LA PAROLA DEL POETA

June 14, 2017 | Autor: Claudio Tugnoli | Categoría: Death Studies, Literature, Poetry, Philosophy of Art, Critica letteraria
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Descripción

La parola del poeta di Claudio Tugnoli

Erodoto (Storie, I, 85) riferisce che Creso aveva un figlio muto da sempre. Tutti gli sforzi per fargli acquistare la parola erano stati vani. L’oracolo di Delfi aveva previsto che il figlio di Creso avrebbe parlato in un giorno di sciagura. E così accadde. Quando ormai l’assedio di Sardi da parte dei Persiani stava per concludersi con la sconfitta di Creso, questi, vista la disfatta ormai imminente, si lasciò andare, mentre un persiano gli si stava avventando contro per finirlo, «ma il figlio muto, quando vide il persiano avanzare, per la paura e per il dolore, trasse fuori la voce e gridò: “Uomo, non uccidere Creso”. Egli dunque così per la prima volta parlò, e dopo di allora per tutta la vita conservò l’uso della parola». Anche il poeta acquista la parola in seguito a un trauma. Il figlio di Creso si ribella alla sua stessa impotenza e lancia un grido nella speranza di salvare il padre dal massacro. La parola salva. La parola poetica, come la favella del figlio di Creso, irrompe all’improvviso per l’urgenza di cercare un riparo, di arginare la sciagura che si abbatte sugli umani di ogni latitudine. La parola del poeta se ne sta silente, infastidita dal chiacchiericcio insulso di un dialogare stantio, quasi fosse sprecata nei consueti commerci, ma è pronta a uscir fuori ove fosse necessario, allorché rimane l’unica salvezza possibile, il solo rimedio al dolore che si alza tutt’intorno come una barriera invalicabile. Nata dal pianto e dal calvario di un dolore a prima vista irredimibile, la poesia prende forma in testi che sono parola e silenzio, dire e non dire, ostentazione e riserbo insieme. Ecco perché ogni verso sembra incompiuto, ogni frase reticente, ogni espressione portatrice di un senso recondito, ogni assonanza o allitterazione il disvelamento di misteriose coincidenze, l’allusione a un ordine possibile. Ecco perché ogni poesia aspira a suo modo a una perfezione formale, a un timbro definitivo. Il testo poetico esibisce ordine e

concisione come risposta al disordine, al caos della dispersione e dello smembramento che sperimenta ogni vita errabonda. E la forma definitiva di un testo poetico riuscito che cosa vuole dirci se non che in quei versi si salva ogni cosa destinata a perdizione? Per non perderci, per dire a noi stessi che siamo e saremo, poetiamo. Per non rassegnarci al dolore, per restituire alla vita i nostri cari nel solo modo che ci è possibile, portiamo ghirlande di parole sulle loro tombe. La poesia ha un antenato: l’epitaffio, che sfidando l’oblio libera il caro estinto dalla macina del tempo. All’amore infranto (dal decesso dell’amata/o, dal tradimento) segue uno smarrimento (nostalgia, gelosia) che reclama una risposta, una specie di compensazione. Perché tutti gli uomini si lasciano ottundere dall’abitudine e dall’ignavia del presente, fino a perdere l’uso della parola, per poi riacquistarla, come il figlio di Creso, in seguito al dolore di un distacco improvviso, al trauma di una perdita irreparabile. La poesia non è pura forma, non è l’espressione condensata di collaudate regole stilistiche e retoriche, ma è innanzi tutto pensiero vitale. Essa vuole ricongiungere anime separate, riportando in vita la felicità perduta. La poesia è memoria e la poesia d’amore è memoria dell’amore che non vuole morire, che rimane e vince ogni ostacolo. Il mondo è imperfetto e transitorio a un’esperienza superficiale. Noi perdiamo ogni giorno qualcosa di ciò che abbiamo e di ciò che siamo, ma attraverso la poesia il passato sopravvive in ogni istante del nostro presente. La poesia ci eleva a una sfera sovratemporale, dalla quale vediamo insieme passato, presente e futuro; essa ci mostra una realtà che non sfugge di mano, che non svanisce continuamente come ogni cosa nella nostra vita, che non perdiamo per caso, ma che abbiamo sempre con noi. Nella poesia l’amata/o che non è più rimane con noi e gode di una vita eterna. Giosuè Carducci con la poesia Pianto antico restituisce alla vita il figlioletto Dante morto a soli tre anni, improvvisamente, forse di tifo: L'albero a cui tendevi La pargoletta mano, Il verde melograno Dà bei vermigli fiori Nel muto orto solingo Rinverdì tutto or ora, E giugno lo ristora Di luce e di calor. Tu fior de la mia pianta

Percossa e inaridita, Tu de l'inutil vita Estremo unico fior, Sei ne la terra fredda, Sei ne la terra negra; Né il sol piú ti rallegra Né ti risveglia amor. Il bimbo morto non ritornerà più in vita e dal poeta stanco non verranno altri fiori, mentre il verde melograno ritornerà a germogliare ad ogni primavera. Ma con questa poesia – esempio di ode anacreontica in quartine di settenari – Dante rivive per sempre nella memoria del padre, dei suoi cari e dei posteri, come se il melograno si prendesse cura del bimbo morto e amorevolmente lo portasse con sé nella sua rinascita periodica. Pianto antico è il prototipo della poesia nel suo significato fondamentale: l’origine dal dolore traumatico per la perdita di un proprio caro, il ricordo struggente della persona amata e l’aprirsi del verso come la porta di una casa, riparo sicuro che accoglie lo scomparso strappandolo all’oblio. 14 marzo 2015

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