una lancia, potrebbe significare controllo, pubblica sicurezza, come quella che la Repubblica della Serenissima intendeva garantire in quegli anni. Howard(1985) e Kaplan(1986) hanno letto un ben più preciso significato storico e politico.

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Secondo questi il quadro allude alla guerra di Cambrai che vede lo scontro tra l’imperatore Massimiliano e le atre potenze europee schierate contro la Serenissima Repubblica di Venezia. Se, infatti, si osserva con uno sguardo attento sulla diga del ruscello e sul portone all’ingresso della cittadina si scorgono gli stemmi dei Carraresi, antichi signori di Padova, mentre più distante si vede il leone di San Marco. Questi particolari però non forniscono una base certa per la proposta che si tratti di una commemorazione delle battaglie dei veneziani contro gli eserciti asburgici per il controllo di Padova, nel 1509, per due motivi: il primo riguarda la datazione poiché è molto più probabile e documentato che il dipinto sia stato realizzato tra il 1505-7, il secondo che l’interpretazione accettata da Aikema sia quella di un significato ermeneutico dell’opera, portatrice del risultato di un dibattito storicofilosofico e ideologico, sviluppatosi attorno alle origini dell’umanità e alla superiorità della civiltà mediterranea e più precisamente di quella veneta. Senza dubbio la dimensione politica risulta di grande attualità se si pensa alla disfatta dell’armata veneziana ad Agnadello, ma l’episodio in quanto tale non spiega il più intimo significato della Tempesta. Si tratta, dunque, di una rappresentazione “venezianizzata” del concetto dell’età dell’oro, così come forse l’aveva intesa il probabile committente Gabriele Vendramin.

La figura centrale del dipinto realizzato da Tiziano nel gruppo “La famiglia Vendramin in adorazione della reliquia della vera croce”, della National Gallery di Londra, è Gabriele Vendramin, che ci viene descritto dal poligrafo Anton Francesco Doni come un uomo “veramente 13

cortese, naturalmente reale e ordinariamente mirabile d’intelligenza, di costumi e di virtù”. Appassionato e collezionista di dipinti e di antichità classiche, lettore e studioso di testi classici, legato alle ideologie venete sulle origini della civiltà, lo immaginiamo atto a contemplare il dipinto di Giorgione, in cui ritrova tutti questi aspetti. Aikema conclude il saggio riflettendo sulla novità che ha rappresentato Giorgione, inseritosi in un lungo e acceso dibattito in quanto artista. La Tempesta rivela l’ingenium e la fantasia del pittore, caratteristiche che lo connotano come artista e lo distinguono dagli altri suoi contemporanei. Nel 1922 viene pubblicato a Padova “ Il significato della Tempesta di Giorgione” in cui Ferriguto fornisce la prima lettura del dipinto delle Gallerie veneziane. Se Aikema svolge un discorso che risponde a categorie di tipo metodologico, artista-committente-contesto storico, Ferriguto fornisce, come farà Wind poi, una lettura allegorica della Tempesta. Per intendere ciò che la Tempesta significhi, Ferriguto preferisce soffermarsi su alcuni punti che riguardano la figura di Giorgione e sulla sua pittura. Egli considera ogni suo dipinto prima come opera di pensiero e poi come opera di pittura. Inseguendo un pensiero, lontano da ogni astratta forzatura di simbolo, lo riveste delle più soavi parvenze della realtà naturale. Il pittore studia la natura per vagliarla e scegliere quali siano gli elementi di essa che meglio si confanno all’espressione del pensiero da lui formulato. Ferriguto inserisce la Tempesta all’interno del contesto culturale padovano, pervaso dalla fiducia nella scienza aristotelica, in base alla quale la realtà è composta di elementi: fuoco, aria, terra, acqua, che costituiscono la materia prima dei corpi. Gli elementi oltre a fondersi insieme nei corpi, si muovono e si

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trasformano di continuo l’uno nell’altro. La Tempesta non significa solo nubifragio ma è movimento, movimento di elementi, continua trasformazione; ecco perché l’uomo non deve temerla( ritroviamo, infatti, nei volti delle figure in primo piano serenità e pacata compostezza). L’uomo e la donna con il bambino partecipano al movimento degli elementi svolgendo ruoli diversi: l’uomo dà alla prole la parte vivificante; è la forma che rende atto ciò che è in potenza. La donna ha un ruolo minore (da notare la freddezza, l’assenza del volto della figura muliebre) e sta in rapporto al sesso maschile così come la materia con la forma. Non a caso l’uomo ride ed è stante: la donna è, invece, seduta a terra ed è a stretto contatto con essa e con il paesaggio ad essa circostante. Di questa “Famiglia” l’uomo è il fattore attivo, la donna quello passivo. L’uomo ha in sé “il principio del movimento e della generazione” e lo istilla nella donna come se essa fosse materia; l’uomo è il fuoco (causa effetrix), la donna la terra in quanto soggetto trasformato; ella ha dato vita ad un bambino, simbolo del mutamento, della trasformazione e potenza dell’uomo. Ogni cosa della natura, ogni corpo è soggetto al movimento e alla trasformazione. Tutto si agita e si trasforma. Nulla è fermo. La Tempesta è, dunque, per Ferriguto una “rappresentazione sintetica della realtà umana e terrestre, osservata dal punto di vista coevo del movimento e dello svolgimento generale degli esseri”. Anche Edgar Wind realizza un commento sulle allegorie poetiche del dipinto del pittore veneziano. Nella prefazione precisa che è stata un’aberrazione, data l’essenzialità dell’immagine, insistere sul ricercare riferimenti di storia classica o di rituali ermetici, e distogliere l’attenzione sulla possibilità che Giorgione si sia servito

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semplicemente di pochi simboli rinascimentali ben collaudati all’interno della tradizione rinascimentale. Tutto, nel dipinto, assume una forte valenza allegorica. La coppia di colonne spezzate, rovine di un edificio forse mai esistito, sono emblema della fortezza ma anche annuncio dell’imminente tempesta. I due personaggi attendono con pose differenti e anch’essi sono simbolo di altro. L’uomo, vigile e stante, rappresenta la fortezza opposta alla donna che simboleggia la carità, la virtus opposta all’amor. La Tempesta è il caso che incombe, all’improvviso, è la fortuna, la sorte che sta per toccare ai personaggi in primo pino, che, seppur diversi hanno un aspetto in comune: la precarietà della loro esistenza, sia per il fatto che conducano entrambi una vita nomade sia perché c’è un destino oscuro che li aspetta. Sono, dunque, immersi in uno sfondo paesaggistico che risulta congeniale alla loro condizione. Giorgione ha realizzato un’allegoria pastorale in cui le virtù fortezza e carità sono poste drammaticamente all’interno della Fortuna e “la Tempesta nascente mette in moto l’anima”.

L’interpretazione portata avanti nel 1962 da Calvesi propone una nuova iconografia della Tempesta, non più identificata, come era stato detto in precedenza, nella Famiglia di Giorgione, ma vista come Ritrovamento di Mosè. Nei suoi Commentari il punto di partenza è la critica della tesi di Ferriguto, di cui rintraccia i limiti della sua interpretazione, poiché egli non ha approfondito il legame che intercorre tra il pensiero scientifico da lui illustrato e la tradizione ermetica

che

respinge

e

che

Calvesi,

invece,

accetta

ed

elabora.

Calvesi tenta di costruire la sua analisi conferendole un fondamento storico, attingendo da precise fonti letterarie: le storie che narrano di Mosè. Egli è convinto che il bambino, che la donna conduce al seno sia Mosè e che quella donna sia la 16

figlia del Faraone. Mancano, però, la cesta, il Nilo e le ancelle non sono presenti. Misteriosa, poi, è la figura maschile, in piedi, dalla parte opposta. E’ noto che Giorgione elaborava in maniera autonoma i suoi soggetti, in modo personale e per niente ortodosso, lontano dalle convenzioni iconografiche; tuttavia la tesi di Calvesi tenta di risolvere tutti i dubbi suscitati dalla sua innovativa interpretazione. Il ruscello, di certo, non è il fiume Nilo, ma può essere un “braccio del fiume”5, la figlia del Faraone ha appena fatto il bagno, come dimostrano i suoi capelli ancora bagnati, ma l’ancella? Calvesi fa riferimento agli studi a raggi x, cui è stato sottoposto il dipinto, che hanno rivelato un pentimento dell’artista, il quale aveva raffigurato una donna nuda,

poi

sostituita

dal

“soldato”

(come

lo

definisce

Michiel).

La città sullo sfondo è una città dell’Egitto e ne è testimone l’uccello che si trova su uno dei tetti dei palazzi. E’ un ibis, un uccello sacro all’Egitto, che preannuncia l’arrivo di una tempesta se prende il volo. Il nostro ibis è, invece, fermo. Se resta, significa che la tempesta andrà via presto. L’uomo sulla sinistra Calvesi lo identifica come Ermete Trismegisto, pastore degli uomini( testimonianza di quanto il fascino dell’Egitto abbia influenzato la cultura rinascimentale). Giorgione avrebbe raffigurato l’uomo come Ermete o Mercurio Trismegisto nell’atto di assistere in veste di protettore della donna e padrino del bambino ritrovato: Mosè. Salvando Mosè, la fanciulla ha trasgredito la legge del padre che avevo imposto l’uccisione di tutti i primogeniti maschi ebrei; le ancelle, dunque,

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Calvesi M., La Tempesta come Ritrovamento di Mosè, in Commentari, 1962, pag.232

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non sono presenti perché non condividono la scelta della figlia del Faraone e non desiderano essere sue complici. Il ritrovamento di Mosè coincide con il sopraggiungere di una tempesta; era potere di Mosè, secondo le leggende della sua vita, suscitare i due elementi fuoco e acqua, dunque fulmine e tempesta. Mosè mago e Mosè profeta come fondatore del monoteismo. E’ questa la tesi portata avanti da Calvesi: è stato Mosè a mandare la tempesta per distruggere gli idoli e purificare l’uomo dalle false credenze. Morte del paganesimo, rintracciabile anche nella presenza delle due colonne spezzate e nel ruolo che svolge il bambino, arrivato per sconfiggere l’idolatria, affermare la nuova religione e salvare l’umanità dal peccato. Calvesi avanza, così, un’ipotesi molto ardua, identificando Mosè con il Cristo o come una prefigurazione di questo. Gesù nasce da una vergine per salvare il mondo dal peccato originale, Mosè dalla terra, accolto da una donna che cerca di allattarlo, è Dio in quanto uomo. Lo Spirito Santo che rende possibile la nascita del Cristo, simbolicamente rappresentato sotto forma di colomba, lascia qui il posto ad un ibis. Molto densa è, anche, al termine del saggio la descrizione dell’opera in chiave astrologica, secondo cui ogni elemento dimostra l’adesione di Giorgione a quella concezione astrale del mondo in cui ogni cosa ha un preciso rimando a elementi di astrologia: Mosè ritrovato sotto il segno di Mercurio, il carro a quattro ruote rimanda al carro dell’Orsa maggiore, il leone raffigurato su uno dei palazzi sullo sfondo, che Calvesi chiama “ chimera” è il simbolo della distruzione. Ma ad ogni distruzione segue una rinascita che si ha con Mosè, rappresentante della sconfitta del paganesimo e vittoria della religione cristiana.

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Ultima ma non meno importante è la lettura che ne dà Salvatore Settis nella sua Tempesta interpretata del 1978. In essa confluiscono tutte le precedenti interpretazioni, in quanto l’archeologo analizza il rapporto tra l’artista, i committenti ed il soggetto, come il titolo dell’opera suggerisce. Ma ciò che ci interessa della sua tesi è il confronto con la rappresentazione del rilievo eseguito da Giovanni Antonio Amadeo per la facciata della cappella Colleoni a Bergamo, in cui si legge una scena tratta della Genesi: Adamo ed Eva con il piccolo Caino dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. A questa la Tempesta va collegata con alcune differenze: nella versione di Amadeo, Adamo è nudo e al posto del fulmine è scolpita l'immagine di Dio. Il riferimento paesaggistico è l’Eden, il paradiso terrestre, nel cui fiume Eva ha appena fatto un bagno ed è intenta ad allattare il bambino, che è Caino. La Tempesta di Giorgione, secondo Settis, potrebbe alludere alla condizione umana dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. Il fulmine è il simbolo della maledizione divina, è la voce di Dio che si scaglia contro il serpente che si nasconde, confondendosi nella terra( mostra di aver già compiuto la tentazione e subito la maledizione di Dio) e che ordina agli uomini di abbandonare il Paradiso terrestre. Riducendo Dio al fulmine, il serpente ad una presenza impercettibile, rappresentando la Morte con le colonne spezzate, il Delitto con Caino ancora in fasce, Giorgione ha evitato di ridurre il quadro ad un accumulo di momenti narrativi e ha misurato tali elementi- che il Settis analizza singolarmente come se scomponesse un puzzle- facendoli coesistere, in funzione di una rappresentazione di un solo istante, che contenesse in sé passato-presente e futuro. Tutti i protagonisti sono come immersi in un paesaggio “morale”: il serpente (la Colpa), l’arboscello (la Vergogna- Eva si copre dopo il bagno), il Fulmine ( la 19

Maledizione), Adamo (il Lavoro cui è condannato), Eva (il Parto e, dunque, il dolore), le colonne (la Morte), Caino (il Delitto e la Dannazione). Lo spettatore, quindi, guardando alla tela di Giorgione poteva riconoscersi nei panni dell’uomo-Adamo e meditare sul peccato, sulla morte e sulla precarietà della proprio condizione esistenziale. Il messaggio morale secondo la tesi di Settis potrebbe avere fondamento se si considera il fulmine, che tra l’altro era nella mitologia attributo di Giove, come la vox a longe di Dio, un aspetto che già per il Michiel era troppo lontano e incomprensibile. Del resto egli nella sua Notizia non fa alcun accenno a questo riferimento biblico e documenta la presenza del dipinto in una sala d’ufficio di Gabriele Vendramin (torniamo ad Aikema) e, quindi, l’assenza di un dato così rilevante nei documenti del catalogo dell’opera e la sua collocazione in una stanza di lavoro potrebbero escludere la lettura di un messaggio moralizzante, ( ricordiamo la semplice e sintetica descrizione che ne fa Michiel) facendo crollare il puzzle costruito e poi scomposto dal Settis. Le interpretazioni elencate si richiamano l’un'altra, pur presentando processi e conclusioni differenti ma sono testimonianza del fatto che resta in piedi l’enigma, rappresentato dalla Tempesta di Giorgione, il contrasto fra il “soggetto nascosto” e la chiave per intenderlo.6

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Settis S., La Tempesta interpretata, Torino, Einaudi, 1978, pp. 111-112

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Bibliografia di riferimento:

 Ferriguto A., Il significato della Tempesta di Giorgione, Padova 1922  Wind E., La Tempesta: commento sulle allegorie poetiche di Giorgione, in L’eloquenza dei simboli, Milano 1922, pp. 175-193

 Calvesi M., La Tempesta di Giorgione come ritrovamento di Mosè, in “Commentari”, XIII, 1962, pp. 226-255  Settis S., La “Tempesta” interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, Torino, Einaudi, 1978, pp. 82-116

 Aikema B., La Tempesta, Milano 2003

Donatella Valentino

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