LA MEMETICA TRA FILOSOFIA E SCIENZE COGNITIVE

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MARCO TRAINITO

LA MEMETICA TRA FILOSOFIA E SCIENZE COGNITIVE

(2013-2016)

INDICE

INTRODUZIONE LA MEMETICA COME PROGRAMMA DI RICERCA

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CAPITOLO PRIMO MEMETICA E FILOSOFIA. POPPER PRECURSORE DI DAWKINS E DENNETT

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1.1. Considerazioni preliminari

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1.2. I memetisti e Popper

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1.3. La tesi di Gatherer su Memetica e teoria dei tre mondi

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1.4. Osservazioni conclusive: per una teoria unificata

62

CAPITOLO SECONDO IL PROBLEMA DEL SOFTWARE E L’ARCHITETTURA MEMICA DELLA MENTE

80

2.1. Dennett interprete di Julian Jaynes

80

2.2. Real patterns e realtà del Mondo 2

102

2.3. Coscienza memica e Memetica cognitiva

116

CAPITOLO TERZO DUPLICAZIONE E PROPAGAZIONE

133

3.1. I memi e gli agenti di Minsky

133

3.2. Il rifiuto equivoco della Memetica e il caso Sperber

155

3.2.1. La teoria epidemiologica delle rappresentazioni

162

3.2.2. Comporre le divergenze

202

3.3. L’imitazione, i memi e il sistema specchio

2

230

CONCLUSIONE LE FRONTIERE DELLA MEMETICA E IL MEME DI ANASSAGORA

261

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

297

RINGRAZIAMENTI

318

3

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INTRODUZIONE

LA MEMETICA COME PROGRAMMA DI RICERCA

Darwin’s theory of the evolution of species by natural selection utterly transformed the field of biology. Scientists are now applying modern evolutionary theory to the way the mind works, the way people learn and grow, and the way culture progresses. In so doing, the field of psychology will ultimately be as transformed by the scientists researching memetics as biology was by Darwin. For those of us who yearn to understand ourselves, learning about memetics gives us a huge amount of satisfaction. I also believe that people who understand memetics will have an increasing advantage in life, especially in preventing themselves from being manipulated or taken advantage of. If you better understand how your mind works, you can better navigate through a world of increasingly subtle manipulation. [Brodie 1996: xiii-xiv]

Il presente lavoro ha per oggetto la Memetica, intesa come programma di ricerca scientifico ancora in fase di elaborazione sul piano dei fondamenti concettuali ed epistemologici. La prospettiva interpretativa qui assunta vede nella Memetica un approccio che, muovendo da presupposti neo-darwiniani, si colloca in una vasta area interdisciplinare che va dalle neuroscienze alla filosofia ed è in grado di fornire ipotesi scientificamente controllabili su problemi rilevanti relativi ai meccanismi di sviluppo della mente umana e alle dinamiche sottese all’evoluzione ed alla trasmissione della cultura. Lo scopo della ricerca è da un lato quello di esaminare lo stato della questione e dall’altro quello di sviluppare alcune tematiche concernenti sia il possibile sostegno scientifico

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che la Memetica può ricavare da alcune acquisizioni recenti nel campo delle neuroscienze sia la collocazione della Memetica nella prospettiva di lunga durata della storia del pensiero occidentale. In merito a quest’ultimo aspetto, non viene trascurata la possibilità di mettere alla prova il potere esplicativo della Memetica anche sul piano ermeneutico, tentando di utilizzare la Memetica come chiave interpretativa per porre in una luce nuova certe idee ricorrenti nel corso della storia della filosofia. Trattandosi di una disciplina che ha sia un padre fondatore che una data di nascita ben precisi, è opportuno innanzi tutto tenerne presente lo sviluppo nell’opera del fondatore. Si vede allora come il modo stesso in cui Richard Dawkins ha valutato la nuova scienza del meme sia legato anche alle vicende della sua ricezione tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del XX secolo. La scansione che è possibile intravedere si articola in tre fasi principali: invenzione (Dawkins 1976), latenza (Dawkins 1982, 1986) e rilancio (Dawkins 1993, 1998, 1999, 2003, 2006). Come ha osservato lo stesso Dawkins (1999), un momento particolarmente importante per la fortuna della Memetica in ambito scientifico e filosofico è rappresentato dal fatto che essa è stata rilanciata da uno dei più influenti filosofi della mente e della biologia, cioè da Daniel Dennett, il quale ha incorporato la nozione di meme prima nella sua nota e controversa teoria della coscienza (Dennett 1991a) e poi nel suo monumentale manifesto di darwinismo universale, in cui biologia, mente umana e cultura sono tenute insieme e spiegate in una cornice interpretativa unica (Dennett 1995). Successivamente Dennett ha ulteriormente approfondito la sua peculiare versione della Memetica, precisandola in chiave “enciclopedica” (2002) ed applicandola a importanti studi specifici sull’evoluzione della libertà (2003) e sulla religione come fenomeno naturale (2006). Nel frattempo escono Brodie 1996 e Lynch 1996, le prime due monografie interamente dedicate alla Memetica, intesa come strumento in grado di fornire una concezione virale della cultura (ovvero di qualsiasi messaggio che circola nel mondo della comunicazione umana, dalle ideologie alla pubblicità, dalle pratiche sociali più resistenti alle mode più effimere), nell’ambito della quale, sulla scia di Dennett 1991a e Dawkins 1993, i cervelli umani non sono altro che il “paradiso” per la replicazione, la selezione e la diffusione dei virus della mente. Di particolare importanza è anche l’esperienza del cosiddetto JoM-EMIT, cioè del Journal of Meme-

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tics. Evolutionary Models of Information Transmission, una rivista esclusivamente on line attiva tra il 1997 e il 2005 e che oggi è un grande archivio liberamente consultabile in rete. Ma l’opera di sintesi più ambiziosa resta tuttora Blackmore 1999. La psicologa inglese, sostenuta da Dawkins (che premette al volume un importante saggio introduttivo, poi ristampato in Dawkins 2003), presenta la Memetica come una scienza che, aggiungendo al gene un secondo replicatore, il meme, nel quadro del darwinismo universale, è in grado sia di superare le aporie genecentriche della sociobiologia, della psicologia e dell’epistemologia evoluzionistica sia di offrire un quadro teorico unitario per comprendere l’evoluzione del cervello umano, della mente, del linguaggio, del Sé cosciente e della cultura. Al di fuori dell’ambito angloamericano, un contributo notevole è rappresentato da Jouxtel 2005, una densa monografia scritta da un ingegnere aeronautico francese esperto di sistemi di automazione, nonché cofondatore e presidente della Société Francophone de Mémétique. Ianneo 2005, Collina e Simonte 2007 e Somigli 2011, infine, sono tre introduzioni alla Memetica realizzate da studiosi italiani. Gatherer 1998a offre uno spunto interessante per un approfondimento della Memetica in chiave storico-filosofica, perché l’autore propone un parallelismo a tre tra la nozione dawkinsiana e dennettiana di meme, la teoria popperiana dei tre mondi e quella averroista dell’Intelletto. Di questo saggio viene qui proposta un’analisi puntuale in una duplice direzione, da un lato esplicitandone dettagliatamente i contenuti (espressi in modo spesso troppo involuto) e dall’altro proponendo degli approfondimenti e degli aggiustamenti di tiro (se non addirittura delle vere e proprie correzioni) alla luce di una più minuziosa rivisitazione delle fonti soprattutto popperiane. In tal modo si vuole mostrare come la Memetica si inserisca in una tradizione filosofica ben precisa e proponga una soluzione propria a una serie di problemi filosofici relativi alla gnoseologia e all’ontologia con cui il pensiero occidentale fa i conti sin dalle sue origini (non è un caso, d’altronde, che lo stesso Dawkins si spinga fino a evocare Platone in relazione alla nozione di meme). Per quanto riguarda Popper, inoltre, si può osservare come dalla letteratura memetica emerga un atteggiamento polivalente. C’è chi, come Gatherer, lo ingloba senza troppe difficoltà nell’ambito dell’approccio memetico, seppur in maniera un po’ superficiale. Altri, invece, come la Blackmore

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(1999) e lo stesso Dawkins (1976), sembrano scettici sulla sua utilizzazione proficua, e anzi la Blackmore vede nella Memetica un superamento sia della versione popperiana dell’epistemologia evoluzionistica sia della teoria dei tre mondi. C’è infine chi, come Benítez-Bribiesca (2001), usa addirittura Popper - o, meglio, un passo di Popper 1975 - per sostenere la tesi che tutta la Memetica sia nient’altro che una pseudo-scienza priva di qualsiasi valore. Alla luce di un’esplorazione dell’opera di Popper più approfondita di quella che emerge dagli autori citati (ai quali per esempio sfugge in genere che Popper 1978, un saggio sulla comparsa della mente per selezione naturale, contiene un importante riferimento a Dawkins 1976, che lo stesso Dawkins ha sottolineato con un certo stupore riconoscente in una nota alla seconda edizione de Il gene egoista), la tesi qui proposta è che diversi aspetti del pensiero popperiano non solo possono risultare compatibili con la Memetica ma consentono addirittura di arricchirne l’ossatura epistemologica e la portata di visione filosofica generale (si pensi solo alla nozione di “epistemologia senza soggetto conoscente”, come recita il titolo dell’importante saggio del 1968 poi confluito in Popper 1972 come terzo capitolo, che può essere messa in relazione con l’opera di demolizione del Selfplex, cioè del complesso memico che costituisce la nostra idea di Sé cosciente, compiuta dalla Blackmore negli ultimi due capitoli del suo libro). Un’ambizione importante della Memetica (soprattutto nella sintesi teorica della Blackmore) consiste nel tentativo di spiegare l’evoluzione del nostro cervello, e di conseguenza di definire la funzione della mente, del linguaggio e della cultura, sulla base anche della selezione memetica, fatto salvo il ruolo imprescindibile della selezione genetica nella sfera strettamente biologica. A tal proposito, una ricognizione delle acquisizioni più recenti delle neuroscienze e della genetica applicata al tema del-l’evoluzione della cultura (soprattutto attraverso Ramachandran 2000 e 2011 e Cavalli-Sforza 2010) consente di saggiare la plausibilità di una simile ambizione. In particolare, la combinazione di Delius 1989 (in cui è avanzata per la prima volta l’ipotesi, avallata dallo stesso Dawkins, sulla natura neurale dei memi), Blackmore 1999 (soprattutto laddove si preconizza l’esistenza di neuroni specifici in grado di svolgere i compiti legati all’attività dell’imitazione, cui è attribuito un ruolo fondamentale per lo sviluppo memetico del nostro “grande cervello”) e Ramachandran 2000 e 2011 (in cui i neuroni specchio sono posti alla base dell’evoluzione della cultura

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umana e si fa ricorso esplicito a un’espressione come meme pool) sembra in grado di fornire una base empirica a questo aspetto della teoria memetica dell’evoluzione. Un modo per testare la forza esplicativa del programma di ricerca della Memetica, nonché la sua pretesa di fornire un punto di vista inedito su certi fenomeni dell’evoluzione culturale, è infine quello di metterlo all’opera su tematiche specifiche, e alcuni memetisti lo hanno già fatto. Se dal punto di vista della Memetica la cultura è il progetto a posteriori della fitness dei memi, rispetto ai quali il ruolo delle menti umane è puramente strumentale, si comprende allora, per esempio, come mai il biblista inglese Hugh Pyper abbia potuto scrivere un saggio (Pyper 1998) in cui la Bibbia è trattata come un complesso memico così potente che tutta la cultura occidentale viene vista come l’artificio creato dalla Bibbia per produrre copie sempre più numerose di se stessa (in accordo con il celebre A scholar is just a library’s way of making another library di Dennett 1991a, che rimanda sempre alla prospettiva dawkinsiana della natura strumentale del livello fenotipico rispetto all’egoismo replicativo di quello genotipico). In tal senso viene qui proposto, nella Conclusione, un contributo attraverso l’indagine del caso rappresentato dal “meme dell’Intelletto divino” o, come si propone di chiamarlo, “meme di Anassagora”, seguendolo dalla sua nascita (che convenzionalmente può essere fatta coincidere con il frammento 12 DK di Anassagora) fino ad alcune forme della sua sopravvivenza contemporanea, con particolare riferimento ad Aczel 2014. Questa indagine, che si sofferma solo su alcune tappe storico-filosofiche particolarmente significative (trattate quasi alla stregua di figure hegeliane), è condotta sulla base del tipo di approccio naturalistico ed evoluzionistico alle strutture cognitive presupposto in testi come Dennett 1987, 1995 e 2006, Dawkins 2006, Blackmore 1999, Girotto-Pievani-Vallortigara 2008, Shermer 2011 ed altri ancora. Più in dettaglio, i tre ampi capitoli di cui si compone questo lavoro possono essere sintetizzati nel modo seguente. Nel primo si parte da una mappatura quanto più esauriente possibile del modo in cui la letteratura memetica principale si è rapportata con gli aspetti del pensiero di Karl Popper relativi alla sua soluzione congetturale del cosiddetto mind-body problem e soprattutto alla sua teoria dei tre mondi; da qui, sulla base di taluni tentativi precedenti sostanzialmente isolati e indipendenti (in particolare Gatherer 1998a), viene avanzata una proposta teorica di

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integrazione più ampia e più consistente della Memetica con gli elementi citati della filosofia popperiana. Nel secondo si esamina la Memetica come teoria della mente, attraverso soprattutto l’approfondimento del nesso tra la teoria dennettiana della coscienza e la nozione popperiana di Mondo 2. In particolare, sulla base anche di un esame dettagliato della peculiare lettura da parte di Dennett del controverso Jaynes 1976, viene messa alla prova testuale e concettuale l’ipotesi di un possibile avvicinamento tra la teoria dennettiana della mente (con il ruolo costitutivo dei memi) e quella popperiana della realtà anche dei mondi 2 e 3 (Dennett 1991a-b, Popper e Eccles 1977). Contestualmente vengono presi in esame due saggi esemplari di Memetica cognitiva: Castelfranchi 2001 e Blackmore 2003. Dall’analisi emerge come la Memetica sia in grado di inserirsi nel dibattito filosofico-scientifico sulla mente con approcci e contributi precisi, soprattutto per quanto concerne lo status della mente cosciente e la funzione dei processi cognitivi come ambiente selettivo per i memi. Il terzo affronta la questione della Memetica come teoria della trasmissione e dell’evoluzione della cultura, in relazione a talune teorie alternative e sempre nell’ottica di un approccio che miri alla ricerca di un quadro teorico unificato. In tale contesto uno spazio notevole è riservato a un raffronto della Memetica con le teorie di Marvin Minsky e Dan Sperber. Una rivisitazione del modo in cui in letteratura è stato trattato il nesso tra memi, imitazione e neuroni specchio consente di trarre qualche conclusione sul genere di obiezioni alla Memetica di cui Sperber è stato il paladino. A riprova che l’ultima parola sulla questione non è stata ancora pronunciata e che la ricerca è ancora più che mai aperta, nella parte conclusiva del capitolo viene preso in considerazione il contro-modello proposto da Gregory Hickok (2014), anche per vedere da vicino alcune anomalie della teoria dei neuroni specchio, che in tal senso, malgrado alcuni facili entusiasmi, non può essere considerata l’ancora di salvezza fisica ed empirica della Memetica.

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CAPITOLO PRIMO MEMETICA E FILOSOFIA. POPPER PRECURSORE DI DAWKINS E DENNETT

Plato would enjoy it. [Richard Dawkins, in Blackmore 1999: xii]

1.1. Considerazioni preliminari Questo capitolo si prefigge uno scopo eminentemente storico-teorico modulato su due livelli. Da un lato verrà fornita una mappatura quanto più esauriente possibile del modo in cui la letteratura più influente della Memetica si è rapportata con gli aspetti del pensiero di Karl Popper relativi alla sua soluzione congetturale del cosiddetto mind-body problem e soprattutto alla sua teoria dei tre mondi, entrambe basate su un peculiare evolutionary approach (come recita il sottotitolo di Popper 1972) da cui è scaturito, attraverso l’omonimo contributo di Donald T. Campbell al volume del 1974 su Popper curato da P. A. Schilpp, l’intero campo di ricerca noto come evolutionary epistemology (cfr. Campbell 1974); dall’altro, sulla base di alcuni tentativi precedenti sostanzialmente isolati e indipendenti, verrà avanzata una proposta teorica di integrazione più ampia e più consistente della Memetica con gli elementi citati della filosofia popperiana. The Philosophy of Karl Popper, come gli altri volumi della stessa collana dedicati ai maggiori pensatori viventi, comprendeva, oltre ai contributi di diversi studiosi, un’autobiografia dell’autore in oggetto e una sezione in cui lo stesso replicava ai suoi critici. Questo fatto spiega la perentoria affermazione di Susan Blackmore: «L’epistemologia evoluzionistica è nata nel 1974 da una critica di Popper a Campbell» (Blackmore 1999: 48). Nel 1984 Popper pubblicherà un saggio intitolato proprio Evolutionary Epistemology (ora in Popper 2000:

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111-134) in cui, dopo l’omaggio di apertura a Campbell quale inventore dell’espressione per definire la filosofia popperiana della conoscenza, vengono ancora una volta passati in rassegna, sotto forma di “tesi”, i punti principali del suo peculiare darwinismo filosofico: il carattere evolutivo delle facoltà cognitive umane; la sostituzione della teoria del senso comune, osservazionista e induttivista, della mente come “secchio” con un modello ipoteticodeduttivista della mente come “faro” che esplora attivamente l’ambiente; la vita degli organismi come processo di problem solving ad ogni livello; le quattro principali funzioni del linguaggio (espressiva, segnaletica, descrittiva e argomentativa) in una prospettiva evolutiva; lo step linguistico dall’ameba ad Einstein e infine i tre mondi.1 La ragione di fondo di una simile operazione speculativa è legata all’idea che il “programma di ricerca”2 memetico, sia o no 1

Un interessante parallelismo tra l’epistemologia evoluzionistica di Popper e la Memetica (benché in chiave critica) si trova in Edelman 2006: 47-48. Ma cfr. anche Edelman 1992: 76-83, dove si insiste sul fatto che la selezione agisce su individui e non su geni o gruppi, ciò che allontana Edelman dal darwinismo universale di Dawkins e Dennett, oltre che dalla Memetica (il suo selezionismo, com’è noto, si spinge fino ai neuroni e alle funzioni cerebrali, oltre che al sistema immunitario, ma non diventa mai un panselezioni-smo). Tuttavia, il cap. 8 di Edelman 1992 può essere conciliato con l’algoritmo universale di Darwin e con la nozione di secondo replicatore della Blackmore, cioè, in ultima analisi, con la Memetica. In effetti, gli argomenti usati da Edelman alla fine del cap. 9 per difendere dalle critiche il suo darwinismo neurale possono essere usati per difendere la Memetica, perché per certi versi sono simili a quelli usati da Dennett e dalla Blackmore per difendere l’idea di applicare l’algoritmo darwiniano al secondo replicatore. All’inizio del cap. 10, peraltro, Edelman scrive: “la selezione naturale ha dato origine a sistemi somatici selettivi - il sistema immunitario e il cervello” (Edelman 1992: 155). Il discorso può essere esteso agli argomenti popperiani a favore dell’epistemologia evoluzionistica e a quelli tipici della Memetica: il cervello, infatti, ha a sua volta liberato un secondo replicatore, la cui popolazione è modificata secondo meccanismi selettivi proprio come avviene per i gruppi neuronici del cervello (tesi centrale della TSGN, la teoria edelmaniana della selezione dei gruppi neuronici) e per i linfociti del sistema immunitario (cfr. in particolare ivi: 120-121 e 138). 2 Questa classica espressione di derivazione popperiana e lakatosiana (cfr. Lakatos 1970), con cui qui si intende caratterizzare lo status epistemologico della Memetica, è usata per esempio in Jouxtel 2005: 73, in relazione all’osservazione di Dennett (1995: 466) secondo cui la Memetica, nonostante sia controversa sul piano della scientificità, ha dato risultati “più buoni che cattivi” dal

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plausibile laddove pretende di proporsi come autentica disciplina scientifica, si comprenda meglio sullo sfondo di una precisa “tradizione di ricerca”3 filosofica, di cui può a buon diritto considerarsi come un esito neodarwiniano particolarmente consonante con l’odierno Zeitgeist dominato dalla scienza e dalle tecnologie informatiche della comunicazione. Tale tradizione, che fa capo a Platone, è uno dei tronconi principali del pensiero occidentale e raggruppa una costellazione di problemi e proposte di soluzione relativi almeno alla questione degli oggetti e dei prodotti della conoscenza, al loro rapporto con il soggetto che conosce e al loro status ontologico. In tal senso esiste un ponte invisibile, a più arcate modificabili e non sempre continuo, che va dall’iperuranio di Platone e dal De anima di Aristotele alla dedica al destinatario dell’Isagoge di Porfirio e alla cosiddetta “disputa sugli universali” cui essa dette origine tormentando i logici del Medioevo, dalla teoria dell’Intelletto separato di Averroè al “terzo regno” dei contenuti del pensiero di Frege e al “Mondo 3” di Popper. Come notava Jorge Luis Borges nel saggio su Kafka (1951) di Altre inquisizioni (1952), «ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro» (in Borges 1984: 1009); allo stesso modo - essendo l’osservazione di Borges nient’altro che un caso particolare, esteso alla critica letteraria e al corrispondente livello di attività cognitiva, di ciò che gli epistemologi chiamano theory-ladenness of perception - potremmo dire che una teoria dotata di un certo potere esplicativo, indipendentemente dalla sua scientificità e persino dalla sua verità, non solo modifica la nostra considerazione dei fatti noti, ma ne crea di nuovi, e le nuove osservazioni che induce ad effettuare per il suo controllo possono persino evocare quelli che la uccideranno. Lo stesso Popper, per esempio, ha più

punto di vista filosofico. In Dawkins 1976: 209, cioè nelle pagine fondative del concetto, la teoria dei memi era presentata ancora come “pura ipotesi”. 3 Nel senso in cui usa tale espressione il filosofo della scienza Larry Laudan: “Esistono somiglianze di famiglia significative fra certe teorie che le fanno distinguere nettamente come gruppo a sé rispetto ad altre. Le teorie rappresentano esemplificazioni di concezioni più fondamentali sul mondo, e il modo in cui talune di esse si modificano e mutano ha un senso solo quando vengono viste contro lo sfondo di quelle fedi dogmatiche più fondamentali. Chiamerò l’insieme di convinzioni che costituiscono tali concezioni fondamentali ‘tradizioni di ricerca’” (Laudan 1981: 201).

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volte ricostruito4 o fatto ricostruire5 la genealogia della sua teoria dei tre mondi, partendo dalle idee di Platone e dall’“esprimibile incorporeo” (lektón) degli Stoici6 per arrivare alle “proposizioni in sé” di Bolzano e al “terzo regno” di Frege; ed è comune, nelle introduzioni generali alla Memetica, gettare uno sguardo con occhiali nuovi al passato per scorgervi precursori e “pensiero prememetico”7. Dawkins, del resto, nel suo saggio introduttivo a Blackmore 1999, mentre discute l’esperimento immaginario di una catena di bambini che costruiscono origami di giunche cinesi sulla base di «istruzioni memetiche weismanniane» scritte (e non di atti mimetici lamarckiani fondati sulla riproduzione del prodotto altrui), arriva a dire: «Tutto ciò sarebbe piaciuto molto a Platone: ciò che viene trasmesso lungo la fila dei bambini è l’idea di giunca, di cui ogni giunca reale è un’imperfetta approssimazione»8. Sarebbe un errore, tuttavia, considerare questa tradizione di ricerca alla stregua di un campo continuo. Il suo profilo temporale e concettuale presenta discontinuità significative e non a caso un memetista francese come Pascal Jouxtel fa riferimento anche alle “rotture epistemologiche” di Gaston Bachelard e alle “catastrofi” di René Thom, oltre che ai “paradigmi” e alle “rivoluzioni” di

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Un luogo classico, da questo preciso punto di vista, è Popper 1968, poi quarto capitolo di Popper 1972 (cfr. in particolare ivi: 210-214). Per quanto riguarda Bolzano e Frege, Popper fa riferimento a Bolzano 1837 (in particolare vol. I, § 9, p. 18, come si desume dalla nota 18 al cap. 3 di Popper 1972: cfr. ivi: 204) e a Frege 1892 e 1918. 5 Nei colloqui a più voci del 1983 (occasionati dal Simposio di Vienna per celebrare gli ottant’anni di Popper), poi confluiti in Popper e Lorenz 1985, lo stesso Popper affida all’allieva Irene Papadaki il compito di illustrare la “preistoria greca della teoria del Mondo 3”, che era l’argomento della sua dissertazione (cfr. ivi: 106 e ss.). 6 Cfr. il fr. 166 (von Arnim) di Crisippo, in Stoici antichi 2002: 372 e 373. 7 Così suona il titolo del secondo capitolo di Jouxtel 2005. Ma si veda anche Ianneo 2005, in particolare le due Appendici (Platone e Averroè, per esempio, compaiono nella prima, a pagina 155). 8 In Blackmore 1999: xix. È curioso osservare che questo passo deve essere sembrato filosoficamente troppo impegnativo persino allo stesso Dawkins, visto che nella ristampa del saggio in Dawkins 2003 esso è stato soppresso (cfr. ivi: 166).

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Thomas Kuhn9. Semplificando, potremmo dire che le più importanti rotture catastrofiche, non solo epistemologiche ma anche metafisiche, che si sono verificate in seno alla tradizione di ricerca di cui si è detto e che hanno portato a vere e proprie ristrutturazioni gestaltiche di paradigma concettuale, sono due. La prima è quella determinata dall’irruzione della teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale, la cui portata per la storia del pensiero umano è stata espressa da Dawkins con le parole lapidarie dello zoologo G. G. Simpson già nel primo capoverso del primo capitolo de Il gene egoista: «Che cos’è l’uomo? Dopo aver posto quest’ultima domanda, l’eminente zoologo G. G. Simpson così scrisse: “La mia opinione è che tutti i tentativi di rispondere a questa domanda compiuti prima del 1859 sono totalmente privi di valore e che faremmo meglio a ignorarli completamente”»10. La seconda si è consumata all’interno dello stesso paradigma neo-darwiniano, grazie alle nozioni di “darwinismo universale” dello stesso Dawkins e di “acido universale” di Dennett, che hanno portato a quella che lo psicologo Gary Cziko ha chiamato “seconda rivoluzione darwiniana”.11 Come ha notato Jouxtel, l’estensione dawkinsiana del darwinismo dal meccanismo di replicazione biologica al livello dei geni a quello di replicazione culturale al livello dei memi, combinata con l’osservazione dennettiana secondo cui l’“idea pericolosa” di Darwin si configura come un acido universale che «corrode quasi ogni concetto tradizionale, lasciando dietro di sé una visione del mondo rivoluzionata, con la maggior parte dei vecchi punti di riferimento ancora riconoscibili, ma trasformati in maniera sostanziale» (Dennett 1995: 77), consente di assimilare anche l’idea pericolosa di Dawkins a un acido universale che prosegue l’opera di dissoluzione investendo le costruzioni teoriche considerate più stabili, come quelle di Io e Dio.12 E infatti, mentre Dennett 1991a e Blackmore 1999 sono due esempi (non 9

Cfr. Bachelard 1940, Thom 1980, Kuhn 1962, nonché Jouxtel 2005: 165 e 214. 10 Dawkins 1976: 3. Il passo citato è tratto da Simpson 1966. Nella nota ad locum aggiunta alla seconda edizione de Il gene egoista (1989), Dawkins risponde alle critiche suscitate dalla perentorietà un po’ sbrigativa di queste affermazioni - e provenienti non solo da ambienti religiosi - precisando che l’irrilevanza sostanziale delle antropologie filosofico-religiose pre-darwiniane nulla toglie al loro interesse storico (cfr. Dawkins 1976: 279). 11 Cfr. Dawkins 1983, Dennett 1995 e Cziko 1995. 12 Cfr. Jouxtel 2005: 223.

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sempre sovrapponibili) dell’opera di demolizione in chiave memetica condotta nei confronti dell’idea sostanzialistica tradizionale del Sé cosciente, Dennett 2006 e Dawkins 2006 sono due monumenti edificati sulle macerie del concetto di Dio lasciate dal passaggio dell’analisi memetico-naturalistica su un fenomeno come la religione. La rivoluzione concettuale determinata da Darwin, con la sua collocazione dell’uomo in uno dei rami dell’albero della vita che - procedendo dal basso sotto la spinta di processi selettivi in cui delle cascate di “gru” (per usare la celebre immagine di Dennett 1995) fanno il lavoro di produzione del complesso “progetto” apparente degli organismi viventi a partire dalle forme di vita più semplici - tiene insieme tutte le specie, con la conseguente falsificazione di ogni altra concezione che lega la specie umana a uno speciale, misterioso e privilegiato “gancio appeso al cielo” (ancora nel senso di Dennett 1995), è ben nota. Ma è quella determinata dalla prospettiva del meme come replicatore autonomo egoista che sembra ancora più minacciosa per certe convinzioni radicate nel sentire comune umano, perché va a destabilizzare la concezione ultradominante13 dell’Io kantiano-cartesiano accentratore che intenzionalmente produce le conoscenze, le tiene sotto controllo ed è pienamente responsabile della loro rappresentazione e manipolazione. Com’è stato notato14, la difficoltà psicologica ad accettare un simile capovolgimento copernicano del tradizionale antropocentrismo epistemologico è una delle fonti dell’avversione culturale scatenata oggi dalla Memetica in molti settori della comunità intellettuale.15 Da questo punto di vista, la Memetica può 13

Uso il termine nel senso memetico tecnico proposto da Jouxtel: “Meme quasi universalmente condiviso da tutte le soluzioni possibili in una società, al punto che non viene mai messo in discussione” (2005: 238). 14 Cfr. ad esempio Ianneo 2005: 25. Sentirsi dire, come recitava la quarta di copertina di Lynch 1996, che il problema non è capire come gli uomini si impossessano delle idee, ma come le idee si impossessano degli uomini, non è piacevolissimo per il nostro Ego: su questo punto si veda anche Jouxtel 2005: 36 e 104, nonché 234, dove si ammette che “nel mondo dei memi non siamo più gli abitanti, ma le case”. Analoghe considerazioni si trovavano già nell’introduzione di Brodie 1996, dove, a proposito della Memetica, si faceva un uso esplicito della nozione kuhniana di paradigm shift nell’ambito della scienza della mente (cfr. in particolare p. xv della riedizione 2009). 15 A tal proposito, il modo in cui John Searle rigetta la nozione di meme nella sua recensione duramente critica dedicata a Dennett 1991a è paradigmatico, perché, pur di difendere l’intenzionalità e l’autonomia originarie del campo

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allungare la celebre lista delle mortificazioni che la scienza ha inflitto all’ingenuo amore di sé tipicamente umano, compilata da Freud al termine della diciottesima lezione di Introduzione alla psicoanalisi16: dopo Copernico, Darwin e lo stesso Freud, che avevano detronizzato l’uomo conscio e razionale rispettivamente dalla sua presunta posizione centrale nell’universo fisico, nell’ordine degli esseri viventi e nel campo dei fenomeni psichici, Dawkins viene a dire all’umanità che i suoi prodotti culturali sono in realtà le manifestazioni fenotipiche di unità di trasmissioni che si replicano egoisticamente e non necessariamente a vantaggio dei loro veicoli umani. A tal proposito i passi cruciali, su cui poi avrebbero giustamente insistito i maggiori teorici della Memetica17, erano già presenti nell’un-dicesimo capitolo di Dawkins 1976, cioè nell’atto di nascita della teoria: «siamo stati costruiti come macchine dei geni e coltivati come macchine dei memi» (ivi: 210) e «quando osserviamo l’evoluzione dei tratti culturali e il loro valore di sopravvivenza, dobbiamo indicare chiaramente chi intendiamo che sopravviva. I biologi (...) sono abituati a cercare vantaggi a livello dei geni (o dell’individuo, del gruppo o della specie secondo i gusti). Ciò che non abbiamo considerato in precedenza è che un tratto culturale possa essersi evoluto nel modo in cui si è evoluto semplicemente perché è vantaggioso per lui» (ivi: 209). Da qui la famosa battuta di Dennett: A scholar is just a

unitario della coscienza (che per i memetisti è a sua volta un complesso coadattato di memi posto al vertice della gerarchia di arbitrati che costituisce l’architettura della nostra mente), non si rende conto che la sua obiezione era già stata ampiamente discussa e decostruita non solo nella letteratura memetica ma anche all’interno dell’opera di cui sta parlando: “Credo che l’analogia tra ‘geni’ e ‘memi’ sia sbagliata. L’evoluzione biologica deriva da forze naturali, brute e cieche. La propagazione di idee e teorie per ‘imitazione’ è un tipico processo cosciente e diretto al raggiungimento di un obiettivo (...) [L]a propagazione di idee attraverso l’imitazione richiede l’intero apparato della coscienza umana e dell’intenzionalità. Le idee devono essere capite e interpretate” (in Searle 1997: 84). Un argomento analogo contro i memi si trova nell’ultimo paragrafo del terzo capitolo di Pinker 1997 (cfr. in part. le pp. 208210 dell’ed. orig.). 16 Cfr. Freud [1915-1917] 1978: 258-259. Su questo punto si vedano anche Ramachandran e Blakeslee 1998: 179 e soprattutto la densa nota 75 di Sacks 1996: 277-279. 17 Si vedano, ad esempio, Dennett 1991a: 229, Dennett 1995: 459, Dennett 2006: 375 e naturalmente Blackmore 1999: passim.

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library’s way of making another library18, il cui schema di fondo è un ottimo meme che si presta a molteplici e interessanti variazioni. Già nel 1983, nel saggio L’abduzione in Uqbar, scritto come introduzione all’edizione tedesca di Sei problemi per don Isidro Parodi di Borges e Casares (1942) e poi incluso in Eco 1985, Umberto Eco considerava “un buon procedimento borgesiano” assumere che i libri parlino tra di loro usando come artifici gli autori (e i lettori, si potrebbe aggiungere), nello stesso senso in cui è possibile dire dawkinsianamente che «una gallina è l’artificio che un uovo usa per produrre un altro uovo» (in Eco 1985: 165-166). Il teologo Hugh Pyper, dal canto suo, ha usato argomenti dawkinsiani e memetici non solo per dimostrare che il testo biblico è un campione darwiniano di sopravvivenza per la sua longevità e per la sua fecondità (è difficile trovare angoli abitati del pianeta in cui non ce ne sia una copia cartacea e tra le sue macchine involontarie da sopravvivenza e da trasporto ci sono pure personaggi come Dawkins) ma addirittura per definire l’intera civiltà occidentale come l’artificio creato da complesso memico della Bibbia per creare sempre più copie di se stesso19. Si rifletta per esempio sull’influenza esercitata dalla necessità di replicare la Bibbia (a sua volta uno dei memi del memeplesso biblico) sull’evoluzione dell’abilità della scrittura a mano nel corso del Medioevo e sulla nascita, all’alba dell’età moderna, della tecnologia della stampa, nonché sul fatto che l’e-book oggi più universale e più facile da trovare in rete per scaricarlo gratuitamente su pc, tablet e smartphone sia proprio la Bibbia. Tutto ciò implica che la fitness dei memi può rendersi indipendente dalla nostra, come dimostrano purtroppo anche i memi delle sigarette e quelli delle ideologie fanatiche di ogni genere. E questa, com’è evidente, non è una buona notizia. Un passo avanti ulteriore in questa direzione può essere compiuto se pensiamo a quello che Dawkins, nel tredicesimo capitolo de Il gene egoista, che costituisce una sintesi di Dawkins 1982 ed è stato aggiunto insieme al dodicesimo alla seconda edizione del libro, presenta come il “Teorema centrale del fenotipo esteso”: «il comportamento di un animale tende a massimizzare

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Cfr. Dennett 1991a: 228 e Dennett 1995: 437. Cfr. Pyper 1998, Blackmore 1999: 329-330 e 397, Ianneo 2005: 221 e Dennett 2006: 3. 19

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la sopravvivenza dei geni “di” quel comportamento, indipendentemente dal fatto che i geni si trovino nel corpo di quell’animale particolare che ha quel comportamento»20. Questo teorema serve per esempio a spiegare il comportamento di una specie di formica come il Monomorium santschii, che propaga i propri geni parassitando il sistema nervoso delle operaie di un’altra specie e inducendole, forse chimicamente, a uccidere la loro stessa madre in modo che possa prenderne il posto. Il comportamento indotto delle operaie sterili, in tal modo, pur essendo una follia dal punto di vista dei loro stessi geni, massimizza la sopravvivenza dei geni dell’usurpatrice. In maniera del tutto analoga, la risposta alla domanda Cui bono? per spiegare certi comportamenti umani palesemente contrari alla fitness genetica (e quindi incomprensibili dal punto di vista di un approccio sociobiologico o psicologico-evolutivo) può trovarsi nel vantaggio replicativo dei memi che hanno parassitato i cervelli di chi li mette in atto. L’esempio poi divenuto classico nella letteratura memetica, ma avanzato da Dawkins stesso già nelle pagine fondative sui memi, è quello del meme del celibato dei preti (con annessa castità, precisa maliziosamente Dennett per prevenire facili obiezioni), il cui fenotipo esteso, alla luce del teorema di Dawkins, è l’insieme delle vite di cui ha preso il controllo21. L’epistemologia evoluzionistica e la teoria dei tre mondi di Popper costituiscono, a mio parere, tappe particolarmente significative della seconda rivoluzione darwiniana da un punto di vista prettamente filosofico. Come vedremo, lo spettro di Popper aleggia sulla letteratura memetica e gli atteggiamenti nei suoi confronti sono molto diversificati. Si va, per esempio, da un approccio come quello della Blackmore, la quale, dopo un confronto con Popper, conclude che il suo pensiero è superato dalla Memetica, al tentativo di Derek Gatherer di fondere la Memetica con la teoria dei tre mondi. Nel mezzo possono essere collocati Dawkins e Dennett, i quali, sebbene non affrontino mai esplicitamente il problema del rapporto tra la Memetica e il pensiero di Popper, si richiamano sporadicamente a quest’ultimo in circostanze di una certa rilevanza. Faremo inoltre riferimento a due esempi che si collocano fuori da questo schema e che tuttavia costituiscono due opzioni tra loro molto diverse e a modo loro significative: un uso 20 21

Dawkins 1976: 264 (corsivo dell’autore). Cfr. anche Dawkins 1982: 233. Cfr. Dawkins 1976: 208, Dennett 1995: 465 e Blackmore 1999: 232-235.

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di Popper contro la Memetica e un utilizzo della Memetica nell’ambito della letteratura popperiana. D’altra parte, pur avendo avuto a disposizione ben diciotto anni per confrontarsi con il meme del meme, Popper non ne ha mai parlato nei testi pubblicati tra il 1976 e il 199422. Eppure, come si vedrà nel prossimo paragrafo, egli è certamente entrato in contatto con almeno due testi che parlano di memi: Dawkins 1976 e James 1980.

1.2. I memetisti e Popper Se si esclude Gatherer 1997a, di cui diremo nel prossimo paragrafo, la letteratura memetica sembra avere sottovalutato un fatto piuttosto rilevante. Nelle prime pagine dell’undicesimo capitolo de Il gene egoista, un attimo prima di introdurre la nozione di meme, Dawkins citava proprio Popper in cima alla lista dei quattro esempi precedenti di autori che avevano proposto un approccio evoluzionistico alla cultura in qualche modo assimilabile a quello che lui stava per presentare: «L’analogia fra l’evoluzione culturale e quella genetica è stata spesso tirata in ballo, spesso con toni esageratamente mistici. In particolare, Sir Karl Popper ha studiato l’analogia fra il progresso scientifico e l’evoluzione genetica a opera della selezione naturale. Vorrei spingermi ulteriormente in direzioni esplorate anche, per esempio, dal genetista L. L. Cavalli-Sforza, dall’antropologo F. T. Cloak e dall’etologo J. M. Cullen» (Dawkins 1976: 200). Ora, in lavori di sintesi generale sulla Memetica, come Dennett 2002, Ianneo 2005 e Jouxtel 2005, con l’eccezione di Blackmore 1999 e Jesiek 2003, i nomi di Cavalli-Sforza e Cloak, in quanto autori di proposte teoriche precedenti e in qualche modo simili a quella di Dawkins, ritornano regolarmente, mentre quello di Popper non è praticamente mai

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L’affermazione è volutamente avventata e sarebbe interessante se essa venisse smentita. Tuttavia, sembra proprio che la parola “meme” non ricorra mai nei testi pubblicati da Popper dopo il 1976.

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fatto.23 Eppure Popper 1975, cui Dawkins rimandava nella bibliografia della prima edizione, è un saggio di notevole importanza filosofica24 e vale la pena soffermarsi con attenzione su di esso, anche per capire la pertinenza del suo utilizzo in chiave antimemetica da parte di Benítez-Bribiesca, di cui parleremo più avanti in questo paragrafo. La razionalità delle rivoluzioni scientifiche. Selezione versus istruzione deriva dal discorso letto da Popper alle Herbert Spencer Lectures del 1973, quell’anno incentrate sul tema del progresso scientifico e degli ostacoli al progresso nelle scienze. Il testo è scandito in quattordici paragrafi e riguarda il progresso scientifico, dal punto di vista evoluzionistico (§§ 1-7) e logico (§ 8), e gli ostacoli sociali, di natura economica e soprattutto ideologica, che ne possono frenare il corso (§§ 9-14). Per i nostri scopi, qui basterà esaminare da vicino il modello di epistemologia evoluzionistica delineato da Popper nei primi sette paragrafi, tenendo presente che in tutto il pur denso saggio Popper non fa mai cenno esplicito alla teoria dei tre mondi, nonostante essa sia implicita in questo testo e onnipresente nel resto della produzione coeva, a cominciare da Popper 1972. Questo dettaglio può forse spiegare il motivo per cui Dawkins non la evochi ne Il gene egoista. Come dimostrano gli occasionali riferimenti nelle opere successive, egli è un lettore piuttosto superficiale di Popper. Per esempio, in Dawkins 1986: 64 (unica occorrenza) Popper compare in una lista di filosofi della biologia poco attendibili, senza che il lettore abbia modo di capire il perché; mentre in Dawkins 2003 Popper compare prima (ivi: 16) in un contesto in cui sembra che Dawkins, nel criticare i vari contestatori della nozione di verità oggettiva, non 23

Il nome di Popper non compare nemmeno in Brodie 1996 e Lynch 1996, che costituiscono le prime due monografie sui memi come replicatori culturali virali, uscite quasi in contemporanea. Dalla letteratura è sparito anche il nome di Cullen, forse perché il lavoro citato da Dawkins in bibliografia (Cullen 1972) era troppo settoriale e riguardava principalmente la comunicazione animale. I testi degli altri tre citati da Dawkins nella bibliografia della prima edizione de Il gene egoista erano Popper 1975, Cavalli-Sforza 1971 e Cloak 1975. La bibliografia della seconda edizione aggiunge Cavalli-Sforza e Feldman 1981 e Popper 1978 (dell’importante ragione di quest’ultima aggiunta si dirà più avanti). 24 Lo stesso Popper lo ristamperà come primo capitolo di una delle sue ultime raccolte di saggi (cfr. Popper 1994a). Si noti che Jesiek 2003, che pure insiste sul riferimento di Dawkins a Popper, in bibliografia rimanda genericamente solo a Popper 1972.

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lo distingua troppo da Thomas Kuhn (una sorta di eresia per i frequentatori dell’opera popperiana), e poi (ivi: 263) nell’ambito di un omaggio a Peter Medawar in cui Dawkins ironizza (di nuovo senza che il lettore possa capire il perché) sul grande fascino che l’epistemologia popperiana ha esercitato sullo scienziato premio Nobel. Dal capitolo “Learning the trade” del primo volume della sua autobiografia, che arriva fino all’epoca della stesura de Il gene egoista, si apprende però che da studente Dawkins era rimasto molto influenzato dal metodo popperiano delle congetture ardite e dei controlli intesi come tentativi di falsificazione, al punto da metterlo in pratica nelle sue prime ricerche; ma tutto ciò che sapeva del pensiero di Popper, com’egli stesso dice, lo aveva appreso da Medawar: «it was from them [cioè, dai saggi di Medawar] that I learned about Karl Popper. I became intrigued by Popper’s vision of science as a two-stage process: first the creative – almost artistic – dreaming up of a hypothesis or “model”, followed by attempts to falsify predictions deduced from it» (Dawkins 2013: ebook). Lo scopo di Popper, nella prima metà del saggio, è quello di mostrare in che modo la scienza e il progresso scientifico possano essere considerati delle forme di adattamento all’ambiente in cui l’uomo vive, e pertanto essere studiati da un punto di vista biologico ed evoluzionistico. A tal fine egli distingue tre livelli di progresso o adattamento (quello genetico, quello dell’apprendimento comportamentale e quello della scoperta scientifica) e, servendosi delle idee-guida dell’istruzione e della selezione, avanza la tesi secondo cui «in tutti e tre i livelli (...) il meccanismo dell’adattamento è fondamentalmente lo stesso» (in Popper 1994a: 19. Corsivo dell’autore), salvo alcune differenze. L’uso che Popper fa delle nozioni di istruzione e selezione anticipa chiaramente quello che in seguito, grazie soprattutto a Dennett 1995, verrà chiamato algoritmo darwiniano dell’evoluzione: L’adattamento ha inizio a partire da una struttura ereditata, una struttura di basilare importanza per tutti e tre i livelli: la struttura genetica dell’organismo. Ad essa corrisponde, al livello comportamentale, il repertorio innato dei tipi di comportamento che l’organismo può eseguire e, al livello della scienza, le congetture e teorie scientifiche più importanti. Tali strutture sono sempre trasmesse per istruzione in tutti e tre i livelli: attraverso la riproduzione dell’istruzione genetica codificata ai livelli genetico e comportamentale, e attraverso la tradizione sociale e l’imitazione ai livelli comportamentale e scientifico. A tutti e tre i livelli, l’istruzione proviene dall’interno della struttura.

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Se hanno luogo mutazioni, variazioni o errori, allora compariranno nuove istruzioni, ma anche queste traggono origine dall’interno della struttura, non provengono dall’esterno, dall’ambiente. (...) La fase successiva consiste nella selezione tra le mutazioni e variazioni disponibili: i tentativi provvisori malamente adattati vengono eliminati. È la fase dell’eliminazione dell’errore. Solo le istruzioni provvisorie più o meno adatte sopravvivono e a loro volta vengono trasmesse ereditariamente. Possiamo perciò parlare di adattamento secondo «il metodo per prova ed errore», o meglio, secondo «il metodo per prova ed eliminazione dell’errore». L’eliminazione dell’errore, o delle istruzioni malamente adattate, è anche chiamata «selezione naturale» (ivi: 19 e 20. Corsivi dell’autore).

Si noti, innanzi tutto, il riferimento all’imitazione, di cui ci serviremo per ridimensionare il pessimismo della Blackmore sulla compatibilità della Memetica con l’epistemologia evoluzionistica di Popper. Il meccanismo stesso della selezione naturale, poi, fa sì che il processo dell’adattamento sia sempre instabile, cioè, per usare un termine classicamente popperiano, applicato di volta in volta alla società (Popper 1945), all’universo (Popper [1956] 1982a) e al futuro (Popper e Lorenz 1985), aperto: ad ogni livello, ogni stato raggiunto determina mutamenti nell’ambiente circostante tali che questi esercitano nuove pressioni selettive e quindi nuove selezioni di variazioni più adatte al nuovo contesto, e pur sempre instabili, generate con gradi diversi di casualità. A livello genetico, una mutazione potrebbe comportare la creazione di un nuovo enzima e questo, modificando l’ambiente del gene, potrebbe imprimere direzioni nuove alle mutazioni e alle selezioni successive; a livello comportamentale, la sperimentazione di una nuova soluzione può equivalere all’esplorazione di una nuova nicchia ecologica, che a sua volta porrà nuovi problemi di adattamento, cioè nuove pressioni selettive che potrebbero riverberarsi sulle probabilità di successo delle mutazioni genetiche successive; al livello delle teorie scientifiche, infine, la scelta di una soluzione provvisoria, la cui creazione per mutazione può seguire le vie più irrazionali, casuali o creative (più avanti, Popper citerà casi celebri di scoperte “irrazionali”, come quello di Poincaré: cfr. ivi: 32), modificherà il panorama dei problemi, perché per ogni problema risolto ne emergerà almeno un altro, nuovo e più profondo, che porterà con sé nuovi controlli della congettura e nuove confutazioni. Vale la pena osservare qui che questa idea, su cui Popper fondava già in alcuni saggi degli anni Sessanta (poi confluiti in

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Popper 1972: cfr. in particolare il cap. 7) la sua ipotesi del “dualismo genetico”, secondo cui esistono geni che regolano disposizioni al comportamento che a loro volta, con la loro spinta all’esplorazione attiva di nuove nicchie ambientali e delle opzioni offerte dallo stesso repertorio comportamentale, esercitano pressioni selettive sui geni che regolano le strutture fisiche dell’organismo, consente al darwinismo di simulare il lamarckismo e in qualche modo di spiegarne l’apparente plausibilità (cfr. la nota 12 del saggio, in Popper 1994a: 47). E si può rilevare come particolarmente interessante da un punto di vista memetico-mediatico il fatto che la versione di tale idea illustrata plasticamente da Jacques Monod nel paragrafo del settimo capitolo de Il caso e la necessità intitolato “Il comportamento come agente che orienta le pressioni selettive”, con l’immagine del «pesce primitivo [che] ‘scelse’ di andare ad esplorare la terra» (Monod 1970: 104) e creò così le condizioni per la comparsa dei Vertebrati tetrapodi, sia tornata alla ribalta in maniera virale il 24 settembre 2013 grazie a un veicolo inaspettato, perché è stata citata come esempio di “fantascienza” evoluzionistica da Joseph Ratzinger nella sua lettera a Piergiorgio Odifreddi, pubblicata sul quotidiano «La Repubblica», in risposta al libro di quest’ultimo di due anni prima indirizzato all’allora papa Benedetto XVI (Odifreddi 2011). La grande eco mediatica dell’evento fu dovuta naturalmente al carattere a dir poco insolito della situazione: un ex papa che invia una risposta argomentata a un libro contro di lui scritto da un matematico celebre per i suoi libelli di propaganda atea e anticlericale, è di per sé un meme formidabile, tant’è vero che ancora il 3 ottobre si poteva leggere sullo stesso quotidiano (p. 28) la lettera di un docente di Citologia e Anatomia comparata dell’Università La Sapienza di Roma, Bruno Bertolini, in cui veniva stigmatizzata l’incauta citazione di Monod da parte di Ratzinger. Significativamente, poi, nello stesso contesto, Ratzinger citava anche Il gene egoista come esempio di fantascienza, forse riecheggiandone inconsapevolmente l’incipit della prefazione alla prima edizione: «Questo libro dovrebbe essere letto quasi come se fosse un libro di fantascienza. Infatti, è stato pensato per stimolare l’immaginazione del lettore. Tuttavia, non si tratta di fantascienza, ma di scienza vera» (Dawkins 1976: vii). Del resto, al nono capitolo di Monod 1970, cui

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rimanda lo stesso Popper nella nota 43 del saggio che stiamo discutendo25, fa un rapido riferimento il memetista Jouxtel come a uno dei luoghi “prememetici” più significativi della cultura francese (cfr. Jouxtel 2005: 55). Ed è difficile non concordare con lui, soprattutto alla luce del paragrafo intitolato “La selezione delle idee” (da parte sua, Jouxtel riporta solo le righe iniziali del capitolo, cioè Monod 1970: 129): «Il confronto tra evoluzione delle idee e evoluzione della biosfera è un tema affascinante per un biologo poiché, se il Regno astratto trascende la biosfera ancor più di quanto questa trascenda l’universo non vivente, le idee hanno pur conservato certe proprietà degli organismi. Come questi, esse tendono a perpetuare e moltiplicare la propria struttura, come questi, esse possono fondersi, ricombinarsi, segregare il loro contenuto, come questi, infine, esse si evolvono e, in quest’evoluzione, la selezione, forse, svolge una funzione fondamentale. Non mi arrischierò a proporre una teoria sulla selezione delle idee ma è perlomeno possibile cercare di definire alcuni dei principali fattori che vi intervengono. Essa deve necessariamente agire a due livelli: quello mentale e quello della realizzazione. Il valore di realizzazione di un’idea dipende dalla modificazione di comportamento che essa provoca nell’individuo o nel gruppo da cui viene adottata. Quell’idea, che conferisce maggior coesione, maggior ambizione e maggior fiducia in sé al gruppo umano che la fa propria, contribuirà anche ad aumentarne il potere di espansione, che assicurerà la sua stessa diffusione. Non esiste un rapporto necessario tra questo valore di promozione e la parte di verità oggettiva che l’idea può comportare. La solida armatura costituita, per una società, da un’ideologia religiosa non deve nulla alla struttura in se stessa, ma al fatto che tale struttura viene accettata, che si impone. Pertanto è ben difficile distinguere tra il potere di penetrazione di una simile idea e il suo potere di realizzazione. Il potere di penetrazione, in sé, è molto più difficile da analizzare. Esso dipende dalle strutture preesistenti della mente, che comprendono le idee già trasmesse dalla cultura ma anche, senza dubbio, certe 25

In Popper 1994a: 53; e si noti che Monod, a sua volta, all’inizio del sesto capitolo, dovendo delineare le due epistemologie metafisico-ideologiche tradizionalmente contrapposte, quella dell’invarianza e quella del mutamento, evoca Eraclito e Platone proprio sulla base del primo volume di Popper 1945: cfr. Monod 1970: 86; lo stesso Popper, poi, renderà omaggio a Monod dedicandogli l’edizione francese della sua Open Society, uscita nel 1978, due anni dopo la morte dello scienziato.

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strutture innate, d’altronde ben difficilmente identificabili» (Monod 1970: 133). Oltre agli aspetti comuni nel meccanismo di adattamento ai tre livelli, secondo Popper ci sono però alcune differenze, e sono queste che spiegano la specificità umana sul piano della cultura. A suo giudizio, al livello dei geni le mutazioni sono del tutto casuali e cieche26, e la cecità va intesa sia nel senso che esse sono prive di scopo sia nel senso che la loro sopravvivenza eventuale può al massimo incidere sulla probabilità di sopravvivenza di tipi futuri di mutazioni. Al livello comportamentale, invece, la casualità e la cecità sono più ridotte, perché gli organismi selezionano le opzioni sulla base di scopi e in più possono imparare dagli errori. Inoltre, le mutazioni comportamentali danno luogo a strutture flessibili (un repertorio di comportamenti esplorativi), mentre quelle genetiche danno luogo a strutture rigidamente co-dificate, a meno di ulteriori modifiche discrete. Ma è al livello della scienza che, secondo Popper, emergono le novità più significative. Non si tratta tanto del carattere rivoluzionario e creativo delle scoperte scientifiche, perché anche a livello genetico e comportamentale si danno rivoluzioni e creazioni di strutture nuove. La peculiarità del livello scientifico è dovuta al linguaggio, che da un lato consente l’oggettivazione esosomatica delle teorie nuove da sottoporre alla selezione critica, ovvero la possibilità che «criticando le nostre teorie possiamo farle morire al nostro posto» (ivi: 24. Corsivo dell’autore), e dall’altro, stimolando l’immaginazione creativa, ovvero il racconto di narrazioni esplicative, fa emergere la necessità della discussione razionale 26

È interessante osservare che nella nota relativa a questo punto Popper dichiara di rifarsi, soprattutto per il secondo senso di “cecità”, a Campbell, ovvero, tra gli altri, a Campbell 1960 (cfr. Popper 1994a: 45), dove le nozioni di blind variation e selective retention sono estese dall’ambito biologico a quello della creatività e della conoscenza umane, sulla base dell’assunto che evoluzione biologia ed evoluzione culturale siano casi particolari di un medesimo meccanismo generale di modificazione darwiniana. Questa idea, che anticipa chiaramente il darwinismo universale di Dawkins e l’algoritmo darwiniano, neutro rispetto al sostrato, di Dennett, verrà non a caso fatta propria dai memetisti e la Blackmore, sulla scorta di Durham 1991, si riferisce ad essa chiamandola “regola di Campbell” (cfr. Blackmore 1999: 28-31, 57, 102. In quest’ultimo luogo, peraltro, si legge: “Non dobbiamo scordare la regola di Campbell e il principio fondamentale della memetica, e cioè che geni e memi sono entrambi replicatori, ma per altri versi sono entità distinte.”).

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pubblica e del controllo intersoggettivo, cioè quella «cooperazione amichevolmente ostile degli scienziati» (ibid.) in vista dell’approssimazione alla verità che, insieme all’istruzione e alla tradizione, fa della scienza un’impresa sociale collettiva e progressiva. Il contrasto tra istruzioni provenienti dall’interno delle strutture e selezione proveniente dall’esterno attraverso l’eliminazione dei tentativi inadatti o instabili viene addirittura esteso da Popper a ogni livello, da quello subatomico alla formazione dell’universo, configurandosi come vera e propria visione cosmologica fondata su tale dualismo. Dalla stabilizzazione delle particelle elementari alla struttura delle cellule, dalla formazione degli organismi pluricellulari a quella delle stelle, si assiste sempre al gioco della stessa tensione: da un lato elementi caotici di livello inferiore e dall’altro strutture di livello superiore più complesse che cercano per tentativi ed errori, cioè per selezione naturale, una stabilità ricorsiva, riproducibile, ordinata (cfr. ivi: 28-30). Da questo punto di vista, non è azzardato sostenere che il settimo paragrafo del saggio di Popper contenga in nuce le grandiose visioni cosmologiche tratteggiate in Dawkins 1986 e Dennett 1995 (benché nessuno dei due testi faccia mai cenno a Popper 1975), perché il tentativo di modellizzare il meccanismo darwiniano attraverso il quale l’ordine e la complessità emergono dal Nulla e dal Caos (nel senso esatto di Dennett 1996: 79) è sostanzialmente lo stesso. È questo, dunque, il testo di Popper cui alludeva Dawkins nella prima edizione de Il gene egoista. Ma le cose non finiscono qui, perché c’è un fatto oltremodo significativo che nella letteratura memetica nessuno, a quanto ci risulta, ha mai evidenziato. L’8 novembre 1977 Popper tenne la lezione inaugurale delle Darwin Lectures al Darwin College di Cambridge, che l’anno dopo venne pubblicata con il titolo Natural Selection and the Emergence of Mind (Popper 1978, ora in Popper 1994b). Si tratta di un saggio in cui Popper, ancora una volta, espone la sua versione particolare dell’epistemologia evoluzionistica (compresa la sua estensione cosmologica vista sopra, questa volta proposta a partire dalla nozione di causalità verso il basso), partendo dal celebre problema della complessità e del progetto discusso da William Paley nella sua Natural Theology del 1802 (esattamente come avviene nel primo capitolo di Dawkins 1986) e concludendo con un’ipotesi sulle tappe dell’evoluzione della mente cosciente, dopo aver fatto un rapido sunto della teoria dei tre mondi (cfr. Popper

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1994b: 16). Ebbene, nella sezione finale, dedicata alle fasi evolutive dell’apparizione progressiva della coscienza - che Popper racchiude tra i primi avvertimenti centralizzati di sensazioni basilari come irritazione e dolore e la piena autocoscienza umana tessuta dal linguaggio e nutrita dal Mondo 3, per cui, ancora una volta, trascendiamo la selezione brutalmente darwiniana e «lasciamo che le nostre congetture e le nostre teorie muoiano al nostro posto» (in Popper 1994b: 20) - si trova un notevole omaggio a Il gene egoista, uscito appena un anno prima: «Richard Dawkins ha sviluppato brillantemente tali speculazioni sugli inizi della mente in maniera sorprendentemente dettagliata» (ibid.). Il riferimento, nel contesto della discussione della fase in cui è emersa la capacità di immaginare certe mosse e sperimentarle mentalmente prima di eseguirle, in modo da scartare quelle potenzialmente pericolose, è a un passo del quarto capitolo in cui Dawkins descrive il vantaggio evolutivo dei cervelli in grado di simulare al loro interno un modello semplificato e funzionale del mondo e osserva che tale capacità ha raggiunto il suo culmine con la coscienza umana soggettiva27. Questo importante omaggio di Popper, naturalmente, non è sfuggito a Dawkins, il quale vi farà cenno con gratitudine nella nota ad locum scritta per la riedizione 1989 del suo libro (cfr. Dawkins 1976: 288-290) e aggiungerà Popper 1978 alla bibliografia aggiornata. La lunga nota 4 al quarto capitolo, peraltro, è un documento particolarmente interessante per l’operazione speculativa che si sta tentando in questo capitolo. In essa, infatti, è Dawkins stesso che mette insieme la sua concezione del cervello che impara a simulare il mondo, le idee contenute in Popper 1978 e la nascente teoria della coscienza di Dennett. Avendo ascoltato la Jacobsen Lecture di Dennett a Londra nel 1988 e affidandosi solo alla memoria, com’egli stesso dice, Dawkins riesce ad anticipare in una mirabile sintesi le tesi principali di Dennett 1991a, parlando diffusamente della nozione di macchina virtuale e della distinzione tra processi in serie e processi in parallelo, su cui si basa la teoria computazionale della mente di Dennett, secondo la quale il cervello ha un’architettura funzionale che lavora in parallelo su cui tuttavia l’evoluzione culturale ha implementato una macchina virtuale newmanniana che lavora in serie, cioè quel flusso joyceano seriale che chiamiamo coscienza. Va notato, da ultimo, che 27

Cfr. Dawkins 1976: 63-64. Il tema verrà trattato più diffusamente negli ultimi due capitoli di Dawkins 1998.

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Dawkins, il quale pure insiste sul carattere culturale della macchina joyceana di Dennett, tace del tutto sul ruolo dei memi, che invece costituiranno una componente importantissima nella versione compiuta della teoria28. Volendo usare un’immagine, si potrebbe dire che l’atteggiamento di Dennett nei confronti di Popper sia duplice e che i suoi due aspetti si muovano su piani paralleli. Vediamoli separatamente. Dalla “caustica” (Dennett e Hofstadter 1981: 459) recensione del 1979 (su cui avremo modo di tornare nel prossimo capitolo) alla più recente rievocazione in chiave aneddotica e grottesca del convegno di neuroscienze tenutosi a Venezia nell’ottobre del 1990, Dennett ha ingaggiato una guerra senza esclusione di colpi contro il modello di interazionismo non solo dualistico, ma addirittura trialistico (perché coinvolge i Mondi 1, 2 e 3), sostenuto in Popper e Eccles 1977. In Strumenti per pensare, rievocando il convegno svoltosi 23 anni prima presso la Fondazione Cini, sull’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, cui presero parte anche Popper ed Eccles (entrambi allora vicini ai novant’anni), Dennett fa la sua mossa classica: da un lato presenta in modo caricaturale la peculiare versione di Eccles della teoria popperiana dei tre mondi (definendo se stesso come materialist e gli altri due come dualists) e dall’altro evita di entrare nel merito della versione del suo creatore. Egli, infatti, ricorda che Eccles, a un certo punto, sbottò e disse che bisognava smetterla con le speculazioni astratte sulle reti neurali perché i tasti su cui la mente separata immateriale batte a livello quantistico sono le molecole che viaggiano tra le sinapsi e che quindi il pensiero sta nel glutammato, il neurotrasmettitore eccitatorio. Dennett, allora, per essere sicuro di aver capito, pose provocatoriamente una questione etica: «“Se è vero che la mente sta nel glutammato, se versassi una ciotola di 28

Cfr. Dennett 1991a: 236-237: “La coscienza umana è essa stessa un enorme complesso di memi (o più precisamente, di effetti provocati dai memi nel cervello) che si può comprendere egregiamente pensando al funzionamento di una macchina virtuale neumanniana implementata sull’architettura parallela di un cervello che non era progettato per attività del genere. I poteri di questa macchina virtuale accrescono notevolmente i sottostanti poteri dell’hardware su cui gira”. Nei testi sui memi successivi a Dennett 1991a, Dawkins naturalmente farà riferimento alla versione competa della teoria dennettiana: cfr. ad es. Dawkins 1993 e Dawkins 1998: 275-276.

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glutammato nel lavandino si tratterebbe di omicidio?”. “Be’”, rispose Eccles, preso alla sprovvista, “sarebbe molto difficile da dire, vero?”» (Dennett 2013: 32). A questo punto Dennett inserisce una nota gustosissima relativa a un incidente grottesco capitato a Popper e che mette conto leggere per intero, perché rappresenta una perla di aneddotica filosofica29: Un altro mio ricordo indelebile di quel congresso è il bagno di Popper nel Canal Grande. Scivolò scendendo da una barca a motore all’arrivo all’Isola di San Giorgio e cadde nel canale di piedi; prima che due agili barcaioli lo ripescassero e lo portassero sul molo, i pantaloni gli si inzupparono fino alle ginocchia. I padroni di casa erano mortificati e disposti a tornare in tutta fretta all’albergo affinché il nonagenario Sir Karl potesse togliersi i pantaloni bagnati, ma quelli che indossava erano gli unici che si era portato - e di lì a mezz’ora doveva dare il via al congresso! L’ingegnosità italiana trovò una soluzione e dopo neanche cinque minuti ebbi il piacere di assistere a una scena indimenticabile: Sir Karl, seduto regalmente su una seggiolina esattamente al centro di una stanza (progettata dal Palladio) con il pavimento di marmo e il soffitto a cupola, circondato da almeno sei ragazze in minigonna, che in ginocchio gli asciugavano i pantaloni con il phon. Le prolunghe si estendevano radialmente fino alle pareti, facendo somigliare la scena a una specie di margherita umana multicolore, con Sir Karl, calmo ma accigliato, al centro. Un quarto d’ora dopo era asciutto e batteva i pugni sul podio per dare maggiore rilievo alla sua visione dualistica (ibid.).

A ben vedere, però, Dennett non entra mai nei dettagli della teoria popperiana dei tre mondi e spesso si limita, piuttosto, a liquidare sbrigativamente la sua versione sostenuta da Eccles, premio Nobel per i suoi studi sulla trasmissione sinaptica ma dichiaratamente cattolico e quindi credente nell’immortalità dell’anima, con grave imbarazzo della comunità scientifica (cfr. Dennett 1995: 568). In quest’ultimo luogo, nonché in Dennett 1987: 395, in vari luoghi di Dennett 1991a e nel già citato Dennett 2013, l’approccio è sempre lo stesso: o si liquida Popper e Eccles 1997 come un tentativo insostenibile di difendere una nozione sofisticata del 29

Dell’episodio, accaduto il 5 ottobre 1990, parlarono anche i giornali (per esempio lo raccontò Andrea Frullini in un articolo apparso su “La Repubblica” il 9 ottobre 1990, p. 33, dal titolo Le ghette di Sir Karl), mentre giorno 6 lo stesso giornale, a p. 32, pubblicò quasi integralmente l’intervento di Popper con il titolo L’orologio di Cartesio. Il testo integrale fu poi pubblicato in Giorello e Strata (a cura di) 1991 con il titolo Meccanismi contro invenzione creativa. Brevi considerazioni su un problema aperto e ora si trova anche in Popper 2000.

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dualismo interazionistico o si prende di mira Eccles.30 Un esempio paradigmatico di questa strategia salta agli occhi se si considerano le note 2 e 4 al secondo capitolo di Dennett 1991a. Nella prima, avendo detto nel testo relativo che in filosofia della mente il dualismo gode ormai di una «cattiva reputazione» e che «la posizione dominante, variamente espressa e sostenuta, è il materialismo» (ivi: 45. Corsivo dell’autore), Dennett osserva con sottile ironia: «Solo alcune anime coraggiose (sicuramente non possono aver niente da obiettare se le classifico così) sono andate controcorrente (...) e Popper e Eccles con il loro L’io e il suo cervello (1977) sono indubbiamente degli autori eminenti» (ivi: 524). Nella seconda, invece, avendo detto nel testo relativo che i dualisti superstiti ammettono candidamente di non avere una teoria del modo in cui di fatto la mente agisca sul cervello (cfr. ivi: 49), egli attacca solo Eccles: «Eccles ha proposto che la mente non fisica sia composta da milioni di “psiconi”, che interagiscono con milioni di “dendroni” (tratti di cellule piramidali) nella corteccia; ogni psicone corrisponde grosso modo a ciò che Cartesio e Hume chiamerebbero un’idea - come l’idea del rosso o l’idea del cerchio o del caldo - ma a parte questa decomposizione minima, Eccles non ha nulla da dire sulle strutture, le attività, i principi attivi o le altre proprietà della mente non fisica». Ora, è ben vero che in Popper e Eccles 1977 (cfr. ad es. p. 188) si dice sempre che, benché noi non sappiamo ancora come esattamente la mente interagisca con il cervello, tuttavia abbiamo pochi dubbi sul fatto che l’interazione avvenga, come testimonia l’esperienza ordinaria di ciascun essere umano. Lo stesso Popper ribadiva nuovamente questo punto nella sua relazione al convegno di Venezia: «Se qualcuno mi chiedesse come sia possibile che delle forze mentali agiscano su un corpo, quale un neurone o una struttura neuronale, risponderei: “Non lo so”. Ovviamente, visto che né io né nessun altro sa con precisione come fanno delle forze magnetiche astratte a muovere un pezzo di

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È significativo che lo stesso faccia Searle (e non solo lui), che con il suo principale avversario filosofico condivide forse solo l’avversione un po’ superficiale nei confronti della teoria popperiana, ma quasi sempre nella versione di Eccles. Cfr. ad es. Searle 1997: 4 e 110 (ironia della sorte, qui, a p. 157, Searle sostiene che in Dennett e Hofstadter 1981: 27 è rinvenibile un “dualismo residuale” tipico dell’approccio computazionalista alla mente, dato che esso deve assumere che i processi cognitivi siano neutrali rispetto al sostrato biologico) e Searle 2004: 31 e 37-38.

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ferro come un ago magnetizzato. Tuttavia ho qualche idea in proposito, certo meramente speculativa. Sono supposizioni, le mie, che si riassumono in una sola parola per coloro che se ne intendono un po’ di fisica e chimica: “risonanza”. (...) Uso la parola “risonanza” proprio per mettere in chiaro che l’interazione fra la mente e la materia non è affatto inconcepibile, assurda o controintuitiva come appariva in passato. (...) Di recente, la ricerca ha esplorato il modo in cui la mente giunge ad attivare un processo cerebrale: concentrandosi su di un compito meramente mentale si può ottenere una maggiore irrorazione sanguigna di una determinata area del cervello» (in Popper 2000: 186). Sulla risonanza Popper era stato un po’ più preciso nel testo di una conferenza del 1986, tenuta a Linz, sulla metafisica del sistema solare di Keplero, poi ristampato come cap. 6 del suo ultimo libro: «Io sono un sostenitore delle onde-pilota di de Broglie; e pertanto dell’ipotesi (...) che ci sono sia particelle che onde e che le particelle materiali siano pilotate da onde immateriali, le cui ampiezze determinano tendenze probabilistiche - propensioni (Propensities, come io le ho chiamate in inglese). Questo significa che, come in Keplero, la risonanza - e dunque l’armonia e la dissonanza - governano il mondo. E io da anni, e specialmente da quando progettai assieme a Sir John Eccles il libro The Self and Its Brain (...), ho inseguito l’ipotesi metafisica che il problema mente-cervello possa venire risolto attraverso la supposizione che la mente sia un sistema di propensioni molto complicato e in continuo mutamento, che viene descritto dalla funzione ondulatoria del cervello. Questa ipotesi metafisica può venire definita come il tentativo di sviluppare ulteriormente la famosa teoria di Simmia nel Fedone di Platone, e dunque la teoria pitagorica che vede l’anima come armonia del corpo»31. Il punto, come dimostravano soprattutto il primo e il terzo capitolo32 del primo volume di Popper e Eccles 1977 (scritto dal solo Popper), nonché il secondo e il terzo volume del Postscript (Popper [1956] 1982a e 1982b), è che il materialismo classico di derivazione cartesiana è crollato in seguito alla scoperta delle

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In Popper 1994d: 138. Su Simmia pitagorico, si veda anche quanto detto in Popper e Eccles 1977: 201-202. 32 Intitolati rispettivamente “Il materialismo si autotrascende” e “Il materialismo criticato” (cfr. Popper e Eccles 1977: 13-51 e 69-125).

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forze fondamentali e dei loro campi e soprattutto in seguito all’avvento della meccanica quantistica, con la concezione indeterministica delle strutture materiali profonde che essa comporta, il che obbliga a trascendere il materialismo pur rimanendo all’interno di quello stesso orizzonte naturalistico che lo stesso Dennett difende. Senza contare che già nella prefazione a Popper e Eccles 1977 e ancora nella conferenza di Venezia (cfr. Popper 2000: 181) si insisteva sulla grande differenza di vedute tra i due autori, soprattutto dal punto di vista religioso: nel rivendicare il proprio agnosticismo rispetto alla credenza in Dio e nel soprannaturale da parte di Eccles, Popper sottolineava la proficuità di un dialogo intellettuale basato sullo scambio reciproco di idee fondamentalmente diverse. Come vedremo nei due paragrafi successivi, questo implica che se ci si concentra esclusivamente sulla versione popperiana della teoria dei tre mondi, è possibile scorgere ciò che la confusione frettolosa dei due approcci alla teoria, tipica di Dennett (e anche di Searle), non ha consentito di mettere in luce. La differenza tra Popper ed Eccles è ben messa in luce, invece, da Sandro Nannini: «In L’io e il suo cervello Popper mette a confronto [la sua teoria dei tre mondi] con le teorie biologiche del neurofisiologo Eccles, trovando con lui ampi punti di convergenza. Esistono certo fra i due autori del saggio anche punti di divergenza. Anzitutto Eccles, essendo credente, difende la possibilità che l’anima sia immortale (Popper e Eccles 1977, p. 672), mentre Popper la nega (p. 671) e, anzi, concede ai materialisti di non credere neppure lui nella ‘esistenza di menti disincarnate’ (p. 250). Poiché questa credenza è storicamente e concettualmente legata al dualismo delle sostanze, sembra esservi in Eccles una certa inclinazione verso quest’ultima forma di dualismo, mentre la concezione di Popper è compatibile anche con il più debole dualismo delle proprietà»33. Il secondo aspetto dell’atteggiamento di Dennett nei confronti di Popper è invece di tutt’altro tenore. Sin da un importante 33

Nannini 2002 & 2011: 152. Cfr. anche ivi: 229-230. Su questo punto, si veda anche il più recente Strata 2014: 135-136 e 138, dove è ben messo in luce il fatto che la versione popperiana del dualismo interazionistico, contrariamente a quella di Eccles, è compatibile con i più moderni sviluppi delle neuroscienze. Da parte sua, nella citata recensione a Popper e Eccles 1977, Dennett si limitava a rilevare che l’opera, per via della sua peculiare costruzione, non presenta una vera e propria teoria unitaria della mente e che le diverse concezioni dei due autori restano “unresolved”.

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saggio del 1975, poi ristampato come quinto capitolo di Dennett 1978 (cfr. 146 e 149), e almeno fino a Dennett 2003 (cfr. 330), egli è solito citare con grande approvazione, e tuttavia senza mai indicare una fonte bibliografica, il “detto” di Popper secondo cui noi possiamo far morire le nostre ipotesi al posto nostro. Più sopra abbiamo visto che esso ricorre sia in Popper 1975 che in Popper 1978, ma si tratta di una frase su cui Popper ha variato molte altre volte34. Ora, questo detto esprime uno dei pilastri del pensiero popperiano. La citata occorrenza in Popper e Eccles 1977: 254, infatti, si trova nell’ultimo capoverso del primo volume a mo’ di start della conclusione, in cui Popper difende l’idea per lui fondamentale che l’emergenza successiva del Mondo 2 e del Mondo 3 abbia introdotto una novità straordinaria nel ramo dell’albero della vita occupato dall’Homo sapiens: la possibilità, cioè, che la crudele selezione naturale darwiniana possa trascendere se stessa e spostarsi sul piano della cultura, liberando così gli uomini dalla maledizione della violenza fisica che grava ancora su tutte le altre specie. Ma è particolarmente interessante vedere l’uso che fa Dennett, in modo ancora embrionale nel quinto capitolo di Dennett 1978 e compiutamente in Dennett 1995 e 1996, del detto popperiano che, come visto, è parte integrante della teoria dei tre mondi (è un meme del memeplesso di quest’ultima, potremmo dire).

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Si vedano per esempio Popper 1972: 323 e Popper e Eccles 1977: 171 e 254. È interessante osservare che il detto di Popper, attraverso Dennett, è arrivato a due memetisti come Blackmore e Jouxtel: la prima lo ha prelevato da Dennett 1995: 495 (cfr. Blackmore 1999: 198) e il secondo da Dennett 1996: 103 (cfr. Jouxtel 2005: 103). A emblema dell’uso superficiale di Popper in ambito memetico, si può notare che questa citazione di seconda mano da parte di Jouxtel è preceduta da un’altra che funziona come una spia della sua conoscenza approssimativa del filosofo. A pag. 54, infatti, Jouxtel ricorda che in Morin 1991: 115, nota 3, c’è la prima apparizione della parola “meme” in ambito francese (peraltro nella forma errata même, forse involontariamente suggerita in Dawkins 1976: 201, dove si dice che la nozione di meme può essere correlata a memory o alla parola francese même) e che nel testo relativo Morin, parlando delle varianti della nozione di “noosfera” creata da Teilhard de Chardin, cita tra gli altri il Mondo 3 di Popper. Ebbene, per questa nozione Jouxtel rimanda in nota all’opera di Popper di cui tutti hanno sentito parlare, cioè la Logik der Forschung del 1934 (con data di stampa 1935), dove naturalmente la teoria dei tre mondi non può trovarsi, perché Popper perviene ad essa negli anni Sessanta.

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Il tredicesimo capitolo di Dennett 1995, “Perdere la testa per Darwin”, si apre con un paragrafo significativamente intitolato “Il ruolo del linguaggio nell’intelligenza” in cui Dennett propone uno schema evolutivo semplificato delle capacità pro-gettuali del cervello, basato sull’idea che una cascata di gru a salire abbia permesso nel corso dell’evoluzione di costruire quella che lui chiama “torre di generazione e verifica”, in cui ad ogni piano si guadagna un diverso e più ricco repertorio di possibilità, semplicemente impensabile al piano precedente. In omaggio alle figure che hanno meglio descritto ciascun piano, Dennett definisce con il loro nome le creature-tipo che lo abitano35. Eccole: 1. Creature darwiniane. Agli inizi dell’evoluzione, le ri-

combinazioni genetiche casuali davano vita a fenotipi diversi con cablaggi rigidi che subivano in blocco una dura selezione naturale: solo il fenotipo favorito aveva possibilità di moltiplicarsi e riprodurre copie numerose dei propri geni egoisti. 2. Creature skinneriane. Le specie già adattate potevano presentare un sottoinsieme di esemplari con cablaggio più flessibile, cioè in grado di provare alla cieca comportamenti diversi. In base alla cosiddetta “legge dell’effetto”36 (strettamente connessa al principio darwiniano della selezione naturale), elaborata in ambito comportamentista e resa celebre da Burrhus F. Skinner, certe reazioni comportamentali potrebbero sortire effetti positivi, cioè essere rinforzate; se ciò avviene, l’azione rinforzata verrà ripetuta, cioè appresa. 3. Creature popperiane. Le creature skinneriane sono sottoposte al rischio continuo che una reazione comportamentale sbagliata possa rivelarsi letale. Sarebbe un grande vantaggio progettuale sviluppare un ambiente interno in cui simulare piani di azioni differenti in una simulazione interna opportuna dell’ambiente su cui testarne le conseguenze. È questa la buona trovata delle creature popperiane, giacché 35

Lo schema verrà riproposto pressoché identico, con l’aggiunta di qualche esempio e di qualche considerazione in più, nel primo paragrafo del quinto capitolo di Dennett 1996: 95-116. 36 Why the Law of Effect Will Not Go Away era proprio il titolo del saggio del 1975 che contiene il primo abbozzo della “torre di generazione e verifica” e che poi andrà a costituire il quinto capitolo di Dennett 1978 (cfr. in particolare 143 e ss.).

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sono in grado di far morire le ipotesi sbagliate al loro posto e di agire in modo previdente anziché semplicemente casuale. Questo passo, alla portata di molti animali, condurrà alla nascita della mente umana. 4. Creature gregoriane. Un sottoinsieme delle creature popperiane (gli esseri umani) ha raffinato la trovata precedente inglobando coscientemente e attivamente nell’ambiente interno di simulazione i settori progettati dell’ambiente esterno, cioè la cultura. Richiamandosi a Gregory 1981, Dennett individua la specificità umana nella capacità di potenziare l’accortezza delle mosse (intelligenza cinetica) sfruttando l’intelligenza potenziale, cioè l’informazione incorporata nei prodotti della cultura. La possibilità di usare forbici e computer, com’è evidente, potenzia il repertorio delle azioni accorte ed efficaci. Inoltre, come dice Gregory, l’uomo ha a disposizione uno strumento particolarmente potente in grado di raffinare in sommo grado l’opera interna di generazione e verifica delle mosse: le parole, ovvero, aggiunge Dennett, i memi, «che prendono domicilio in un cervello, come molte altre precedenti novità progettuali che si sono considerate, [e] migliorano e sagomano le strutture esistenti, più che generare architetture completamente nuove» (Dennett 1995: 480). Come si vede, in questo caso Dennett rende un grande omaggio a Popper inglobandolo in una delle sue intuition pumps speculativamente più consistenti, come dimostra il lungo processo di ricerca e sviluppo che lo ha portato a costruire la sua “torre” di gru evolutive. Il problema, tuttavia, è che qualsiasi frequentatore abituale dell’opera di Popper trova difficile sottrarsi all’impressione che il suo uso da parte di Dennett sia in questo caso estremamente povero, perché trascura del tutto la teoria dei tre mondi. Un lettore di Popper non avrebbe alcuna difficoltà a chiamare popperiane anche le creature che Dennett chiama gregoriane, perché quello che dicono Gregory e Dennett sulla funzioni di potenziamento del linguaggio e della cultura umani non solo è contenuto tutto nella teoria dei tre mondi, ma è la teoria dei tre mondi. Se quello che stiamo dicendo è vero, allora la possibilità di mettere insieme Popper e la Memetica riceve un sostegno decisivo, dal momento che, come abbiamo appena visto, Dennett ingloba i memi nello schema di Gregory.

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Le speculazioni illustrate sopra di Popper 1975 e Popper 1978, relative ai livelli genetico, comportamentale e scientifico e alle tappe di sviluppo emergente della coscienza, sono perfettamente compatibili con la “torre” di Dennett e sono componenti essenziali della teoria dei tre mondi, la cui versione pressoché completa era già nei saggi raccolti in Popper 1972. Tutto ciò rende incomprensibile il suo mancato uso da parte di Dennett, che pure, come abbiamo visto, conosce bene Popper e Eccles 1977, dove la teoria è ulteriormente messa a punto, grazie anche ad Eccles, con il sostegno delle conquiste neuroscientifiche dell’epoca. Il fatto è che la vulgata della teoria di Popper, accolta e avallata dallo stesso Dennett, la descrive come un’improbabile, avventata e ingenua versione del dualismo cartesiano, e così la presenta tuttora molta letteratura filosofico-scientifica sulla coscienza37. Ma ciò che Dennett chiama “informazione” incorporata nei prodotti culturali, cioè memi, e ciò che Gregory chiama “intelligenza” potenziale corrispondono perfettamente agli oggetti del Mondo 3 di Popper e alle loro realizzazioni fisiche nel mondo esterno e nei circuiti neurali della memoria di lavoro e in quella a lungo termine. Sicché, quando egli, subito dopo il passo di Dennett 1995: 480 citato sopra al punto 4, rimanda a Sperber 1994 «per una rassegna darwiniana di questo esattamento di funzioni fornite per via genetica da parte di funzioni trasmesse per via culturale», avrebbe potuto benissimo rimandare a un passo popperiano come questo: «l’evoluzione culturale continua l’evoluzione genetica con altri mezzi, avvalendosi cioè degli oggetti del Mondo 3» (Popper e Eccles 1977: 67). Per Popper, infatti, noi diventiamo coscienti di essere degli Io, cioè impariamo ad esserlo, solo dopo una lunga opera di coltura che parole (come gli indicali) e teorie (per esempio sul tempo) del Mondo 3 compiono sul nostro Mondo 2, evolutivamente predisposto ad essere così intarsiato, il che rende semplicemente false le dottrine cartesiane e kantiane relative al carattere di dato originario, nonché indipendente dall’apprendimento del linguaggio, del Cogito e dell’Ich denke (cfr. ivi: 68). Va inoltre osservato che forse nessuno è stato critico come Popper nei confronti del dualismo cartesiano originale (un luogo ormai classico, a tal proposito, è Popper e Eccles 1977: 215-220) e delle sue versioni in voga nel XX secolo. Per quanto riguarda 37

Si vedano, a titolo di esempio, due testi introduttivi al tema della coscienza come Blackmore 2005 (cfr. 48) e Perconti 2011 (cfr. 73).

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queste ultime, è particolarmente interessante la Tanner Lecture tenuta nel 1978 da Popper all’Università del Michigan, intitolata Three Worlds e pubblicata in Italia solo nel 2012 con un saggio introduttivo di Giulio Giorello (Popper 1979). Chi pensa che la teoria dei tre mondi sia una riproposizione fuori tempo massimo del dualismo di stampo cartesiano probabilmente si sorprenderà nello scoprire che in questo testo Popper difende il proprio approccio pluralistico al problema mente-corpo discutendo nel dettaglio e decostruendo due teorie alternative: il monismo materialistico e il dualismo psico-fisico. Uno degli argomenti usati da Popper contro queste due soluzioni al problema mente-corpo riguarda lo status dei prodotti della scienza e dell’arte, che subirebbero una menomazione ontologica catastrofica palesemente in contrasto con le evidenze empiriche e con l’esperienza comune. Mentre infatti il monismo finirebbe per far coincidere le teorie scientifiche e le opere d’arte con le loro realizzazioni e repliche fisiche e al più con gli schemi di attivazione neurale nei cervelli umani, il dualismo aggiungerebbe ben poco a questo quadro, perché donerebbe loro al massimo lo status soggettivistico rispettivamente di credenze sul mondo ed esperienze estetiche emotivamente cariche, con buona pace dell’oggettività dei contenuti della conoscenza scientifica e del valore estetico delle opere d’arte. A proposito di queste ultime, infatti, Popper osserva: «sia il monista materialista sia il dualista sembrano costretti a sostenere che non c’è nulla di oggettivo riguardo a un’opera d’arte. Se costoro avessero ragione - se l’universo fosse fatto esclusivamente degli oggetti fisici concreti del Mondo 1, oppure di oggetti del Mondo 1 e di esperienze concrete del Mondo 2, ma non di oggetti astratti come i grandi libri, le grandi teorie o le grandi sinfonie - allora ogni discorso su quel tipo di oggetti sarebbe fittizio» (Popper 1979: 47). È dunque una fortuna che, come ha notato maliziosamente Searle, la posizione di Dennett conservi residui dualistici, perché ciò, come vedremo, la rende aperta nei confronti di entità astratte come i memi, che sono a tutti gli effetti abitanti del Mondo 3 di Popper. Se invece essa fosse ingabbiata nella forma di un monismo materialistico chiuso, come spesso la presentano polemicamente i suoi critici e come talvolta fa lo stesso Dennett per marcare le differenze con un’etichetta sbrigativa (si pensi al già citato secondo capitolo di Dennett 2013), allora si tratterebbe di una passione inutile, perché sarebbe incapace di rendere conto, sul piano ontologico, persino degli stessi memi di cui pure si serve.

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La “torre di generazione e verifica” di Dennett, che per la Memetica si potrebbe definire, alla luce di quanto visto sopra, un benigno cavallo di Troia popperiano, è stata inglobata integralmente da Susan Blackmore nel suo imponente edificio teorico (cfr. Blackmore 1999: 197-198). In questa operazione di assimilazione, però, la psicologa inglese eredita tutti i limiti che abbiamo messo in luce relativi al ruolo troppo povero assegnato a Popper nello schema dennettiano, come dimostra inequivocabilmente il seguente passo: «quando si arriva all’ultimo piano tutto cambia. E cambia in modo impressionante. Questo perché l’imitazione crea un secondo replicatore. Nessuno dei precedenti passaggi lo aveva fatto, o quanto meno non aveva creato un replicatore che operasse oltre i confini dell’individuo. Per esempio l’apprendimento skinneriano e la soluzione di problemi popperiana possono essere considerati come processi selettivi, ma sono entrambi confinati alla testa di un animale. I modelli di comportamento e le ipotesi sui risultati selezionati potrebbero essere considerati replicatori, ma non vengono liberati nel mondo, a meno che non siano copiati per imitazione diventando dei memi» (ivi: 199. Corsivo mio). Eppure, in precedenza, la Blackmore si era confrontata direttamente con la teoria dei tre mondi, basandosi addirittura sulle due fonti principali: Popper 1972 e Popper e Eccles 1977 (cfr. Blackmore 1999: 46-48). A suo modo di vedere, la teoria dei tre mondi di Popper non riesce a superare la sfida contro «la vitalità del materialismo come concezione del mondo», dal momento che propone «interazioni piuttosto macchinose» (ivi: 47) fra i tre mondi. La teoria popperiana, infatti, deve affrontare il problema delle interazioni multiple tra Mondo 1 e Mondo 2, tra Mondo 2 e Mondo 3 e tra Mondo 3 e Mondo 1 attraverso il Mondo 2, e il suo limite, secondo la Blackmore, sta nel fatto che essa sfiora appena l’importanza dell’imitazione, ma Popper non si rese conto di quanto essa potesse essergli utile. A tal proposito, ella cita un passo di Popper e Eccles 1977: 55 da cui si evince come Popper avesse ben presente il problema della replicazione delle idee in campo artistico, facendo l’esempio dello scultore che, incoraggiando il Mondo 2 di altri a copiare la sua opera (un oggetto del Mondo 3 incarnato nel Mondo 1), li induce a produrne altri esemplari, modificando così il Mondo 1; e conclude: «In chiave memetica, tutto ciò che accade - non importa se si tratta di scienza o arte - è imitazione selettiva. Le emozioni, i conflitti intellettuali, le

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esperienze soggettive sono tutte parti del complesso sistema che induce a imitare alcuni comportamenti e non altri. È perché l’imitazione libera un secondo replicatore che le idee cominciano ad avere “vita propria”. In tal modo la memetica fornisce un meccanismo per spiegare l’evoluzione delle idee scientifiche, cosa che i tre mondi di Popper non fanno» (ivi: 48). Prima di affrontare in dettaglio la proposta teorica di Derek Gatherer, concludiamo questo paragrafo accennando a due esempi assai diversi tra loro che, pur non rientrando nello schema fin qui seguito del rapporto tra i memetisti e Popper, offrono due punti di vista interessanti e alternativi sul rapporto tra il pensiero popperiano e la Memetica: nel primo troviamo un modo di usare Popper contro l’idea stessa del meme, mentre il secondo fornisce una curiosa conferma indiretta all’ipotesi che stiamo difendendo di una conciliabilità filosoficamente proficua della Memetica con la teoria dei tre mondi. Luis Benítez-Bribiesca non è certamente l’unico critico della Memetica, eppure il suo duro articolo apparso nel 2001 su una rivista medico-scientifica venezuelana si inserisce in un modo peculiare nel discorso che stiamo tessendo in questo capitolo. Sin dal titolo, Benítez-Bribiesca si riferisce alla Memetica come a un’idea pericolosa, ma l’allusione ironica a Dennett 1995 (pure citato nell’articolo) non deve trarre in inganno: egli intende la Memetica come nient’altro che una pseudo-scienza per apprendisti stregoni priva di qualsiasi fondamento scientifico, un dogma metaforico di moda, una favola per bambini, ovvero un gioco virtuale pieno di creature mostruose che fluttuano sopra di noi per prendere il controllo delle nostre menti (pseudoscientific dogma, sorcerer’s apprentice, fashionable metaphoric dogma, children’s fable e virtual game sono tutte espressioni che ricorrono nell’articolo: cfr. Benítez-Bribiesca 2001). Al fine di giustificare la nostra attenzione nei confronti di questo articolo, occorre mettere in luce soprattutto due punti: le fonti principali di Benítez-Bribiesca e le sue argomentazioni, giacché le due cose sono intrecciate e la portata delle argomentazioni è legata soprattutto alle fonti e al loro uso. L’idea che la nozione di meme sia di natura esclusivamente metaforica Benítez-Bribiesca la desume da Jeffreys 2000, e in questo saggio egli trova pure notizia del fatto che esistano testi come Dennett 1991a, Dennett 1995 e Blackmore 1999, che tuttavia non sembra conoscere direttamente, altrimenti saprebbe che in

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tali opere corpose le sue obiezioni erano già state largamente discusse e confutate. Viceversa, egli conosce Blackmore 2000, un articolo apparso su «Scientific American». In tal modo, assumendo che la nozione di meme sia basata su una semplice analogia con quella di gene, e quindi ignorando che essa in realtà è basata sull’algoritmo darwiniano, per cui geni e memi sono solo esempi di replicatori, Benítez-Bribiesca, da medico, può muovere la solita obiezione che fa appello alle caratteristiche specifiche dei geni e del DNA. Essendo il DNA una molecola che codifica informazioni in maniera digitale e relativamente rigida, la sua alta fedeltà di copiatura consente alle rare mutazioni di generare una lenta selezione cumulativa sul lungo periodo del tempo evolutivo. Tutto ciò non può accadere per i memi, entità che peraltro, secondo Benítez-Bribiesca, nessuno ha ancora visto né definito in maniera chiara e condivisa. La mancanza di fedeltà di copiatura che è loro intrinseca, unita alla ridotta scala temporale della loro esistenza, rende impossibile alle numerosissime e rapide mutazioni di innescare il processo evolutivo. Essendo poi entità immateriali inafferrabili, i memi, ammesso che esistano, si sottraggono a qualsiasi indagine sperimentale rigorosa, sicché la Memetica è destinata a rimanere una pseudo-scienza priva di evidenze oggettive come la psicoanalisi e la teoria della noogenesi di Teilhard de Chardin, e per giunta senza il fascino metafisico di quest’ultima. Ma al di là di queste ben note argomentazioni (che esamineremo più in dettaglio nel terzo capitolo), ciò che a noi qui interessa maggiormente è il fatto che a un certo punto Benítez-Bribiesca chiami in causa Popper, e in particolare proprio il saggio del 1975 che abbiamo discusso sopra e che, come abbiamo visto, era già citato da Dawkins nella prima edizione de Il gene egoista. Di questo fatto Benítez-Bribiesca sembra non avere contezza, anche se naturalmente Dawkins 1976 compare tra i suoi riferimenti bibliografici. Basandosi proprio sulla parte iniziale del saggio di Popper, come abbiamo fatto noi, Benítez-Bribiesca insiste soprattutto sulle differenze sottolineate da Popper tra i livelli genetico, comportamentale e scientifico, e in particolare sul fatto che, al livello scientifico, il linguaggio consente alla critica razionale di assumere il ruolo di meccanismo di selezione che orienta a uno scopo - la verità oggettiva - l’evoluzione culturale, cioè il pensiero creativo. Così facendo, però, Benítez-Bribiesca sottovaluta le analogie fra i tre livelli indicate da Popper (che pure ricorda), ovvero il fatto

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che l’algoritmo darwiniano è universale e neutrale rispetto al sostrato, come sostengono anche Campbell, Dawkins, Blackmore e Dennett. Non facendo poi alcun riferimento alla teoria popperiana dei tre mondi (come abbiamo visto, essa non è mai citata esplicitamente in Popper 1975), Benítez-Bribiesca è portato a non valutare il peso di due punti fondamentali: 1) per Popper la scienza è solo la provincia logica (cfr. Popper 1976: 192) del Mondo 3 (che contiene di tutto, anche le favole per i bambini e, purtroppo, il Mein Kampf) e 2) per la Memetica la scienza è un particolare complesso di memi (questa informazione importante, che pure Benítez-Bribiesca ha per averla prelevata da Blackmore 2000, è da lui confinata nello spazio di un inciso) di cui fanno parte, tra le altre cose, anche le regole che prescrivono di cercare la verità oggettiva e di esercitare la critica razionale, che lo stesso Popper caratterizzava come meri imperativi etici che possiamo solo desiderare di esercitare e diffondere; e ciò rende - forse irrimediabilmente - il razionalismo un’opzione culturale logicamente più debole di qualsiasi forma di fanatismo e irrazionalismo, perché è un habitus assai poco naturale per l’uomo38. Il secondo esempio, assai poco noto, proviene dalla letteratura popperiana ed ha una notevole importanza storico-filosofica, perché rappresenta forse il primo caso di utilizzo della nozione dawkinsiana di meme in un contesto di pensiero diverso da quello del suo brodo di coltura specifico. Tale contesto è, appunto, la teoria popperiana dei tre mondi. Il medico e consigliere comunale inglese Roger James pubblicò nel 1980 un libro intitolato Ritorno alla ragione. Il pensiero di Popper e l’amministrazione pubblica. Si tratta di una sintesi completa di tutti quegli aspetti del pensiero popperiano che potrebbero guidare la pratica amministrativa e politica: il ruolo dell’atteggiamento critico e razionale (cap. I), i tre mondi (cap. II), il sospetto nei confronti di certe forme di irrazionali-smo, come l’olismo, lo storicismo e la sociologia della conoscenza (cap. III), la teoria della democrazia e della società aperta (cap. IV), i limiti dello psicologismo soggettivistico (cap. V), lo smascheramento del mito del riflesso condizionato (cap. VI), la denuncia dei pericoli della pianificazione totalitaria in politica e in economia (cap. 38

Cfr. Popper 1945: vol. I, 303-305 e 517-18. Su questo punto sia consentito rimandare a Trainito 2000: 133 e 163.

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VII), l’applicazione di criteri razionali ed estetici all’urbanistica (cap. VIII), gli abbagli dello scientismo (cap. IX), l’influenza delle teorie errate implicite nelle decisioni politico-amministrative (cap. X), la pratica concreta della democrazia (cap. XI) e la forza delle idee sbagliate (cap. XII). L’idea di fondo di James è che l’atteggiamento razionalista-critico proposto da Popper, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento dell’errore, cioè della smentita di una aspettativa, come unica fonte di conoscenza empirica e quindi come motore essenziale per la crescita della conoscenza in generale, può rivelarsi uno strumento utile nella public life, perché favorirebbe un mondo sociale improntato all’onestà intellettuale, alla consapevolezza della nostra fallibilità e all’incoraggiamento della critica per sfruttare il valore euristico dell’errore. I politici al governo, in particolare, dovrebbero compiere una rivoluzione cognitiva copernicana: anziché cercare e persino inventare conferme del successo delle proprie iniziative per scopi propagandistici, dovrebbero esercitare un’autocritica spietata e stimolare la critica dell’opposizione, al fine di imparare dagli errori per il bene di tutti. Insomma, un libro dei sogni. Questo libro totalmente popperiano non è sfuggito naturalmente a Popper. Il saggio del 1977 dello stesso James sul riflesso condizionato da cui è ricavato il sesto capitolo è citato due volte in Popper e Eccles 1977 (cfr. 115 e 172, nota 42) e nella seconda occasione è definito “eccellente”. In Popper [1956] 1983: 72, nota 28, addirittura, Popper rimanda alle proprie osservazioni contro l’interpretazione di Pavlov dei suoi stessi esperimenti contenuti in Popper e Eccles 1977, ricorda il saggio di James sui riflessi condizionati ivi citato e menziona anche tutto James 1980, definendolo “libro eccellente”. Ora, la cosa per noi più interessante è che James cita per tre volte Il gene egoista, uscito appena quattro anni prima, indicandolo alla prima occasione come “opera importante” (James 1980: 35) e riportando il passo dell’inizio del primo capitolo in cui Dawkins lamenta che «la filosofia e le materie cosiddette “umanistiche” vengono ancora insegnate quasi come se Darwin non fosse mai esistito» (Dawkins 1976: 3). Il secondo riferimento occupa le pagine finali del secondo capitolo, quello sui tre mondi. Volendo fornire una “dimostrazione matematica” della superiorità in termini di efficacia e risultati del ragionamento cosciente sui processi genetici ciechi e casuali, al fine di sostenere l’idea del vantaggio adattivo rappresentato dalla comparsa del

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Mondo 2 e del Mondo 3, James riassume il lungo esame della nozione di evolutionary stable strategy (ESS) di John Maynard Smith che costituisce il terzo capitolo de Il gene egoista (cfr. James 1980: 61-63). Ma è il terzo riferimento, contenuto nel quinto capitolo, che risulta per noi di estremo interesse, perché con una naturalezza davvero sorprendente per i tempi James ingloba i memi nella teoria dei tre mondi di Popper. Qui mette conto cedergli senz’altro la parola e riportare il passo per intero: «Questo interesse personale del gene è presente in tutti gli esseri viventi; tuttavia non impedisce un’iniziativa cosciente e lungimirante come la “coalizione di colombe” di cui si è parlato a pag. 63. Il termine coniato da Dawkins per indicare gli elementi presenti nel processo - esclusivamente umano - dell’evoluzione culturale (elementi del “mondo 3”: idee, brani di motivi musicali, slogan, eccetera), che si riproducono in una maniera analoga ai geni, segmenti auto-replicanti di DNA, è meme. “Noi uomini abbiamo per lo meno l’attrezzatura mentale”, dice Dawkins, “per favorire i nostri interessi egoistici a lungo termine... Siamo in grado, per esempio, di comprendere i benefici a lungo termine offerti dalla partecipazione a una ‘coalizione di colombe’, e anche in grado di sederci intorno a un tavolo a discutere come far riuscire la coalizione. Abbiamo il potere di sconfiggere i geni egoistici della nostra nascita e, se necessario, i ‘memi’ egoistici del nostro indottrinamento...: abbiamo cioè il potere di rivoltarci contro i nostri creatori. Unici sulla terra, siamo in grado di ribellarci alla tirannia dei replicanti”»39.

1.3. Le tesi di Gatherer su Memetica e teoria dei tre mondi Particolare importanza per il dibattito teorico sulla Memetica ha rappresentato il cosiddetto JoM-EMIT, ovvero il Journal of Memetics. Evolutionary Models of Information Transmission, una rivista esclusivamente on line di cui sono usciti nove numeri tra il 1997 e il 2005 e che oggi è un archivio liberamente accessibile su

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James 1980: 119. I passi di Dawkins sono tratti dalla celebre conclusione dell’undicesimo capitolo di Dawkins 1976: 210.

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internet. Il JoM-EMIT può considerarsi una grande impresa intellettuale collettiva in cui numerosi studiosi provenienti dai più diversi settori disciplinari - dalla biologia all’ingegneria, dalla genetica alla filosofia, dalle scienze cognitive all’informatica - sono intervenuti con saggi e contributi alle discussioni di commento per esplorare i problemi aperti dalla Memetica e le sue diverse soluzioni applicative. Il JoM-EMIT è stato anche il punto di partenza per la proliferazione successiva di numerosi siti internet dedicati alla Memetica (che proprio nel World Wide Web vede il medium forse definitivo per la produzione, la proliferazione e l’istantanea circolazione planetaria dei memi), un cui censimento sufficientemente dettagliato è stato tentato per esempio da Francesco Ianneo, il primo studioso italiano di Memetica (cfr. Ianneo 2005: 227232), e da Simona Collina e Vincenza Simonte (cfr. Collina e Simonte 2007: 79-81). Uno dei protagonisti più attivi del JoM-EMIT è stato, sin dall’inizio, Derek Gatherer, della School of Biomolecular Science della Liverpool John Moores Univertsity. Nel primo volume della rivista, Gatherer intervenne con un articolo filosoficamente molto denso intitolato Macromemetics: Towards a Framework for the Re-unification of Philosophy (Gatherer 1997a), in cui la Memetica era presentata ambiziosamente come una teoria in grado di riunificare i due tronconi principali del pensiero del XX secolo, quello logico-analitico angloamericano e quello antropologico-culturale e strutturalista continentale. L’aspetto di questo saggio per noi di maggiore interesse, però, è rappresentato dal fatto che il terzo dei cinque paragrafi di cui si compone, “The Hierarchical Structure of the Meme Pool and Popper’s World 3”, è dedicato proprio al tema che stiamo discutendo qui, e si tratta del primo abbozzo di un’idea che poi Gatherer svilupperà più estesamente in un saggio successivo apparso sulla rivista «Zygon» (Gatherer 1998a). Va notato, poi, che i riferimenti a Popper contenuti in Gatherer 1997a sono i più cospicui tra quelli - una dozzina circa in totale - contenuti in tutto il JoM-EMIT. Negli altri casi, infatti, si tratta o di riferimenti generici al falsificazionismo o di occorrenze del nome di Popper nel riferimento bibliografico relativo a Campbell 1974 contenuto in diversi saggi. Come detto, Gatherer 1997a è il tentativo ambizioso di delineare un quadro unitario della filosofia del Novecento alla luce dell’approccio memetico. Ecco come lo stesso Gatherer delinea il suo progetto teorico: «This article reviews the divided state of

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Western Philosophy, and points out certain areas in which the Continental and Anglo-American schools may be reconciled by the use of a memetic approach. Firstly, the similarities between Popper’s hierarchical dissection of his World 3 concept and the hierarchical nature of the gene/meme analogy are discussed. Special attention is paid to the lowest level, that of fundamental propositions or memetic “nucleotides”, and the highest level, that of the meme pool. The study of meme pool evolution is compared with the cultural evolutionary school of social anthropology. Additionally, incipient memetical ideas are detected and examined in the work of Peirce, Saussure, Wittgenstein, Toynbee, Foucault and Derrida. The principal conclusion is that wherever philosophy is concerned with informational entities, a memetical approach may be applied. Both the cultural subject matter of Continental philosophy and the logical and linguistic concerns of the AngloAmerican tradition can be re-expressed memetically. Memetics thus provides some possible common ground for the reunification of the two traditions». In tal modo, il saggio si presenta come una lunga cavalcata attraverso una selva di concetti, teorie e scuole filosofiche che in qualche modo potrebbero essere connesse da una rete di somiglianze di famiglia fornita dalla nozione di meme: dal segno inteso come unione di significante e significato di De Saussure alle proposizioni atomiche del primo Wittgenstein e degli altri atomisti logici, dalla Allgemeine Erkenntnislehre di Schlick al Mondo 3 di Popper, dai giochi linguistici e dalle forme di vita del secondo Wittgenstein ai paradigmi di Kuhn, all’episteme di Foucault e all’antropologia culturale, dal pragmatismo peirceano alle teorie strutturaliste ed evoluzioniste della cultura e delle civiltà, fino al decostruzionismo di Derrida, il quale, secondo Gatherer, con la sua tesi secondo cui siamo fatti di linguaggio viene a sostenere qualcosa di assai simile a ciò che, in tutt’altro contesto filosofico e dall’altra parte dell’oceano, sostiene Dennett: «To say that we (or our consciousnesses) are ‘made of language’, following Derrida, is not too far from Dennett’s view that our consciousnesses are ‘made’ from the complex interaction of memes». La conclusione del saggio esibisce tutto l’orgoglio, forse eccessivo, di una disciplina nuova che vorrebbe candidarsi al ruolo di grande teoria unificante: «Dawkins acknowledges his indebtedness to Popper, and to Cloak, for paving the way to the meme concept. Memetics thus has both philosophical and anthropological precedents. On the philosophical side, Popper’s World 3 is

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populated with many elements which might be described as memes. Cloak comes from the anthropological tradition, and much 19th and early 20th century anthropology had a strong evolutionary component. Dawkins’ real contribution can be seen as the fusion of cultural evolutionism with a reductionist approach derived from the gene selectionist school of evolutionary biology. (...) One of Anglo-American philosophy’s most flourishing branches is Evolutionary Epistemology, which also derives from Popper’s Darwinian approach to the themes of consciousness and the history of ideas. Memetics thus represents a possible framework for the reconciliation of the two main branches of Western philosophy». Veniamo allora ad un esame più dettagliato del punto su cui Gatherer, come si vede anche dall’introduzione e dalla conclusione, insiste maggiormente, ovvero l’affinità della Memetica con la teoria popperiana dei tre mondi. Gatherer muove dalla constatazione, di cui ci siamo occupati all’inizio del paragrafo precedente, che Dawkins, immediatamente prima di introdurre la nozione di meme nell’undicesimo capitolo de Il gene egoista, cita Popper «as one of his inspirations for the meme concept». Tuttavia egli non specifica cosa Dawkins citi esattamente di Popper, e parla genericamente di «the work of Karl Popper». Come abbiamo visto, in realtà il saggio di Popper citato da Dawkins (Popper 1975) non contiene un’esposizione della teoria dei tre mondi, e Gatherer passa subito a indicare le proprie fonti popperiane: esse sono Popper 1972 e Schilpp (ed.) 1974, che contiene, oltre ai contributi di altri autori, l’autobiografia di Popper (alle pagine 3-181, poi Popper 1976) e le repliche ai critici (pagine 961-1197, di cui Gatherer tiene presente la sezione intitolata Evolution and World 3: 1048-1080). Questa osservazione è importante perché, così facendo, Gatherer fa credere al lettore che Dawkins nel 1976 conoscesse perfettamente la teoria popperiana dei tre mondi, ma questo non è detto. Addirittura, subito dopo, paragonando la prima “lista” di memi («melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi», in Dawkins 1976: 201) con una delle prime “liste” di abitanti del Mondo 3 («i sistemi teorici... i problemi e le situazioni problematiche… le argomentazioni critiche... i contenuti delle riviste, dei libri e delle biblioteche», in Popper 1972: 151. Corsivi dell’autore), egli suggerisce implicitamente un rapporto troppo stretto, che alla luce della cronologia può sembrare quasi una filiazione diretta: «[i]t is clear from this that Popper and

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Dawkins have similar concepts in mind». La cosa interessante, come nota giustamente Gatherer, è che sin dalle prime descrizioni delle loro teorie, Popper e Dawkins non facciano alcuna distinzione tra il contenuto informativo oggettivo incorporato nei loro elementi (oggetti del Mondo 3 e memi) e le loro manifestazioni fisiche. La questione, tuttavia, viene subito chiarita da Popper, il quale distingue tra abitanti del Mondo 3 astratto e oggetti del Mondo 3 appartenenti al Mondo 1 (come gli artefatti e le reti neurali), mentre l’iniziale ambiguità di Dawkins scatenerà discussioni infinite sullo statuto ontologico del meme. A questo punto, Gatherer può avviare la sua analisi parallela a tre fra ambito genetico, ambito memetico e ambito popperiano: «Popper (...) intends that World 3 should include all objective thought contents both past and present. Concepts evolve in World 3 just as genes evolve in World 1, but World 3 does not itself evolve. Meme pools are collections of memes available to human populations at points in space and time, and they therefore evolve, diversify, go extinct etc. World 3 may thus be regarded as the set of all meme pools, possible and actual. However, the point in this instance is that the contents of meme pools correspond to the contents of World 3, and that both may be hierarchically structured (...). This process strengthens the meme/gene analogy and eliminates the possible criticism that memes are difficult to define precisely, since genes are also non-discrete elements arranged hierarchically in the genome». La discussione successiva di Gatherer è una specificazione del modo in cui potrebbero gerarchizzarsi i tre ambiti e crediamo opportuno illustrarla con una tabella sinottica.

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Si noti, in particolare, l’importante distinzione al secondo livello intermedio tra il carattere chiuso del pool genico, la cui relativa stabilità è condizione di possibilità per l’esistenza di una specie, e quello aperto dei sistemi culturali, assimilabili a famiglie di complessi memici diversi coesistenti in un determinato tempo. Questo serve a spiegare le commistioni, le influenze, le filiazioni culturali e le loro trasformazioni nel tempo. A tal proposito, Gatherer fa esempi specifici tratti dalla storia: «Where a society is highly pluralistic, several meme pools may coexist and partially overlap. Unlike higher eukaryotic gene pools, meme pools are not closed systems between which absolutely no interaction can take place. The Roman Empire, for instance, played host to a vast plethora of cultures and religions. Much meme flow between diverse meme pools took place; for instance the interaction between Greek and Jewish thought which produced the work of Philo of Alexandria (c. 30 BCE - 40 CE) and had a seminal influence on early Christianity. However, despite this extensive interaction the Jewish and Hellenistic meme pools remained sufficiently different to be clearly recognisable as distinct cultures».

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L’anno dopo, come detto, Gatherer pubblicò su «Zygon» un ampio saggio, Meme Pools, World 3, and Averroës’s Vision of Immortality, in cui non solo sviluppava ulteriormente il parallelismo tra Memetica e teoria popperiana dei tre mondi, ma allargava il discorso fino ad includervi il pensiero di Averroè relativo all’intelletto, al fine di offrire un quadro filosofico unitario e di lunga tradizione entro cui potesse trovar posto anche un recupero in chiave epistemologica dell’antica nozione di immortalità. Una simile operazione speculativa imponeva, peraltro, di ripensare il rapporto della Memetica con la credenza religiosa, ciò che comportava non solo una presa di distanza dall’ateismo aggressivo di Dawkins ma anche una riformulazione di alcuni capisaldi della teoria dei memi. Il concetto di pool memico alla Dawkins, che per Gatherer è essenzialmente equivalente al Mondo 3 di Popper, viene considerato come un’espressione in termini mo-derni di ciò che Averroè intendeva per intelletto attivo, un’entità immortale che, come vedremo, si alimenta anche grazie all’intelletto passivo della coscienza, pur essendone in un certo modo il creatore. Una siffatta prospettiva teoretica fornisce a Gatherer uno strumento per riconciliare una visione materialista dell’universo di tipo darwiniano con una concezione non personale di immortalità. Il parallelismo tra il pool memico dawkinsiano e l’intelletto attivo averroista, integrato con Popper e la teoria dennettiana della coscienza, offre una solida base per difendere l’idea che la scienza sia un’impresa comunitaria in grado di determinare sia l’arricchimento del pool memico che lo sviluppo della stessa coscienza. Esso, inoltre, rende urgente l’impegno collettivo per il rispetto e la conservazione memetica delle culture in estinzione. Gatherer muove dal problema costituito dal fatto che Dawkins ha sviluppato la sua nozione di meme come base filosofica per un ateismo militante. Ma l’ateismo, sostiene Gatherer, non è affatto una conseguenza inevitabile della teoria dei memi, anche nella sua forma più stretta. A suo parere, occorre collocare la nozione di meme in una prospettiva storica più ampia e mostrare che essa è compatibile con la credenza religiosa. Infatti, posta sullo sfondo della teoria popperiana dei tre mondi e della definizione dennettiana della coscienza come macchina virtuale, la Memetica consente di delineare una filosofia della coscienza umana che ha molte somiglianze con quella di Averroè e pertanto può approdare a una concezione gnoseologica di immortalità che pone in primo

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piano il valore della conoscenza come fine senza per questo rinunciare anche alla forma più radicale di materialismo. Gatherer riesamina alcuni momenti topici della storia del concetto di meme e torna soprattutto sull’analogia meme/gene 40. A chi sostiene che il meme sia un vago miraggio che sparisce appena lo si esamini più da vicino, Gatherer risponde che anche il gene è sfuggente quando lo si guardi da vicino. La moderna biologia molecolare è molto flessibile sul tema e ha dovuto abbandonare il vecchio mucchietto di fagioli di Mendel (cfr. Ga-therer 1998a: 204): il termine “gene” indica una stringa di nucleotidi dalla lunghezza variabile e dai confini solitamente non ben determinati, soprattutto quando vengano prese in esame sezioni di una certa ampiezza (come peraltro si osservava già in Dawkins 1976: 31). Tuttavia, l’abbandono dell’immagine del gene come qualcosa di indivisibile e ben definito non ha certamente invalidato la classica genetica dei fagioli. I singoli nucleotidi sono le unità della mutazione, ma il gene resta ancora la migliore approssimazione all’unità funzionale. Ciò vuol dire che l’analogia gene/meme non impone che il meme sia definito rigidamente nei termini della sua forma o del suo contenuto di informazione. Riprendendo (anche se non esplicitamente) il mo-dello del saggio precedente, Gatherer osserva che i memi con basso contenuto di informazione, come le proposizioni semplici, possono essere considerati analoghi ai nucleotidi. All’altro estremo, i complessi altamente integrati di memi, come le religioni, sono assimilabili al genoma. La strutturazione gerarchica del concetto di meme esibisce chiaramente l’analogia tra geni e memi e consente di parlare di evoluzione memetica. Come i geni, i memi si propagano all’interno di una popolazione o perché aumentano le possibilità di sopravvivenza di coloro che ne sono i portatori o perché, come abbiamo visto sopra, la loro capacità di replicarsi è così grande che essi sono in grado di prescindere da questa esigenza. La corrispondenza che Gatherer propone qui è simile a quella di Gatherer 1997a e può riassumersi così (cfr. Gatherer 1998a: 205):

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Per un riesame concettuale più recente della questione dell’analogia meme/gene, cfr. Gil-White 2008, dove si sottolinea che l’analogia, pur evidente, non deve essere spinta al punto da trasformarla in una camicia di forza (straightjacket).

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• Nucleotide/meme a basso contenuto informativo (proposizione

semplice) • Gene/meme ad alto contenuto informativo (proposizione complessa) • Genoma/memeplesso, complesso integrato di memi (credenza religiosa, idea politica ecc.) Tuttavia, quando Dawkins assume che i memi egoisti si possano concepire come virus della mente (Dawkins 1993), sceglie di considerare tali soprattutto i memi della religione. Per Gatherer, Dawkins 1993 costituisce una deviazione teorica inaccettabile e pertanto dedica un lungo paragrafo alla sua confutazione (“A critique of mind virology and its place in English rationalist atheism”, Gatherer 1998a: 206-210). A suo modo di vedere, la posizione anti-religiosa di Dawkins ha qualche somiglianza con la concezione marxiana della religione come oppio dei popoli, ma mentre l’oppio di Marx può aver fornito un qualche vantaggio selettivo ai suoi portatori grazie al fatto di costituire un sostegno psicologico o un fattore motivante o era semplicemente un mezzo utile a una classe dominante per tenere buone le classi inferiori, Dawkins vede i memi della religione da una parte come nocivi alla fitness dei loro portatori e della società nel suo insieme e dall’altra come dotati di una notevole capacità di auto-perpetuarsi grazie alla loro efficienza nella trasmissione e alla loro resistenza ad essere rimpiazzati da altri memi. Ma Gatherer rifiuta l’idea che la concezione memetica della cultura sia strutturalmente incompatibile con la religione, e per questo si imbarca in una dettagliata analisi genealogica della posizione di Dawkins, riconducendola a un lungo dibattito, soprattutto interno alla storia inglese, che dall’età di John Wycliffe arriva a quella di Bertrand Russell e dei positivisti logici come Alfred Ayer. Secondo Gatherer, le idee sulla religione contenute in Dawkins 1993 (ma noi oggi disponiamo del ben più ampio, argomentato e devastante Dawkins 2006, che rende ancora più deboli le critiche di Gatherer, per non parlare di Dennett 2006) hanno un sapore tipicamente inglese. Diversamente dagli atei continentali, i quali, come Marx o Freud, desiderano rimpiazzare la religione con sistemi di credenze altrettanto elaborati o, come Nietzsche, cercano di appellarsi all’irrazionalità o agli istinti religiosi pagani, la tradizione dell’ateismo inglese in genere pretende di fare del tutto a meno della religione allo scopo di fornire alla ragione e alla

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scienza un ambiente più trasparente, meno superstizioso e più illuminato nel quale prosperare. L’argomento di Gatherer contro Dawkins può riassumersi nel modo seguente. Secondo Dawkins, l’intrinseca credulità umana, unita al desiderio di consolazione, conduce gli esseri umani alla credenza in idee soprannaturali, che includono il patto (inscritto nel corpus memico assunto insieme alla prescrizione di non tenere conto delle obiezioni razionali) che il credente diffonda le idee a nuovi ospiti, i quali a loro volta riceveranno un conforto infantile in cambio del loro impegno nell’opera di proselitismo. In tal modo le credenze religiose si diffondono rapidamente come virus. Secondo Gatherer, tuttavia, in questo argomento ci sono almeno quattro punti deboli: Dawkins, infatti, 1) assume che l’esperienza religiosa abbia una funzione meramente consolatoria (ma Lutero, Kierkegaard e Karl Barth sarebbero controesempi clamorosi); 2) suggerisce che i credenti, tra cui anche degli scienziati, siano in qualche modo privi della capacità di distinguere il senso razionale dal nonsenso superstizioso; 3) dimentica che il concetto di virus della mente ha a sua volta una natura analoga a quella di un virus della mente, per cui la virologia della mente, procurando un senso di superiorità, stimola la sua diffusione per arrecare ad altri gli stessi benefici psicologici; 4) sottovaluta il fatto che molti teologi moderni concepiscano la religione senza il ricorso a precetti morali, spiegazioni del mondo e miracoli. Il concetto di virus, dunque, deve essere usato con cautela, altrimenti diventa auto-confutante. In Dawkins 1993, inoltre, vengono considerati solo gli aspetti negativi (fanatismo, guerre di religione, ecc.) dei virus mentali religiosi, mentre vengono i-gnorati quelli positivi; d’altra parte, per quanto riguarda la scienza, vengono sottolineati solo gli aspetti positivi e mai quelli negativi (buco dell’ozono, armi nucleari, piogge acide, ecc.). Gatherer, allora, fa un tuffo nella storia e riconduce la posizione di Dawkins alla tradizione inglese: non solo Newton, l’illuminismo, Huxley e Bentham, ma più giù fino all’età di Cromwell e alle proteste egualitarie dei livellatori e dei quaccheri contro le religioni istituzionalizzate (come la chiesa protestante e quella cattolica) che hanno influenzato il razionalismo scettico dell’età della Restaurazione. E addirittura fino a Wycliffe. L’idea di Marx e Dawkins che la religione miracolistica e superstiziosa sia incompatibile con la ragione e costituisca uno strumento in mano ai preti per esercitare potere sui credenti risale al XVII secolo e da lì sarebbe arrivata a

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Hume e, tramite altri pensatori inglesi, agli illuministi francesi, fino a riemergere in figure come Ayer, che hanno applicato agli enunciati religiosi l’analisi logica del linguaggio. Ma una delle prime critiche all’idea che la religione sia un fenomeno irrazionale e nocivo, ricorda Gatherer, fu avanzata da Durkheim, secondo il quale la religione ha una funzione centrale nella società, portando alla coesione di gruppo e al rafforzamento dei valori comunitari. La religione arreca benefici al gruppo, ma questa idea è respinta da Dawkins, perché da biologo non crede né alla selezione di gruppo né a tutti gli approcci socio-antropologici neutri alla religione. Se, tuttavia, come pensa Dawkins, le religioni sono bande mutualmente compatibili di virus mentali, diventa difficile spiegare come abbiano potuto prosperare così a lungo nelle menti umane. I parassiti che hanno infestato i loro ospiti per un lungo periodo del tempo evolutivo tendono ad evolvere o verso lo stato di commensali innocui o verso lo stato di simbionti che arrecano benefici. Piuttosto che virus della mente, i memi religiosi, come quelli scientifici, si possono considerare, dunque, come simbionti della mente che si replicano grazie a un contributo positivo al benessere di molti dei loro portatori. Si potrebbe dire che Dawkins in un certo senso attacchi in realtà un avversario-fantoccio (straw man, ivi: 210). La sua critica alla religione non tiene conto del fenomeno nella sua interezza ed egli stesso appartiene a una lunga tradizione di critica interna alla religione istituzionalizzata che finisce per trasformare una forma di protestantesimo radicale in ateismo militante. Dawkins, però, non ammetterebbe di appartenere a una tradizione religiosa, una tradizione di cui peraltro può sì andare orgoglioso, ma non a spese delle credenze sincere e parimenti valide di altri. Se è possibile separare Memetica e ateismo filosofico, sostiene Gatherer, il concetto di meme si può applicare proficuamente alla costruzione di una teologia materialista che permetta di concepire una forma di immortalità impersonale e promuova il rispetto del pluralismo epistemologico e culturale. Il punto di partenza è concepire il pool memico come l’insieme di memi disponibili a una popolazione in un dato tempo, anche se alcuni sono utilizzati solo da un piccolo settore di tale popolazione. Le popolazioni piccole e isolate hanno in genere pool genici e memici limitati, da cui la loro deprivazione genetica e culturale. Pool memici piccoli e medi sono stati la norma nella storia umana. Ma oggi il pool memico della civiltà globalizzata è il più vasto mai

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esistito, perché non solo comprende i memi attivi ma ha accesso a molti dei memi delle civiltà precedenti, nella misura in cui possiamo capirli grazie agli studi antropologici. È a questo punto che Gatherer reintroduce la sua proposta di sintesi tra i memi di Dawkins, i tre mondi di Popper41 e il modello di coscienza avanzato in Dennett 1991a. L’idea cruciale e più delicata sul piano ermeneutico è quella secondo cui la teoria dennettiana della coscienza come complesso di memi presenta una “close similarity” con la caratterizzazione popperiana del Mondo 2: «Dennett hypothesizes that memes constitute the software of a virtual machine of consciousness which runs on the neuronal hardware of the brain. Dennett’s virtual machine is equivalent to World 2, and the memes are drawn from World 3. The neurons in the brain are the tangible realities of World 1. It should be noted that Popper’s metaphysical stance is not materialist, because he posits that World 3 is real and autonomous and not merely an epiphenomenal manifestation of World 1 (Popper and Eccles 1977)» (ivi: 211). Per l’articolazione gerarchica delle idee complesse nel Mondo 3 di Popper, Gatherer fa riferimento, peraltro in maniera troppo ellittica, alla “tavola delle idee” di Popper 1968 (in 1972: 172). Ad essa, che era già presente in Popper 1963: 40 e che verrà riproposta in Popper [1969] 1994c: 49 e 70 e in Popper 1976: 23, Popper attribuiva grande importanza epistemologica perché gli serviva per illustrare plasticamente la differenza tra il suo approccio, rivolto al contenuto di verità delle idee, e quello dei filosofi del significato come Wittgenstein e i neopositivisti. La tavola ha due colonne: su quella di sinistra (che Popper rigetta come irrilevante o al più come fonte di discussioni filosofiche sterili42) le idee sono 41

Le fonti popperiane di Gatherer, questa volta, sono Popper 1968 (cioè il capitolo 3 di Popper 1972), Popper e Eccles 1977 e Popper 1984. 42 In Popper 1972: 171 è chiarito che chi è attratto dal lato sinistro della tavola è vittima “dell’errore fondamentale di Platone”. Quale sia poi la natura dell’errore è spiegato nella nota ad locum, che vale la pena leggere per intero perché costituisce un monito contro certi rischi cui è esposta la stessa Memetica quando, per inseguire i critici amanti delle concettualizzazioni rigide, indulge a un approccio essenzialistico in relazione al problema della natura e della definizione del meme: “L’errore, che è un errore tradizionale, è conosciuto come ‘il problema degli universali’. E questo dovrebbe venir rimpiazzato dal ‘problema delle teorie’, o dal ‘problema del contenuto teorico dell’intero linguaggio umano’ [qui Popper rimanda ai §§ 4 e 25 dell’edizione 1959 della Logica della scoperta scientifica]. Diciamo incidentalmente, che è chiaro come delle tre famose concezioni - universale ante rem, in re e post rem -

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identificate con designazioni, termini o concetti che possono essere formulati in parole, le quali a loro volta possono essere dotate di significato riducibile tramite definizioni a concetti indefiniti; su quella di destra, invece, le idee sono identificate con asserti, teorie o proposizioni che possono essere formulati in asserzioni, le quali a loro volta possono essere vere e la loro verità può essere ridotta tramite derivazioni logiche a quella di proposizioni primitive. Gatherer ricorda poi che per Popper 1984 lo stesso meccanismo evolutivo di variazione proveniente dall’interno della struttura e selezione proveniente dall’ambiente esterno vale ai livelli dell’adattamento genetico, comportamentale e scientifico (è la medesima idea che noi abbiamo in precedenza illustrato attraverso Popper 1975, dove essa è espressa in maniera molto più articolata). E poiché una nuova teoria è come un nuovo organo, le vecchie teorie possono essere viste come organi vestigiali, ovvero, aggiunge il biologo molecolare Gatherer, come il cosiddetto DNA spazzatura (junk DNA), giacché i geni vestigiali non codificanti sono probabilmente fonti potenziali di nuove mutazioni genetiche e funzioni fenotipiche43. Analogamente i memi vestigiali possono perdurare nel Mondo 3 in attesa che i loro contenuti vengano cannibalizzati per la costruzione di nuovi memi. La diversità memetica - che preserva le culture indigene, ad esempio - è dunque qualcosa che è nel nostro stesso interesse mantenere, soprattutto quando andiamo alla ricerca delle componenti di nuove teorie e nuovi modi di vedere il mondo. Messi insieme Popper, Dawkins e Dennett, Gatherer inserisce a questo punto il quarto giocatore: Averroè. Il suo scopo non è tanto quello di stabilire priorità nella creazione di certi modelli speculativi, quanto piuttosto quello di sfruttare la risonanza teologico-materialistica che la dottrina averroista dell’immortalità sovra-individuale dell’intelletto può riverberare sulla teoria sintetica del pool memico/Mondo 3. Va subito notato, peraltro, che la riesumazione di Averroè in un contesto filosofico di questo tipo non l’ultima, nel suo significato usuale, è anti-terzo-mondo e cerca di spiegare il linguaggio come espressione; mentre la prima (platonica) è pro-terzo-mondo. È abbastanza interessante il fatto che la posizione di mezzo (in re) - posizione aristotelica - può dirsi essere tanto anti-terzo-mondo quanto ignorare il problema del terzo mondo. E ciò rende testimonianza dello sconcertante influsso del concettualismo” (ivi: 204). 43

Sul DNA “spazzatura” o “parassita”, cfr. ad es. Dawkins 1976: 48, 191-192, 285286 e Dawkins 1998: 92 e ss.

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ha nulla di peregrino, per almeno due ragioni: 1) l’assimilazione dell’intelletto di Averroè al Mondo 3 di Popper era già in un vecchio manuale scolastico italiano di storia della filosofia (cfr. Reale e Antiseri 1983: vol. 1, 410); 2) il ritorno in grande stile di Averroè nell’era del cyberspazio, di internet e di metafore virali come “intelligenza collettiva” et similia è un fatto avvenuto indipendentemente da Gatherer (cfr. l’interessante Pancaldi 2010, disponibile in rete), e a limite il suo merito è quello di aver anticipato la saldatura con la Memetica, che a sua volta trova nella rete (e in qualche sua deriva illusoria sulla mente informatica globale) un suo terreno di coltura ideale. Non entreremo qui nella dettagliata ricostruzione storicoteoretica di Gatherer, che, come di prammatica, inscrive la soluzione raggiunta da Averroè nel suo terzo e ultimo commento al De anima di Aristotele nella lunga e tormentata vicenda interpretativa del famigerato quinto paragrafo del terzo libro del testo dello Stagirita, che va dall’età antica a Pomponazzi, passando per il platonismo, il primo cristianesimo, la tradizione araba (culminata appunto in Averroè), quella ebraica (in particolare Mosè Maimonide) e il cosiddetto averroismo latino (in particolare Sigieri di Brabante). Quello che qui ci interessa è il modo in cui Gatherer reinterpreta Averroè per inserirlo nel gruppo Popper-DawkinsDennett. A suo giudizio, la versione finale della teoria averroista, per cui l’intelletto attivo separato agisce come una luce sulla mente materiale individuale determinando l’attualizzazione dei fantasmi sensibili di quest’ultima, che in tal modo passano come oggetti intelligibili all’intelletto potenziale o passivo imprimendovisi come forme su un sostrato quasi materiale, corrisponde abbastanza bene alla teoria popperiana dei tre mondi e a quella dennettiana della coscienza memica. Tutto ciò, osserva Gatherer, può sembrare “an unlikely suggestion” (Gatherer 1998a: 212), ma il parallelismo emerge se si pone mente al fatto che l’idea del pool memico/Mondo 3 è quella di un’entità che alimenta le (e si alimenta grazie alle) coscienze individuali (Mondo 2) in un rapporto di complessa interazione, rimanendo esterna a queste. Inoltre, sia Popper che Dawkins insistono sull’autonomia e persino sull’immortalità rispettivamente dei memi e del Mondo 3, una volta che essi siano stato creati dai cervelli umani. È questa la parte più interessante (e più discutibile) dell’interpretazione di Gatherer. A suo parere, l’intelletto attivo corrisponde al pool memico/Mondo 3, l’intelletto passivo, prodotto dall’interazione degli

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altri due elementi della triade, alla coscienza memica/Mondo 2 e le disposizioni fisiche del cervello (così Gatherer interpreta i fantasmi sensoriali o immaginativi di Averroè) all’hardware neurale del cervello, che è parte del Mondo 1: «In Averroës’s later philosophy, the passive intellect is engendered only by the interaction of the active intellect with a preexisting physical disposition (...). This addition of a third layer brings the Muslim Aristotelian tradition into line with Popper. World 3 is the active intellect, interacting with the physical disposition of the brain in World 1 to produce the passive intellect of consciousness in World 2. This is exactly the mechanism proposed by Dennett (1991a), although his terminology is entirely different» (ivi: 215). Da ciò Gatherer deduce l’unicità di tutti e tre i mondi, forzando in senso averroista la teoria di Popper, il quale, anche se non specifica mai che ci sono tanti mondi 2 quanti sono gli individui, sembra per la verità darlo per scontato (altrimenti non si capirebbero le sue critiche frequenti alle varie epistemologie soggettiviste): c’è un solo intelletto attivo/pool memico/Mondo 3, immortale, sovraindividuale, condiviso e creato dall’attività cumulativa di miliardi di cervelli nel corso dell’evoluzione umana; c’è un solo intelletto passivo/coscienza/Mondo 2, separato, collettivo, condiviso ed emergente dall’interazione degli altri due; e c’è infine un solo Mondo 1 condiviso, cui appartengono anche i cervelli umani. Il carattere un po’ spericolato della deduzione da parte di Gatherer dell’unicità del Mondo 2 di Popper, al fine di salvaguardare la plausibilità del suo accostamento con l’intelletto passivo di Averroè, è tradito dal seguente passo, che a ben vedere potrebbe essere usato per dimostrare l’esatto contrario, ovvero la pluralità irriducibile di menti individuali: «The varying meme pools of different cultures may thus produce slightly variant forms of consciousness, but many characteristics will be common despite wide cultural distances. Only the meme pool is immortal, however, and this immortality is not of any individual» (ivi: p. 216). Si può notare di passaggio, e in via del tutto congetturale, che i testi di Averroè consentono anche una lettura un po’ diversa da quella di Gatherer, addirittura più funzionale alla sua stessa intenzione interpretativa. Sembra più naturale, infatti, assimilare al Mondo 3 di Popper non l’intelletto attivo ma quello passivo (è quello che del resto facevano Reale e Antiseri nel luogo citato sopra). Sulla base per esempio di Commento grande al De anima,

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III, t. c. 5 e 36 (in Illuminati [a cura di] 1996), si potrebbero concepire le “forme immaginative”, cioè i fantasmi sensibili, come abitanti del Mondo 2 soggettivo, individuale e mortale di Popper, e non come disposizioni fisiche del cervello, come vuole Gatherer. Secondo Averroè, infatti, il vero prodotto umano unico, collettivo e separato sembra essere l’intelletto passivo, che riceve dalle menti umane gli oggetti intelligibili (i contenuti astratti della conoscenza) smaterializzati e universalizzati dall’azione esercitata dall’intelletto attivo sul materiale grezzo e intriso di residui sensoriali soggettivi che dimora nelle menti individuali. Man mano che cresce, l’intelletto passivo si approssima ad infinitum a quello attivo condividendone una porzione sempre maggiore di contenuti astratti pienamente attualizzati e realizzando quella congiunzione che Averroè chiama intelletto speculativo. L’immortalità dell’intelletto passivo, poi, garantisce anche quella dell’umanità nel suo complesso, perché se così non fosse l’intelletto passivo potrebbe ritrovarsi un giorno a non ricevere più materiale purificato dalle menti umane. In tale ipotesi di lettura, dunque, il Mondo 1 resta il sostrato materiale del cervello, il Mondo 2 coincide con i fantasmi sensoriali delle menti corruttibili e l’intelletto attivo, che in Averroè non sembra affatto essere un prodotto dei cervelli umani, diventa il limite all’infinito dell’intelletto passivo/Mondo 3, lo spazio astratto di tutte le conoscenze possibili, ovvero, potremmo dire usando un’immagine presa in prestito da Borges (peraltro fine interprete di Averroè, come dimostra un celebre racconto de L’Aleph, in Borges 1984: 838-846), il dominio platonico del riferimento semantico di tutti i libri della biblioteca di Babele (cfr. Finzioni, ivi: 680-689). Possiamo illustrare tutto ciò tramite un quadro riassuntivo come la Tabella I.2, analoga a quella usata per Gatherer 1997a (esse, com’è evidente, si completano a vicenda). Secondo Gatherer, Averroè ha avuto il merito di de-platonizzare e de-cristianizzare la vecchia nozione divina dell’intelletto attivo, facendone un prodotto umano in grado di garantire agli uomini un’immortalità collettiva impersonale. È questa la teologia materialista e laica proposta da Gatherer, che chiama a sostegno anche l’insistenza di Dawkins sull’immortalità dei propri replicatori egoisti. Dawkins, infatti, osservava già nelle prime pagine sui memi che, mentre i geni che ci individuano come persone uniche si disperdono nel giro di poche generazioni nel pool genico della specie, i memi di chi contribuisce alla cultura del mondo con invenzioni e teorie

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possono vivere intatti per sempre (in linea di principio): «Socrate può avere o no un gene o due ancora vivi nel mondo d’oggi (...), ma che importa? I complessi di memi di Socrate, Leonardo, Copernico e Marconi stanno ancora andando forte» (Dawkins 1976: 209). Alludendo a questo passo, Gatherer opera una sua tipica mossa critica rispetto all’impostazione memetica di Dawkins, a suo parere viziata di soggettivismo proprietario44: «This, however, places an incorrect emphasis on the memes as the “property” of individuals. Socrates’ memes have entered the meme pool and therefore now “belong” to whoever draws on them. This is not to belittle the contribution made by individual great minds in the formation of new memes. Socrates, after all, is not likely to be soon forgotten. However, just as Socrates’ passive intellect drew on the communal reservoir of the meme pool as it existed in fifth century B.C.E. Athens, so his novel contributions passed back into that same meme pool, from which our present meme pool is partly drawn» (Gatherer 1998a: 216). Tutto ciò, per Gatherer, ha importanti implicazioni filosofiche, perché può contribuire a ridimensionare il contrasto tra monisti materialisti e dualisti (o trialisti, come nel caso di Popper). Dawkins, intanto, pur dichiarandosi irriducibilmente materialista, ha poco o niente da dire sulla mente; Dennett, da parte sua, pur essendo materialista, si è sforzato di capire come può succedere che venga al mondo qualcosa come una mente cosciente, pur finendo con il ridurla al rango di una narrazione individuale volta alla creazione dell’illusione dell’agente unico a guida della macchina cerebrale costituita da processi che lavorano in parallelo; Popper, invece, offre una teoria generale dei livelli fisico, mentale e culturale del mondo e delle loro interazioni, mentre Averroè anticipa il dibattito sullo status della mente. Ebbene, in tutto ciò la nozione di meme può intervenire in quanto strumento concettuale in grado di rivelarsi buono sia per un monista che per un pluralista. I pluralisti alla Popper possono pensare ai memi come a entità dotate anche di un’esistenza mentale, indipendente da qualsiasi base 44

Questa critica all’idea che i memi siano posseduti da una mente, che implicherebbe un’impostazione soggettivistica difficilmente conciliabile con l’idea che i memi siano unità autonome di informazione e con l’esigenza di valutarne la diffusione nelle manifestazioni osservabili di una popolazione, è svolta più estesamente da Gatherer in un saggio molto discusso apparso sul secondo numero del JoM-EMIT: Gatherer 1998b, sul quale si veda anche Ianneo 2005: 46-47.

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fisica, mentre i monisti possono considerarli semplicemente come le manifestazioni comportamentali di stati cerebrali: in ogni caso essi evolvono allo stesso modo, cioè secondo l’algoritmo darwiniano. Si attribuisca o no realtà ontologica a tutti e tre i mondi, una prospettiva memetica unificata di questo tipo consente di spiegare la loro interazione anche laddove il Mondo 3 e il Mondo 2 si vedessero assegnata la realtà dell’illusione narrativa (nel senso di Dennett): «The active intellect/World 3/meme pool is utilized by the physical neural apparatus in World 1 to produce consciousness/World 2/the passive intellect. Whether this World 2 is real, as Popper and other dualists would have us believe, or merely a grand illusion, following Dennett, is outside of the present discussion. Either conclusion would still be compatible with the meme concept. In both cases, the active intellect/meme pool/World 3 is still common to all, persisting and evolving immortally» (ivi: 217). Quello che conta, per Gatherer, è che questo modello è in grado di prescindere dall’ipoteca della tradizione platonico-cristiana che identifica l’intelletto attivo con una sostanza spirituale divina. Da un punto di vista dawkinsiano, Dio è solo uno dei memi del pool memico, non lo stesso pool nella sua totalità, e considerarlo come un elemento che inquina il pool (come fa Dawkins) è una semplice questione di stile cognitivo e scelta culturale, perché altri possono assumerlo come un elemento dell’ecologia mentale in grado di arrecare benefici alla loro vita. Resta il fatto che, in quanto creatura memica del cervello umano, il meme di Dio gode di una vita autonoma e indipendente dai suoi stessi creatori come ogni altro meme, e alcuni uomini possono consentirgli di prendere il comando della loro mente, con tutto quel che ne consegue, esattamente come fanno con molti altri memi (dalle ideologie politiche alla passione per i francobolli). Concludendo con un riferimento non casuale alla Guida dei perplessi di Mosè Maimonide, un contemporaneo di Averroè anch’egli impegnato in un’opera di conciliazione, questa volta della filosofia aristotelica con la legge e la tradizione giudaiche, Gatherer tesse l’elogio della coltivazione delle facoltà intellettuali come fonte di perfezionamento individuale e collettivo, perché partecipare all’impresa di arricchire il pool memico può costituire un ideale regolativo, cioè un metameme, in grado di fornire una base per fondare culturalmente la necessità di rendere desiderabile la preservazione della diversità memetica: «Thus Dawkins’ meme theory, far from being bleak

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and materialist (in the derogatory sense of the word), as some of his critics have maintained, provides us with a basis for reconstructing a spiritual approach to knowledge of which Averroës and Maimonides would surely have approved» (ivi: 218).

1.4. Osservazioni conclusive: per una teoria unificata A questo punto è lecito chiedersi a cosa possano mai servire una Memetica intrecciata con la teoria popperiana dei tre mondi o un Popper riletto alla luce della Memetica. Nelle pagine precedenti abbiamo visto che entrambi condividono una buona parte di

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una lunga tradizione di ricerca filosofica e costituiscono due tentativi di soluzione a problemi legati all’ontologia, alla filosofia della biologia, alla filosofia della mente e all’epistemologia che presentano una rete piuttosto fitta di affinità puntuali tessuta sulla base comune del neodarwinismo. L’idea di Gatherer che il concetto di meme sia compatibile tanto con il tipo di monismo rivendicato da Dennett quanto con il tipo peculiare di pluralismo sostenuto da Popper può essere rafforzata con altre argomentazioni. La tesi di fondo che intendo sostenere può essere posta nei termini seguenti: se fosse possibile da un lato trovare nella posizione di Dennett un varco che apra il suo apparentemente rigido monismo materialistico a una qualche forma di pluralismo e dall’altro ridurre il pluralismo popperiano a un quadro naturalistico più omogeneo, allora la teoria memetica della mente e della cultura e quella dei tre mondi potrebbero ritrovarsi su un terreno comune e qui interagire per rafforzarsi a vicenda e condurre a una concezione scientifico-filosofica unitaria dotata di maggiore potere esplicativo. In particolare, la teoria popperiana dei tre mondi si rafforzerebbe guadagnando per esempio la nozione di replicatore culturale darwiniano che le manca (come ha rilevato giustamente Susan Blackmore), mentre il modello dennettiano troverebbe un più ampio e plausibile quadro ontologico di riferimento, soprattutto per quanto riguarda lo status da assegnare ai prodotti della cultura. Nel dire questo intendiamo riferirci al fatto che anche una filosofia naturalisticamente orientata e in dialogo con la scienza, com’è esplicitamente quella di Dennett (cfr. Dennett 2003: 20), non può fare a meno di ignorare il proprio quadro filosofico generale di riferimento (spesso implicito), e alludiamo in particolare alla nozione popperiana di «programma di ricerca metafisico», così definita nell’Epilogo metafisico del terzo volume del Postscript: «Nel far uso di questo termine, intendo richiamare l’attenzione sul fatto che, in quasi ogni fase dello sviluppo della scienza, soggiaciamo all’influsso di idee metafisiche, cioè non controllabili; idee che determinano non solo quali problemi esplicativi sceglieremo di affrontare, ma anche quali tipi di risposte considereremo idonee, soddisfacenti o accettabili, e come miglioramenti di, o progressi rispetto a, risposte precedenti» (Popper [1956], 1982b: 169). E non è un caso che Popper, usando in seguito tale formula come titolo per il § 33 dell’Autobiografia, indicherà in tale sede come esempi di programmi di ricerca metafisici non solo il realismo filosofico ma anche la teoria

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della selezione naturale, giacché questa «non è una teoria scientifica controllabile, ma un programma di ricerca metafisico; e benché sia indubbiamente il migliore disponibile al presente, è probabile che possa essere leggermente migliorato» (Popper 1976: 155). E cos’altro è, infatti, l’algoritmo darwiniano universale di Dawkins e Dennett se non un’ipotesi cosmo-biologica strettamente legata a una scommessa filosofica ardita sul realismo metafisico? Una manciata di righe prima di introdurre il meme del meme, Dawkins proponeva una fantasticheria che è la migliore illustrazione possibile, ancorché involontaria, dell’idea di Popper: «Se esistono forme di vita la cui chimica si basa sul silicio invece che sul carbonio o sull’ammoniaca invece che sull’acqua, se si scoprono creature che muoiono bollite a meno 100 gradi centigradi, se si scopre una forma di vita che non si basa sulle proprietà chimiche ma sui circuiti elettronici, esisterà pur sempre un principio generale vero per tutte queste forme diverse? Naturalmente non lo so, ma se dovessi fare una scommessa, punterei su di un principio fondamentale, secondo il quale tutte le forme di vita evolvono attraverso la sopravvivenza differenziale di entità che si replicano» (Dawkins 1976: 201). La cosa curiosa è che il varco e la reductio ad unum cui si faceva riferimento nella protasi della mia tesi teorica esistono già e si trovano, occasionate da contesti di discorso differenti dal nostro, sia nella letteratura relativa ai memi e a Dennett sia nella letteratura relativa ai tre mondi di Popper. Discutendo i buoni risultati filosofici conseguiti dalla prospettiva del meme, Dennett a un certo punto osserva che l’ultima spiaggia per i nemici del darwinismo universale consiste nel negare che ciò che accade ai memi una volta che essi si impiantano in una mente si possa spiegare interamente in termini riduzionistici e meccanicistici; ma per far questo, aggiunge, sono costretti a cadere nel dualismo cartesiano, cioè nell’idea che «la mente non può coincidere con il cervello, ma piuttosto, con qualche altro posto, in cui avvengono grandi e misteriosi processi alchemici che trasformano la materia prima con cui vengono alimentati - gli elementi della cultura che chiamiamo memi - in nuovi elementi che trascendono le loro origini in modi che sono semplicemente oltre la portata della scienza» (Dennett 1995: 466). E nella nota ad locum, rispondendo alla tesi avanzata in Lewontin-Rose-Kamin 1984 secondo cui la teoria dei memi comporta una visione carte-

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siana della mente, afferma che «in realtà i memi sono un ingrediente chiave (fondamentale ma facoltativo) delle migliori alternative ai modelli cartesiani» e rimanda naturalmente a Dennett 1991a. Ora, contrariamente a quanto possa sembrare prima facie, un passo del genere alimenta la speranza di trovare il varco che stiamo cercando per almeno due ragioni: 1) Dennett, come al solito, quando parla di dualismo cartesiano, soprattutto in relazione ai suoi avversari, intende sempre la forma forte del dualismo sostanzialistico o spiritualistico (alla Eccles, per intenderci), mentre preferisce ignorare le frequenti precisazioni di Popper sul proprio dualismo (a limite) dei processi e livelli della realtà psico-fisica, che si trovano quasi in ogni esposizione della teoria dei tre mondi; 2) come abbiamo visto nel secondo paragrafo, inoltre, anche Popper concepiva la propria teoria come alternativa a quella cartesiana (di cui è stato un critico implacabile), e va da sé che Dennett non la includerebbe tra le “migliori” solo perché ne rigetta una versione ad hoc. Inoltre, l’osservazione di Lewontin-Rose-Kamin 1984 respinta da Dennett alla luce della propria concezione rigida e unica del dualismo cartesiano ci conforta per una seconda ragione. Torniamo all’insinuazione maliziosa di Searle 1997:157158 su Hofstadter e Dennett 1981: 27, dove si parla di «un’idea che sta emergendo, quella che vede la mente come software o programma, cioè come un qualcosa di astratto, la cui identità non dipende da alcuna particolare concretizzazione fisica. Questo spalanca bellissime prospettive, ad esempio varie tecniche per la trasmigrazione delle anime...». Searle, che per la verità ha ottimi motivi per avercela con questo libro45, osserva che qui siamo in presenza di un «dualismo residuale, che è tipico della teoria compu-

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Com’è noto, in esso è antologizzato e duramente criticato Searle 1980, in cui è avanzato per la prima volta il celebre argomento della stanza cinese contro la possibilità stessa (delineata dai teorici dell’IA forte) che macchine artificiali puramente sintattiche possano pervenire a qualcosa di anche lontanamente simile al pensiero umano, per Searle intrinsecamente semantico, cioè intenzionale. Searle, inoltre, nel Post scriptum della sua recensione fortemente critica di Dennett 1991a, accusò il suo autore di averlo citato erroneamente “per ben cinque volte” sempre nel libro pubblicato con Hofstadter (cfr. Searle 1997: 106-107). Per una panoramica più ampia sui residui di dualismo quasicartesiano (cioè epistemologico o delle proprietà) presenti nelle varie forme di funzionalismo materialistico e non riduzionistico, si veda Paternoster 2002 & 2010: 68-70.

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tazionalista della mente. Notate che nessuno penserebbe di sostenere la stessa cosa a proposito della digestione, della fotosintesi o di altri caratteristici processi biologici». Quello che qui ci interessa sottolineare, al di là della plausibilità dell’obiezione di Searle46, peraltro strettamente legata alla sua peculiare prospettiva filosofica, è il fatto che Dennett abbia potuto mostrarsi in odore di dualismo residuale anche nella sua fase computazionalista prememetica. Va tenuto presente, infatti, che proprio dopo questo libro, se non addirittura a causa di questo libro47, in cui furono antologizzate anche alcune pagine di Dawkins 1976, tra cui quelle sui memi, Dennett avrebbe integrato il proprio approccio computazionalista con la nuova prospettiva offerta dalla Memetica.

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La storia sembra proprio che stia confortando le vecchie speranze di Dennett e Hofstadter, se si pensa a esperimenti del genere di quelli descritti in Nicolelis 2011, in cui gli schemi neurali motori di topi e scimmie (e oggi persino di esseri umani) vengono “letti” da dispositivi elettronici, digitalizzati e trasferiti in tempo reale su macchine robotiche o addirittura su cervelli di conspecifici che li ritraducono ed eseguono a distanza. Le informazioni motorie così trasmesse possono essere viste come esempi (ancorché ancora e-lementari) di ciò che in Aunger 2002 era chiamato neuromeme e che già nel 1989 Dawkins, sulla base di Delius 1989 (che egli ricevette privatamente mentre era in corso di stampa), preconizzava nella nota 3 al cap. 11 della seconda edizione de Il gene egoista: “Se i memi che stanno nel cervello sono analoghi ai geni, devono essere strutture cerebrali che si autoreplicano, schemi reali di connessioni neuronali che si ricostituiscono in un cervello dopo l’altro” (Dawkins 1976: 326). 47 Dennett ha raccontato che fu lo stesso Hofstadter a spingerlo, nel 1980, a leggere Il gene egoista (cfr. Dennett 1995: 181). Si potrebbe dire, addirittura, che The Mind’s I abbia determinato una doppia svolta: la conversione di Dennett alla prospettiva del meme e il rilancio in grande stile - ad opera di due autori già noti nell’ambito delle scienze cognitive e della filosofia della mente per aver pubblicato poco prima opere importanti come Brainstorms l’uno e Gödel, Escher, Bach (1979) l’altro - del “meme sui memi” di Dawkins (l’espressione è stata coniata dallo stesso Hofstadter nelle sue “Riflessioni” in calce alle pagine di Dawkins 1976: cfr. Hofstadter e Dennett 1981: 149). Per un arruolamento di Hofstadter 1979 tra i testi prememetici, sulla base della constatazione che il concetto di meme è autoreferente (è infatti esso stesso un meme che si replica ed evolve) e che l’autoreferenza è strettamente connessa con il genere di autoreplicazione informatica e biologica indagata da Hofstadter, cfr. Jouxtel 2005: 62-65, dove si sottolinea anche il fatto che lo stesso Hofstadter abbia dichiarato il proprio debito nei confronti di Monod 1970 (su questo punto cfr. Hofstadter 1979: 816).

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D’altra parte Giulio Giorello, nel suo saggio introduttivo premesso all’edizione italiana di Popper 1979, ha proposto di considerare i tre mondi di Popper «come Attributi quasi nel senso di Spinoza» (in Popper 2012: 17), proprio per sottolineare che la teoria di Popper non va confusa con una riedizione del cosiddetto “errore di Cartesio” (nel senso di Damasio 1994), per di più complicato ulteriormente dal fatto che questa volta le res in gioco di cui spiegare le interazioni sarebbero tre. L’autonomia relativa della dimensione mentale (Mondo 2) e di quella culturale (Mondo 3) Giorello l’aveva difesa nel saggio firmato con Michele Di Francesco e incluso nella raccolta che ospitava il già citato intervento di Popper al convegno di Venezia del 1990 (cfr. Giorello e Di Francesco 1991), ma adesso, volendo sottolineare la possibilità di una visione insieme unitaria e plurale, di tipo appunto spinoziano, chiama in causa un passo di Roger Penrose, il quale propone una visione trialistica in qualche modo simile a quella di Popper: «Vi può essere un senso in cui i tre mondi non siano affatto separati, ma riflettano soltanto, individualmente, aspetti di una verità più profonda del mondo nella sua totalità, verità di cui attualmente abbiamo scarse cognizioni» (Penrose 2004: 22-23, cit. in Popper 2012: 108). Vale la pena soffermarsi un attimo sulla teoria dei tre mondi di Penrose48, perché essa contiene degli aspetti molto interessanti relativi alla discussione che stiamo svolgendo qui. La cosa curiosa del § 1.4 di Penrose 2004, intanto, è che in esso il lettore si imbatte in una versione della teoria popperiana dei tre mondi peculiarmente statica, cioè indipendente da considerazioni di carattere biologico-evolutivo, e tuttavia, o forse proprio per questo, Popper non viene mai nominato49. Secondo Penrose, bisogna ammettere l’esistenza di tre mondi relativamente indipendenti e connessi tra 48

È curioso osservare - e ci torneremo nella Conclusione - che tale teoria, benché in versione semplificata e ad hoc, è stata usata di recente da Amir Aczel nell’ambito di una critica appassionata, condotta dal punto di vista di uno scienziato credente, al New Atheism di Dennett e soprattutto di Dawkins (cfr. Aczel 2014: 105-107). 49 Il suo nome verrà fatto nel § 34.4, allorché Penrose cercherà di dimostrare che in certi settori altamente speculativi della scienza contemporanea, come la teoria della supersimmetria in fisica delle particelle, il concetto popperiano di falsificabilità empirica come criterio di scientificità non può essere applicato, perché esso risulterebbe troppo severo e ci priverebbe di astrazioni molto fertili dal punto di vista scientifico.

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loro in modo complesso e misterioso (la parola “mistero” ricorre spesso in queste pagine, a cominciare dal titolo del paragrafo: Three worlds and three deep mysteries50), vale a dire il mondo fisico, il mondo mentale e il mondo platonico-matematico. Le misteriose relazioni tra questi tre mondi si possono riassumere nel modo seguente: il mondo platonico delle leggi matematiche (ovvero il suo sottoinsieme costituito dalle leggi della fisica) governa l’intero mondo fisico; quest’ultimo (ovvero il suo sottoinsieme costituito dai cervelli) costituisce la radice dell’intero mondo mentale, il quale a sua volta (ovvero la sua parte strettamente razionale) è in linea di principio in grado di comprendere l’intero mondo platonico-matematico, nel senso che «there are no mathematical truths that are beyond the scope of reason» (Penrose 2004: 2051). Ora, Penrose è perfettamente consapevole del fatto che i suoi tre “misteri” siano legati ad alcuni suoi pregiudizi idiosincratici e a tal proposito discute alcune possibili obiezioni, facendo anche delle concessioni. Per esempio, poiché non tutti sarebbero disposti ad ammettere che il mondo fisico sia totalmente governato da leggi matematiche, egli concede di lasciarne fuori qualche settore, in particolare quello relativo alle nostre azioni; inoltre, chi, magari sulla base di argomentazioni religiose, non è disposto ad ammettere che la sfera mentale abbia radici esclusivamente fisiche nel cervello, è accontentato con l’inclusione di settori del mondo mentale non controllati da quello fisico; infine, e in maniera analoga, a chi ritiene che il mondo platonico-matematico contenga delle verità inaccessibili alla ragione umana, Penrose concede di assegnare ad esso un settore che sfugge al raggio d’azione del mondo mentale. La teoria è illustrata in modo particolarmente efficace con uno schema di cui Penrose propone tre varianti. La prima (ivi: 18) illustra la teoria così come la preferisce l’autore; la seconda (ivi: 20) ingloba le concessioni fatte ai perplessi, mentre la terza, presentata verso la fine del libro (ivi: 1029), allarga il mondo della verità matematica includendovi altre due dimensioni tipicamente “platoniche”, vale a dire i modelli assoluti di Bene e di Bello, alla 50

E si tratta di quel genere di mistero, ovvero di appello a ganci appesi al cielo, duramente stigmatizzato nel quindicesimo capitolo di Dennett 1995 con riferimento a Penrose 1989. 51 Da qui in avanti ci si baserà sull’edizione originale (nell’edizione italiana il passo è a pagina 38).

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base rispettivamente dell’etica e dell’estetica (e già anticipate nel § 1.5, in cui si trova il passo citato da Giorello).

Figura I.1. Le tre varianti della teoria dei tre mondi di Penrose, delle quali l’autore preferisce esplicitamente la prima. Fonte: Penrose 2004: 18, 20, 1029.

Si noti, en passant, la differenza forse più macroscopica tra il modello di Penrose e quello di Popper. Il mondo platonico di Penrose non è un prodotto della mente umana come il Mondo 3 di Popper: esso, piuttosto, costituisce il deposito metafisico (platonico, appunto) delle leggi matematiche invarianti della realtà, tra cui quelle del mondo fisico, e in quanto tale controlla direttamente, ancorché misteriosamente, quest’ultimo, per quanto probabilistiche e indeterministiche siano le sue trame profonde al livello quantistico. Il Mondo 3 di Popper, invece, per quanto autonomo possa essere e per quanto contenga anche gli oggetti del

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mondo platonico di Penrose sotto forma di contenuti astratti di scoperte e teorie matematiche e scientifiche, è un prodotto della mente umana e solo tramite questa può interagire con il mondo fisico. Ancora una volta, non è importante qui il grado di plausibilità dell’interpretazione di Giorello, che tende a unificare Spinoza, Penrose e Popper, perché per il nostro discorso importa di più il fatto stesso della sua esistenza: la rilettura di Giorello ci dice, tra l’altro, che la teoria dei tre mondi di Popper non è una teoria che viene a riproporre tre res cartesiane separate, ontologicamente irriducibili e tenute sospese da un gancio appeso al cielo. La teoria dei tre mondi, come Popper non si è mai stancato di ripetere, è un’ipotesi generale, un programma di ricerca metafisico, che mira a spiegare il meccanismo evolutivo attraverso il quale, dal Mondo 1 fisico, sono emerse via via altre due dimensioni o “regni” grazie alla comparsa di organi molto particolari come i cervelli umani, dotati della capacità di elaborare un linguaggio articolato in grado di strutturare menti e produrre significati astratti e autonomi. E questo, se si pensa a testi come i capitoli 12-14 di Dennett 1995 e tutto Blackmore 1999, è esattamente lo stesso compito che si propone di svolgere la Memetica. Si consideri, per esempio, Dennett 1995: 440, laddove si dice che, fin quando i memi non si saranno resi del tutto autonomi dalle menti umane52, essi «dipendono ancora, quanto meno indirettamente, dal fatto che uno o più dei loro veicoli trascorrano quanto meno un breve stadio da crisalide in un sorprendente tipo di nido memico: la mente di un essere umano». Questa sembra la traduzione memetica di una teoria popperiana ben nota a Dennett, quella relativa alla funzione biologica del Mondo 2. Secondo Popper, infatti, il mondo delle menti umane e quello del loro cervello si sono evoluti interagendo con il mondo dei loro stessi prodotti culturali, i quali addirittura ne hanno guidato lo sviluppo creando quella pressione selettiva in grado di renderli sempre più abili nella produzione di oggetti autonomi del Mondo 3, cioè di memi.53 52

Cioè fin quando non saranno diventati tutti tecnomemi, nel senso di Blackmore 2008a e 2008b (ci torneremo nella Conclusione). 53 Tra gli innumerevoli passi popperiani sulla coevoluzione a tre di cervello, mente e cultura cui si potrebbe rimandare, si consideri solo il seguente, perché guarda caso vi si ritrova il “detto” di Popper tanto caro a Dennett: “Finché le nostre congetture fanno parte di noi stessi, esiste una considerevole probabilità

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E questa, a sua volta, sembra la traduzione in termini popperiani dell’idea centrale di Blackmore 1999, secondo cui le pressioni selettive che hanno portato alle dimensioni spropositate del nostro cervello (tali da mettere in costante pericolo di vita la madre che deve partorirlo insieme alla sua scatola cranica54) sono state predisposte non tanto dalla nostra fitness quanto piuttosto da quella dei memi, perché il loro interesse di replicatori egoisti ha favorito ciecamente, per selezione sessuale, i loro migliori creatori e propagatori, cioè gli individui con un cervello adatto ad arricchire la memosfera55 e a scatenare processi esplosivi di imitazione. La stessa Blackmore, del resto, quando insiste nel ridimensionare il ruolo della coscienza come guida e fonte di scopi razionali per la crescita di quella regione della memosfera costituita dalla conoscenza scientifica (cfr. Blackmore 1999: 407-408), fino addirittura ad auspicare la decostruzione del Selfplex, il complesso memico dominante che è tra i preferiti dai memi virali come centro per il loro smistamento (“Eludere il Selfplex” è il titolo dell’ultimo capitolo del libro), non fa altro che riecheggiare involontariamente punti ben precisi dell’«epistemologia senza soggetto conoscente» che, qualora non siano bene adatte, noi moriremo con esse. Una delle principali funzioni biologiche del Mondo 2 è quella di produrre teorie e anticipazioni coscienti degli eventi imminenti; e la principale funzione biologica del Mondo 3 è quella di rendere possibile che queste teorie vengano respinte facendo sì che siano le nostre teorie a morire al posto nostro” (Popper e Eccles 1977: 171). 54 È interessante osservare che lo stesso Dawkins è pervenuto alla spiegazione memetica del rapido sviluppo del cervello umano per coevoluzione software/hardware autoalimentante ed esplosiva grazie alla Blackmore. Mentre infatti ne L’orologiaio cieco trattava le due questioni - cioè quella dei memi e quella dello sviluppo del cervello - separatamente e in parti diverse del libro (cfr. rispettivamente Dawkins 1986: 220-221 e 260-262, 295, 309-310), nell’ultimo capitolo de L’arcobaleno della vita esse verranno collegate proprio sulla base di Blackmore 1999, di cui Dawkins aveva a disposizione le bozze per curarne l’introduzione (cfr. Dawkins 1998: 271 e 276-277). 55 A proposito di questo termine, c’è da rilevare che in Hofstadter 1985: 66 si dice che il termine correlato e più antico ideosphere è stato coniato dallo stesso Hofstadter e dal memetista Aaron Lynch, il quale non a caso in Lynch 1996 lo usa in contesti nei quali potrebbe essere tranquillamente sostituito da memosphere. La più antica occorrenza di questo termine sembra essere quella (duplice) in Dennett 1991a: 232 e 247. Nel resto degli anni Novanta Brodie (1996) non lo usa, mentre lo usa la Blackmore (1999: 399). Non è mai usato nel JoM-EMIT. Wiktionary suggerisce erroneamente che la prima occorrenza si trovi in Dawkins 2007 (cfr. http://en.m.wiktionary.org/wiki /memosphere).

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di Popper, come suona il titolo di uno dei primissimi saggi in cui appare la teoria dei tre mondi (cfr. Popper 1968), dove appunto è difesa una teoria della scienza in cui il gioco selettivo oggettivo proprio del Mondo 3 è anteposto a quello psicologico soggettivo delle menti degli scienziati. A sua volta, la Memetica è in grado di spiegare l’insistenza di Popper sullo scopo per lui principale della scienza, cioè l’approssimazione alla verità oggettiva attraverso la selezione critica e razionale delle teorie, interpretandolo come un meme utile e coadattato del memeplesso scientifico, descritto nell’ultimo paragrafo di Dawkins 1993 in termini che sarebbero piaciuti a Popper: «Le teorie scientifiche, come tutti i memi, sono soggette a una sorta di selezione naturale, e questo potrebbe farle sembrare, a prima vista, simili ai virus. Ma le forze selettive che vagliano le idee scientifiche sono tutt’altro che arbitrarie e capricciose. Si tratta di regole esigenti, ben temperate, che non favoriscono un comportamento inutile ed egoista. Favoriscono le qualità utili che si trovano nelle pagine dei tradizionali testi di metodologia: controllabilità, supporto empirico, precisione, quantificabilità, consistenza, intersoggettività, ripetibilità, universalità, progressività, indipendenza dall’ambiente culturale, e così via. La fede si diffonde pur non possedendo nemmeno una sola di queste prerogative» (in Dawkins 2003: 196). Concludiamo con altri due esempi incrociati che illustrano ancora meglio la proficuità di un’integrazione della prospettiva memetica con quella popperiana. In Jouxtel 2005: 123 (ma cfr. anche 124 e 164) viene proposto un sistema di assi cartesiani in cui i quattro possibili approcci al meme (neuronale, logico, simbolico e pratico) definiscono altrettante ontologie per il meme, cui corrispondono anche quattro diversi ambiti di ricerca meme-tica. In questo sistema di coordinate si procede dall’intraperso-nale all’interpersonale (ascisse) e dal concreto all’astratto (ordinate).

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A seconda del tipo di meme che si vuole privilegiare, avremo così quattro campi di ricerca interdisciplinare entro cui la Memetica può muoversi: 1) Meme neuronale (oggetto intrapersonale): scienze cogni-

tive, neuroscienze, fisiologia umana. 2) Meme logico (idea intrapersonale): intelligenza artificiale, psicologia. 3) Meme simbolico (idea interpersonale): scienze politiche, scienze dei segni, del linguaggio e della comunicazione, epistemologia, filosofia. 4) Meme pratico (oggetto interpersonale): antropologia, economia, ergonomia. Ora, se noi rileggiamo questo schema con gli occhiali della teoria popperiana dei tre mondi, ci accorgiamo che essa è in grado di fornirgli un fondamento unitario coerente, cioè una giustificazione, vorremmo dire, metafisica, perché i quattro ambiti individuati da Jouxtel corrispondono in maniera abbastanza soddisfacente ai quattro livelli di realtà in cui si possono trovare gli oggetti del Mondo 3. Ce ne possiamo rendere conto meglio se diamo uno sguardo all’illustrazione più dettagliata della teoria dei tre mondi che sia stata proposta e che si trova riprodotta due volte nel secondo volume di Popper e Eccles 1977 (398 e 454), cioè in Strutture e funzioni cerebrali, scritto da Eccles (Figura I.2). Secondo Popper, infatti, gli oggetti del Mondo 3 non stanno solo in una

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dimensione astratta e oggettiva, ma possono manifestarsi nel Mondo 1 fisico (istituzioni e artefatti umani, ma anche, a un livello pre-umano, animali, come i nidi degli uccelli, le tele dei ragni, i termitai e le dighe dei castori) e fisiologico (le architetture neurali delle tracce mnestiche) e nel Mondo 2, allorché sono afferrati da una mente impegnata in attività cognitive complesse. In tal senso, allora, i quattro tipi di memi tabulati da Jouxtel sono riconducibili ai quattro modi diversi di presentarsi degli oggetti del Mondo 3 e il suo schema cartesiano potrebbe essere riscritto e integrato come in Tabella I.4.

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Figura I.2. L’illustrazione della teoria dei tre mondi contenuta in Popper e Eccles 1977 (398 e 454).

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Veniamo ora a un caso inverso. L’undicesimo dialogo del terzo volume di Popper e Eccles 1977, datato 29 settembre 1974, si apre con una vertiginosa ricostruzione congetturale (una just so story alla Kipling, nel senso di Dennett 1995: 305-306) da parte di Popper di ciò che può essere avvenuto nella mente di Euclide quando questi scoprì la dimostrazione del teorema che stabilisce l’illimitatezza della serie dei numeri primi56. La discussione intende dimostrare che il Mondo 2 è in grado di connettersi direttamente con il Mondo 3 astratto, senza bisogno di basarsi solo sulle sue tracce fisiche nel cervello (il Mondo 3b nell’illustrazione riportata sopra), perché «sebbene i processi del Mondo 1 possano verificarsi (in modo epifenomenico) nello stesso momento, essi non costituiscono affatto una rappresentazione fisica o tipica del Mondo 1 di quegli oggetti del Mondo 3 che si cerca di afferrare» (Popper e Eccles 1977: 662). Secondo Popper, pur assumendo che nel cervello di Euclide fossero depositati oggetti del Mondo 3b relativi a certe proprietà note dei numeri primi, egli deve aver visualizzato o afferrato nel suo Mondo 2 direttamente la serie potenzialmente infinita e astratta dei numeri naturali, un oggetto del Mondo 3 che non può avere un correlato 3b nel cervello, perché «non esistono modelli fisici [finiti] o rappresentazioni dell’idea da Mondo 3 dell’infinità potenziale» (ivi: 664), benché la parola “infinito” possa averlo. Questo implica, tra l’altro, come osserva Popper in nota, che una metafisica materialistica radicale non potrebbe andare oltre una matematica finitista, in cui il teorema di Euclide non potrebbe nemmeno essere concepito. La formulazione e la soluzione del problema, dunque, non potevano basarsi integralmente sui correlati neurali 3b degli oggetti in gioco del Mondo 3, cioè la serie potenzialmente infinita dei numeri naturali, quella del suo sottoinsieme, anch’esso potenzialmente infinito, costituito dalla serie dei numeri primi, quella del gruppo finito 56

Cfr. Euclide, Elementi, libro IX, proposizione 20: “Esistono [sempre] numeri primi in numero maggiore di quanti numeri primi si voglia proporre” (in Euclide 1970: 549-550). La dimostrazione dell’infinità potenziale dei numeri primi, condotta in parte per assurdo, ha la seguente forma generale: si prendano per esempio tre numeri primi, A, B e C, e siano K il loro prodotto e K’= K + 1; allora o K’ è un numero primo o non lo è; se lo è, allora esso è il quarto numero primo che cercavamo; se, per assurdo, non lo è, allora esisterà un suo divisore primo D diverso da A, B e C, che quindi è il quarto numero primo che cercavamo.

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grande a piacere di numeri primi e le regole logiche della deduzione. Euclide, pertanto, dovette necessariamente avere una comprensione intuitiva del Mondo 3 nel suo Mondo 2 e lavorare direttamente su alcuni suoi oggetti per costruirne uno nuovo, cioè il teorema e la sua dimostrazione: «l’invenzione della prova è stata un’operazione diretta del Mondo 2 sul Mondo 3 - certamente con l’aiuto del cervello, ma senza nessuna lettura selettiva dei problemi o risultati provenienti dalle rappresentazioni codificate nel cervello o da altre incarnazioni di oggetti del Mondo 3» (ibid.). Popper allora ipotizza, sulla base delle conoscenze neurofisiologiche disponibili all’epoca, che l’area di Wernicke, preposta alla comprensione del linguaggio, contenga dei moduli fisici (Mondo 1) aperti al Mondo 2: su di essi, questi legge i correlati 3b codificati e ne coglie direttamente il contenuto astratto nel Mondo 3, che spesso (come nel caso di una serie numerica potenzialmente infinita) va molto oltre le sue rappresentazioni neurali finite: «Questo è il modo in cui, nel leggere un libro, andiamo oltre gli elementi di codificazione stampati sulla pagina e giungiamo subito al significato» (ivi: 665). Come si vede, in queste pagine Popper si avventura in questioni analoghe a quelle che la filosofia affronta da sempre: si pensi al problema platonico dell’intuizione delle idee iperuraniche e a quello cartesiano dell’origine delle nostre idee che si riferiscono ad entità più “perfette” di noi, come quella di Dio. La soluzione di Popper può far sorridere oggi i neuroscienziati, ma costoro in genere non affrontano processi cognitivi così complessi e si limitano a quelli, ben più modesti, presenti anche in animali da laboratorio. Certo, noi dobbiamo essere infinitamente grati ai cani di Pavlov, ai topi di Skinner e LeDoux o alle scimmie, da quelle di Köhler a quelle del laboratorio di Rizzolatti, fino alle straordinarie Aurora e Idoya degli esperimenti di Nicolelis sul trasferimento digitale degli schemi d’azione codificati nella corteccia motoria (cfr. Nicolelis 2011: 181 e 233), perché hanno dato un aiuto enorme alla scienza, ma in tutti questi casi si tratta di capire meccanismi cognitivi e comportamenti estremamente semplici. Per accedere ai livelli mentali e culturali più elevati occorre l’arditezza speculativa dei filosofi attenti ai risultati delle scienze, anche a costo di finire in narrazioni quasi fantastiche come quella di Popper appena vista. E se possiamo concordare senza difficoltà

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con LeDoux, quando ne Il Sé sinaptico57 sottolinea che non può esserci null’altro al di là della codifica neurale delle conoscenze, non dobbiamo dimenticare che egli opera estrapolazioni prudenti da dati di laboratorio ottenuti in gran parte da esperimenti sugli animali, e soprattutto sui topi, ed evita accuratamente di affrontare il problema della mente estesa ed inserita nel campo di forze della cultura (si pensi alla creatura gregoriana di Dennett). La Memetica, invece, è in grado di fornire una propria modellizzazione del problema discusso da Popper, che oggi potremmo peraltro esemplificare metaforicamente pensando alle differenze di prestazione “cognitiva” che sussistono tra un computer connesso a internet e uno non connesso. A ben vedere, infatti, Popper non ha fatto altro che illustrare le grandi potenzia-lità che si offrono a una mente in grado di connettersi alla me-mosfera e di sfruttarne l’enorme deposito di informazioni, che vanno ben oltre quelle che possono essere contenute nell’hardware di un cervello isolato. Analogamente, a parità di capacità di memoria fissa, un computer connesso a internet è di gran lunga più capace di uno sconnesso dalla rete, come ormai possiamo verificare ogni giorno. I memi logici con cui può lavorare la nostra mente, infatti, sono strettamente connessi con quelli esterni veicolati da oggetti culturali concreti e astratti e presumibilmente, secondo l’ipotesi di Popper, sono in grado di bypassare i loro neuromemi correlati. Alla luce di tutto ciò, e per chiudere il cerchio ritornando alla questione posta in Dennett 1995: 466, dalla quale siamo partiti in questo paragrafo, possiamo chiederci: si può essere amici del darwinismo universale e tuttavia credere non solo che una descrizione della mente memica possa sottrarsi al puro riduzio-nismo meccanicistico, ma anche che i processi mentali emergenti - ammessi, per così dire, per decreto ontologico - non siano alchimie 57

Cfr. ad esempio LeDoux 2002: 6 e 270: “natura e cultura (...) parlano lo stesso linguaggio. Sostanzialmente, entrambe raggiungono i loro effetti mentali e comportamentali incidendo sull’organizzazione sinaptica del cervello. I peculiari pattern di connessioni sinaptiche nel cervello di un individuo, e l’informazione codificata da queste connessioni, sono le chiavi di ciò che quella persona è. (...) Natura e cultura non sono cose diverse, ma piuttosto modi differenti di fare la stessa cosa: allacciare sinapsi nel cervello. Le sinapsi codificano ciò che siamo. (...) [L]e cose che descriviamo in termini mentali [sono] in realtà processi in corso nel cervello”. Cfr. anche il capitolo 6, “Sui sé e sui simboli”, di Hofstadter 2007: 97-113 e soprattutto Seung 2012, in cui è difesa con forza la tesi dell’identità tra noi (ovvero who we are) e il nostro “connettoma” forgiato sia dai geni che dalle esperienze di vita .

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misteriose e ineluttabilmente opache per l’indagine scientifica (si pensi alla questione dei cosiddetti qualia), ovvero ganci appesi al cielo? La mia scommessa filosofica è una risposta positiva a questa domanda.

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CAPITOLO SECONDO

IL PROBLEMA DEL SOFTWARE E L’ARCHITETTURA MEMICA DELLA MENTE

“You’re a hacker. That means you have deep structures to worry about, too.” “Deep structures?” “Neurolinguistic pathways in your brain. Remember the first time you learned binary code?” “Sure.” “You were forming pathways in your brain. Deep structures. Your nerves grow new connections as you use them - the axons split and push their way between the dividing glial cells - your bioware selfmodifies - the software becomes part of the hardware. So now you’re vulnerable - all hackers are vulnerable...” [Emanuel Lagos a Hiro Protagonist, in Neal Stephenson, Snow Crash (1992), c. 15]

2.1. Dennett interprete di Julian Jaynes Nella prefazione a The Intentional Stance, Dennett avvertiva che quella presentata nel libro era solo la prima parte, relativa al “contenuto”, della sua teoria generale della mente, e che la seconda parte, relativa alla “coscienza” vera e propria, era in fase di rielaborazione rispetto alla vecchia formulazione contenuta nella terza parte di Brainstorms. L’esito di tale rielaborazione, com’è noto, sarebbe stato Consciousness Explained, ma in quella fase il filosofo rinviava il lettore particolarmente impaziente e curioso (aggiungendo tra parentesi: at my own risk58) a una mezza dozzina di propri saggi degli anni Ottanta già pubblicati o in corso di pubblicazione su riviste e volumi collettanei. Tra questi saggi ce n’è 58

Dennett 1987: x (cfr. p. 6 dell’edizione italiana).

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uno apparentemente fuori posto, perché si tratta di una densa recensione al controverso e fascinoso libro di Julian Jaynes del 1976, The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind, pubblicata nel 1986 su «Canadian Psychology» con il titolo Julian Jaynes’ Software Archeology. Il saggio-recensione di Dennett seguiva immediatamente, nel medesimo numero della rivista, un lungo contributo dello stesso Jaynes, intitolato Consciousness and the Voices of the Mind, in cui lo psicologo americano riproponeva le tesi fondamentali del libro del 1976 (cfr. Jaynes 1986).59 Il breve testo di Dennett merita uno sguardo ravvicinato, giacché risulta particolarmente interessante nell’ambito del discorso teorico-interpretativo che qui si sta intessendo. E poiché, come vedremo, Dennett non entra troppo nei dettagli del libro60, essendo più interessato a un confronto filosofico con il suo approccio generale, converrà prima illustrare almeno i punti essenziali dell’ambiziosa teoria della mente - insieme storica, filosofica e neuroscientifica - proposta da Jaynes, facendo anche un rapido riferimento alla sua reputazione attuale presso la comunità scientifica. Sulla base dello stesso procedimento contenuto in Jaynes 1986 e soprattutto nel Post scriptum del 1990 a Jaynes 1976 (cfr. 532-542), possiamo sintetizzare questa complessa teoria enucleando le quattro idee principali in cui essa si articola nel suo insieme.

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Dennett 1986 e Jaynes 1986 costituivano le trascrizioni rivedute delle prolusioni presentate dai due autori in occasione del simposio su Jaynes 1976 organizzato nel novembre del 1983 dalla psicologa Sandra Witelson alla McMaster University di Hamilton (Ontario). Dennett avrebbe poi ristampato il proprio saggio in Brainchildren: Essays on Designing Minds (Dennett 1998). 60 Giudicati completely wrong nelle ultime righe del saggio (cfr. Dennett 1998: 130). Tuttavia, in seguito, Dennett citerà con approvazione alcuni punti precisi del libro di Jaynes: cfr. ad es. Dennett 1991a: 249, 289-290, Dennett 1996: 162 e Dennett 2006: 143-144. In quest’ultimo luogo, pur concordando con Jaynes sulla spiegazione delle ragioni cognitive e demografiche che presumibilmente stettero alla base dell’esplosione delle pratiche della divinazione in Mesopotamia (cfr. Jaynes 1976: 272-306), Dennett definisce il libro nel suo insieme “brillante, ma anche strambo e inaffidabile” (brilliant but quirky and unreliable book: p. 133 dell’edizione originale di Breaking the Spell).

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I. La coscienza si fonda sul linguaggio, ovvero sulla sua capacità di generare metafore. Jaynes arriva alla sua pars construens sulla coscienza dopo una serrata pars destruens che mira in particolare a un confronto critico con la filosofia e la psicologia tradizionali attraverso la specificazione dettagliata di ciò che la coscienza non è: la coscienza, in particolare, non coincide con l’insieme dell’attività mentale, non è necessaria per le attività percettive, non è una riproduzione speculare del mondo dell’esperienza, non è imprescindibile per pensare, apprendere e ragionare e, infine, non è uno spazio interiore localizzato necessariamente nella testa e disponibile all’esplorazione introspettiva (non c’è nulla del genere nella nostra scatola cranica), poiché, pur essendo connessa all’attività del cervello, la coscienza ha un’ubicazione arbitraria che dipende solo dalle nostre convenienze e abitudini (cfr. Jaynes 1976: 38-68). Così com’è sperimentata da esseri umani normalmente presenti a sé stessi, la coscienza è per Jaynes un risultato della forza metaforica del linguaggio, che è in grado di creare «un analogo di quello che è chiamato mondo reale» (ivi: 78), laddove per analog Jaynes intende non un modello astratto ed esplicativo, del genere di quelli di cui si serve la scienza, ma una rappresentazione isomorfa e semplificata di qualcosa, come una carta geografica (cfr. ivi: 77). Questo nesso vitale istituito tra linguaggio e coscienza porta Jaynes a un interessante approfondimento della nozione di metafora, che lui scompone in quattro componenti fondamentali: 1) il metaferendo (metaphrand), ovvero la cosa da descrivere; 2) il metaferente (metaphier), ovvero la cosa o la relazione usata per illustrare il metaferendo; 3) il paraferente (paraphier), ovvero le associazioni o gli attributi del metaferente che si proiettano automaticamente sul metaferendo; 4) il paraferendo (paraphrand), ovvero l’alone di associazioni e attributi proiettato dal paraferente sul metaferendo (cfr. ivi: 71 e 80). Per illustrare questa articolazione concettuale, espressa con neologismi insoliti desunti dall’aritmetica (si pensi a dividendo e divisore), Jaynes (cfr. ivi: 80-81) ricorre all’esempio della metafora della ‘coltre di neve’ che ricopre il suolo: la sua forza espressiva non si limita solo al metaferente (una pesante coperta) che illustra la compattezza e uniformità della neve (il metaferendo), ma mette in campo tutta una rete di associazioni che costituiscono il paraferente (il calore, la protezione,

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il sonno ristoratore) e che si riflettono sul paraferendo (l’umanizzazione della terra che è assopita in attesa del risveglio primaverile). Su queste basi, Jaynes può dire che la nostra mente cosciente è un vero e proprio spazio metaforico creato dal linguaggio, come si vede anche dal fatto che gran parte del lessico mentalistico reca in sé tracce metaforiche di comportamenti e attività percettive messi in opera dal nostro corpo nel mondo fisico: noi ‘ci accostiamo’ a un problema da un determinato ‘punto di vista’, ‘vediamo’ una soluzione che può essere ‘brillante’, ecc. (cfr. ivi: 78-79). I suoi caratteri fondamentali, così, sono la spazializzazione (tutto, tempo compreso, è collocato spazialmente nell’immenso paraferendo di metafore mentali che costituisce il campo cosciente), la selezione (come detto, la mente è una sorta di mappa metaforica semplificata del mondo e quello con cui la riempiamo è ciò che di volta in volta scegliamo sulla base di interessi precisi), l’analogo ‘io’ (la prospettiva della prima persona sul campo cosciente, ovvero il corrispondente mentale del nostro essere situati in un punto di vista da cui guardiamo lo spazio fisico), la metafora ‘me’ (l’immagine di noi stessi che proiettiamo come attore in terza persona nelle nostre simulazioni mentali), la narratizzazione (ogni cosa è tradotta nella nostra mente come parte di una lunga narrazione di cui siamo personaggi e autori e che ci definisce come Sé che hanno una storia) e infine la conciliazione (la costruzione di un ordine sensoriale e concettuale che armonizza e compone le ambiguità e le imprecisioni alla luce di pattern percettivi e cognitivi stabili e coerenti) (cfr. ivi: 83-90). Se la mente cosciente, dunque, è una riproduzione metaforica del mondo abitato dal corpo e se gli stessi atti mentali sono analoghi agli atti del corpo, sicché in essa non c’è nulla che non sia metafora del comportamento, essa è fondata sul linguaggio e questo significa semplicemente che essa è un prodotto recente dell’evoluzione, in ogni caso successivo allo stesso linguaggio pienamente articolato dell’età storica. Il che, evidentemente, implica molte cose (cfr. ivi: 91). II. Fino agli ultimi secoli del secondo millennio avanti Cristo la mente dell’Homo sapiens aveva un’architettura prevalentemente “bicamerale”. L’ipotesi forte di Jaynes è che l’umanità, per una serie di ragioni genetiche, storiche, culturali ed evolutive, sia pervenuta

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solo intorno al 1000 a. C. a quel tipo di architettura cognitiva che le consente di avere una coscienza nel senso in cui oggi intendiamo il termine. E prima? Prima gli esseri umani non erano affatto coscienti e piuttosto avevano una “mente bicamerale”, vale a dire una mente organizzata in modo tale che l’emisfero destro producesse allucinazioni uditive sentite da quello sinistro come voci che il soggetto attribuiva a fonti esterne, cioè ad altri soggetti e soprattutto agli dèi. Secondo Jaynes, quest’ipotesi può vantare una mole esorbitante di evidenze, in massima parte costituite dal fatto che le civiltà più antiche a noi note sono caratterizzate da pratiche e credenze religiose in cui le divinità sono onnipresenti come interlocutori abituali degli uomini. Come dice Jaynes in modo particolarmente icastico nelle pagine dedicate alla “mente” così come emerge dall’Iliade (il testo-chiave per la ricerca delle tracce lasciate dall’epoca bicamerale): «Chi erano dunque questi dèi che muovevano gli uomini come se fossero automi e che cantavano poesia epica attraverso le loro labbra? Erano voci. (...) Gli dèi erano organizzazioni del sistema nervoso centrale e li si può considerare come personae, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini parentali o ammonitorie. (...) La guerra di Troia fu diretta da allucinazioni. E i guerrieri che venivano comandati in tal modo non erano affatto simili a noi. Erano nobili automi che non sapevano quel che facevano» (ivi: 100 e 101). Attraverso l’analisi dettagliata di una mole poderosa di fonti letterarie e archeologiche, Jaynes descrive vividamente un mondo variegato in cui uomini dalla mente bicamerale costruiscono civiltà e regni pur essendo privi di consapevolezza, cioè di quello spazio analogale interiore unificato su cui esercitare l’introspezione cosciente e pianificante, guidati solo da voci interiori interpretate soprattutto come voci degli dèi o dei loro ministri terreni; un mondo, va aggiunto, le cui tracce cognitive architettoniche sono riscontrabili oggi soprattutto in quei disturbi mentali caratterizzate da allucinazioni uditive e dissociazione della personalità. III. La mente cosciente come spazio cognitivo unitario di cui siamo dotati oggi è subentrata solo negli ultimi tremila anni circa per selezione naturale. A un certo punto, però, eventi catastrofici, crolli demografici e nuove esplosioni, tramonti di civiltà, migrazioni, guerre e scambi commerciali su larga scala, la stessa nascita e diffusione della scrittura (che consente di esternalizzare la memoria e di non

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dipendere da ordini vocali interiori), cause che Jaynes colloca in un intervallo di tempo che va dal XV al VII secolo avanti Cristo, crearono quelle pressioni selettive che favorirono la variante umana in grado di sviluppare la coscienza come spazio interiore abitato da un io narrativo autocentrato anziché da un dio che si manifesta attraverso ordini vocali allucinatori. Le “storie proprio così” che Jaynes chiama in causa a questo punto meritano attenzione, perché contengono intuizioni che stanno alla base del pensiero di Dennett e del suo peculiare approccio memetico. Il rimescolamento culturale indotto dalle guerre e dai traffici commerciali, secondo Jaynes, ha favorito in modo peculiare lo sviluppo della teoria della mente, perché gli uomini erano portati ad attribuire intenzioni e credenze agli stranieri per spiegare il loro strano comportamento, soprattutto linguistico, e solo in seguito a ciò potrebbero aver compiuto quell’autoattribuzione che li ha portati a costruire lo spazio mentale interiore: «In altri termini, la tradizione filosofica secondo la quale è logico inferire l’esistenza di altre menti dalla nostra, formula il problema alla rovescia, noi possiamo prima supporre inconsciamente altre coscienze, poi inferirne per generalizzazione la nostra» (ivi: 265-266). E benché per Jaynes la coscienza sia essenzialmente più un prodotto culturale installato nel nostro cervello per trasmissione linguistica che un’emanazione naturale di fattori biologici e neurofisiologici, in origine la selezione naturale delle varianti genetiche alla base della nuova architettura funzionale deve aver agito in qualche modo: in un mondo più caotico, chi rispondeva alla paura e allo stress (sul cui ruolo nella produzione delle allucinazioni lo stesso Jaynes insiste: cfr. ivi: 122-123) con la violenza cieca e avventata indotta dalle voci divine allucinatorie aveva meno probabilità di sopravvivere e riprodursi rispetto a chi, invece, era geneticamente predisposto alla riflessione e alla pianificazione del futuro: «Anche qui possiamo appellarci al principio dell’evoluzione baldwiniana, come abbiamo fatto nella nostra discussione del linguaggio. La coscienza dev’essere appresa da ogni nuova generazione, e coloro che sono biologicamente più abili ad apprenderla avranno maggiori probabilità di sopravvivere. Ci sono persino attestazioni

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bibliche (...) del fatto che i bambini ostinatamente bicamerali venivano semplicemente uccisi» (ivi: 269-270)61. Il culmine di questo processo di emergenza storica di una mente umana nuova è raggiunto naturalmente nella Grecia antica, cui si devono la poesia lirica, la riflessione filosofia sul mondo e sull’uomo come soggetto morale consapevole e la creazione stessa delle parole con cui delimitiamo e indichiamo la mente, il pensiero cosciente, i processi cognitivi e la stessa anima (cfr. ivi: 307-350, un capitolo che costituisce un vero e proprio saggio di linguistica cognitiva del greco antico). C’è un esempio paradigmatico che consente di capire ancora meglio il metodo interpretativo con il quale Jaynes si avvicina alle fonti antiche e che costituisce una vera e propria visualizzazione scolpita del passaggio storico dalla mente bicamerale alla coscienza soggettiva. Ecco come, secondo Jaynes, due celebri reperti archeologici del mondo mesopotamico (quello da cui trae origine gran parte della storia umana successiva) registrano tale passaggio. Sopra, in figura II.1, abbiamo una riproduzione della scena scolpita nella parte superiore del Codice di Hammurabi (XVIII secolo a. C.), mentre sotto è riprodotta quella scolpita sulla parte anteriore dell’altare del tiranno assiro Tukulti-Ninurta I (XIII secolo a. C.). Secondo Jaynes, le due scene testimoniano senz’altro la transizione cognitivo-evolutiva dalla mente inconsapevole, invasa da voci divine che parlano in modo allucinatorio dall’emisfero cerebrale destro al sinistro, alla mente come la conosciamo oggi, con l’emisfero sinistro dominante e dotato di linguaggio in grado di costruire un Sé narrativo e cosciente e l’emisfero destro diventato muto (salvo i casi di allucinazioni uditive indotte o di origine psicotica) e adibito ad altre funzioni. Hammurabi ha ancora un dio che gli parla in modo allucinatorio dall’emisfero destro e gli impartisce direttive indiscutibili, mentre Takulti-Ninurta è al cospetto di un trono divino vuoto davanti a cui inginocchiarsi e chiedere in preghiera consigli al dio assente e divenuto inaccessibile: «Nessun re era mai stato raffigurato prima in ginocchio. Né mai 61

Il riferimento biblico è a Zaccaria, 13, 3-4, dove si prescrive ai genitori di uccidere i figli che mostrano attitudini profetiche. Aggiunge Jaynes più avanti nel libro, nel capitolo dedicato agli ebrei antichi: «Questa è un’ingiunzione severa. Se fu rispettata, la selezione evolutiva che ne conseguì dovette contribuire a spostare il corredo genetico dell’umanità verso la soggettività cosciente» (ivi: 373).

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in tutta la storia alcuna scena scolpita o dipinta aveva indicato prima un dio assente. La mente bicamerale era crollata. (...) Tali confronti fanno decisamente pensare che il crollo della mente bicamerale in Mesopotamia si collochi in un qualche periodo fra Hammurabi e Takulti. (...) Questa concezione di dèi che abbandonano i loro schiavi umani sarebbe stata impossibile in qualsiasi circostanza nella Babilonia di Hammurabi. Essa rappresenta qualcosa di nuovo nel mondo» (ivi: 272 e 273; cfr. anche 245 e 274, dove si trovano rispettivamente le figure riportate).

Figura II.1. Hammurabi (sopra) e Takulti-Ninurta (sotto). Fonte: Jaynes 1976: 245 e 274.

È interessante osservare che Jaynes, per ragioni epistemologiche, preferisce difendere la versione forte di questa tesi, che fissa la nascita della coscienza a un’epoca relativamente recente e in ogni caso successiva a quella del dominio della mente bicame-

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rale, perché dotata di controllabilità e di un alto contenuto informativo. La versione debole, secondo la quale potrebbe esserci stata una coesistenza ab origine delle due architetture mentali sin dagli albori del linguaggio, che le avrebbe implementate insieme nei cervelli circa 14.000 mila anni fa, finché quella bicamerale, circa 3000 anni fa, crollò lasciando campo libero all’altra, per Jaynes spiega troppo ed è praticamente infalsificabile (cfr. ivi: 539). Inoltre, proprio in questo punto del Post scriptum del 1990 egli previene la critica di chi potrebbe accusarlo di confondere la coscienza con il concetto di coscienza appoggiandosi alla recensione di Dennett, il quale notava che la coincidenza fra “uso” e “menzione” è normale quando si parla di certi prodotti socio-culturali: «Come ha fatto notare Dan Dennett in una recente discussione sulla teoria, ci sono esempi di identità fra uso e menzione. Il concetto di baseball e il baseball sono la stessa cosa. Oppure quello di soldi, o di legge, o di bene e male. Oppure il concetto di questo libro» (ivi: 540). IV. Il rapporto tra i due emisferi cerebrali messo in luce dalle moderne neuroscienze costituisce un modello possibile della mente bicamerale. Jaynes tiene a precisare che il modello neurologico della mente bicamerale è un’ipotesi indipendente dalle prime tre e in quanto tale esso potrebbe risultare falso alla luce degli sviluppi futuri delle neuroscienze, senza per questo pregiudicare la validità della parte più importante della teoria, rappresentata da quanto visto fino ad ora (cfr. ivi: 542). Come poteva presentarsi l’archi-tettura neurofunzionale della mente bicamerale? Per rispondere, bisogna fare riferimento agli emisferi cerebrali e al noto fenomeno della lateralizzazione. L’uomo bicamerale, probabilmente, aveva l’area dell’emisfero destro corrispondente a quella che nel sinistro è nota come area di Wernicke cablata in modo tale da essere in grado di “parlare” al sinistro, producendo “voci” ammonitrici che quest’ultimo riferiva a entità esterne. Le allucinazioni uditive, che ancora oggi sono comunissime, ancorché con vari gradi di intensità che vanno dalla normalità accettata al patologico, potrebbero essere una traccia fossile di questa antica organizzazione del cervello. La figura sotto, riportata da Jaynes a pagina 134 (ovvero a pagina 104 dell’edizione originale 1990), illustra schematicamente la situazione.

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Figura II.2. Lo schema neuroanatomico della mente bicamerale. Fonte: Jaynes 1976: 104 (ried. 1990).

L’elemento neuroanatomico chiave, per Jaynes, è la commessura anteriore, il fascio di sostanza bianca assonica che collega le circonvoluzioni media e inferiore dei lobi temporali ed è distinta dal corpo calloso. Nel lobo temporale sinistro essa è collegata a una regione inclusa nell’area di Wernicke e in quello destro termina nella corrispondente regione controlaterale. È in quest’ultima, secondo Jaynes, che il cervello antico produceva il «linguaggio degli dèi» (ivi: 135) e lo trasmetteva attraverso la commessura anteriore all’emisfero sinistro, che così poteva udirlo, intenderlo sotto forma di ammonimenti, decisioni e soluzioni di problemi, ed eseguirlo. Per spiegare la ragione free-floating (come direbbe Dennett) di un simile meccanismo, Jaynes ricorre a un argomento di ingegneria evoluzionistica. Il cervello ha l’esigenza di risolvere il problema di mettere in comunicazione i due emisferi nel modo più economico possibile, avendo a disposizione il collo di bottiglia (dal punto di vista del numero astronomico dei neuroni e delle loro interconnessioni) delle strette commessure attraverso cui far passare delle informazioni di vitale importanza per l’individuo. Le elaborazioni corticali, dunque, avevano bisogno di un codice per essere trasmesse nel modo più ef-

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ficiente e il linguaggio era già lì a disposizione, sicché le allucinazioni uditive prodotte dall’emisfero destro sul sinistro non sono altro che il sottoprodotto della cooptazione (per exaptation) di un canale e di un codice di trasmissione già messi a punto dall’evoluzione per altri scopi, dato, per esempio, che le commessure anteriori in altre specie (e anche nell’uomo) normalmente mettono in collegamento le aree coinvolte nel senso dell’olfatto (cfr. ivi: 133 e 135). Con la sua tipica oscillazione da un registro linguistico tecnico-scientifico a un altro ispirato fino ai limiti del lirismo, Jaynes può allora dire, riferendosi alla commessura anteriore: «Qui dunque è, secondo me, lo stretto ponte attraverso il quale vennero le istruzioni che costruirono le nostre civiltà e fondarono le religioni del mondo, il ponte attraverso il quale gli dèi parlavano agli uomini e ricevevano obbedienza perché essi erano la volizione umana» (ivi: 134). La base empirica per una simile congettura Jaynes la prende in prestito dagli studi sperimentali sul ruolo dell’emisfero destro che hanno cominciato ad accumularsi a partire dagli anni Sessanta del XX secolo. A tal proposito gli stessi risultati successivi, conseguiti nel corso degli anni Ottanta, gli sembrano compatibili con quanto postulato nella prima edizione del libro sulla base dei dati disponibili fino alla metà circa degli anni Settanta. In particolare, Jaynes trova conferme negli studi dai quali sembra emergere che l’emisfero destro sia preposto all’elaborazione olistica delle informazioni ambientali, ciò che lo rende particolarmente abile nei compiti di sintesi spaziale e di riconoscimento di configurazioni iconiche e sonore62, perché questi compiti sarebbero 62

Vale la pena notare, a tal proposito, che gli esempi riportati in Jaynes 1976 (cfr. in particolare 432-434) al fine di dar conto di osservazioni su pazienti e dati sperimentali dai quali emerge il coinvolgimento dell’emisfero destro nelle attività canore e melodiche convergono sorprendentemente con molti dei casi patologici o insoliti discussi in Ramachandran 2011. Del resto, Jaynes 1976: 407 (sulle differenze nel grado di lateralizzazione tra cervello maschile e cervello femminile), integrato e aggiornato con Girotto-Pievani-Vallortigara 2008: 156-159, fornisce interessanti spunti di riflessione sul rapporto tra lateralizzazione e credenza religiosa alla luce delle teorie di Gazzaniga e Ramachandran su “interprete” e “avvocato del diavolo” e della stessa teoria di Jaynes della mente bicamerale (cfr. per es. Gazzaniga 2008: 368 e Ramachandran e Blakeslee 1998: 156-157), che tra le sue fonti scientifiche ha anche i primi studi pionieristici di Gazzaniga e collaboratori sui pazienti con cervello diviso (cfr. Jaynes 1976: 137, 144, 146, 147).

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coerenti con la funzione di guida civile degli dèi della mente bicamerale. Inoltre, poiché una delle sue ipotesi cruciali è che le allucinazioni uditive degli schizofrenici e di altri psicotici siano tracce vestigiali della mente bicamerale, da essa è possibile ricavare la predizione sperimentalmente verificabile che, per esempio negli schizofrenici, il “sentire voci” debba accompagnarsi a una maggiore attività dell’emisfero destro: e questo è esattamente quanto rilevato da una tomografia a emissione di positroni (PET) che ha registrato un maggiore assorbimento di glucosio nel lobo temporale destro di un paziente in stato allucinatorio-uditivo (cfr. ivi: 541-542). Questa, in sintesi, l’articolata e audace congettura avanzata da Jaynes nel suo libro, che naturalmente, proprio per la sua capacità di imporre al lettore un modo radicalmente nuovo e fascinoso di vedere non solo la mente ma anche la storia umana, ha diviso per anni la comunità scientifica in detrattori e sostenitori, entrambi appassionati. Gli sviluppi galoppanti delle neuroscienze e dell’etologia cognitiva degli ultimi venticinque anni circa hanno messo a dura prova soprattutto la plausibilità empirica del modello neurologico di Jaynes, ma è interessante osservare che, ancora in anni recenti, talune intuizioni di Jaynes hanno ricevuto omaggi da parte di studiosi molto diversi tra loro per formazione e approccio scientifico. A tal proposito si possono citare tre esempi. Discutendo il fenomeno ben noto dell’“amico immaginario”, diffuso tra i bambini, Richard Dawkins (2006: 340-344) concorda con gli studi recenti sull’evoluzione della cognizione umana63 che lo pongono all’origine della credenza religiosa adulta, nel senso che questa può essere interpretata come un caso di exaptation culturalmente specificata della propensione innata della mente umana a dar corpo alle voci interiori e agli oggetti intenzionali. Ma egli sa che esiste la proposta di Jaynes che ribalta il nesso esplicativo, e così, seppure con una certa dose di scetticismo, si sente in dovere di citarla e di discuterla: «[p]er amor di completezza penso di dover prendere in considerazione anche l’ipotesi contraria. E se gli dèi 63

Come quelli discussi per esempio in Dennett 2006, Girotto-Pievani-Vallortigara 2008 e Shermer 2011 (la prefazione di Vittorio Girotto all’edizione italiana di quest’ultimo testo contiene indicazioni bibliografiche preziose sulle ricerche scientifiche più avanzate relative al cosiddetto “pensiero sovrannaturale” in un’ottica storico-evolutiva: cfr. Girotto 2015, in Shermer 2011: i-vii).

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non si fossero evoluti da binker ancestrali, ma i binker si fossero evoluti da dèi ancestrali? Mi sembra meno probabile. Sono stato indotto a rifletterci leggendo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, di Julian Jaynes, un saggio che è strano quanto il suo titolo. È uno di quei libri che non si sa se considerare un ammasso di sciocchezze o un’opera assolutamente geniale, ma che certo non è una via di mezzo. Forse è un ammasso di sciocchezze, ma non voglio sbilanciarmi» (Dawkins 2006: 342). E dopo una rapida sintesi della tesi centrale del libro sul passaggio dalla mente bicamerale alla mente cosciente, avvenuto intorno al 1000 a.C., per cui il fenomeno dell’amico immaginario sarebbe un fossile evolutivo dell’antica architettura mentale invasa da voci divine, Dawkins conclude: «Si trovi o no plausibile la tesi, [il libro] è abbastanza affascinante da meritare di essere citato in un saggio sulla religione» (ivi: 343)64 Affrontando il tema del ruolo del linguaggio nel processo evolutivo che ha innescato il venire del sé alla mente e ha portato allo sviluppo sempre più articolato del sé autobiografico nell’Homo sapiens, Antonio Damasio rende un notevole omaggio a Jaynes: «[l]o sviluppo della scrittura, circa cinquemila anni fa, fornisce diverse solide evidenze: quando appaiono i poemi omerici, che probabilmente risalgono a meno di tremila anni fa, il sé autobiografico era indubbiamente già affiorato nella mente umana. Io comunque simpatizzo con Julian Jaynes, quando ritiene probabile che, nell’intervallo relativamente breve intercorso fra gli eventi narrati nell’Iliade e quelli dell’Odissea, nella mente umana sia accaduto qualcosa di fondamentale» (Damasio 2010: 360. Il riferimento, non specificato, non può che essere a Jaynes 1976: 326332). Del resto, in un passo precedente, come rivela la nota ad locum, Damasio si era servito senza specificare delle pagine jaynesiane sulle strutture linguistico-cognitive della Grecia arcaica (capitolo terzo della prima parte e capitolo quinto della seconda di Jaynes 1976): «[f]orse non sorprende che la mente umana primitiva, meno integrata e meno sofisticata della nostra, percepisse fa64

Anche se Dawkins non lo specifica, il riferimento non può che essere a Jaynes 1976: 470, dove al fenomeno dell’amico immaginario come «vestigio della mente bicamerale» è dedicato un intero capoverso nell’ambito di una trattazione dell’ipnosi, per dire che l’aver avuto un amico immaginario è correlato in certi soggetti all’ipnotizzabilità, che pertanto risulta essere un altro residuo dell’epoca della mente bicamerale.

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cilmente la realtà composita e frammentaria del corpo, come testimoniano le parole arrivate fino a noi da Omero. Gli esseri umani dell’Iliade non parlano di un corpo intero (soma) ma piuttosto delle sue parti, e precisamente di membra. Il sangue, il respiro e le funzioni viscerali sono designati con la parola psyche, non ancora richiamata all’ordine per significare “mente” o “anima”. La vitalità che è la forza motrice del corpo, probabilmente associata a impulsi ed emozioni, è indicata con thymos e phren» (Damasio 2010: 124-125). Nel capitolo sul “sentire cose” del suo recente libro dedicato alle allucinazioni, Oliver Sacks, passando in rassegna una serie di proposte avanzate dagli studiosi per spiegare il fenomeno delle allucinazioni uditive, cita con grande approvazione quella di Jaynes: «[f]orse, però, dovremmo invertire la domanda e chiederci perché la maggior parte di noi non senta le voci. Julian Jaynes, nel suo importante libro Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, pubblicato nel 1976, ipotizzava che, non molto tempo fa, tutti gli esseri umani sentissero delle voci - generate internamente, dall’emisfero destro del cervello, ma percepite (dall’emisfero sinistro) come se fossero esterne, e interpretate come comunicazione diretta con gli dèi. Stando a Jaynes, a un certo punto, all’incirca intorno al 1000 a.C., all’alba della coscienza moderna, le voci furono interiorizzate e riconosciute dall’individuo come proprie» (Sacks 2012: 71). Nella nota relativa, Sacks aggiunge che l’ipotesi di Jaynes che lega la schizofrenia e qualche altra patologia a una speciale attività dell’emisfero destro, per cui tali disordini sarebbero una sorta di «reversione alla “bicameralità”», è oggi avallata da alcuni psichiatri (ivi: 276).65 Ma è la lettura di Dennett che in questa sede ci interessa più da vicino, perché il suo confronto teorico con il libro di Jaynes costituisce una tappa particolarmente interessante nello sviluppo del suo pensiero. Dennett dichiara subito quale mossa intende fare di fronte a un progetto ambizioso come quello di Jaynes. Non serve muovere l’artiglieria per cannoneggiare a tappeto l’edificio 65

Un approccio più recente, discusso da Patricia Churchland, lega le allucinazioni uditive (e non solo) al disfunzionamento del meccanismo della cosiddetta “copia efferente” (cfr. Churchland 2103: 214-215). Se venisse confermato su basi genetiche, potrebbe gettare una luce interessante sull’aspetto darwiniano dell’ipotesi di Jaynes sulla sconfitta della mente bicamerale.

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teorico con critiche minuziose, obiezioni e confutazioni: quello che è più importante, osserva, è prenderne sul serio il disegno generale per vedere quale tipo di novità esso rappresenti nell’ambito del dibattito teorico in corso sulla mente e sulla coscienza. E pazienza se Jaynes non si riconoscerà nella versione dennettiana della sua stupefacente congettura, perché essa è propriamente quella che Dennett intende prendere sul serio. Si noti che, come vedremo meglio in seguito, questo trattamento è esattamente opposto rispetto a quello che Dennett aveva riservato sette anni prima al libro di Popper ed Eccles, uscito appena un anno dopo quello di Jaynes; in altre parole, in quell’occasione egli aveva fatto precisamente quello che ora considera non constructive (Dennett 1986, in 1998: 121). Una difformità di trattamento così plateale ha una ragione e Dennett ha l’onestà intellettuale di dichiararla senza mezzi termini: malgrado la mole impressionante di punti del libro tutt’altro che plausibili, Jaynes tratta il problema della coscienza in un modo che a Dennett semplicemente piace, perché lo trova consonante con il suo: «[p]erhaps this is an autobiographical confession: I am rather fond of his way of using these terms; I rather like his way of carving up consciousness. It is in fact very similar to the way that I independently decided to carve up consciousness some years ago» (ivi: 122). Qual è, dunque, il progetto di Jaynes che Dennett trova così simile al suo? Jaynes conosce l’impressionante voragine rappresentata dall’interiorità umana, ma, contrariamente ad altri studiosi, piuttosto che arrendersi a visioni miracolistiche o comunque a spiegazioni che postulano quelli che egli chiama “ganci appesi al cielo”, vuole capire come sia potuto emergere un artefatto evolutivo di complessità prima facie così irriducibile, perché se l’uomo è un prodotto della natura evolutosi in qualche modo, anche il progetto della coscienza deve aver subito lo stesso processo e percorso la stessa strada. Jaynes, quindi, non è come il bambino che apre il giocattolo elettronico e, per superare la voragine tra le stupefacenti prestazioni dell’oggetto e l’apparente insignificanza del chip, attribuisce fideisticamente l’intera responsabilità del funzionamento alla batteria (e qui egli cita maliziosamente Searle 1980, dove un analogo meccanismo cognitivo conduce a spiegare la coscienza chiamando in soccorso misteriosi poteri causali del cervello: ibid). La spiegazione della distanza abissale che separa un muratore da un mattone deve esserci e non può essere miracolosa. Dennett, inoltre, sottolinea che Jaynes non cade nemmeno

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nell’errore opposto a quello di chi sostiene che la coscienza sia un mistero ancora insolubile e che sarebbe saggio abbandonare l’impresa di spiegarla, vale a dire nell’errore dell’approccio bottomup. Così come il bambino non arriverebbe mai a capire da dove vengano le prestazioni del suo giocattolo se si limitasse ad analizzare solo il chip, allo stesso modo è un grave errore di metodo pensare di vedere spuntare un giorno la coscienza da un’ispezione sempre più accurata della materia cerebrale. La strategia migliore, dice Dennett citando un passo del penultimo capoverso dell’introduzione del libro (cfr. Jaynes 1976: 33-34), è quella top-down: poiché nessuna mappatura neurofisiologica potrebbe mai dirci se un cervello è cosciente oppure no, o se ha una coscienza simile alla nostra oppure no, il punto di partenza dovrà essere una descrizione della coscienza dall’alto, per vedere com’è fatta in termini di software e soprattutto cosa fa. Solo dopo sapremo cosa cercare studiandone l’hardware. In questo campo, aggiunge Dennett, il mondo dei calcolatori e dell’informatica costituisce un’ottima pompa dell’intuizione che consente anche di affinare lo sguardo sull’impresa di Jaynes. Un’analisi dettagliata dei registri di memoria e delle operazioni logico-aritmetiche che vengono svolte nel processore centrale non può permettere di capire cosa fa un computer che gioca a scacchi. Questo metodo bottom-up è condannato al fallimento per la semplice ragione che al livello progettuale e intenzionale emergono pattern di attività (mosse, strategie, ecc.) che afferiscono a un “dominio concettuale” (conceptual domain, ivi: 124) diverso rispetto a quello che opera al livello fisico e computazionale66. D’altra parte, il metodo top-down è costretto a fare ampio ricorso alla speculazione pura e all’immaginazione e allora, nota Dennett, invece di rinunciarvi, si tratta di farne un buon uso. Questioni come l’origine della vita e della coscienza non hanno alcuna speranza di essere decise definitivamente da dati empirici ed esperimenti di laboratorio, sicché gli studiosi devono affinare e tenere agganciate alla plausibilità scientifica le “storie proprio così” che sono costretti a costruire, anziché

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Per i tre livelli (fisico, progettuale e intenzionale) di approccio cognitivo ai fenomeni, uno dei cardini del pensiero dennettiano, se ne vedano per esempio le estese trattazioni in Dennett 1987, 1995, 2003 e 2013.

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rigettarle a priori.67 Ed è esattamente questo quello che in fondo fa Jaynes, secondo Dennett, anche se egli, piuttosto che dichiarare di proporre un’ipotesi su come le cose potrebbero essere andate, si sforza di convincere il lettore che quella che sta leggendo è la verità che l’autore è riuscito a ricostruire su come le cose sono effettivamente andate. Per mostrare che il dispositivo narrativo ed esplicativo di Jaynes può essere interpretato come una costruzione modulare che mescola dati scientifici e storici a speculazioni aprioristiche su un passaggio da A a B (dalla mente bicamerale alla coscienza unificata) che deve esserci stato, Dennett si concentra sull’elenco in sette punti delle cause di tale passaggio proposto da Jaynes nella conclusione del capitolo dedicato ai fattori che hanno portato alla nascita della mente cosciente: «1) l’indebolimento delle allucinazioni uditive in conseguenza dell’avvento della scrittura; 2) l’intrinseca fragilità del controllo allucinatorio; 3) l’inefficienza degli dèi nel caos degli sconvolgimenti storici; 4) il postulare una causa interna nell’osservazione di differenze negli altri; 5) l’acquisizione della narratizzazione dall’epica; 6) il valore di sopravvivenza dell’inganno; 7) una certa incidenza della selezione naturale» (Jaynes 1976: 270). Secondo Dennett, un tale modello esplicativo consente una manipolazione concettuale e sperimentale che ne lasci intatto l’impianto di fondo pur sostituendone dei pezzi, dal momento che non si può escludere a priori l’intervento di fattori storico-causali più plausibili, totalmente diversi e in grado di svolgere il medesimo lavoro. Consideriamo per esempio il punto (già menzionato sopra) in cui Jaynes sostiene che nel periodo di transizione una pressione selettiva biologica a favore della mente cosciente sia stata esercitata dalla pratica in qualche modo eugenetica, ovvero culturale, di sopprimere i bambini che mostravano tendenze alla bicameralità. Anche se ci sono alcuni dati storici a favore di quest’ipotesi, essa tuttavia non è necessaria al modello generale e pertanto potrebbe essere abbandonata. Un altro modulo 67

Qui Dennett fa un riferimento alla controversia in filosofia della biologia scatenata dalle critiche all’adattazionismo e alle presunte assunzioni panglossiane dei sostenitori delle just-so stories contenute in Gould e Lewontin 1979. Per un’accurata e implacabile decostruzione di questo celebre saggio, si veda il decimo capitolo (e in particolare il § 2) di Dennett 1995. Una rivisitazione epistemologica ampia e stimolante di questi paradigmi in competizione, pendente più dalla parte di Gould che da quella di Dennett, si trova in Pievani 2014.

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rimpiazzabile, per Dennett, è la spiegazione fornita da Jaynes del motivo per cui i Greci tendevano a localizzare la mente nel petto. Poiché uno degli effetti dello stress indotto dai processi decisionali complessi è l’accelerazione del ritmo respiratorio, dev’essere sembrato naturale collocare al livello del torace la sede dei processi cognitivi, e ciò spiegherebbe il fatto che vari termini della lingua greca più antica collegati con le attività mentali e decisionali traggano origine dai processi respiratori. Questo, dice Dennett, potrebbe essere vero, ma se non lo fosse, si tratterebbe di un modulo sacrificabile senza troppi danni. Addirittura Dennett arriva a considerare sacrificabile quello che potrebbe sembrare il modulo assolutamente vitale della teoria, ovvero tutta la storia delle allucinazioni, che per lui è semplicemente errata (I think it is a mistake, ivi: 126). E per dimostrare quanto di significativo possa ancora rimanere in piedi dell’edificio teorico di Jaynes, Dennett ricorre a un paragone con la “storia proprio così” hobbesiana sull’evoluzione dei sistemi etici e delle istituzioni politiche a partire da una condizione naturale iniziale in cui essi sono del tutto assenti. Come quella di Jaynes, anche quella di Hobbes era una ricostruzione fantasiosa, una finzione teorica razionale di cui egli era il primo a rendersi conto, come dimostra il fatto che non si è mai sognato di cercare le tracce storiche del primo contratto sociale della specie umana nelle iscrizioni cuneiformi. In tal senso, Jaynes può essere messo al riparo (come abbiamo già accennato) dall’obiezione mossa da Ned Block, secondo il quale il paradigma di Jaynes è viziato da un grave errore di fondo: se anche tutta la sua ricostruzione storica fosse corretta, si dovrebbe concludere che ciò che l’uomo ha raggiunto circa tremila anni fa non è tanto la coscienza quanto piuttosto il suo concetto. Jaynes, quindi, confonde un fenomeno con la sua concettualizzazione, l’uso con la menzione, l’attrazione gravitazionale con la sua definizione da parte di Newton, il cavallo con la nozione di cavallo, come se quest’ultimo non potesse essere cavalcato prima di avere un’idea della sua natura; e questo è semplicemente assurdo (cfr. Block 1981)68. Secondo Dennett quest’obiezione può essere respinta proprio alla luce di Hobbes: nessuno potrebbe obiettargli che i

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Williams 2010 offre un’analisi dettagliata dell’obiezione di Block e propone una difesa di Jaynes attraverso una discussione di “cosa si prova ad essere privi di coscienza”.

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comportamenti etici esistevano prima della loro definizione contrattuale e concettuale, perché in un caso come questo uso e menzione, fenomeno e concetto nascono insieme e sono la stessa cosa. Niente era morale o immorale prima che gli uomini negoziassero un sistema di norme etiche in grado di fissare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; analogamente, nessun uomo era davvero cosciente prima che fosse in grado di dire a se stesso di essere un sé cosciente sulla base di una narrazione resa disponibile dall’uso di un linguaggio articolato e socialmente condiviso. Fenomeni come la moralità e la coscienza vengono all’essere solo dentro un certo ambiente concettuale che deve essere costruito da una comunità dotata di istituzioni linguistiche e culturali relativamente stabili. E Jaynes fa proprio questo: in fondo viene a dirci che non c’è coscienza finché non c’è una nozione per la coscienza stessa, proprio come nello stesso libro sostiene che non c’è storia prima degli storici. Al leone e all’antilope certamente accadono cose, ma nessuno può dire che loro abbiano una storia, perché loro non sono in grado di narrativizzare gli accadimenti per ricostruire nessi e rilevare processi nel tempo. Analogamente, aggiunge Dennett, non possiamo avere il baseball e il denaro prima di averne i concetti. Oltre alla tesi che la coscienza sia venuta dopo il possesso di alcune nozioni intorno ad essa, c’è in Jaynes anche quella per cui gli stessi concetti possono essere preconsci, nel senso che possono non richiedere, e di fatto non richiedono, la coscienza: sebbene non abbia un concetto consapevole del fiore, è difficile negare che la macchina biologica che chiamiamo “ape” non implementi di default e del tutto inconsapevolmente un concetto del fiore (cfr. Jaynes 1976: 48-49). Secondo Dennett è proprio questa la parte più importante della teoria jaynesiana. Se la cosa disturba la nostra sensibilità di creature simboliche coscienti, dice Dennett, possiamo chiamare schmoncepts queste cose simili a concetti che non occorre essere consapevoli per averle (cfr. Dennett 1986, in 1998: 128). Del resto è quello che accade ai calcolatori che, pur non essendo coscienti, incorporano un numero enorme di concetti. Lo stesso programma dell’intelligenza artificiale, si può dire, consiste nella progettazione di macchine non coscienti che tuttavia sono dotate di sistemi concettuali di riconoscimento di oggetti e configurazioni dell’ambiente esterno. L’idea vincente degli informatici è proprio quella di cercare un modo per progettare concetti inconsci. Ecco perché, sostiene Dennett, la domanda giusta per

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capire il fenomeno della coscienza non è “Come si passa da mattoni, amebe e scimmie a noi?” ma “Come si fa a costruire automi coscienti?” (ivi: 129). E la risposta non è nel modo di costruire l’hardware, ma nella messa a punto del software giusto che consenta alla macchina di avere e usare i concetti adatti agli scopi prefissati. Lo spazio logico giusto che consenta a una mente cosciente di “girare” è allora ciò di cui Jaynes in fondo ci sta parlando, secondo Dennett, malgrado la sua insistenza su certe ipotesi neuroanatomiche: ecco perché il suo approccio può sopravvivere alla falsificazione di tutte le sue assunzioni al livello dell’hardware. Anche se si dovesse scoprire che la mente bicamerale “girava” su una struttura cerebrale identica a quella di cui l’uomo è dotato ancora oggi, la teoria di Jaynes continuerebbe a funzionare come modello esplicativo il cui sistema di puntamento è rivolto al passaggio da un software archeologico a uno più avanzato installato culturalmente (a tal proposito, si ricordi il passo di Jaynes 1976: 270 citato in precedenza: «La coscienza dev’essere appresa da ogni nuova generazione»69). E si noti come Dennett, pur non nominando mai i memi in questo testo, si serva già dell’armamentario lessicale e concettuale che dominerà in Coscienza, dove la teoria della mente cosciente come macchina virtuale joyceana implementata sull’architettura parallela del cervello è totalmente costruita su basi memetiche: «what I think he is really talking about is a software characterization of the mind, at the level, as a computer scientist would say, of a virtual machine» (ibid. Cfr. con Dennett 1991a: 236-237). Ciò che occorreva per passare a un nuovo tipo di mente, dunque, era una nuova ecologia concettuale, la comparsa nell’ambiente culturale di «certain concepts, certain software», dice subito dopo Dennett, cioè di nuovi memeplessi in grado di installare nel cervello nuove microstrutture funzionali capaci di innescare quella serie di reazioni a catena che avrebbero portato alla tessitura linguistico-narrativa dei Sé coscienti. Jaynes, quindi, intuisce che i nostri antenati finirono per trovare nuovi spazi logici e concettuali che consentirono loro di esibire presta-

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Si vedano anche Jaynes 1976: 450 (“la coscienza [è] una capacità culturale appresa, innestata sul sostrato vestigiale di un tipo precedente e più autoritario di controllo del comportamento”) e 471 (“la coscienza è un evento culturalmente appreso, cresciuto precariamente sulle vestigia soppresse di una forma mentale precedente”).

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zioni cognitive inaudite, esattamente come accade nell’informatica quando appaiono software di nuova generazione che permettono passi in avanti del tutto imprevisti. La coscienza è appunto uno di questi poteri e comportamenti umani nuovi e l’audacia delle congetture di Jaynes dipende dal fatto che i software archeologici non lasciano tracce fossili, ciò che costringe gli studiosi a sforzi notevoli di immaginazione storica controllata. Tuttavia, anche se un software è solo un concetto astratto, esso è anche in grado di fare grandi cose e lasciare molte tracce una volta che viene incorporato ed eseguito («once it is embodied it has very real effects», dice Dennett: ivi: 130). Ecco perché Jaynes fa bene a tentare di leggere nel modo giusto ciò che sulla mente antica hanno da dirci vasi, immagini, statue, tombe, monumenti e soprattutto testi scritti, anche se probabilmente la documentazione è sempre troppo esigua e incerta e il rischio del fraintendimento è sempre incombente. Quello che conta è che egli abbia indicato la direzione giusta in cui guardare, sostenendo che siamo come siamo, soprattutto nel sacrario più intimo e apparentemente miracolistico della mente cosciente, perché lo siamo diventati attraverso una rivoluzione svoltasi su un piano più culturale che biologico. E se questa è l’idea di Jaynes, conclude Dennett, «is an absolutely wonderful idea, and if Jaynes is completely wrong in the details, that is a darn shame, but something like what he proposes has to be right; and we can start looking around for better modules to put in the place of the modules that he has already given us» (ibid). Come si vede, dunque, il confronto serrato di Dennett con il libro di Jaynes, in quella precisa fase storica delle sue elaborazioni teoriche sulla coscienza, è un momento assai significativo, perché sembra proprio che il filosofo voglia raccoglierne il testimone. Quando egli stroncava senza pietà il libro di Popper ed Eccles (che sul piano della fantasia e dell’implausibilità speculativa non batte certo quello di Jaynes), non aveva ancora scoperto la nozione di meme e si muoveva, come dimostra Brainstorms, entro un orizzonte di filosofia della mente spiccatamente fisicalistico e funzionalistico, con un occhio all’interpretazione intenzionalistica della psicologia del senso comune. «Se qualcuno insistesse a voler dare un nome a questa teoria, potrebbe chiamarla intenzionalismo dei tipi: ogni evento mentale è un evento fisico e funzionale; i tipi sono individuati non con un linguaggio riduzionistico, ma attra-

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verso una regolamentazione degli stessi termini che usiamo ordinariamente: spieghiamo, ad esempio, che cosa sono le credenze mediante una sistematizzazione della nozione di sistema che ha credenze» (Dennett 1978: 29). Tuttavia - ed è questa la tesi che qui stiamo cercando di sostenere - la chimica concettuale innescata, nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, dall’incontro tra la Memetica e la teoria jaynesiana della coscienza come software linguistico installato nel cervello sposta l’asse della posizione di Dennett verso un approccio moderatamente culturalista che consente di guardare alla mente cosciente come a una configurazione emergente, un real pattern che inaspettatamente fa rientrare in gioco la teoria popperiana dei tre mondi, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo. Per usare un’espressione che si trova per esempio in Dennett 2003: 352 e 403, fenomeni evolutivi come la coscienza e la libertà umana sono una questione di “ingegneria memetica” (memetic engineering), un lavoro socio-culturale di costruzione di spazi concettuali che definiscono le condizioni di possibilità delle nostre manovre cognitive e comportamentali, un lavoro che dobbiamo svolgere con un piccolo aiuto da parte dei nostri amici, dice Dennett parafrasando scherzosamente i Beatles (ivi: 181, 360 e 361). Ecco perché non sembra peregrino tentare una sintesi teorica che faccia reagire concettualmente tutto ciò con la posizione di chi non si stancava di ripetere che noi dobbiamo imparare ad essere degli Io in un contesto in cui almeno tre livelli di realtà si trovano ad interagire (cfr. Popper e Eccles 1977: 136 e ss.). L’approccio unificato che qui stiamo difendendo e sviluppando, peraltro, è auspicato dallo stesso Dennett: «La teoria dei memi promette (...) di unificare sotto una singola prospettiva fenomeni così diversi come le invenzioni scientifiche e culturali deliberate e previdenti (ingegneria memetica), forme di creazione prive di autori come il folklore e perfino quei fenomeni involontariamente riplasmati che sono i linguaggi e gli stessi costumi sociali. (...) [N]essuno dovrebbe aspettarsi che una nuova scienza della memetica possa rovesciare o sostituire tutti i modelli e le spiegazioni dei fenomeni culturali sviluppati dalle scienze sociali. Potrebbe, però, aiutarci a riformularli in modo illuminante, stimolando così nuove indagini nello stesso modo in cui la genetica ha ispirato un profluvio di ricerche nel campo dell’ecologia»70. 70

Dennett 2002, in 2006: 379 e 380; cfr. anche ivi: 202, 206 e 211.

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2.2. Real patterns e realtà del Mondo 2 Nel cappelletto che precede la ristampa del saggio Real Patterns (Dennett 1991b) come quinto capitolo del volume Brainchildren, il filosofo americano precisa che egli lo considera particolarmente importante nell’economia del proprio pensiero (“it is utterly central to my thinking”, Dennett 1998: 95). E poiché in esso vengono affrontate questioni cruciali per meglio comprendere la sua peculiare proposta relativa all’ontologia dei fenomeni mentali, dobbiamo occuparcene in dettaglio per saggiare più attentamente la plausibilità del tentativo di includere la nozione dennettiana di mente cosciente e quella popperiana di Mondo 2 entro un’unica cornice teorica unificata tenuta insieme dalla Memetica. Secondo Dennett, quando si parla di credenze (beliefs), generalmente i filosofi tendono a polarizzarsi attorno a due posizioni nette, non di rado in funzione del loro grado di dimestichezza con le neuroscienze e le scienze psicologiche: o sono realisti (quindi eredi di una certa tradizione filosofica) o sono materialisti eliminativisti (perché attenti a certe demistificazioni di concezioni animistiche persistenti implicate da talune scoperte scientifiche sul funzionamento del cervello). Posizioni intermedie di semirealismo che attribuiscano etichette di quasi-esistenza71 sono rigorosamente bandite dal dibattito: le credenze o esistono (come i virus) o non esistono (come le banshee). Ma allora qual è il genere di realtà di cui godono le voci e i centri di gravità? Quando Dennett propone di assimilare lo status ontologico delle credenze a quello dei centri di gravità72, curiosamente riceve attacchi provenienti sia 71

Si pensi all’operatore “sorta” di Dennett 2013: cap. 21 e passim. Qui il riferimento è in particolare al saggio che costituisce il terzo capitolo di Dennett 1987 (cfr. in particolare 81-82), dove Dennett si richiama alla distinzione, introdotta da Hans Reichenbach, tra due tipi di riferimento per i termini teorici: gli illata (enti teorici postulati che tuttavia hanno un corrispettivo empirico indipendente, come la massa) e gli abstracta (costrutti logici che si manipolano nel calcolo matematico applicato ai fenomeni fisici, come appunto i centri di gravità). Su questo punto si vedano anche Nannini 2007: 169-174 e Paternoster 2002 & 2010: 81. 72

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dai finzionalisti (i centri di gravità solo solo utili finzioni per effettuare calcoli e predizioni) sia dai realisti (i centri di gravità sono punti attraverso cui agiscono le risultanti di somme vettoriali di forze reali): i primi osservano che il pattern di azione che si discerne quando si adotta l’atteg-giamento intenzionale per interpretare il comportamento di un agente mosso da credenze è solo una finzione che l’approccio scientifico farebbe semplicemente svanire, mentre i secondi fanno rilevare che i centri di gravità sono enti troppo reali per costituire un termine di paragone utile quando si parla di credenze. Ma è proprio questa seconda obiezione che attira Dennett: se i centri di gravità sono appunto oggetti astratti di tipo matematico, si tratta di capire come risolvere la questione dell’esistenza di questi ultimi. L’approccio metafisico imposta la questione solo in termini di esistenza o realtà e non si preoccupa dell’utilità scientifica di tali enti (il centro della popolazione degli Stati Uniti e il centro dei calzini smarriti da Dennett, sul piano metafisico, hanno lo stesso grado di realtà dei centri di gravità). Sul piano scientifico, invece, la realtà degli oggetti astratti come i centri di gravità è connessa al fatto che si tratta di «good abstract objects» (in Dennett 1998: 97), che noi prendiamo sul serio perché servono per rappresentare utilmente forze e proprietà naturali. Ecco dunque lo scopo dell’analogia tra i centri di gravità e le credenze: queste possono essere intese come pattern che un’indagine filosofico-scientifica della psicologia popolare utilizza nell’ambito di una posizione intermedia in merito alla questione della realtà degli stati psicologici. L’utilità della cooptazione di questi abstracta consiste nel fatto che, in quanto agenti immersi nella folk psychology, noi ci interpretiamo a vicenda come soggetti di credenze, volontà e intenzioni, empatizziamo con altri, organizziamo i nostri ricordi ed effettuiamo predizioni sulle mosse altrui dotate di grande affidabilità. Ed è proprio questo potere predittivo, frutto dell’evoluzione, che rende la psicologia del senso comune così importante per noi sia in quanto agenti sia in quanto studiosi interessati ai meccanismi del suo funzionamento. Dov’è, dunque, che un pattern esiste? E di cosa è pattern un pattern? Per un approccio di tipo fodoriano il pattern di una credenza deve ancorarsi a strutture cerebrali, le quali sono come formule scritte del linguaggio del pensiero. Viceversa, per un approccio di tipo quineano (che Dennett condivide) un pattern di

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credenza è qualcosa che sta alla luce del sole, perché emerge stabilmente davanti all’osservatore quando questi esplora e interpreta il comportamento di agenti adottando l’intentional stance (ivi: 98). Cercare di distinguere realtà e apparenza negli elementi che costituiscono un pattern consente, secondo Dennett, di fare chiarezza nella fauna delle ontologie delle credenze proliferate nel dibattito filosofico, tra le quali egli individua cinque esemplari schierati in modo netto nello spazio delle possibilità: 1) il Realismo di forza industriale di Fodor (con la maiuscola); 2) il realismo di forza normale (regular) di Davidson; 3) il suo realismo mite (mild); 4) il realismo ancora più mite (milder-than-mild) di Rorty, che dunque è una forma di irrealismo per cui un pattern si trova solo negli occhi dell’osservatore e 5) l’eliminativismo in chiave materialistica di Paul Churchland, che nega del tutto la realtà delle credenze (cfr. ivi: 98-99). Queste opzioni alternative, sottolinea Dennett al fine soprattutto di escludere a priori approcci idealistici totalmente infruttuosi in un dibattito scientifico-filosofico maturo, si muovono comunque entro lo spazio condiviso del NOA (natural ontological attitude), ovvero: non è in discussione lo statuto metafisico di enti fisici come gli elettroni o abstracta come i centri di gravità, ma la possibilità o meno di assimilare a questi le credenze e gli stati mentali. Ricorrendo a esempi di frames di punti e spazi più o meno casualmente distribuiti, a codici a barre, a configurazioni di pezzi sulla scacchiera e a frasi ben formate di una lingua rispetto alla redistribuzione caotica delle lettere di cui sono costituite, Dennett osserva che al di là delle idiosincrasie nelle capacità percettive (tra individui diversi e anche tra specie diverse), il riconoscimento di un pattern reale è possibile sotto determinate condizioni. In particolare, in un insieme di dati un pattern esiste, è reale, se per la sua trasmissione è possibile una descrizione dei dati che sia più efficiente della semplice mappa dei bit, indipendentemente dal fatto che qualcuno possa concepirla (ivi: 103). Si pensi a un giocatore esperto di scacchi che deve trasmettere a un collega una determinata disposizione dei pezzi sulla scacchiera: certamente si esprimerà nel modo più rapido ed efficace ponendosi al livello del pattern emergente, e non perderà certo tempo a descrivere, diciamo così, lo stato digitale di ciascuna casa. Lo stesso accade nella comunicazione verbale: lungi dal processare lettera per lettera, noi raggiungiamo la comprensione riconoscendo configurazioni astratte di strutture e significati. La nostra immagine manifesta del

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mondo è popolata di strutture emergenti che costituiscono, per esempio, tutta la fisica e la psicologia popolari che si sono evolute per servire ai nostri scopi pragmatici di orientamento nelle varie nicchie ambientali che abbiamo incontrato: «The ontology generated by the manifest image has thus a deeply pragmatic source», scrive Dennett (ivi: 104). E la pratica di ricorrere a modelli idealizzati è onnipresente e coinvolge pure la scienza, che d’altra parte è chiamata in linea di principio a “scolpire” il mondo nelle sue giunture reali e quindi a correggere, quando occorre, le distorsioni dell’immagine manifesta. Il ricorso ai più semplici strumenti newtoniani di calcolo al posto di quelli einsteiniani in compiti di ingegneria, l’uso di parlare di un gene come responsabile di certi tratti comportamentali ereditari, nonché l’astrazione degli economisti rappresentata dall’agente perfettamente razionale che agisce nel mercato sulla base di informazioni complete e perfettamente accessibili, sono tutti esempi della pervasività della nostra disposizione alla manipolazione di schemi semplificati e intersoggettivamente riconoscibili ricavati dal flusso di dati proveniente dal mondo a vari livelli.73 Ma l’esempio per eccellenza di Dennett74 per illustrare la tesi dell’emergenza, dal livello fisico-computazionale, di configurazioni stabili al livello progettuale e intenzionale è il cosiddetto “Gioco della Vita” (Game of Life) ideato negli anni Sessanta del XX secolo dal matematico britannico John Conway, che a suo parere dovrebbe far parte stabile del bagaglio di strumenti per pensare di ogni filosofo, perché è una potente pompa dell’intuizione 73

È appena il caso di ricordare che quando in Anelli dell’Io Hofstadter scrive che la tesi del suo libro è che «in un cervello umano non embrionale, non infantile, c’è un tipo speciale di struttura o pattern astratto che ha lo stesso ruolo di quella perfetta sovrapposizione di strati di carta e di colla - un pattern astratto da cui ha origine qualcosa che dà la sensazione di essere un sé» (Hofstadter 2007: 125), nella nota relativa rimanda proprio a Real Patterns di Dennett, e in particolare alle pagine sull’automa cellulare di Conway (cfr. ivi: 444). Ed è per noi qui particolarmente interessante il fatto che Hofstadter includa i memi di Dawkins tra i suoi pattern astratti emergenti dai vari cicli di feedback che si svolgono nel cervello e che costituiscono quell’ordine mentale e concettuale di cui anche i “ricercatori del cervello” dovrebbero tenere conto per capire il loro stesso oggetto di studio (cfr. ivi: 42). 74 Già rapidamente descritto in Dennett 1987: 58-61, esso è stato poi ripreso varie volte in opere successive, come Dennett 1995 (206-228), 2003 (47-62) e 2013 (387-397). Un uso filosofico del Gioco di Conway analogo a quello dennettiano si trova in Hawking e Mlodinow 2010: 162-171.

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in grado di far riflettere in modo rigoroso sui processi di ricerca e sviluppo che si sono svolti in natura e che hanno dato ciecamente origine alla molteplicità impressionante delle forme di vita - ben progettate ed equipaggiate per sopravvivere - che sono apparse sul pianeta. In estrema sintesi, il mondo di Conway (che dopo aver prosperato su internet è oggi anche una App per tablet e smartphone e può quindi essere esplorato comodamente da chiunque) è una griglia bidimensionale di celle che ad ogni passoistante del gioco possono trovarsi in due soli stati: on/off, bianco/nero ecc. (si noti che ogni cella è circondata da otto altre celle). La sua fisica è semplicissima ed è catturata in modo assolutamente deterministico da una sola legge che fissa la regola di passaggio da un istante all’altro: Per ogni cella, se esattamente due tra le otto che la circondano sono “on”, all’istante successivo essa permarrà nello stato in cui si trova; se esattamente tre tra le otto che la circondano sono “on”, all’istante successivo essa sarà “on”; in tutti gli altri casi, all’istante successivo essa sarà “off”. L’aspetto di questo gioco che più colpisce Dennett, e che anche a noi preme rilevare per la tesi che stiamo sostenendo, è il fatto che un simile mondo deterministico, catturato a livello fisico-computazionale da una regola semplicissima, è in grado di evolvere in precise configurazioni, sufficientemente stabili da poter essere individuate, che, a un livello progettuale e intenzionale, possono essere descritte come se fossero agenti naturali. E così, facendo scorrere il tempo sul mondo di Conway, sembra di assistere a una specie di videogioco non progettato in cui forme quasibiologiche nascono, muoiono, si muovono, lottano, si divorano, si riproducono, ecc. La comunità degli appassionati ha battezzato con nomi pittoreschi molte delle forme che emergono a vari livelli di dimensione dei pixel, e così troviamo lampeggiatori, nature morte, alianti, mangiatori, pagnotte, sparatori di alianti, R-pentomimi, navi, e così via. Un tipico modo progettuale e intenzionale di descrivere quello che accade su una griglia 7x8 è per esempio il seguente: “Un mangiatore ingoia e fa sparire un aliante in quattro istanti o generazioni” (e si pensi a cosa significherebbe descrivere tali eventi a livello fisico, dovendo indicare lo stato di ciascuna delle 56 celle ad ogni generazione). È davvero difficile, per osservatori umani, dotati di un raffinato apparato percettivo di riconoscimento di forme, resistere alla realtà ontologica di questi pattern. E la cosa più sorprendente è che l’automa cellulare di Conway può in linea di principio costituire un modello di macchina

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di Turing universale e quindi simulare qualsiasi cosa che possa poi essere descritta in termini di azioni, intenzioni e scopi, come una partita a scacchi (cfr. ivi: 108-109). Passando dal mondo di Conway a quello umano, Dennett può così difendere la realtà e l’affidabilità dei pattern intenzionali che manipoliamo quando si tratta di effettuare previsioni sui comportamenti altrui, perché se così non fosse saremmo costretti all’inazione per l’impossibilità di computare in tempo reale tutti i processi oggettivi che si svolgono a livello fisico nei nostri apparati percettivi (per capire rapidamente cosa qualcuno sta guardando e perché non possiamo rivolgere la nostra attenzione ai fotoni, ai fotorecettori, ai neuroni, ai neurotrasmettitori, alle sinapsi e così via: ammesso che fosse possibile, non avremmo abbastanza tempo). E questo spiega perché il genere di realismo alla Fodor non può funzionare, nella misura in cui intende sostituire le pratiche esplicative della psicologia popolare con i veri processi cognitivi e cerebrali che agiscono dietro le quinte; meglio, quindi, spostarsi verso un realismo che prediliga il livello pubblicamente accessibile e alla luce del sole delle esibizioni linguistico-comportamentali di intenzioni e credenze: «Fodor’s industrial strength Realism takes beliefs to be things in the head - just like cells and blood vessels and viruses. Davidson and I both like Churchland’s alternative idea of propositional attitude statements as indirect “measurements” of a reality diffused in the behavioral dispositions of the brain (and body)» (ivi: 114). D’altra parte, l’irrealismo di Rorty e l’eliminativismo di Churchland non possono funzionare, ad avviso di Dennett, per motivi opposti e speculari. Rorty, abbandonando la teoria corrispondentista della verità, non è in grado di spiegare perché mai dovrebbero funzionare le predizioni basate sul livello descrittivo della psicologia popolare se questa, come tutto il resto, non è in grado di catturare alcunché di reale («one does better navigating off the coast of Maine when one uses an up-to-date nautical chart than one does when one uses a road map of Kansas. Why?», ivi: 118). Né è chiaro perché gli esseri umani non passino indifferentemente dall’atteggiamento intenzionale all’astrologia: Rorty semplicemente trascura l’enorme cumulo di conferme empiriche stratificate attraverso cui l’evoluzione ha messo a punto il primo come dispositivo d’azione. Churchland, da parte sua, pur riconoscendo la forza predittiva dell’atteggiamento intenzionale, si affida troppo alla promessa pura-

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mente teorica delle neuroscienze di dissolvere un giorno l’ontologia della psicologia popolare e di sostituirla con la vera descrizione fisica dei processi cerebrali che stanno alla base dei processi mentali, ma non è chiaro perché dovremmo destinare alla pattumiera (trash heap, ivi: 118) una cassetta degli attrezzi che comunque dà una così buona prova di sé. Ecco, dunque, come Dennett definisce in conclusione la propria posizione metafisica rispetto alle altre quattro prese in esame: Fodor e Churchland sopravvalutano le virtù di un approccio scientifico radicalmente riduzionistico, perché esso ha una base empirica ancora insufficiente per mantenere tutte le sue promesse, e quindi il sacrificio della psicologia popolare da loro auspicato è un prezzo troppo alto da pagare; Rorty, nella sua battaglia post-modernista contro il realismo epistemologico, finisce col non rendere chiaro il motivo esatto per cui un navigatore dovrebbe fidarsi di una mappa nautica anziché di uno stradario; Davidson, invece, difende un realismo delle credenze attribuite che è solo leggermente più forte di quello di Dennett, perché trascura i casi di conflitto tra interpretazioni intenzionali. La chiusura di Dennett, dopo questa analisi serratissima, è ironicamente ambigua ed evita la condanna dell’auto-etichettatura: «Now, once again, is the view I am defending here a sort of instrumentalism or a sort of realism? I think that the view itself is clearer than either of the labels, so I will leave that question to anyone who stills find illumination in them» (ivi: 120). Come si vede, nella sua fase matura la teoria dennettiana della mente coniuga una peculiare forma di realismo dei processi mentali attribuiti, intesi come configurazioni evolutesi in pattern sufficientemente stabili da consentire attività interpretative e predittive fondate rivolte al comportamento dei sistemi intenzionali soprattutto umani, e una concezione della coscienza come macchina virtuale di memi installata nel cervello, le cui microstrutture al livello di reti neurali costruite e memorizzate nel corso dell’esperienza sono in parte le tracce stesse lasciate dai memiinformazione75 che sono riusciti ad annidarvisi. «Il paradiso che 75

“In fondo”, scrive Dennett, “un virus è solo una stringa di acido nucleico (un gene) con una certa grinta (...). Analogamente, un meme è un pacchetto di informazione con una certa grinta - una ricetta o un manuale d’istruzioni per fare qualcosa di culturale” (Dennett 2003: 232-233).

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tutti i memi cercano di raggiungere», scrive Dennett in un passochiave, una parte del quale costituisce l’epigrafe di un altro testo fondamentale per il programma di ricerca della Memetica, cioè Dawkins 1993, «è la mente umana, ma la mente umana è essa stessa un artefatto creato quando i memi ristrutturano un cervello umano per renderlo un habitat a loro più confacente. Le vie di ingresso e di uscita sono modificate per adattarsi alle situazioni locali e sono rafforzate da vari congegni artificiali che potenziano la fedeltà e la prolissità di replicazione: una mente di madrelingua cinese differisce drammaticamente da una di madrelingua francese e una mente alfabetizzata differisce da una analfabeta. I memi contraccambiano gli organismi in cui risiedono con un’incalcolabile quantità di vantaggi - e qualche cavallo di Troia gettato lì per precauzione, senza dubbio. I cervelli umani normali non sono tutti uguali; differiscono sensibilmente per dimensioni, forma e per gli innumerevoli dettagli di connessione da cui dipendono i loro talenti. Ma le differenze più sorprendenti nei talenti dei cervelli umani dipendono dalle differenze microstrutturali indotte dai vari memi che vi sono penetrati e vi hanno preso residenza. I memi si rafforzano vicendevolmente: il meme per l’educazione, per esempio, è un meme che rinforza lo stesso processo di implantazione dei memi» (Dennett 1991a: 233). Poco più avanti, discutendo la questione della funzione del software mentale memico che noi istalliamo nel nostro cervello sotto forma di abitudini mentali selezionate dall’ambiente culturale in cui veniamo immersi, Dennett fa un preciso riferimento a Jaynes che costituisce una conferma importante dell’ipotesi di collegamento che abbiamo sostenuto nel paragrafo precedente. Perché il memeplesso duramente testato e altamente replicato che costituisce la macchina virtuale della coscienza ha un tale successo in termini di selezione e replicazione? Com’è noto, la questione della funzione della coscienza è tra le più controverse e taluni raffinati tentativi di risposta avanzati recentemente non sembrano portare buone notizie al nostro amor proprio76. A tal proposito, Dennett osserva che, malgrado gli in76

Basti qui citare Humphrey 2011, che (per buone ragioni dovute a intensi scambi intellettuali e a collaborazioni accademiche: cfr. ad es. p. 11, nota 6; p. 19, nota 11; p. 37, nota 8 e p. 79) deve molto a Dennett, oltre che a Hofstadter (cfr. ivi: 64-65), pur prescindendo del tutto dalla Memetica. Humphrey, in fondo, anche se fa ogni sforzo per convincerci che la coscienza è un fenomeno meraviglioso, sostiene che essa è un’utile finzione evolutasi per farci amare

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negabili benefici che la coscienza ci fornisce, non è assurdo sostenere che molte sue componenti si siano evolute non per la nostra fitness ma per quella dei memi stessi che la costituiscono. La coscienza, in tal senso, sarebbe una macchina ben progettata e ben replicata per replicare a sua volta i replicatori egoisti che l’hanno assemblata.77 Se però volessimo concentrarci sugli aspetti della coscienza che sono funzionali a noi in termini evolutivi, ecco che Jaynes può tornare utile: «Prendendo in considerazione il lato positivo, comunque, quali problemi questa macchina sembra ben progettata a risolvere? Lo psicologo Julian Jaynes (1976) ha sostenuto persuasivamente che le sue capacità di auto-esortazione e auto-rammemorazione costituiscono i prerequisiti di elaborati progetti a lungo termine senza i quali l’agricoltura, l’edilizia e altre attività civilizzate e civilizzanti non potrebbero essere organizzate» (ivi: 249). I memi, dunque, alla luce di quanto visto fin qui e sulla base anche della già citata osservazione di Hofstadter, possono essere noi stessi e il mondo in cui viviamo al punto da cercare in ogni modo di perpetuare la vita. A sua volta, Dennett cita proprio nel contesto che stiamo esaminando una tesi classica di Humphrey sulla coscienza come strumento altamente adattivo che sta alla base dei processi di introspezione e di simulazione sociale delle menti altrui (cfr. Dennett 1991a: 250). E non è superfluo qui ricordare che Dawkins riportava già nel testo fondativo della Memetica un’osservazione di Humphrey sui memi basata sulla lettura di una bozza dell’undicesimo capitolo de Il gene egoista: “Quando si pianta un meme fertile in una mente, il cervello ne viene letteralmente parassitato e si trasforma in un veicolo per la propagazione del meme, proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite. E questo non è soltanto un modo di dire: il meme che predispone, diciamo, a ‘credere nella vita dopo la morte’ si realizza fisicamente, milioni di volte, come una struttura del sistema nervoso degli uomini di tutto il mondo” (in Dawkins 1976: 202). I memi, dunque, sono per Humphrey delle strutture viventi in senso tecnico e non semplicemente metaforico, e questo getta una luce particolare, cioè propriamente memetica, sulla tesi di fondo sostenuta nel citato libro del 2011 sulla funzione evolutiva delle coscienza e delle credenze intorno ad essa elaborate dagli esseri umani. 77 “Potrebbe essere un virus informatico, un parassita che si inserisce facilmente nei cervelli umani senza dare effettivamente nessun vantaggio competitivo agli esseri di cui infesta i cervelli. O più plausibilmente, alcune caratteristiche della macchina potrebbero essere dei parassiti, che esistono solo perché possono esistere e perché non è possibile - o non vale la pena - sbarazzarsi di loro. (...) Alcune caratteristiche della coscienza potrebbero essere semplicemente dei memi egoisti” (Dennett 1991a: 249).

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a loro volta considerati dei real patterns, strutture di informazione78 riconoscibili, assimilabili e replicabili che transitano su entrambe le direzioni di marcia della strada che collega le nostre menti alla memosfera, ovvero al Mondo 3. In tal senso, è lo stesso Dennett a fornire indirettamente un sostegno alla concezione realistica del Mondo 2 difesa da Popper: i real patterns e il Mondo 2 sono prodotti emergenti dell’evoluzione resi possibili da particolari disposizioni del mondo fisico. Il lungo passo di Coscienza sopra citato, allora, fa capire quanta distanza ci sia tra questo Dennett, realista mite sull’ontologia degli stati mentali79, memetista e quasi jaynesiano per il suo approccio culturalista top-down al problema della cognizione cosciente, e il giovane Dennett che stroncava implacabilmente il libro di Popper ed Eccles. A questo punto le carte sono tutte in tavola e l’ipotesi di un accostamento tra la posizione di Dennett e quella di Popper sembra emergere dai fatti concettuali stessi, senza alcuna necessità di ricorrere a ermeneutiche selvagge. Se infatti esaminiamo in dettaglio la vecchia recensione di Dennett, ci accorgiamo che alcuni germi della possibile convergenza futura erano già lì, nascosti tra le righe di una retorica aggressiva e a tratti irridente. Dennett esordiva sottolineando che un libro come The Self and Its Brain non poteva vantare autori più eminenti: uno poteva fregiarsi del titolo di Sir e del fatto che nel 1974 gli fosse stato dedicato un volume della Library of Living Philosophers, una sorta di canonizzazione per un filosofo in attività; l’altro aveva addirittura vinto nel 1963 il premio Nobel per i suoi studi di neurofisiologia. Eppure, aggiungeva, si sbaglierebbe chi pensasse che il libro offra un resoconto sullo stato più avanzato degli studi di filosofia della mente e di neuroscienze: al contrario, si tratta di un’opera, concepita in uno splendido isolamento olimpico (a Villa Serbelloni sul Lago di Como, la stessa, peraltro, dove nel 2001 Dennett scriverà la prima stesura di metà dei capitoli di Freedom 78

“In cultural evolution, the evolving patterns of information are memes mental representations of ideas, behaviors, or other theoretical or imagined constructs, perhaps encoded as patterns of neuron activation” (Gabora 1997). Alla Memetica come teoria dell’informazione e delle modalità diverse della sua codifica, trasmissione e diffusione è dedicato il denso e molto ben documentato capitolo 11 di Gleick 2011. 79 In tal senso Dennett, combinando l’interpretazionismo con il realismo minimo degli stati intenzionali, si mantiene coerente con l’ontologia “parsimoniosa” del senso comune (cfr. Perconti 2015: 95).

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Evolves: cfr. Dennett 2003: XII), che riesce solo alla lontana a inserirsi nel dibattito più aggiornato, se si escludono talune critiche superficiali a ricerche vicine nel tempo. L’opera, inoltre, è un duetto portato avanti da due gentiluomini garbati che si scambiano gentilezze e complimenti senza preoccuparsi minimamente né di presentare una teoria davvero unitaria né di criticarsi seriamente a vicenda. La stessa costruzione del libro suggerisce la volontà di offrire ai lettori due versioni piuttosto diverse di un comune approccio vagamente cartesiano al problema mente-corpo: nel primo terzo Popper, tenendo conto anche delle ricerche neurofisiologiche di Eccles, espone la propria teoria interazionistica a tre mondi; nel secondo terzo Eccles, assumendo una propria particolare versione spiritualistica della filosofia popperiana, illustra le strutture e le funzioni del cervello; nell’ultimo terzo, infine, leggiamo la trascrizione dei “dialoghi aperti” tra i due autori, giornalmente registrati su nastro (l’edizione italiana, per questa ragione, è costituita da tre volumi separati). Nell’esaminare il contributo di Popper, Dennett non era disposto a concedere nulla e cominciava stigmatizzandone la distribuzione degli argomenti: quasi lo stesso tempo (come se si trattasse di teorie di pari valore) è assegnato alla confutazione dei panpsichisti, degli occasionalisti, degli epifenomenisti e dei materialisti contemporanei (tra i quali naturalmente Dennett si collocava) e più o meno altrettanto è dedicato a una preistoria della scoperta del Sé fino a Cartesio, per dire che quasi tutti quelli che si sono occupati dell’argomento sono stati dualisti interazionisti. Ma questo, ammesso che la ricostruzione storico-teoretica sia plausibile, secondo Dennett non prova nulla sul dualismo interazionistico, se non che esso è l’opinione di default e le persone che se ne sono occupate magari non hanno approfondito bene la questione perché prive delle conoscenze e degli strumenti di ricerca di cui disponiamo oggi. Il lettore, dunque, stia attento: Popper offre prospettive e intuizioni inusuali, ma scrive di storia del pensiero nello stile di Russell, cioè sacrificando il rigore sull’altare della brillantezza. Da qui le dicotomie forzate e le semplificazioni: il determinismo di Laplace, per esempio, è dichiarato incompatibile con l’evoluzione emergente, e quindi liquidato in fretta: «So much for Laplacean determinism, but interesting varieties of emergence compatible with interesting varieties of determinism are apparently unimagined by Popper» (Dennett 1979: 93). Qui si può osservare di passaggio che in questo rapido

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rilievo Dennett anticipava una buona parte dei suoi interessi speculativi futuri. Per esempio, la difesa della compatibilità tra il determinismo e un’idea desiderabile di libertà in evoluzione emergente (che al livello umano diventa soprattutto un prodotto culturale dell’ingegneria memetica) sarà il nucleo filosofico forte di Dennett 2003, dove però non c’è alcun accenno alla tesi fondamentale di Popper (espressa in particolare nell’importante saggio che ora costituisce il primo Addendum di Popper [1956] 1982a) secondo cui per garantire la libertà umana non basta nemmeno l’indeterminismo, perché essa richiede l’apertura del mondo fisico, comunque esso sia, alla dimensione mentale (Mondo 2) e culturale (Mondo 3): un’idea, questa, che paradossalmente risulta compatibile con le critiche serrate di Dennett ai sostenitori del mito filosofico per cui la libertà umana avrebbe bisogno, per essere moralmente significativa, dell’indeterminismo quantistico. Dennett concedeva a Popper il fatto che la sua adesione all’interazionismo non consentisse di collocarlo tra gli abitanti della «particular region of theoretical perdition» in cui si usa postulare «little mental poltergeists» che svolazzano tra le sinapsi (Dennett 1979: ibid.), perché la sua posizione è almeno in apparenza molto più sofisticata, e tuttavia lamentava il fatto che Popper non fosse altrettanto leale con i suoi bersagli, perché per esempio attribuisce a materialisti e fisicalisti delle concezioni non meno superstiziose e caricaturali della credenza negli spiriti, anche se di segno opposto. Secondo Dennett, egli semplicemente non prende sul serio il materialismo e così evita di dedicare la dovuta attenzione alle sue declinazioni più recenti. Invece di approfondire le novità della propria posizione, Popper si attarda su questioni intorno alle quali nessun materialista avrebbe da obiettare nulla (effetti olistici sul cervello, illusioni e costruzioni percettive, insensatezza del riduzionismo radicale) e si limita a presentare, senza un sufficiente corredo di prove, una forma di interazionismo non materialistico che coinvolgerebbe tre Mondi: il Mondo 1 degli oggetti fisici, il Mondo 2 degli eventi mentali e il Mondo 3 dei prodotti culturali (che Dennett descriveva in termini un po’ imprecisi e parziali che ne accentuano l’astratta immobilità: «essentially a platonic world of abstract entities, such as theories, hypotheses, undiscovered mathematical theorems», ivi: 94). L’esatto meccanismo di interazione fra questi mondi, poi, non è ben specificato e non sembra chiaro come ad esempio la mente possa effettuare interazioni causali da un lato con il mondo dei concetti e dall’altro

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con quello degli oggetti, malgrado Popper sottolinei più volte quanto la fisica del XX secolo abbia trasformato la tradizionale nozione filosofica di causalità. L’idea che noi, agendo nel mondo fisico, mettiamo quest’ultimo in comunicazione interattiva indiretta con il Mondo 3 per il tramite dei nostri processi mentali, che invece possono interagire direttamente con la dimensione astratta, sembrava a Dennett “ludicrous” (ibid), anche perché Popper a suo dire non fornisce ragioni sufficienti per escludere l’interazione diretta tra Mondo 1 e Mondo 3. Per quanto poi riguarda l’interazione tra Mondo 2 e Mondo 1, Popper si limiterebbe a parlare di “causalità verso il basso” e “livelli di emergenza”, lasciando ai lettori il compito di intendere l’azione in senso olistico e di non confonderla con l’azione per spinta di Cartesio. Secondo Dennett, Popper non riesce a proporre una versione sofisticata dell’interazionismo in grado di schivare le critiche tradizionali al dualismo, e finisce per sostituire agli spiriti animali di Cartesio dei non meno imprecisati fenomeni elettrici. E tuttavia, dopo alcuni rapidi accenni alla seconda e alla terza parte del libro, Dennett concludeva con un’apertura inaspettata al dualismo, o a qualche particolare versione di esso. Il dualismo di Popper è da lui considerato un’alternativa a una forma di materialismo che nessun materialista sostiene, e dopo tutto nessuno ha mai definitivamente confutato il dualismo in tutte le sue forme, anzi, aggiunge Dennett in un rapido inciso, «some coherent form of dualism might in the end be true so far as I can see» (ivi: 97). Popper ed Eccles non sembrano avanzare soluzioni valide alle questioni filosofiche in corso sul problema mente-corpo e finché una qualche forma di dualismo non riuscirà a convincere la comunità scientifica che essa è la soluzione, la loro resterà un’ipotesi stravagante e il materialismo sofisticato potrà continuare ad essere considerato una fruttuosa ipotesi di lavoro, peraltro in accordo con una visione unificata della scienza. Tuttavia, come abbiamo cercato di mostrare, quando Dennett farà reagire il suo peculiare materialismo con i memi di Dawkins, verrà fuori una teoria che considera la mente cosciente come un software emergente di real patterns memici installato nel cervello dall’educazione e dall’esperienza, in grado di produrre conoscenza oggettiva per ingegneria memetica. E quando Dennett arriva a scrivere che noi «abbiamo anche scoperto l’aritmetica e molti altri sistemi di verità senza tempo e assolute» (Dennett 2003: 402), sembra di scorgere la ragione del suo ostinato silenzio

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sulla teoria popperiana dei tre mondi dopo il 1979: il suo modello, messo a punto tra gli anni Ottanta e Novanta, ne è, per non pochi aspetti significativi, una variante. Da ultimo, possiamo sintetizzare nello schema seguente l’idea precisa che Dennett ha dell’analogia tra selezione genetica e selezione memetica, così come è possibile desumerla da Dennett 2003: 352.

2.3. Coscienza memica e Memetica cognitiva Blackmore 2003 e Castelfranchi 2001 costituiscono due tentativi interessanti di modellizzazione del Mondo 2 cosciente come software memico. L’esame ravvicinato di questi due contributi vuole avere qui lo scopo di mostrare nel dettaglio in che modo la Memetica sia in grado di costituirsi come paradigma teorico in

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grado di descrivere in maniera unitaria i processi di costruzione delle macchine mentali e di trasmissione culturale. Susan Blackmore concepisce un articolato esperimento mentale per affrontare una questione precisa: come dovremmo costruire delle macchine artificiali per aspettarci che esse sviluppino qualcosa di simile alla coscienza umana? L’assunzione teorica di base è che quest’ultima sia una particolare forma di illusione che si genera come sottoprodotto del flusso di memi che nel nostro cervello competono per trovare dimora, replicarsi e diffondersi in altri cervelli attraverso processi prevalentemente imitativi. Il problema, dunque, non è tanto quello di trovare criteri per stabilire se una macchina sia cosciente o meno (come vuole il dibattito tradizionale sull’intelligenza artificiale), ma come costruire macchine memiche artificiali in grado di sviluppare qualcosa di analogo alla nostra stessa illusione della coscienza. E questo semplicemente perché per la coscienza non si dà un equivalente del test di Turing, in quanto si può da un lato concedere a Block e a Nagel di definirla in termini di soggettività, ovvero come coscienza fenomenica (phenomenal consciousness) e di cosa si prova ad essere (what it’s like to be), e dall’altro riconoscere che di conseguenza non può esistere un metodo oggettivo per rilevarne l’esistenza. Quando ci chiediamo cosa si provi ad essere un robot o se ci sia un modo in cui il mondo appaia a un robot, i nostri test falliscono (cfr. Blackmore 2003: 19). Messe da parte le questioni relative al riconoscimento della coscienza altrui (gli altri esseri umani, gli animali e i robot), ovvero il problema dei meccanismi attraverso cui arriviamo a fare inferenze sulle altre menti, la Blackmore illustra l’ipotesi di fondo che per sviluppare una forma di coscienza simile alla nostra le macchine artificiali debbano essere innanzi tutto in grado di imitare, proprio come lo siamo noi. Quest’ipotesi, dunque, intende aggirare il cosiddetto hard problem con una mossa chiara e, per così dire, di basso profilo. Essa, cioè, intende non tanto definire essenzialisticamente cosa sia la coscienza, ma piuttosto muovere dall’assunto che il processo di costituzione della nostra mente cosciente sia un meccanismo peculiare di generazione di illusioni funzionale alla fitness della macchina dei memi installata nel no-

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stro cervello (nel senso visto sopra a proposito di Dennett, naturalmente presupposto dalla Blackmore)80. Il sospetto che circonda i teorici della coscienza come illusione deriva dal fatto che la loro posizione è spesso interpretata come una negazione tout court dell’esistenza della coscienza81, benché ci sia parecchia differenza tra dire che la coscienza non è ciò che sembra e dire che essa semplicemente non esiste. Secondo la Blackmore, la Memetica ha la strumentazione concettuale più adatta per fornire la migliore spiegazione della coscienza come illusione. Riassumendo la teoria degli esseri umani come meme machines sviluppata nel suo volume del 1999, la Blackmore osserva che per la questione dell’implementazione di una coscienza illusoria in macchine artificiali occorre tenere presente due aspetti rilevanti di tale teoria: 1) come siamo arrivati ad avere un cervello così grande e così peculiarmente capace (una storia di coevoluzione) e 2) in che senso le nostre menti, il nostro sentimento del sé e le nostre coscienze sono il risultato di una pressione selettiva esercitatasi al livello della competizione tra memi (una storia relativa allo sviluppo). Per quanto riguarda il primo aspetto, richiamandosi a Deacon 199782, la Blackmore osserva che il nostro grande cervello si 80

Per ulteriori dettagli su altre teorie della coscienza come illusione, secondo le quali semplicemente la coscienza non è ciò che sembra essere (un Teatro cartesiano, come lo ha battezzato Dennett), si rimanda a Blackmore 1999 e 2005. In Blackmore 2005, inoltre, si trova una trattazione più estesa delle critiche ad approcci come quelli di Searle, Chalmers, Baars e altri, che nel saggio in esame sono solo accennate e che qui verranno tralasciate. 81 Dennett 2003 e 2005 contengono illustrazioni particolarmente vivide di questo esempio di fraintendimento e la stessa Blackmore qui difende Dennett dall’accusa di essere un eliminativista: cfr. Blackmore 2003: 22. 82 È interessante osservare che né qui né in Blackmore 1999: 164, dove osserva che Deacon sembra vicino ai memetisti, la studiosa inglese nota che Deacon, a sua volta, discutendo la coevoluzione di prodotti culturali e loro ospiti viventi, aveva cooptato in modo del tutto naturale la nozione dawkinsiana di meme: “in un senso importante, manufatti e pratiche sociali si evolvono parallelamente agli ospiti viventi, e non sono semplici epifenomeni. Devono essere riprodotti da una generazione alla successiva e replicati ogni volta che una nuova persona li apprende, li copia, li emula, o deve conformarvisi. Ma proprio perciò è viva la possibilità di novità ed errori, come accade per le ricombinazioni e le mutazioni nell’evoluzione biologica, che, nel tempo, introducono variazioni. In questo processo possono insinuarsi inclinazioni che stabiliscono che cosa viene riprodotto e che cosa no, proprio come la selezione

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è evoluto insieme al nostro linguaggio, nel senso che si è riprogettato per sostenere la capacità linguistica, così come il linguaggio si è adattato ai vincoli biologici del cervello e del corpo. Ma le spiegazioni come quelle di Deacon, osserva la Blackmore, finiscono per indicare nei geni (ovvero nell’adattamento biologico) i beneficiari ultimi di simili processi coevolutivi. La Memetica, invece, individua nei memi i beneficiari sia del nostro grande cervello sia delle nostre abilità linguistiche, perché entrambi sarebbero il risultato di ciò che lei chiama memetic drive (ivi: 23), il cui funzionamento potrebbe essere il seguente: una volta emersa la capacità di imitare, la memosfera in formazione ha creato una pressione selettiva a favore di quelle architetture cerebrali (peraltro biologicamente costose) in grado di favorirne una sempre migliore copiatura e diffusione, il che vuol dire che la pressione selettiva ha premiato i migliori imitatori e propagatori di memi, ovvero individui con un cervello sempre più grande e dotato di un dispositivo per il linguaggio sempre più sofisticato (visto che il linguaggio è stato ed è ancora un potentissimo veicolo per i memi). In una tale prospettiva, i memi competono per la loro fitness, ovvero per produrre sempre più copie di sé stessi, e il nesso con la nostra fitness non è necessario, ciò che spiega la grande fortuna di parecchi memi tutt’altro che benigni per i nostri interessi biologici (su questo punto, già sottolineato in Dawkins 1976, lo stesso Dennett insiste tutte le volte che si trova a parlare di memi). Poiché i replicatori di successo sono quelli dotati di maggiore longevità, fedeltà e fecondità, strutture culturali come le naturale favorisce specifici tratti genetici. I bit di informazione culturale copiata (soprannominati da Richard Dawkins ‘memi’, l’analogo culturale dei geni) che accrescono la probabilità di essere riprodotti persisteranno più a lungo, e nel tempo si diffonderanno di più e saranno usati da più individui, a differenza dei bit che non potenziano la propria riproduzione. Le fonti di selezione che determinano cosa viene trasmesso e cosa no alle generazioni future non solo includono l’utilità dei memi e dei loro effetti, ma anche le inclinazioni imposte dalla loro modalità di trasmissione (le menti umane) e le peculiarità dei loro ecosistemi culturali (sistemi di altri memi)” (Deacon 1997: 95). Ed è strano che nel suo pur corposo volume Deacon, nel sostenere la tesi della coevoluzione cervello-linguaggio, non trovi mai un’occasione per citare Popper, il quale per esempio ha scritto: “In che modo è emerso il cervello? Possiamo solo avanzare delle ipotesi. Io suppongo che (…) sia stato l’emergere del linguaggio umano a creare la pressione selettiva sotto la quale si è formata la corteccia cerebrale e, con essa, la coscienza umana di sé” (Popper e Eccles 1977: 45).

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stesse lingue naturali, la musica e la religione, tutte basate su processi che prediligono meccanismi come la ricorsività e la fedeltà di copiatura sono state progettate dalla stessa evoluzione memetica e favorite selettivamente proprio perché si rivelano delle gru (nel senso preciso di Dennett 1995) particolarmente utili agli stessi memi per prosperare nella memosfera. Così come i geni si sono coevoluti con le macchine da loro stessi progettate per la loro replicazione (le cellule), i memi si sono coevoluti con i cervelli, che sono le macchine biologiche ideali per la loro creazione, copiatura e diffusione. E il processo è ancora in corso, perché i memi spingono i cervelli a creare altri veicoli (a loro volta dei complessi di memi) in cui installarsi, replicarsi sempre più fedelmente e circolare: «More recent examples include the invention of ever better meme spreading devices from roads and railways to the telegraph, telephone and email. In each case the products copied helped spread the copying machinery which in turn made more products possible and so on. From the memes’ point of view the internet is an obvious step in improving meme-copying facilities. (...) It is in this context that I want to look at the possible development of conscious machines» (ivi: 24). Per quanto riguarda il secondo aspetto, la Blackmore, sulla scorta anche di Dennett 1991a e 1995, ribadisce le idee sostenute nel libro del 1999: il selfplex, ovvero il complesso di memi che costituisce il nostro sé, è una costruzione culturale di cui beneficiano soprattutto i memi (chi sopravvaluta la funzione biologica della mente cosciente, tende a dimenticare che di essa è priva la stragrande maggioranza delle specie viventi, le quali se la cavano benissimo anche senza pensare cosa fare domani, senza sviluppare dibattiti sull’immortalità dell’anima e soprattutto senza chiacchierare). Imparare a parlare comporta soprattutto imparare a dire “Io” e a diventare il centro di intenzioni, volizioni, credenze ecc. (“Io voglio x”, “Io credo x” e così via). A sua volta, imparare ad essere un io (come direbbe Popper) è un processo che i memi favoriscono perché le persone sono strutture stabili che facilitano la circolazione dei memi: «saying a sentence such as ‘I believe x’ is more likely to get ‘x’ replicated than simply saying ‘x’. Memes that can become my desires, my beliefs, my preferences, my ideas and so on are more likely to be talked about by this physical body, and therefore stand a better chance of replication. The result is the construction of an increasingly elaborate memetic self. In other words, the self is a vast memeplex; the selfplex» (ivi: 25). È questo

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il meccanismo attraverso il quale sorgono il sé come centro di gravità narrativa e l’illusione dell’utente, come li ha chiamati Dennett. Nel riconoscere il debito, però, la Blackmore aggiunge che la sua prospettiva è più pessimistica rispetto a quella di Dennett. Mentre infatti per quest’ultimo il sé è un’illusione benigna, in quanto svolge una funzione essenziale per la gestione delle relazioni sociali e soprattutto per l’attribuzione della responsabilità morale83, per la Blackmore, suggestionata dai richiami della spiritualità orientale, il sé è un’illusione maligna, perché è all’origine dell’egoismo, dell’avidità e di ogni infelicità derivante dalla frustrazione delle aspettative incentrate sulla propria persona in senso sia fisico che psichico. Da qui segue il secondo, e più importante, punto di disaccordo con Dennett. Secondo la Blackmore è un errore definire la coscienza come un complesso di memi (come fa Dennett nel passo di Coscienza citato nel precedente paragrafo), perché questo implica che senza memi non c’è coscienza, mentre le pratiche di meditazione suggeriscono che si possa pervenire a stati di coscienza diversi raggiungibili attraverso un processo di liberazione progressiva dal selfplex: è quest’ultimo, in quanto prodotto illusorio, che coincide con i memi che lo costituiscono, non la coscienza in sé o le altre possibili forme di coscienza. Ma la questione è ancora aperta: «This is, however, a big ‘if’, and raises all the problems associated with first-person exploration of consciousness (...). At present we should not think of this so much as evidence against Dennett’s view as a motivation for further research and self-exploration. It might turn out that if meditation is even more deeply pursued and the selfplex is completely dismantled, then all consciousness does cease and Dennett is correct» (ibid.). 83

Non è un caso che le due menzioni esplicite di Blackmore 1999 in Dennett 2003 (254 e 382) siano sottilmente critiche (soprattutto la seconda) proprio su questo punto relativo alla responsabilità morale (la Blackmore rifiuta l’ipotesi dennettiana che ci sia un libero arbitrio moralmente desiderabile, ancorché culturalmente costruito). In tal senso, è del tutto plausibile che tra i “wouldbe memeticists” che sottovalutano il ruolo causale del pensiero dell’individuo, criticati da Dennett alle pp. 248-249 senza fare nomi, ci sia anche la Blackmore: “le baruffe che avvengono tra i memi nei cervelli possono essere ignorate (in fondo, tutto è così incasinato e complicato), e possiamo starcene seduti in disparte a elencare i nomi degli eventuali vincitori e sconfitti, ma non dobbiamo dimenticarci che le lotte si svolgono effettivamente. Il pensiero è un fatto, e il modo in cui si realizza influenza pure ciò che i memi fanno”. Per contro, si vedano gli ultimi due capitoli di Blackmore 1999.

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I memi, quindi, potrebbero essere i responsabili delle nostre teorie illusorie sulla coscienza, soprattutto nella misura in cui queste insistono sulla centralità di un sé libero e in grado di guidare il corpo, come il famoso fantasma nella macchina. Se così stanno le cose, allora una colonia di robot in grado di assorbire e scambiarsi memi per imitazione potrebbe ripercorrere alcune delle nostre false piste cognitive sui sé coscienti come unità discrete e persistenti (se non addirittura immortali). Le macchine da prendere in considerazione in un siffatto esperimento mentale, secondo la Blackmore, sono di due tipi: quelle che si imitano a vicenda e quelle che imitano gli esseri umani. Queste ultime pongono dei problemi interessanti perché prima facie sembrerebbe ovvio supporre che esse svilupperebbero una coscienza illusoria simile alla nostra, ma l’evoluzione pone dei vincoli biologici. Noi siamo progettati per mettere in atto dei comportamenti imitativi altamente selettivi e guidati da interessi precisi relativi a certi nostri bisogni primari e culturali. Da questo punto di vista, macchine mimetiche e memetiche artificiali dotate dei nostri sistemi percettivi e cognitivi di filtraggio sarebbero troppo difficili da programmare e in ogni caso sarebbe un compito inutile. Più interessante, invece, è il caso di macchine che ci imitano ma sulla base di filtri legati ai loro tipici talenti di macchine artificiali. In tal caso, compenserebbero l’assenza dei nostri bisogni e interessi tipici (gossip, food and sex, dice la Blackmore, ivi: 27) con le loro maggiori capacità di calcolo e memoria, ciò che determinerebbe sì lo sviluppo di sé illusori, ma di un genere per noi imprevedibile. Potrebbero persino porsi domande sulle differenze tra noi e loro e cominciare a considerarci così poco intelligenti e carenti nelle conoscenze da concepire un test di Turing per noi per stabilire se siamo esseri coscienti. La coesistenza con macchine del genere influenzerebbe profondamente l’evoluzione memetico-culturale della regione del Mondo 3 (per dirla con Popper) che condividiamo con loro. Per quanto riguarda invece le macchine progettate per imitarsi a vicenda, si tratterebbe di un ottimo banco di prova per certe assunzioni fondamentali della Memetica. Essa, per esempio, prevede che perché un linguaggio nasca e si evolva bastano delle macchine in grado di imitare e scambiarsi memi, in questo distinguendosi da quelle teorie (come ad esempio quella di Deacon) che postulano l’attraversamento della cosiddetta “soglia simbolica” come pre-condizione per lo sviluppo del linguaggio. Per la teoria

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memetica l’unica soglia da attraversare è quella dell’imitazione e per servire allo scopo basterebbero dei copybots capaci di imitare suoni. A tal proposito la Blackmore dà conto di una serie di esperimenti effettuati in tal senso con robot in grado di riprodurre casualmente dei suoni da un repertorio memorizzato e di ripetere per imitazione quelli riconosciuti. Attraverso misurazioni statistiche su gruppi di copybots dotati di sistemi percettivi elementari di riconoscimento, si è visto che da queste semplici basi è possibile innescare processi evolutivi di auto-organizzazione in grado di generare modelli rudimentali di lessico, sintassi e perfino semantica. Il problema è capire se si potrà arrivare al punto di dotare simili macchine di apparati percettivi e di categorizzazione così raffinati da metterli nelle condizione di sviluppare lingue abbastanza articolate da innescare l’autoriferimento e quindi la possibilità di costruire selfplex, narrazioni centrate su un “io” e da ultimo coscienze illusorie. La distanza della loro dotazione percettiva e concettuale dalla nostra sarebbe inversamente proporzionale alla nostra capacità di capire le loro lingue (potenzialmente innumerevoli), e questo renderebbe molto difficile il problema della lettura della loro mente e quindi dell’attribuzione di una qualche forma per noi comprensibile di coscienza. Ma le capacità di imitazione delle macchine è ancora troppo grossolana per poter rendere questi progetti realizzabili nel breve periodo. Una pista alternativa è offerta dalla rete, che mette a disposizione la possibilità di robot collegati via internet e dotati di capacità di replicazione ad altissimo grado di fedeltà e ad altissima velocità. Si tratterebbe allora di robot disincarnati il cui eventuale selfplex non avrebbe (e non sarebbe) un corpo con le sue proprietà ma sarebbe puramente cosciente e quindi dotato di un tipo assai peculiare di illusione. Senza contare, avverte la Blackmore in conclusione, che queste speculazioni si basano su un’assunzione che non è necessaria, ovvero che il problema sia un nostro problema di progettazione. L’evoluzione memetica, infatti, potrebbe aprire scenari (peraltro già ampiamente esplorati dalla fantascienza) in cui le macchine replicanti da noi progettate acquisiscano capacità spiccate di auto-replicazione, ciò che porterebbe i memi a fare a meno della vecchia macchina biologica di replicazione da loro messa a punto migliaia di anni fa.84 84

A tal riguardo si può ricordare che oggi, a oltre dieci anni di distanza, le fantasie della Blackmore sull’evoluzione memetica e sulle ibridazioni uomo-

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Il saggio di memetica cognitiva di Cristiano Castelfranchi, pubblicato sul JoM-EMIT nel 2001, merita un esame attento in questo contesto per almeno due ragioni: innanzi tutto, esso mette bene in luce il ruolo della mente come ambiente memico e pertanto si muove nell’ambito del tema principale del presente capitolo; inoltre, trattando della trasmissione culturale, esso fornisce un raccordo con i problemi che verranno affrontati nel prossimo capitolo. La tesi di fondo di Castelfranchi è che la Memetica deve muovere dall’agente cognitivo (cognitive agent), la cui mente è il primo ambiente selettivo per i memi. Solo esaminando i vincoli cognitivi che presiedono all’assorbimento, all’accettazione e alla ritrasmissione dei memi, è possibile sia comprendere gli aspetti cruciali dell’evoluzione culturale in chiave darwiniana sia giustificare la pretesa della Memetica di porsi come modello esplicativo dei processi della trasmissione delle idee. Secondo Castelfranchi, un agente cognitivo gode, rispetto all’influenza sociale, di un grado di autonomia sufficiente a consentirgli di porsi come primo centro rilevante di smistamento di memi guidato da vincoli e scopi. Sulla base del modello della trasmissione culturale proposto da Michael Tomasello, in cui vengono posti in risalto i ruoli dei processi di interpretazione e di comprensione dei dati in ingresso, Castelfranchi individua tre diversi meccanismi specifici che presiedono all’adozione finale di un meme-comportamento: 1) l’adozione strumentale, che si basa su valutazioni di utilità e di ragionamenti sul rapporto mezzo-fine; 2) l’adozione normativa, in cui l’agente cognitivo è guidato dalle prescrizioni sociali e dal suo grado di adesione conformistica alle norme; 3) il meccanismo dell’identità sociale, in cui l’agente è mosso dalla propensione ad imitare i codici memico-comportamentali dei gruppi entro cui sceglie di definire la propria identità. Ciascuno di questi meccanismi consente di inquadrare nel modo corretto l’interpretazione cognitiva dei comportamenti osservati e di valutare le motivazioni che stanno alla base della loro diffusione. Le norme, per esempio, hanno un ruolo fondamentale come dispositivi tecnologici (a loro volta dei memi: si pensi all’esempio dennettiano dell’“educazione” come meme che a sua macchina (peraltro già presenti in nuce in Dawkins 1986: 221) si sono spinte molto oltre sulla base degli ultimi sviluppi tecnologici nel campo informatico e neuroscientifico: cfr. ad es. Nicolelis 2011 e Kaku 2014, due fughe audacissime sugli scenari futuri che si aprono per il cervello e per la mente cosciente.

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volta è un dispositivo che favorisce la trasmissione dei memi) che favoriscono la propagazione e la regolazione dei memi, e inoltre vanno distinti i principi e i vincoli cognitivi che sostengono la diffusione da un lato del know how e dall’altro del know that. Per Castelfranchi, dunque, come si legge nell’introduzione, «to understand cultural evolution it is necessary to identify the cognitive principles of the success or selection of memes within minds. Memetics needs cognitive modelling». Far fare o credere a qualcun altro quel che si vuole è un compito non semplice, come sanno bene quelli che si occupano di persuasione politica e commerciale. Questo perché, nota Castelfranchi, l’essere umano è cognitivamente autonomo e per vincere i suoi vincoli cognitivi occorre esercitare vari tipi di pressione che, su una scala di forza ascendente, vanno dall’educazione alla tortura. Per poter essere accettati e ritrasmessi da un agente cognitivo, dunque, i memi devono attraversare un percorso a ostacoli che comprende desideri, credenze, motivazioni, attenzione, memoria e altri processi cognitivi che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio ambiente selettivo (come ricordano sempre Dawkins, Dennett e Blackmore, i memi devono affrontare una competizione molto dura per entrare in un cervello e sfruttarne le risorse limitate). È importante inoltre osservare che, per Castelfranchi, “cognitivo” è un aggettivo che va inteso nel senso ampio e neutrale di “mentale”, senza nessi necessari con la sfera della razionalità e della coscienza. Questo perché la competizione memica che si svolge nell’ambiente mentale spesso sfugge al controllo della razionalità e della consapevolezza, così come accade per i processi di imitazione e contagio. Consapevole dei limiti del modello dovuti ad esigenze di astrattezza (che per esempio lasciano fuori le componenti emotive nei processi di selezione memica interna), Castelfranchi precisa che l’aspetto essenziale del suo approccio risiede nell’enfasi posta sull’interpretazione mentale e sulla rappresentazione interna in termini dichiarativi come elementi cruciali del meccanismo di selezione memetica (cfr. Castelfranchi 2001: § 1.1). Secondo Castelfranchi, per affrontare la questione della trasmissione culturale la Memetica può fare appello alla particolare versione del cosiddetto ratchet effect presente in Tomasello 1999. Quando un certo tratto culturale viene inventato ed è trasmissibile, esso passa per imitazione alla generazione successiva

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bloccando la ruota sul dente d’arresto, fissando eventuali mutazioni e consentendo ai riceventi di non dover ripartire da capo (altrimenti ogni generazione, come si suole dire, dovrebbe reinventare la ruota). Secondo Castelfranchi, però, il modello di Tomasello insiste troppo sulla trasmissione diacronica da una generazione all’altra e sull’imitazione, e si concentra di conseguenza sull’apprendimento della cultura di appartenenza da parte dei bambini (child cultural learning: cfr. l’Appendice del saggio), trascurando la trasmissione orizzontale sincronica e altre forme di trasmissione cognitiva (come quella basata su “beliefs + motives”, § 1.2). Le due forme di trasmissione, in realtà, sono interdipendenti: la capacità di un tratto culturale di diffondersi rapidamente e orizzontalmente incide sulla probabilità della sua trasmissione e permanenza in verticale; viceversa, la trasmissione efficiente in verticale da una generazione all’altra di un tratto incide causalmente sulla propagazione in orizzontale dello stesso. Inoltre, modellizzare i motivi per cui un agente cognitivo dovrebbe adottare e ritrasmettere un tratto culturale, o una rappresentazione, o ancora un meme, consente di arricchire i meccanismi di trasmissione, non limitandoli solo all’imitazione (anche se, come abbiamo visto, la Blackmore insiste sull’imitazione intendendola come un meccanismo complesso che include le componenti cognitive interpretative e di scelta di cui parla Castelfranchi). Le caratteristiche cruciali di un agente cognitivo, per Castelfranchi, sono tre: a) cognizione (cognitivism): di fronte al flusso di informazioni, eventi e situazioni, l’agente cognitivo è attivamente impegnato in un’opera di selezione sulla base di un apparato di credenze che attribuisce valore e senso; b) ragioni (reasons): sulla base delle credenze, l’agente cognitivo sceglie, insegue e abbandona obiettivi, ovvero fa cose per qualche ragione; c) scopi (purposes): un agente cognitivo opera sulla base di rappresentazioni mentali relative a risultati attesi ed è da esse stesse mosso all’azione. Questo quadro di assunzioni sulle caratteristiche di base di un agente cognitivo consente a Castelfranchi di proporre un modello semplice del processo in qualche modo a spirale che va dall’incontro con un meme-comportamento alla sua esternalizzazione e ritrasmissione (§ 1.3).

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Figura II.3. Il modello generale del processo di acquisizione/ritrasmissione di un meme proposto in Castelfranchi 2001: § 1.3.

Come accennato, i meccanismi di adozione e replica dei memi sono fondamentalmente tre e costituiscono casi diversi di applicazione di questo modello. Il livello cruciale è naturalmente quello dell’interpretazione/comprensione, perché i tre meccanismi dell’adozione strumentale, dell’adozione normativa e dell’identità sociale si diramano dai diversi modi di intendere e interpretare un comportamento osservato dall’agente cognitivo. Castelfranchi propone di prendere l’esempio di un agente cognitivo che si trova in un paese straniero di cultura diversa e si accorge che gli abitanti usano coltello e forchetta per sbucciare la frutta. Dal punto di vista dell’adozione strumentale, siamo di fronte a un tipico meccanismo di problem solving relativo alla trasmissione del know how che si applica ai diversi tipi di mezzi, come azioni, piani, procedure, ricette, regole, strumenti, ecc. Qui adottare un meme (sotto forma di una rappresentazione, un comportamento o uno strumento) da qualcuno è una forma di imitazione che non è una mera eco, perché si basa su un meccanismo

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di comprensione degli scopi del modello. Castelfranchi formalizza il processo per cui un adottatore A accetta di servirsi del tratto x per fare p del modello M in questo modo (§ 2): - Bel A (Use M x for p) which implies that Bel A (Goal M p) and Bel A (Bel M (Good-for x p)) - Bel A (Good-for x p) (shared evaluation of the mean) - Bel A for-all y (Better x y for p) - Goal A p

Ovvero, dato che “Bel” sta per Believes: - A crede che (M usa x per fare p) e ciò implica che A crede (M ha lo scopo di fare p) e che A crede che (M crede che (x va bene per fare p) - A crede che (x va bene per fare p) (valutazione condivisa dello strumento) - A crede che per ogni altro y (x è meglio di y per fare p) - A mira a fare p.

In tal modo, A acquisisce nel suo repertorio di know how la credenza che un certo tratto sia il modo migliore per raggiungere un certo scopo e così, al momento opportuno, farà come il modello. Nell’esempio della frutta, l’agente cognitivo comprende che quel modo di mangiare la frutta serve allo scopo di tenere le mani pulite, e così finisce per adottarlo. Cascate di procedure siffatte, nota Castelfranchi anche sulla scorta di Tomasello, sono all’origine di quel settore della cultura costituito dalle istituzioni costruite per cooperazione sociale intenzionale. Nel caso dell’adozione normativa si entra in un aspetto di solito sottovalutato della trasmissione culturale. Rispetto alla precedente, che è il risultato della valutazione strumentale da parte di un agente di una determinata pratica al fine di raggiungere uno scopo circoscritto e contingente, qui siamo sul piano del carattere prescrittivo di una determinata tradizione culturale nel suo complesso. Un gruppo sociale si aspetta che ciascun agente adotti certi memi per questioni che riguardano la coesione e l’identità. Normalmente, soddisfare queste aspettative conformandosi alle pratiche tradizionali del gruppo è il modo che un membro del gruppo ha per fare il proprio ingresso in una cultura. Egli, inoltre, comunica implicitamente la propria intenzione di assimilare e rispettare la norma che regola un certo comportamento. Anche qui, dato il solito A, la norma N e il gruppo Y, il meccanismo è formalizzabile (§ 3):

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- Bel A (Norm x on group Y) - Bel A (member A of Y) - Goal A (Adoption of N impinging on A) - Goal A (Adopt A x)

Nel caso dell’esempio, A può scoprire che quel modo di mangiare la frutta è legato a pratiche religiose divenute norme sociali e quindi adottarlo non ha solo un significato strumentale ma è un modo di rispettare una cultura. La funzione memetica di aderire a una norma si trasforma in un’intenzione esplicita nella mente dell’agente cognitivo quando questi la rispetta in quanto tale, avendo introiettato una sorta di imperativo categorico kantiano che fa del rispetto delle norme un fine in sé. In tal senso, come accennato, le norme sono meta-memi, cioè memi che facilitano la diffusione di altri memi, come scopi, idee e comportamenti. Qui Castelfranchi riecheggia un punto che abbiamo visto nel passo di Dennett 1991a: 233 citato sopra: «le vie di ingresso e di uscita sono modificate per adattarsi alle situazioni locali e sono rafforzate da vari congegni artificiali che potenziano la fedeltà e la prolissità di replicazione». Le norme introiettate sono memi di secondo livello che creano nell’agente cognitivo quei vincoli in grado di regolare il traffico dei memi in entrata e in uscita, trasformandolo in un ambiente selettivo che favorisce il prosperare di certi memi a discapito di altri: «Consider such example as the attitude towards contraceptives in catholic countries and its effects, or the moral values against the use of drugs acting as defensive mechanisms in some social groups, or the resistance to the penetration of the western ‘civilisation’ in Islamic countries. Moral barriers (prohibitions) can be very effective» (§ 3.1). Il meccanismo dell’identità sociale e la comprensione delle menti altrui adottando l’atteggiamento intenzionale sono riconosciuti (per esempio da Tomasello) come componenti di rilievo nel processo di trasmissione della cultura. Secondo Castelfranchi, però, l’approccio memetico è in grado di specificare meglio il meccanismo di scambio comunicativo. Non si tratta tanto di attribuire stati mentali agli altri per assimilarli a noi, perché questo è possibile farlo (specialmente nel caso degli adulti) anche senza mettere in gioco strategie come l’empatia e la proiezione. Più importante per lo scambio di memi è il movimento opposto: è

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l’agente cognitivo che vuole essere come certi altri, vuole essere accettato come uno di loro e cerca di condividerne l’identità assorbendone i memi identificativi. Esternalizzando poi i memi assorbiti, cioè facendoli entrare nel circuito del comportamento manifesto, l’agente segnala l’intenzione di essere assimilato e di essere riconosciuto come parte del gruppo. Nell’esempio della frutta, se l’agente crede che il comportamento osservato sia il segno distintivo dell’appartenenza a un gruppo (per esempio una élite), può voler esserne un membro e decidere di esternalizzare nel comportamento il meme della frutta sbucciata con le posate, dopo averlo assorbito. A questo livello emerge la questione delicata dell’ostilità, perché identificarsi con un gruppo può implicare automaticamente la costruzione di un nemico o la possibilità per l’agente di essere percepito come tale da qualcun altro (cfr. § 4.1). Fermo restando che il principale fattore di diffusione passa attraverso le menti individuali degli agenti cognitivi di una popolazione, il grado di diffusione di un certo tratto culturale in quest’ultima può rappresentare di per sé un ambiente selettivo, soprattutto quando si è di fronte a situazioni eccezionali. Per esempio, in una popolazione che ha subito una catastrofe demografica (per una ragione qualsiasi), certi memi hanno una probabilità di sopravvivere direttamente proporzionale al grado di diffusione che avevano prima dell’evento critico. Oltre ai vincoli cognitivi che regolano la selezione di modelli di know how nella mente mimetica e memetica degli agenti, vanno considerati i vincoli che regolano la diffusione delle credenze in quanto tali, ovvero i meccanismi di trasmissione del know that relativo a conoscenze di fatto, teorie scientifiche, valori, ecc. In questo caso gli agenti valutano le informazioni da acquisire ed eventualmente ritrasmettere sulla base di una serie di valutazioni di coerenza con un corpus di memeplessi già acquisiti e in possesso di un sostegno empirico indipendente. Castelfranchi, su questo punto, si dichiara compatibilista rispetto ai due approcci filosofici tradizionali relativi alla cosiddetta revisione della credenza (belief revision: § 6). Tra l’approccio fondazionalista e quello coerentista non ci può essere un rapporto di esclusione reciproca, perché si tratta di strategie cognitive entrambe a disposizione di uno stesso agente a seconda dei casi. Quello che conta è non confondere la memorizzazione di qualcosa con l’adesione epistemica ad essa, visto che si può non credere in qualcosa che si ricorda e dimenticare qualcosa in cui si crede.

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La valutazione delle credenze cui aderire o meno segue una serie di criteri: innanzi tutto si crede in qualcosa se si hanno motivi per farlo, e in genere questi motivi hanno a che vedere con l’affidabilità della fonte. Un altro è la convergenza delle fonti, perché l’integrazione delle informazioni che provengono da più fonti è un meccanismo cognitivo fondamentale che sta dietro la decisione di credere. Castelfranchi sottolinea l’importanza di distinguere, nel processo di revisione delle credenze, tra la loro importanza e la loro credibilità, perché le due variabili sono indipendenti: «By ‘important’ I mean that it will explain a lot; it will be very useful for understanding and integrating other information. ‘Credible’ means that I have a lot of evidence, sources, supports to believe it. Clearly enough the two aspects are distinct. An integrated belief in a belief network is in fact both supported and supporting: I call credibility how much it is supported by external or by internal sources (‘plausibility’), and importance how much it supports: its explanatory power» (§ 6.2). L’accettazione di una credenza può anche dipendere da altri fattori, come la rilevanza e la simpatia. La prima fa riferimento all’utilità che una credenza può avere per i nostri interessi e obiettivi, mentre la seconda è legata al fatto che una credenza può frustrare o soddisfare un determinato obiettivo, è cioè piacevole o spiacevole per le nostre aspettative. L’adozione, infatti, non è un meccanismo esclusivamente razionale, perché può essere influenzata da reazioni emotive legate a desideri profondamente radicati, ai meccanismi di difesa e all’auto-inganno, che non di rado coinvolgono un intero gruppo spingendo a sganciare la condivisione delle credenze dal loro valore di verità, soprattutto quando l’adesione a certe credenze è un fattore di integrazione: «it is important to understand that those two types of function (validity of beliefs vs. social coordination) are rather independent of each other. Shared beliefs can be completely false but work quite well as culture common ground and group ‘glue’. This function can be largely independent of the truth of what is mutually believed» (§ 6.4). Alla luce di tutto ciò, Castelfranchi conclude proponendo un approfondimento dello schema iniziale di assorbimento e diffusione di un tratto culturale che tenga conto del fatto che un agente non è un semplice veicolo passivo, ma una componente attiva di un meccanismo decisionale complesso in cui valutazioni

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a cascata innescano un processo circolare che mette in comunicazione l’individuo con il contesto sociale e che si costituisce come una sorta di percorso selettivo obbligato per i memi in competizione (cfr. § 7). Una caratteristica interessante di questo modello è il suo potere predittivo rispetto a certi effetti di macro-livello. Come si vede, infatti, la trasmissione ha componenti sia intenzionali, frutto di scelte consapevoli (trasmissione attiva, diffusione direzionata), sia non intenzionali (imitazione passiva, riverbero casuale). Oltre al fatto che taluni settori di una popolazione possono risultare più o meno “viscosi” per certi memi in funzione dei vincoli in azione visti sopra, il ruolo attivo degli agenti cognitivi nella propagazione dei memi comporta una velocità di diffusione maggiore rispetto a quella che dipende da osservazioni casuali in un ambiente socio-culturale dove gli agenti risultino indifferenti alla ritrasmissione dei comportamenti adottati. In tal senso, una Memetica fondata solo sul “contagio” meccanico delle idee85, sostiene Castelfranchi, non può funzionare.

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L’allusione velata sembra essere rivolta a Lynch 1996, anche se non è mai citato esplicitamente; si noti inoltre che Castelfranchi (cfr. nota 1 e bibliografia) ha presente l’epidemiologia di Sperber, di cui diremo ampiamente nel prossimo capitolo, anche se non la discute.

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Figura II.4. Il modello dettagliato del processo di acquisizione e ritrasmissione di un meme proposto in Castelfranchi 2001: § 7.

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CAPITOLO TERZO

DUPLICAZIONE E PROPAGAZIONE

Our greatest ideas, like our evolutionary genes, need form only once, by accident, and then can spread from brain to brain. [Minsky 1985: 299]

3.1. I memi e gli agenti di Minsky Il rapporto della letteratura memetica con un testo capitale delle scienze cognitive speculative come La società della mente di Marvin Minsky ha degli aspetti interessanti che meritano di essere indagati da vicino. In questo paragrafo vedremo come Minsky 1985 possa essere fatto interagire proficuamente con la Memetica, malgrado delinei una famiglia di proposte teoriche indipendenti e autonome; esso, infatti, non solo contiene importanti prefigurazioni funzionaliste di scoperte neuroscientifiche successive (come il sistema specchio86), ma può fornire alla teoria dei memi alcuni sostegni concettuali in grado di metterla nelle condizioni di difendersi meglio da talune obiezioni classiche, su cui torneremo nel paragrafo successivo. Peraltro, pur sfiorando più volte la nozione di meme persino sul piano terminologico, Minsky non la nomina mai esplicitamente nel suo libro; eppure all’epoca della 86

Si allude in particolare al seguente passo del terzo paragrafo dell’appendice biologica del libro: “Alcune di queste connessioni potrebbero dotarci di certe «empatie», facendoci per esempio esultare quando riconosciamo i gesti di gioia di un’altra persona” (Minsky 1985: 616). Minsky sta parlando delle connessioni neuronali e funzionali geneticamente programmate tra i riconoscitori percettivi di certe traiettorie temporali (relative alla visione, all’udito e al tatto) e le corrispondenti reazioni emotive, per cui, ad esempio, il rilevamento visivo di un rapido movimento degli arti in un’altra persona, se combinato con altre informazioni omogenee (voce ringhiosa e schiaffo), attiva le reazioni emotive negative della paura, dell’odio e della collera (cfr. ivi: 615).

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sua stesura egli si trovava immerso in un clima di relazioni culturali e personali che lo esponeva particolarmente alla ricezione del meme del “meme” (si pensi al rapporto con Hofstadter, che nei primi anni Ottanta, come abbiamo visto, era uno dei principali vettori della Memetica87). Minsky è tra le fonti teoriche principali di Coscienza di Dennett88, come dimostrano soprattutto la collocazione e l’uso delle numerose citazioni tratte da La società della mente. Alcune idee dennettiane cruciali sull’architettura della mente, come il carattere distribuito delle attività cognitive, le “molteplici versioni”, il pandemonio di homunculi stupidi che svolgono il lavoro di basso livello, la discontinuità della coscienza e il Sé come costruzione narrativa stratificata si ricollegano a luoghi precisi del libro di Minsky, che Dennett indica sempre in maniera puntuale89. Tuttavia, solo in un caso Dennett confronta esplicitamente i memi con gli agenti di Minsky, e lo fa di passaggio in un contesto in cui sta criticando sia Fodor che i suoi critici: «Molti di quegli stessi teorici si sono mostrati tra il tiepido e l’ostile nei confronti degli Agenti di Marvin Minsky, che formano La società della mente (1985). Gli Agenti di Minsky sono homunculi di tutte le dimensioni, dal gigantesco specialista con talenti così elaborati da assomigliare ai moduli fodoriani, fino al piccolo agente delle dimensioni di un meme (polinemi, micronemi, agenti censori, agenti soppressori, ed altri ancora). Sembra troppo facile, pensano gli scettici, postulare una banda di agenti fatti su misura per quell’incarico ogni volta che c’è qualcosa da fare» (Dennett 1991a: 292).

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Si vedano ad esempio le righe dedicate a Hofstadter nel poscritto dei ringraziamenti: “Douglas Hofstadter mi ha dato una valutazione della teoria nel suo complesso e mi ha convinto ad apportarvi parecchie modifiche sostanziali” (Minsky 1985: 642). 88 Minsky è citato nella “Prefazione” tra coloro i quali “hanno fornito preziosi consigli su vari capitoli” (Dennett 1991a: 8). 89 A voler essere pignoli, c’è forse un caso in cui Dennett dimentica di indicare la fonte. Allorché propone una spiegazione del meccanismo percettivo che ci consente di vedere nel modo più economico i numerosi volti di Marilyn Monroe impressi in piccoli riquadri regolari (nello stile di Andy Warhol) sulla carta che ricopre le pareti di una stanza (cfr. ivi: 393-394), Dennett non rimanda a un passo molto simile che costituisce l’ultimo capoverso del § 25.6 di Minsky 1985; ed è significativo che poco più avanti (ivi: 395 e 398) egli faccia degli importanti riferimenti espliciti al vicino § 25.4 del libro di Minsky.

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Sette anni dopo fu lo stesso Dawkins a fare un non meno rapido riferimento a Minsky in una pagina che, poiché riassume tutte le questioni filosofiche e concettuali qui in gioco, mette conto riportare per esteso (Dawkins 1998: 277): Avevo detto che sarei tornato sull’argomento dell’illusorio homunculus nel cervello; e vi torno sopra non per risolvere il problema della coscienza, impresa che supera di gran lunga le mie capacità, ma per fare un altro confronto tra memi e geni. In Il fenotipo esteso, osservavo che non bisogna dare per scontato l’individuo. Non intendevo “individuo” nel senso di essere conscio, ma nel senso di singolo organismo coerente, circondato da una pelle e concentrato su uno scopo più o meno unitario: sopravvivere e riprodursi. Il singolo organismo, sostenevo, non è fondamentale per la vita, ma emerge quando i geni, che all’inizio dell’evoluzione erano entità distinte e rivali, si unirono in gruppi collaborativi di “cooperatori egoisti”. L’individuo non è propriamente un’illusione: è troppo concreto per esserlo. Ma è un fenomeno secondario e derivato, frutto abborracciato delle azioni di agenti nettamente distinti o addirittura rivali. Non mi soffermerò sul concetto, ma mi limiterò a suggerire, sulla scia di Dennett e della Blackmore, un confronto con i memi. Forse l’“io” soggettivo, la persona che sento di essere, è, come l’individuo, una parziale illusione. La mente è un insieme di agenti sostanzialmente indipendenti o addirittura rivali (non a caso Marvin Minsky, il padre dell’intelligenza artificiale, intitolò nel 1985 il suo libro La società della mente). Siano tali agenti identificabili o no con i memi, intendo dire che la sensazione soggettiva che ci sia “qualcuno lì dentro” è forse solo una vaga illusione emersa in maniera analoga a come il singolo organismo emerse, nel corso dell’evoluzione, dalla cooperazione non sempre facile dei geni.

Il punto del passo di Dawkins che qui preme sottolineare è il seguente: pur lasciando aperta la questione del rapporto tra i memi e gli agenti di Minsky, Dawkins accoglie senz’altro l’idea che la mente vada concepita come una società di agenti (Minsky), come un pandemonio di homunculi memici (Dennett), ovvero come il memeplesso ultimo (Blackmore)90. Un anno prima, tuttavia, in un saggio apparso sul JoMEMIT, Liane Gabora aveva istituito una relazione precisa tra certi memi e un particolare agente che Minsky, nei §§ 27.2 e 27.3,

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In Blackmore 1999 il nome di Minsky compare solo una volta (a p. 3), in relazione a un ben noto aneddoto relativo alla sua attività nel campo dell’intelligenza artificiale: “Un aneddoto molto diffuso (anche se forse apocrifo) racconta che un giorno Marvin Minsky, docente del MIT, assegnò il problema della vista nei computer come progetto estivo ai suoi dottorandi. Sono passati decenni ma il problema è rimasto un problema”.

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chiama “censore” (censor). La circostanza è particolarmente significativa, non solo perché si tratta dell’unico riferimento preciso a Minsky in tutto il JoM-EMIT91, ma anche perché Gabora crea il collegamento in relazione al problema della programmazione cognitiva e culturale dei bambini ad opera dei genitori, un tema su cui Minsky, anche sulla scorta di Freud e Piaget, insiste in continuazione nel suo libro: «Initially an infant is unselective about meme acquisition, since (1) it doesn’t know much about the world yet, so it has no basis for choosing, and (2) its parents have lived long enough to reproduce, so they must be doing something right. However just as importing foreign plants can bring ecological disaster, acquisition of a foreign meme can disrupt the established network of relationships amongst existing memes. Therefore the infant develops mental censors that ward off internalization of potentially disruptive memes. Censors might also be erected when a meme is found to be embarrassing or disturbing or threatening to the self-image (Minsky 1985)» (Gabora 1997). Per Minsky, un censore è un agente più efficace del semplice “soppressore” (suppressor): mentre infatti quest’ultimo intercetta un’idea sbagliata e ne blocca la messa in pratica, il censore agisce sugli stati mentali che precedono l’idea sbagliata, impedendo persino che essa venga alla luce (cfr. Minsky 1985: 539). L’inclusione esplicita del libro di Minsky tra i riferimenti teorici della Memetica, benché senza particolari specificazioni di dettaglio, è opera di Pascal Jouxtel.92 Parlando del carattere autoreferenziale del concetto di meme (è infatti esso stesso un meme, cioè un esempio della sua definizione), egli osserva: «Non vi sorprenderà il fatto che il capitolo 10.7 di La società della mente di Marvin Minsky si intitoli “Il concetto di concetto”. Minsky prende qui ispirazione dalle teorie dell’apprendimento di Jean Piaget e Seymour Papert per proporre un’idea della mente umana come organizzazione gerarchizzata di agenti autonomi e complementari. 91

Neppure Castelfranchi fa mai riferimento a Minsky nel saggio - uscito sul JoM-EMIT - che abbiamo analizzato alla fine del capitolo precedente. Eppure Castelfranchi, come abbiamo visto, faceva ampio uso di nozioni (quali quella di agente cognitivo a quella di decisione di blocco dell’adozione e della trasmissione) in buona parte analoghe a quelle minskiane di agente della mente e soppressore. 92 Il libro di Minsky, in ogni caso, era già stato incluso da Liane Gabora nella sua Bibliography of Memetics, compilata per il JoM-EMIT a partire dal 1997: cfr. http://cfpm.org/jom-emit/biblio/.

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Ogni agente svolge una sola funzione, molto elementare (come chiudere le dita o paragonare gli oggetti), e ogni assemblaggio di agenti dello stesso livello entra naturalmente in competizionecooperazione con gli altri, fino a quando un agente superiore effettua un arbitrato. È interessante pensare che questo livello di arbitrato, che progressivamente risale nella gerarchia del cervello fino a una sorta di “presidenza” che viene chiamata io, è più o meno tutto ciò che fra poco ci resterà della nozione, un po’ logora, di libero arbitrio» (Jouxtel 2005: 60-61). Da questo breve elenco di citazioni sul rapporto tra la Memetica e la teoria delle agenzie mentali di Minsky emerge un quadro piuttosto definito: quest’ultima è percepita tra i memetisti come vicina al loro campo di riflessione e tuttavia sembra mancare un confronto con essa che vada oltre il semplice omaggio al suo prestigioso autore (come abbiamo visto, nel suo pur rapido raffronto tra memi e agenti Dennett è l’unico che accenni alla lussureggiante terminologia di Minsky). Qui si cercherà di delineare un’analisi comparativa più puntuale prendendo le mosse da una precisa sotto-teoria che Minsky enuncia nel § 22.10 e chiama “Re-duplication” theory of speech. Si tratta di una congettura sul comunissimo processo comunicativo umano, tuttora ignoto nei suoi meccanismi neurofisiologici di dettaglio, che porta al trasferimento di un’idea, di un’informazione, di un’immagine ecc. da un cervello a un altro, ovvero da una mente all’altra. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, in particolare in relazione alle posizioni di Blackmore e Castelfranchi, questa è una delle questioni più spinose della Memetica e le versioni più avanzate della teoria tentano di agganciare i processi imitativi all’attività dei neuroni specchio al fine di rendere conto, nel modo scientificamente più plausibile e avvertito, del passaggio dei memi da un cervello all’altro (altro discorso vale per i processi artificiali di duplicazione dei memi per mezzo dei dispositivi tecnologici via via messi a punto dall’uomo). Ebbene, sulla base della propria teoria più generale, Minsky propone un modello funzionale del processo della trasmissione intenzionale che sembra ancora compatibile sia con la Memetica sia con le frontiere più avanzate delle neuroscienze. Con il suo modo di procedere tipico, che muove da situazioni semplicissime della vita ordinaria (un bambino che deve costruire una torre con i blocchetti, una ragazzina che riceve un invito a una festa e porta in dono un aquilone, ecc.), Minsky si

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chiede cosa accada quando Maria deve dire qualcosa a Pietro. Ciò che Maria ha da comunicare a Pietro può intendersi come una struttura p situata da qualche parte nella complessa rete di agenzie che costituisce la mente della ragazza. Il problema che questa deve risolvere è: come riprodurre una copia di p nella mente di Pietro servendosi del linguaggio? Nella comunicazione verbale noi impariamo ad eseguire in modo sempre più automatico una serie di azioni estremamente complesse che possono ridursi a uno schema di questo tipo: l’agenzia linguistica di Maria deve produrre un flusso di parole il cui esito è quello di rappresentare p nella rete di agenzie mentali di Pietro. Più in dettaglio, la descrizione di ciò che potrebbe accadere è appunto ciò che Minsky presenta come teoria della duplicazione: Maria prende a costruire passo per passo una nuova versione di p (chiamiamola q) all’interno della propria mente. Nel far ciò, applicherà diverse operazioni di controllo mnestico per attivare certi isonomi e polinemi. Via via che Maria effettua ognuna di queste operazioni interne, la sua agenzia linguistica sceglie certe espressioni verbali corrispondenti, le quali provocano operazioni simili in Pietro. Di conseguenza Pietro costruisce una struttura simile a q. Per poter fare ciò, Maria deve aver appreso almeno una tecnica espressiva che corrisponda a ciascuna delle operazioni mentali impiegate di frequente. E Pietro deve aver imparato a riconoscere queste tecniche espressive (che chiameremo tattiche grammaticali) e ad usarle per attivare certi isonomi e polinemi corrispondenti (Minsky 1985: 458-459. Corsivi dell’autore).

Poiché in questo passo-chiave compaiono due dei termini tecnici principali coniati da Minsky e poiché, come vedremo meglio in seguito, la sua terminologia non ha avuto particolare fortuna nella letteratura successiva, è opportuno fornire qualche rapida delucidazione, in modo che risulti più evidente anche la curiosa somiglianza del lessico de La società della mente con quello memetico. La prima distinzione fondamentale - basata su metafore amministrative onnipresenti nel testo, il cui riferimento ultimo (ancorché problematico) sono i pattern neuronali - è quella tra agente (agent) e agenzia (agency). Il primo è la particella più semplice (§1.1) della mente, un’entità-processo non mentale in grado di svolgere compiti di basso livello eseguibili anche da una macchina artificiale; la seconda, invece, è una società gerarchicamente

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organizzata di agenti, il cui lavoro è sfruttato per compiti globali che possono essere molto diversi da quelli eseguiti dai singoli agenti. La loro differenza, però, è una questione di prospettiva e di livello di analisi. Usando l’esempio di Costruttore (Builder), un agente complesso composto da agenti sempre più semplici via via che si scende di livello (cominciare, aggiungere, finire; laddove aggiungere può a sua volta comprendere trovare, prendere e mettere; e così via: cfr. § 1.4) e in grado di attivarsi nella mente di un bambino alle prese con la realizzazione di una torre di blocchetti, Minsky illustra con uno schema efficace la relazione concettuale tra agenti e agenzie (cfr. § 1.6).

Un importante tipo di agente strettamente legato ai processi di memorizzazione e recupero dei ricordi è ciò che Minsky chiama “linea K” (K-line, da Knowledge-line: cfr. § 8.1). Quando eseguiamo compiti pratici o strettamente cognitivi di cui per qualche ragione occorre tenere traccia, gli agenti coinvolti vengono marcati da un agente di secondo livello di struttura filiforme (la linea K) che li lega a sé e li riattiva tutti insieme ogni qual volta occorra ripetere l’operazione. È un po’ come fare un elenco delle persone intervenute a una festa ben riuscita in modo da poterle poi richiamare con un minore dispendio di energia: «Quando in seguito attiviamo questa linea K, gli agenti ad essa legati vengono eccitati e ci collocano in uno “stato mentale” molto simile a quello in cui ci trovavamo quando abbiamo risolto quel problema o avuto quell’idea» (ivi: 153). Poiché le linee K possono essere temporanee o permanenti, a seconda che siano coinvolte nei processi di

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memorizzazione rispettivamente a breve o a lungo termine, esse danno luogo alle due più importanti specie di agenti linguistici della teoria (cfr. ad es. i §§ 19.3, 19.5, 22.1 e 22.2): tipi di linee K permanenti sono i “polinemi” (polynemes), mentre tipi di linee K temporanee sono gli “isonomi” (isonomes). La loro differenza fondamentale è legata al diverso effetto che questi agenti hanno sulle agenzie di destinazione, che in genere sono schiere di frames, cioè rappresentazioni mentali schematiche, come moduli vuoti di domanda con terminali di riempimento (un frame per “sedia”, per esempio, avrebbe terminali per specificare il sedile, lo schienale e le gambe: cfr. § 24.2): «Un isonomo ha un effetto analogo, preordinato, su ciascuno dei suoi destinatari. Esso quindi applica la stessa idea a molte cose diverse contemporaneamente. Un polineme ha un effetto diverso, appreso, su ciascuno dei suoi destinatari. Esso quindi connette la stessa cosa a molte idee diverse» (ivi: 442. Corsivi dell’autore). Più in dettaglio, consideriamo gli agenti verbali associati a espressioni come “mela”, “palla da golf” e “fetta di pomodoro”. Ebbene, secondo Minsky tali agenti sono dei polinemi, ovvero delle particolari linee K che, ciascuna con un unico segnale, attivano le agenzie delle proprietà correlate all’oggetto corrispondente facendo loro assumere particolari valori - per esempio di colore, grandezza, materiale e forma - appresi con l’esperienza. Proprio come i politici, dice Minsky, i polinemi appaiono diversi ad ascoltatori diversi: «Per comprendere un polineme, ogni agenzia deve imparare la propria risposta specifica e appropriata. Ogni agenzia deve avere un proprio dizionario o banco di memoria privato che le dica come rispondere a ciascun polineme» (ivi: 388). Nel § 19.5, da cui è tratto il passo appena citato, la situazione descritta è illustrata con lo schema seguente:

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Dal concetto del polineme, poi, discendono quelli del “neme” (neme) e del “microneme” (microneme). Il primo può essere identificato con ciascuna singola uscita dell’agente polinemico (per esempio rosso per “mela” e disco per la “fetta di pomodoro”), e in quanto tale rappresenta un frammento di idea o di stato mentale (cfr. ivi: 654); il secondo, invece, è un tipo di neme che opera a livelli troppo bassi perché le proprietà siano nettamente distinte e le sfumature delle interazioni sono tali che sovente le lingue non hanno termini per esprimerle: «sono quegli indizi interiori di contesto mentale che danno alle attività della nostra mente inclinazioni che solo di rado possiamo esprimere» (ivi: 410). Minsky dedica ai nemi e ai micronemi uno spazio esiguo e pertanto i due concetti rimangono poco perspicui. Nel § 22.2 Minsky introduce la nozione di “isonomo” per indicare qualsiasi agente agisca come un “prenomo” (prenome), che è il tipo di agente connesso con la memoria a breve termine su cui concentra maggiormente la propria attenzione. Il termine è coniato per sottolineare un’analogia funzionale con i pronomi (pronouns) di cui si servono le lingue, che per Minsky «non significano oggetti o parole; essi rappresentano invece concetti, idee o attività che il parlante suppone si svolgano nella mente dell’ascoltatore» (ivi: 422). Per esempio, se diciamo a qualcuno: Vedi quel libro sul tavolo? Portamelo, assumiamo che chi ci ascolta non abbia alcuna difficoltà ad interpretare correttamente il pronome -lo, che in teoria potrebbe anche essere riferito a tavolo. Secondo Minsky, il frame che la frase attiva nella mente dell’ascoltatore si aggancia (nel senso del § 20.4) a un contesto interpretativo che forza l’agenzia Portare a riconoscere come valore da assegnare al terminale Oggetto il libro anziché il tavolo. Ecco, dunque, a cosa si riferiscono i pronomi, e agenzie funzionali come quelle indicate qui con termini come Portare e Oggetto sono esattamente ciò che Minsky chiama prenomi. Per riassumere e meglio illustrare le relazioni precise che intercorrono tra tutte le nozioni fin qui menzionate, si consideri il modo in cui Minsky nel § 24.3 esemplifica il funzionamento del frame mentale che rappresenta e consente di comprendere una frase come (per comodità riportiamo l’esempio dell’edizione italiana, che sostituisce un contesto coerente con la lingua di destinazione all’originale, in cui troviamo Jack e Mary che vanno in macchina da Boston a New York):

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Pietro guidò da Torino a Milano sull’autostrada con Maria In questo caso il frame è una struttura, che Minsky chiama Trans-frame per viaggio, costituita da agenti funzionali (prenomi) come Agente, Origine, Traiettoria, Destinazione e Veicolo. Ciascun prenomo è collegato a un agente riconoscitore (cfr. § 19.6) a due ingressi e a un’uscita. I due ingressi, per ciascun riconoscitore, sono collegati con il relativo prenomo e con il frame del viaggio, mentre l’uscita è il terminale saturato con i polinemi dati dalla frase. In tal modo, per esempio, Origine e frame del viaggio, nella memoria a breve termine, consentono al riconoscitore di attivare Torino nella memoria a lungo termine; lo stesso vale per il prenomo Destinazione e il frame del viaggio in relazione al polineme Milano; e così via, secondo lo schema seguente (cfr. ivi: 481):

Un ultimo punto della teoria di Minsky merita di essere preso in considerazione, perché ci riporta alle teorie a più mondi (come quelle di Popper e Penrose) discusse nel primo capitolo. Nel capitolo 29, sulla base di un’ontologia pluralista quasi di senso comune, Minsky offre un modello dell’adattamento dell’architettura della nostra mente alla necessità di dover navigare in continuazione tra “mondi” diversi. Uno dei compiti cognitivi più importanti in cui è impegnato un bambino è l’affinamento della propensione innata a trattare diversamente i corpi animati e quelli inanimati. E poiché la complessità del compito di acquisizione del buon senso viene in seguito dimenticata (cfr. § 1.5), da adulti finiamo per considerare ovvio, per esempio, che un mobile vada spostato spingendolo, mentre a un essere umano vada chiesto di spostarsi,

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perché nel frattempo siamo diventati degli abilissimi esperti di psicologia popolare, basata sulla ben nota capacità di leggere le menti altrui e di considerare gli altri esseri umani come oggetti mossi da cause interne e sottratte alla vista (cfr. § 29.5). Il mondo fisico e quello sociale, governati da leggi diversissime, non sono i soli tra cui ci muoviamo, perché le sfere principali, sostiene Minsky, sono almeno tre. Se volessimo raccogliere in un immaginario libro totale everything about the universe, esso avrebbe una struttura come quella della figura III.4.

L’aspetto dello schema del § 29.1 sul quale Minsky invita a rivolgere l’attenzione è costituito dal fatto che le relazioni spaziali tra le righe e le pagine del libro immaginario sono isomorfe alle relazioni logico-ontologiche all’interno di ciascuna sfera e tra una sfera e l’altra. Questo spiega perché è molto più facile comprendere il rapporto che sussiste tra un mattone e un muro (si tratta di enti che appartengono a righe ontologiche diverse della stessa “pagina” fisica) che comprendere il rapporto che sussiste tra un neurone e un pensiero (si tratta di enti che appartengono a pagine diverse del libro del mondo): «Perché comprendere in che modo i muri sono in relazione con i mattoni o le famiglie con gli individui è più facile che comprendere come i pensieri sono in relazione con le cose? Non c’è nessun mistero, ma solo il fatto che il salto di livelli fra muro e mattoni è davvero molto più piccolo di quello esistente fra mente e cellule cerebrali. Supponiamo di possedere veramente quella meravigliosa enciclopedia di “tutte le cono-

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scenze possibili”, organizzata secondo la prossimità degli argomenti. In essa i capitoli sui muri sarebbero molto vicini a quelli sui mattoni. Ma i paragrafi dedicati alla natura dei pensieri disterebbero interi volumi da quelli dedicati alla natura delle cose» (ivi: 573). Come fa la nostra mente ad adattarsi così bene a una simile pluralità di sfere che di rado ci capita di fare confusione? Lo strumento funzionale, secondo Minsky, è dato da una particolare categoria di prenomi che hanno la capacità di agire contemporaneamente e parallelamente in diverse sfere mentali, e per sottolineare questa loro caratteristica egli li chiama “paranomi” (paranomes). Ad essi sono associati “superpolinemi”, “superprenomi” e “superisonomi” in grado di attraversare schiere parallele di frames cui corrispondono sfere di pensiero e di realtà diverse (cfr. § 29.3). Si pensi, ad esempio, alla molteplice funzione della parola “dare” in una frase pur semplicissima come Maria dà l’aquilone a Pietro. A seconda dei contesti, noi possiamo intendere il Dare come prenomo di un Trans-frame fisico in cui l’a-quilone è seguito nella sua traiettoria dalla mano di Maria (Origine) a quella di Pietro (Destinazione). Ma l’evento può essere descritto in chiave sociale anche come un passaggio di proprietà, nel qual caso lo spostamento fisico dell’aquilone cede il passo alla sua proprietà e quello che conta è il cambiamento intercorso nel patrimonio di Maria e in quello di Pietro. Nella sfera psicologica, infine, Origine, Traiettoria e Destinazione giocano tutti sul piano delle disposizioni mentali di Maria, la quale, nel fare il regalo, passa da uno stato cognitivo a un altro (cfr. §§ 29.2-3). Ed ecco lo schema delle sfere del pensiero - indipendenti ma all’occorrenza in grado di influenzarsi a vicenda (cfr. ivi: 577) - che Minsky propone come pendant dello schema del libro del mondo (ivi: 576):

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Si noti, infine, che questo modello della mente a più sfere interconnesse è alla base dell’idea che il nostro pensiero sia non solo votato all’analogia ma addirittura intrinsecamente metaforico (come vedremo anche più avanti parlando di duplicazione e creatività): «Non esistono due cose o due stati mentali che siano identici, quindi tutti i processi psicologici devono impiegare un qualche mezzo per indurre l’illusione dell’identità. Ogni pensiero è in qualche misura una metafora» (ivi: 587).93 Dopo questa carrellata, certamente non esaustiva ma ampiamente rappresentativa, dei dettagli anche terminologici della rete di idee proposta da Minsky ne La società della mente, possiamo tornare alla specifica teoria della duplicazione per vedere più in

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Questa tesi è assai probabilmente mutuata da Hofstadter, il quale più di recente l’ha formulata nei termini seguenti: “La mia tesi è che l’analogia pervade totalmente il nostro pensiero fino agli istanti più impercettibili. Anzi un singolo momento del nostro processo cognitivo presenta una densità straordinaria di analogie. Nessun processo mentale sfugge all’analogia. Ogni volta che la mente elabora un dato della realtà esterna o un dato del suo patrimonio interno di conoscenze noi facciamo cinque, dieci, o comunque un numero imprecisato di analogie. In ogni secondo un numero abbastanza grande di analogie emerge nella nostra vita cognitiva. Dal che si può tranquillamente dire che l’analogia è veramente il cuore del pensiero. L’essenza del pensiero è di essere analogico” (Hofstadter 2012: 33).

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dettaglio come funziona. Per portare a termine il compito cognitivo di creare una copia di p, Maria può ricorrere a un agente che Minsky chiama motore a differenza (cfr. § 7.8), un processo interno (che può essere simulato da una macchina artificiale) in grado di raggiungere scopi confrontando gli input della situazione effettiva con una descrizione della meta memorizzata e riducendo passo dopo passo le differenze. In tal modo Maria confronta continuamente p con la versione più recente di q, e quando rileva delle differenze significative si adopera per ridurle progressivamente: «Se per esempio essa nota che p ha un prenomo Origine e q ne è privo, il suo sistema di controllo mnestico si concentra sull’Origine di p. In questo caso, se p è un frame per il movimento, la tattica linguistica normale è di impiegare la parola “da”. Maria deve poi descrivere la sottostruttura collegata al prenomo Origine di p. Se si trattasse di un polineme semplice come “Torino”, le sue agenzie linguistiche potrebbero semplicemente pronunciare la parola corrispondente» (ivi: 459). Può succedere però che il terminale per Origine sia assegnato non a un polineme nominale semplice come “Torino”, ma a un intero frame frastico, come quando ricorriamo a perifrasi e a subordinate relative (“La città che fu la prima capitale d’Italia”). In tal caso l’agenzia linguistica di Maria deve bloccarsi, tenere traccia del compito più generale e passare alla copiatura del nuovo sotto-frame: «Comunque sia, Maria continua questo processo di duplicazione e differenza fino a quando non percepisce più discrepanze significative tra q e p. Naturalmente ciò che per Maria è significativo dipende da ciò che ella “vuol dire”» (ibid.). Una volta che la copia q passa a Pietro, questi usa le tattiche grammaticali apprese per attivare il processo inverso e memorizzare la struttura q nella rete delle proprie agenzie mentali. Secondo Minsky, l’apprendimento delle abilità linguistico-comunicative dall’infanzia all’età adulta è un processo che passa da una fase in cui la costruzione e la pronuncia di q sono molto ravvicinate a una fase in cui si impara a distanziarle nel tempo, in modo che la pronuncia di una sequenza frasale sia preceduta da una gestione mentale più affinata che fa ricorso alle tattiche grammaticali memorizzate per modificare e mettere a punto in modo più accorto parole e frasi prima di passarle agli agenti motori dell’invio: «Apprendere queste arti richiede molto tempo: la maggior parte dei bambini impiegano almeno una decina d’anni

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per completare i loro sistemi linguistici, e spesso imparare a percepire nuovi tipi di discrepanze e scoprire modi per esprimerle è un’attività che dura tutta la vita» (ibid.). Questo dispositivo apparentemente meccanico di copiatura, tuttavia, è per sua stessa natura aperto all’espressione creativa e costituisce la base per la generazione del mondo della cultura. Nel § 22.11 Minsky spiega in modo esemplare come la sua teoria della duplicazione sia in grado di rendere conto di quegli scarti tra p (che può o sussistere come stato funzionale in una rete neurale di agenzie non necessariamente linguistiche o addirittura non sussistere affatto) e q (che sussiste come frame linguistico) che sono alla base dell’onnipotenza creativa del linguaggio e consentono l’evoluzione culturale per replicazione e modifica94. Ci sono ragioni precise alla base del fatto che l’espressione linguistica di un contenuto mentale sia esposta a slittamenti e modifiche, e questo fa sì che spesso ciò che intendiamo esprimere non sia esattamente quello che di fatto diciamo. Ciò non vuol dire che il nostro q non vada bene. Anzi, come preciserà anche Dennett nelle pagine da cui è tratto il passo citato nella nota precedente, normalmente è quello che alla fine diciamo a costituire persino per noi stessi il testo di riferimento su ciò che intendiamo e sappiamo95: «la “cosa 94

Non è certamente un caso che un passo di questo paragrafo (“Qualunque cosa vogliamo dire, è probabile che ciò che diremo non sarà esattamente quello”, ivi: 460) sia stato usato da Dennett come epigrafe del § 8.3 di Coscienza, in cui l’ipotesi di Minsky è ulteriormente sviluppata in chiave memetica. Scrive ad esempio Dennett: “l’uso creativo del linguaggio può essere realizzato solo da un processo parallelo in cui molteplici obiettivi o desideri siano simultaneamente in allerta per il materiale. Ma se i materiali stessi fossero contemporaneamente in allerta per le occasioni di essere incorporati? Noi prendiamo il nostro vocabolario dalla nostra cultura; le parole e le frasi costituiscono le caratteristiche fenotipiche più salienti - i corpi visibili - dei memi che ci invadono, ed è difficile che ci sia un mezzo in cui i memi possano replicarsi più congeniale di un sistema di produzione linguistica in cui i burocrati supervisori abbiano parzialmente abdicato, cedendo gran parte del controllo alle parole stesse, che difatti combattono tra loro per ottenere un’opportunità di comparire nella ribalta dell’espressione pubblica” (Dennett 1991a: 273). 95 A tal riguardo, attraverso un biografo di Russell, Dennett ricorda un passo gustoso di una lettera del filosofo inglese a Lady Ottoline Morrell datata 30 marzo 1911: “I did not know I loved you till I heard myself telling you so for one instant I thought ‘God God what have I said?’ and then I knew it was the truth” (cfr. Dennett 1991a: 275 [246 ed. orig.]). Il passo immediatamente successivo della lettera, non compreso nella citazione di Dennett, sintetizza

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che vogliamo dire”, cioè la struttura p che cerchiamo di descrivere, non sempre è una struttura fissa e definita che i nostri agenti linguistici possano leggere e copiare facilmente. Ammesso che p esista, è probabile che si tratti di una rete in rapida trasformazione comprendente parecchie agenzie. Se è così, può essere che l’agenzia linguistica sia solo in grado di fare congetture e ipotesi su p, e cerchi di confermarle o confutarle eseguendo esperimenti. E anche nell’ipotesi che p sia ben definita, il processo stesso è suscettibile di modificarla, per cui anche così la versione finale q non coinciderà con la struttura originale p» (ivi: 460). Ciò implica che quello che intendevamo esprimere non costituisce un vincolo stretto per ciò che di fatto esprimiamo, perché la formulazione linguistica è intrinsecamente una ri-formulazione, se non addirittura una creazione tout court. E infatti, quando attiviamo nella nostra mente un motore a differenza per controllare la fedeltà di q, in fondo confrontiamo q con una congettura su p costruita sulla base di ciò che di p è accessibile alla nostra agenzia linguistica. Ecco perché p, al postutto, potrebbe persino non esistere, o se non altro non esistere nella forma accessibile al nostro pensiero cosciente. La cascata di semplificazioni metaforiche che da p porta alla versione comunicabile q (o, per dirla con Dennett, alle molteplici versioni di q) non è necessariamente un pessimo affare gnoseologico. Secondo Minsky, il conto perdite, che comprende le sfumature micronemiche che siamo condannati a non portare mai all’espressione linguistica, è bilanciato dalle virtù chiarificatrici delle riformulazioni creative, perché la separazione delle cose essenziali da quelle accessorie è non di rado quello che ci occorre per portare al successo le nostre pratiche euristiche: «la nostra agenzia linguistica, che ne sa ben poco sullo stato effettivo delle altre agenzie, deve costruire teorie su di esse, e queste teorie possono benissimo indurre in noi uno stato mentale che è più semplice, più chiaro e più adatto alla soluzione del nostro problema. Quando cerchiamo di spiegare ciò che crediamo di sapere, spesso finiamo col dire qualcosa di nuovo. Tutti gli insegnanti sanno che molto spesso si comprende qualcosa per la prima volta solo quando si cerca di spiegarlo a un altro» (ivi: 461). Tutto ciò è legato al fatto che, sebbene la nostra agenzia linguistica sia in grado mirabilmente il concetto, pur ricorrendo alle trite metafore del linguaggio amoroso romanticheggiante: “My heart spoke before my brain knew” (in Russell 2002: 341).

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di impegnare una vasta rete di capacità di pensiero e problem solving, molte di queste ultime funzionano pur non essendo accessibili al linguaggio, al quale ricorriamo quando gli altri sistemi cognitivi falliscono. Ma questo vuol dire semplicemente che il linguaggio può a sua volta creare sfere di pensiero del tutto nuove, dal momento che la possibilità stessa di codificare in stringhe di parole quello che accade nelle nostre agenzie rende disponibile uno spazio combinatorio illimitato e affatto indipendente da ciò che ci sembra di voler descrivere. Staccandosi dai vincoli del significato distribuito nelle varie agenzie mentali, il linguaggio è libero di sfruttare la potenza semantica intrinseca alla propria natura combinatoria e di creare così significati originali: «Allora è possibile trasmettere dal cervello di una persona a quello di un’altra le successioni di parole prodotte dalle nostre tattiche grammaticali e ogni individuo può avere accesso alle formulazioni più riuscite che gli altri abbiano elaborato. Questo è ciò che chiamiamo cultura: i tesori concettuali che le nostre comunità accumulano nel corso della storia» (ibid.). È questo, dunque, il modo peculiare in cui la teoria di Minsky si apre alla compatibilità con la Memetica e con la teoria popperiana dei tre mondi. Che gli agenti di Minsky abbiano una somiglianza di famiglia con i memi può essere illustrato rivedendo alla luce di quanto precede alcuni punti delle prime esposizioni sistematiche della Memetica. Brodie 1996 e Lynch 1996 non contengono alcun riferimento a Minsky 1985, e tuttavia un’eco del suo contenuto è certamente arrivata ad essi attraverso Dennett 1991a, che ovviamente costituisce un punto di riferimento essenziale insieme a Dawkins 1976. Consideriamo per cominciare la proposta di Richard Brodie di distinguere tre tipi fondamentali di memi: Memi-distinzione. Le distinzioni sono un tipo di meme. Sono modi di organizzare il mondo attraverso le categorizzazioni oppure l’etichettaggio delle cose (Brodie 1996: 48) Memi-strategia. Le strategie sono delle credenze riguardanti le cause e gli effetti. Quando siete programmati con un meme-strategia, inconsciamente credete che comportarvi in un certo modo possa produrre un certo effetto. Quel comportamento può innescare una serie di eventi il cui risultato consisterà nel trasmettere i memi-strategia ad un’altra mente (ivi: 50).

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Memi-associazione. Le associazioni sono connessioni fra memi. Quando siete programmati con un meme associativo, la presenza di una cosa innesca un pensiero, un’emozione intorno o qualcos’altro. Ciò causa un cambiamento nel vostro comportamento che può, alla fine, trasmettere il meme ad un’altra mente (ivi: 52). È difficile non scorgere in questa tripartizione una riformulazione di alcuni concetti fondamentali di Minsky 1985. Il § 22.7 si apre con la messa a tema della “tendenza congenita” del nostro cervello a classificare e rappresentare il mondo in cose-oggetti (cui nelle lingue corrispondono i nomi) e in cose-differenza (cui nelle lingue corrispondono i verbi), ad assegnare cose-cause ai mutamenti e alle azioni (rappresentate con nomi di cosa) e a trattare strutture complesse come se fossero una cosa unica (cui nelle lingue corrisponde la tendenza a trattare le proposizioni come se fossero un’unica parola). E questo trova un riscontro abbastanza preciso nei memi-distinzione e nei memi-strategia di Brodie, che in tal senso possono considerarsi modi alternativi di chiamare i polinemi e i Trans-frames di Minsky. La tendenza congenita cui fa riferimento Minsky non è altro che il risultato di un coadattamento tra memi96 e cervello, perché la forza adattiva dei memiassociazione e dei memi-strategia si fonda sul modo in cui si sono evolute le strutture cerebrali e queste ultime, a loro volta, si sono adattate ai memi di successo più basilari per la sopravvivenza, che corrispondono a quelli che Minsky chiama protospecialisti (cfr. § 16.3). D’altra parte, i memi-associazione di Brodie sono assimilabili a reti di agenzie, ovvero a catene di polinemi e di Trans-frames (cfr. § 21.3) e a schiere di frames tenute in parallelo dai paranomi (cfr. § 29.3). Lo stesso § 22.7, poi, si chiude con un capoverso che esprime un’idea fondamentale per la filosofia memetica, variamente declinata da Dawkins (si pensi al passo citato sopra in cui egli menziona Minsky), dalla Blackmore (si pensi alla sua decostruzione del memeplesso del Sé negli ultimi capitoli del suo

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Se non altro quelli simbiotici, secondo la classificazione proposta in Ball 1984 (dove si distingue tra memi simbiotici, difficili da trasmettere, parassiti e dannosi). Su questo punto cfr. anche Ianneo 2005: 78-79, Dennett 2006: 9193 e 182-183, nonché quanto dice Dennett in Pievani (a cura di) 2008: 105109.

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libro del 1999) e da Dennett (il quale addirittura lo usa come epigrafe del § 13.3 di Coscienza97): «si direbbe che il nostro cervello ci spinga a rappresentare delle dipendenze. Qualunque cosa accada, non importa quando o dove, siamo inclini a domandarci chi o che cosa ne sia responsabile. Questo ci porta a scoprire spiegazioni che altrimenti non riusciremmo a immaginare e ci aiuta a prevedere e a regolare non solo ciò che accade nel mondo, ma anche ciò che accade nella nostra mente. Ma se queste stesse tendenze ci spingessero a immaginare cose e cause che non esistono? In tal caso inventeremmo falsi dèi e superstizioni, e ne vedremmo la mano in tutte le coincidenze casuali. In realtà, forse, quella strana parola “io”, come quando si dice “Io ho avuto una buona idea”, riflette la stessa identica tendenza. Se siamo costretti a trovare una causa che causi tutto ciò che facciamo, ebbene, questo qualcosa ha bisogno di un nome. Tu lo chiami “io”. Io lo chiamo “tu”» (Minsky 1985: 453). Aaron Lynch, da parte sua, basandosi su esempi concreti tratti spesso dai meccanismi cognitivi e culturali che stanno alla base delle comunità religiose (con particolare predilezione per cattolici, musulmani e amish), proponeva sette schemi o modi98 di trasmissione dei memi per contagio culturale: The quantity of parenthood. Any idea influencing its hosts to have more children than they would otherwise have exhibits quantity parental transmission. Because of children’s special receptivity to parental ideas, increasing the number of children increases the projected number of host offspring. So the Amish farming taboo has a quantity parental advantage (Lynch 1996: 3). The efficiency of parenthood. Simply having children cannot guarantee that any will embrace the parents’ beliefs. Yet some beliefs actually stack their odds of acceptance by guiding the 97

Vale la pena osservare che sull’importanza cognitiva dell’etichettatura (i memi-distinzione di Brodie e i nomi-cosa polinemici di Minsky), in grado di fornirci veri e propri “strumenti per pensare”, Dennett è tornato più di recente (cfr. 2013: 10 e 76), con esplicito riferimento a Hofstadter 2007: 219, per non dire che il già citato “elenco di astrazioni” di Hofstadter 2007: 42 include, oltre ai memi di Dawkins, anche i frames di Minsky. 98 “The ways that memes retransmit fit into seven general patterns called modes” (Lynch 1996: 3).

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methods of parenthood. Any idea increasing the fraction of its hosts’ children who eventually adopt their parents’ meme exhibits efficiency parental transmission (ivi: 4). Proselytizing pays. Thought contagions spread fastest via proselytic transmission. A proselyte idea’s hosts generally pass the idea to people other than just their own children. Such propagation is not slowed by the years needed to raise children. Host populations seldom double parentally every ten years, but a proselytically spreading idea, under suitable conditions, can double its host population in a year or less (ivi: 5). Preserving belief. In the preservational mode, ideas influence their hosts to remain hosts for a long time. The idea may influence its adherents to live longer, or make them avoid dropping out (ivi: 6). Sabotaging the competition. If every proselytic movement spawns a stubborn resistance, the memetic contests would all grind down to stalemates. Yet often they don’t. When proselytic zealous become stymied, the only memetic variants that continue to spread are those that carry the movement to a more aggressive phase. In the adversative mode, ideas influence their hosts to attack or sabotage competing movements. That is, the host can either harm nonhost individuals or destroy their memes’ ability to spread (ivi: 7). Cognitive advantage. If an idea seems well founded to most people exposed to it, then nonhosts tend to adopt it, and hosts tend to retain it. That perceived cogency to the total population provides an idea with its cognitive advantage (ibid.). Motivational advantage. Ideas can also passively amass their host populations through the motivational mode. In this mode, people adopt or retain an idea because they have some motive for doing so: that is, because they expect to be better off as hosts than as nonhosts. The larger the number of people who want to hold a specific idea, and the more strongly they want it, the greater will be its motivational advantage (ivi: 8-9). Francesco Ianneo ha molto opportunamente riformulato questi schemi sotto forma di veri e propri memi-agenti cognitivi che, una volta installati nella mente dell’ospite, istruiscono

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quest’ultimo su piani d’azione ben precisi, generando effetti fenotipici visibili su scala sociale: Meme-agente della fecondità di parentela: «Concepisci molti bambini e sfrutta la tua autorità di genitore per indottrinarli in modo da favorire la propagazione delle tue credenze» (Ianneo 2005: 113). Meme-agente dell’efficienza parentale: «Propaga la credenza che i genitori sono buone fonti di indottrinamento, poi fai molti figli e usa la tua posizione privilegiata per influenzarli e aumentare così la diffusione delle tue idee» (ibid.). Meme-agente del proselitismo: «Convinci coloro che non sono tuoi parenti che la tua credenza è giusta e urgente, in modo che essi la diffondano per te» (ivi: 114). Meme-agente delle credenze che preservano: «Accogli le idee che proteggono le tue convinzioni contro le intrusioni di altre idee» (ibid.). Meme-agente della competizione: «Elimina selettivamente coloro che rifiutano di convertirsi alle tue idee o, quanto meno, sabota le credenze che cozzano contro le tue» (ibid.). Meme-agente del vantaggio cognitivo: «Fai apparire le tue idee ben fondate ed esse si diffonderanno con facilità» (ivi: 115). Meme-agente del vantaggio motivazionale: «Assicurati che la tua idea appaia buona ed essa tenderà a propagarsi senza problemi» (ibid.). Come si vede, infine, la contaminazione della Memetica con la teoria di Minsky ha almeno un duplice effetto: mentre la prima può sfruttare la potente strumentazione concettuale che sta alla base dell’idea della società degli agenti cognitivi (si pensi, ad esempio, al modo in cui i modelli di Castelfranchi e di Lynch possono sfruttare i riconoscitori, i soppressori e i censori di Minsky), la seconda può sopravvivere e continuare a funzionare in un contesto che ne semplifica in modo notevolissimo il lessico piuttosto farraginoso e non sempre perspicuo, che probabilmente è alla base della sua scarsa penetrazione nella letteratura successiva. La stessa Memetica, con la sua modellizzazione dei fattori interni, meccanici ed esterni che concorrono alla diffusione dei memi99, è 99

Cfr. ad es. i vari cataloghi di tali fattori in Ianneo 2005: 85-98. Si veda anche il catalogo provvisorio (e postumo) delle tredici caratteristiche o sfaccettature

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in grado di proporre una spiegazione dell’insuccesso della terminologia di Minsky: il lettore, infatti, ha spesso la sensazione che i neologismi siano poco giustificati sia sul piano morfosemantico sia su quello della semplice economia espressiva. C’è a tal proposito un passo molto interessante nel § 25.6 de La società della mente in cui Minsky fa una piccola storia della terminologia da lui introdotta (quasi sempre senza una spiegazione dettagliata). Si scopre così che già nel 1985 egli doveva fare i conti con la difficoltà che i suoi concetti incontravano a penetrare nella comunità scientifica: «avevo la continua sensazione che il concetto di frame fosse piuttosto ovvio e forse già implicito nei lavori precedenti di psicologi come Bartlett. Ritenevo più importante, nel saggio del 1974, l’idea di un sistema di frames, che in questo libro ho ribattezzato “schiera di frames”. Fui sorpreso nel vedere che il concetto di frame si diffondeva e quello di schiera di frames no. Il concetto di neme emerse nel 1977 (con il nome di “linee C”); l’idea di linea K si cristallizzò nel 1979. Il concetto di prenomo rimase per molti anni nella mia mente a livello inconscio, ma si cristallizzò soltanto quando scoprii, durante la stesura di questo libro, come riformulare molte delle prime idee di Roger Schank sotto forma di Transframes. Lo schema proposto in questo libro, in cui i terminali dei frames sono controllati da fasci di nemi o isonomi, emerse soltanto un buon decennio dopo il primo concetto di schiera di frames» (Minsky 1985: 507). I curiosi intrecci delle date relative alle nascite del meme del meme e della terminologia di Minsky non possono non richiamare alla mente il passo celebre in cui Dawkins letteralmente generò il termine sotto gli occhi del lettore. Si vedrà allora che la differenza abissale, se non altro dal punto di vista (facets) dei memi proposto in Westoby 1994 (un lungo saggio, giuntoci in forma incompiuta a causa della morte prematura dell’autore e reso pubblico in rete da Dennett, in cui la Memetica è esplorata come teoria evoluzionistica della trasmissione della cultura vista come qualcosa di organico), che Ianneo stranamente riduce a dieci ignorando le ultime tre (cfr. Ianneo 2005: 96-98): infettività (infectiousness), raggruppamento (teaming), vincoli (bonds), sentimenti (feelings), immortalità (immortality), memi dentro memi (memes within memes), valori (values), veicoli memetici (meme vehicles), estinzione selettiva (selective extinction), effetto innovativo (scratchpad effect.), genotipo/fenotipo (genotype/phenotype), il “principio culturologico” (the “culturological principle”), umanismo (humanism). Non è superfluo osservare che Minsky 1985 (erroneamente datato “1989”) compare nell’abbozzo di bibliografia che Westoby fece in tempo a compilare, anche se nel testo del saggio pervenutoci esso non viene mai menzionato.

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della mera capacità di propagazione, tra i memi di Dawkins e (per esempio) i nemi di Minsky è legata anche alla diversa perspicuità linguistica, prima ancora che concettuale, dei nudi nomi: «Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l’idea di un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. “Mimeme” deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferisco un bisillabo dal suono affine a “gene”: spero perciò che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme. Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a “memoria” o alla parola francese même» (Dawkins 1976: 201)100.

3.2. Il rifiuto equivoco della Memetica e il caso Sperber In questo paragrafo esamineremo nel dettaglio la proposta sperberiana di una epidemiologia delle credenze e il suo rapporto con la Memetica. Poiché lo stesso Sperber, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, ha assunto il ruolo di grande oppositore della teoria dei memi, seppure all’interno di un comune programma di naturalizzazione dei fenomeni culturali, sarà opportuno concedergli il massimo spazio per non correre il rischio di offrire una versione semplificata e ad hoc della sua teoria. L’idea di fondo che ci guiderà sarà la seguente: la teoria di Sperber non costituisce un’alternativa alla Memetica ma una sua preziosa alleata, e le critiche di Sperber, contrariamente a quanto ritenuto in genere, appaiono tutt’altro che conclusive e pertinenti a uno sguardo ravvicinato. In tal senso, l’analisi di Sperber 1996 e 2000 100

E si noti che nell’edizione originale il passo prosegue con una frase (ovviamente non tradotta in italiano) in cui Dawkins suggerisce la pronuncia del neologismo: “It should be pronounced to rhyme with cream”. In tal senso si è dimostrato un ottimo profeta il noto biologo evoluzionista William Donald Hamilton, il quale, recensendo su «Science» Il gene egoista, ebbe a scrivere già nel 1977: “Per quanto possa essere difficile da delimitare (e sicuramente sarà più difficile del termine ‘gene’, che mette già abbastanza in difficoltà) sospetto che il termine ‘meme’ presto diventerà di uso comune fra i biologi e, si spera, fra filosofi, linguisti e altri ancora, e che verrà assorbito nel linguaggio comune tanto in profondità quanto è avvenuto per la parola ‘gene’” (Hamilton 1977: 759, cit. in Gleick 2011: 288).

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che verrà proposta in questo paragrafo vuole essere una sorta di esercizio di applicazione rigorosa di quelle che Dennett (2007 e 2013) chiama “Regole di Rapaport”101. Prima, però, è opportuno fare un rapido riferimento a tre esempi italiani di rifiuto della Memetica: quello di Luigi Luca Cavalli-Sforza, quello di Maurizio Ferraris e quello di Telmo Pievani. Si tratta di casi interessanti, perché riguardano studiosi che a loro volta, nei rispettivi campi di ricerca (la teoria della trasmissione culturale, l’ontologia sociale e la filosofia della biologia), hanno una teoria propria da proporre e contrapporre a quella dei memi. E si vedrà che la situazione è una sorta di variante della prassi così descritta da Nicholas Humphrey in apertura del suo Polvere d’anima: «nell’ambito di quelli che sono ormai definiti studi sulla coscienza, la prassi in uso vuole che gli accademici mostrino scarsa considerazione ciascuno per le idee degli altri. Lo psicologo Walter Mischel ha ironicamente osservato: “Gli psicologi trattano le teorie altrui come spazzolini da denti: nessuna persona con un minimo di dignità userebbe quello di un’altra”. E i filosofi tendono ad essere ancora più parsimoniosi» (Humphrey 2011: xi). Come abbiamo già avuto modo di ricordare nel primo capitolo, i lavori di Cavalli-Sforza su evoluzione e trasmissione culturale facevano parte dei riferimenti espliciti di Dawkins sin dal momento della creazione del concetto di meme (cfr. Dawkins 1976: 200), mentre la letteratura memetica successiva non ha mai smesso di rendere omaggio ai suoi contributi.102Ne L’evoluzione della cultura (2010), il grande genetista e antropologo italiano propone una teoria dell’evoluzione culturale ampiamente compatibile con la Memetica, dal momento che considera l’algoritmo darwiniano neutrale rispetto al sostrato (cfr. Cavalli-Sforza 2010: 9) e le idee oggetti materiali come il Dna la cui natura, pur essendo 101

“Ecco come comporre un commento critico efficace: 1. Dovremmo cercare di riformulare la posizione del nostro avversario in modo così chiaro, vivace e corretto da fargli dire: ‘Grazie, vorrei che mi fosse venuto in mente di esprimerla così’. 2. Dovremmo elencare qualsiasi punto su cui conveniamo (specie se sono questioni in merito alle quali non vi è un accordo unanime e generale). 3. Dovremmo citare qualunque cosa abbiamo imparato dal nostro avversario. 4. Solo a questo punto ci è permesso dire anche una sola parola per confutare o criticare qualcosa” (in Dennett 2013: 36). 102 Si vedano, per tutti, Dennett 1997, Blackmore 1999: 55-56 e Jouxtel 2005: 42, 50, 52, 81.

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ancora sfuggente, è quella di entità autoreplicanti che «hanno bisogno di corpi e di cervelli in cui essere prodotte per la prima volta e riprodotte nel processo di trasmissione» (ivi: 131). Più in dettaglio, secondo Cavalli-Sforza «la trasmissione attraversa due fasi: 1) la comunicazione di un’informazione, di un’idea, da un insegnante (transmitter) a un allievo (transmittee), e 2) la comprensione e l’acquisizione dell’idea. Questo è l’atto di riproduzione dell’idea, che avviene quando essa passa da un cervello a un altro. Dato che consideriamo tale atto analogo alla generazione di un figlio, possiamo parlare di autoriproduzione delle idee. È chiaro che nella biologia e nella cultura i meccanismi sono profondamente diversi, ma il risultato finale di fatto è lo stesso. Un DNA può generare molte copie di sé, che alloggeranno nei corpi di diversi individui, i discendenti, mentre l’idea può generare molte copie di sé in altri cervelli, appartenenti a discendenti ma anche a individui non imparentati. Indubbiamente si tratta di autoriproduzione anche nel caso delle idee, e altrettanto indubbiamente le idee hanno possibilità di mutazione» (ibid.). Nonostante questa chiara e persino esplicita (come vedremo subito sotto) consonanza con l’approccio memetico, Cavalli-Sforza avverte la necessità di marcare la differenza tra la propria teoria e quella di altri studiosi e a tal proposito dedica ai memi una pagina che mette conto riportare per intero, perché in essa egli mostra un atteggiamento davvero singolare: Noi continueremo, in questa sede, a chiamare idea l’oggetto che si autoriproduce alla base della cultura e della sua evoluzione. Ora però interessa discutere alcuni altri termini che sono stati proposti. Richard Dawkins, ne Il gene egoista (1976), ha proposto di dare all’idea, cioè all’oggetto capace di autoriproduzione e mutazione che è l’unità dell’evoluzione culturale, il nome di meme (Dawkins, 1994 [sic! Il riferimento è all’edizione italiana di Dawkins 1976 citata in bibliografia]). Egli ha riconosciuto nel suo libro l’origine del concetto citando il mio primo articolo dedicato alle basi dell’evoluzione culturale, pubblicato nel 1971 (...). Altri articoli sull’argomento, scritti successivamente da me in collaborazione con Marc Feldman, sono stati riassunti nel libro Cultural Transmission and Evolution (Cavalli Sforza e Feldman, 1981). Qui il termine utilizzato per indicare l’oggetto culturale che si autoriproduce non è la parola idea né la parola meme, bensì l’espressione carattere culturale, più tecnica anche se un po’ ingombrante. Non siamo rimasti entusiasti della parola meme perché insiste sull’aspetto di imitazione della trasmissione culturale, mentre molta diffusione culturale avviene per insegnamento diretto e attivo, non per imitazione passiva. Abbiamo proposto alternative come mneme, che sottolinea l’aspetto della memoria, e più tardi seme, come unità di comunicazione. Umberto Eco ci ha fatto notare però che in semiotica vi è un uso precedente, molto

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più restrittivo, di quest’ultima parola. È un peccato, perché seme ha anche un senso traslato che include la capacità di riproduzione. Se sarà possibile rubare la parola alla semiotica, dove non è molto usata, e risalire la corrente oggi favorevole alla parola meme, che ha avuto un successo discreto ma non fenomenale, tanto meglio. Altrimenti vuol dire che avremo “perduto l’autobus” per questa parola. Il concetto comune a tutti i termini menzionati resta valido e, comunque, la parola idea è senza dubbio un sinonimo utile di significato più immediato e generale (ivi: 134).

Il carattere singolare del passo sta in questo. CavalliSforza, intanto, pur essendo citato appena una pagina prima, sembra trascurare il fatto che Dawkins, nel momento stesso in cui coniava la parola, suggeriva che la sua area semantica avrebbe dovuto coinvolgere non solo il piano dell’imitazione ma anche quello della memoria.103 Inoltre, l’accenno al “successo discreto ma non fenomenale” della parola meme fatto nel 2010 sembra davvero strano, soprattutto se si pensa alla ben diversa fortuna toccata alla terminologia di Cavalli-Sforza, come egli stesso riconosce. In una ricerca in rete effettuata il 29 agosto 1998 Dawkins trovò 5042 occorrenze del solo aggettivo memetic, un numero relativamente molto alto soprattutto se confrontato con parole all’epoca alla moda come Spin-doctor, sociobiology, catastrophe theory, ecc. (cfr. Dawkins 1999, in Blackmore 1999: xiii, nonché Dawkins 2003: 161). Non disponiamo del dato al 2010, ma possiamo supporre che fosse di gran lunga superiore a 5042, considerato che oggi (dicembre 2015) Google trova per memetic circa 500.000 occorrenze. Infine, considerare idea un termine utile e dal

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Cfr. Dawkins 1976: 201, citato alla fine del paragrafo precedente. Per anticipare quanto vedremo più dettagliatamente nelle pagine seguenti, si consideri l’analoga accusa mossa da Sperber all’approccio di Dawkins in un contesto in cui egli sta prendendo le distanze sia dalla teoria dei memi sia dalla teoria della trasmissione di Cavalli-Sforza: “Sia l’approccio di Dawkins sia quello biologico hanno una visione superficiale dei processi mentali umani. Ritenere che la nostra capacità di imitazione (Dawkins, tra l’altro, parla soltanto di imitazione e non bada al fenomeno della comunicazione) costituisca un processo di replicazione sufficiente per spiegare la stabilità vuol dire avere una visione superficiale della psicologia. È chiaro che ci sono altri fattori che giocano un ruolo significativo nella vita sociale e nella trasmissione culturale, tra cui l’inferenza, la memoria e l’immaginazione. Il caso di Dawkins è una caso di una teoria quasi senza psicologia, mentre quello di Cavalli Sforza ha un livello molto basso di psicologia” (dialogo-intervista con Pietro Perconti, http://www.rescogitans.it/main.php?articleid=291).

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significato immediato è qualcosa che lascerebbe perplesso qualunque storico della filosofia, visto che, nelle varie lingue in cui è declinato (a cominciare dal greco antico), si tratta di uno dei lessemi più usati e polisemici di tutto il pensiero occidentale (e lo stesso potrebbe dirsi del termine “rappresentazione”, caro a Sperber). E tuttavia è particolarmente interessante per noi il fatto che Cavalli-Sforza parli di un concetto comune e valido sotteso alla diversità terminologica, al punto che poco più avanti (nella seconda e ultima menzione dei memi in tutto il libro) egli potrà usare un’espressione come «memi o semi “fisici”» (ivi: 157) per indicare nicchie o fenomeni culturali particolarmente resistenti nel tempo, come le città, le case, i costumi, le divinità e il linguaggio. Nel suo Documentalità, Ferraris sviluppa ulteriormente la propria teoria filosofica degli oggetti sociali, che già in Ferraris 2005, sulla base di un confronto critico con Searle 1995 e in un’ottica di testualismo debole, venivano definiti “atti iscritti” (cfr. Ferraris 2005: in part. 174 e 240). Ebbene, nel § 4.1.2.2 egli confronta la propria teoria ontologico-sociale delle tracce documentali con la Memetica e sostiene che la nozione di “iscrizione” «fornisce lo stesso vantaggio esplicativo dei memi, senza incamminarsi su una strada semi-fantascientifica» (Ferraris 2009: 216). Tuttavia, è significativo che Ferraris, pur rimandando genericamente nella nota ad locum a Dawkins 1976 (ivi: 390), non faccia alcun riferimento alla cornice teorica neodarwiniana della Memetica, limitandosi a ricordare che i memi sono unità di informazione, incorporate nei veicoli più disparati, che si propagano per imitazione. A suo parere, il meme è un deus ex machina, pur sembrando prima facie un’“eccellente soluzione” per il teorico delle iscrizioni, dal momento che «non è chiarissimo che cosa possa essere un meme» (ivi: 215). A tal proposito, egli chiama rapidamente in causa la classica obiezione formulata in Sperber 2000 (come se la sua forza argomentativa fosse un fatto pacificamente acquisito e condiviso), secondo la quale il meccanismo di trasmissione memetica può al limite applicarsi alle catene di sant’Antonio; e questo, a suo giudizio e piuttosto sorprendentemente, diventa un argomento a favore delle iscrizioni. Sicché, conclude Ferraris, «il mondo è pieno di iscrizioni: è tutto qui, ma è davvero molto, giacché queste iscrizioni costituiscono l’intero mondo della società, della cultura, e dello spirito» (ivi: 216). Come si vede, in questa rapida discussione di Ferraris la Memetica è poco più di una caricatura, uno straw man costruito con fonti critiche di seconda mano date per

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autorevolissime, abbattuto e messo da parte per far spazio a una teoria alternativa che si suppone chiaramente e distintamente definita nei suoi concetti di base. Tali sono, ad esempio, le tracce, le registrazioni, gli atti, le iscrizioni, gli oggetti sociali, ecc., fino all’“emersione” o “rivelazione”, grazie alla tecnica della registrazione, di una sorta di “spirito oggettivo” hegeliano, ovvero di un “inconscio sociale” o “collettivo” e di una “struttura profonda” socio-antropologica, di cui si parla diffusamente nel più recente Ferraris 2015. Qui, peraltro, anche attraverso Dennett 1996 e la teoria delle affordance, e seppure ricorrendo a un vocabolario diverso, vengono riutilizzate ad hoc e in modo piuttosto generico nozioni molto popolari in ambito memetico, come l’“automatizzazione” delle iscrizioni, l’“imitazione” e l’“evoluzionismo informatico”, per cui il web, secondo Ferraris, per una sorta di exaptation non pianificata da nessuno diventa una vera e propria “istituzione autopoietica”, ovvero il paradiso dei replicatori culturali, come direbbero i memetisti. Particolarmente interessante è il caso di Pievani. La sua scarsa simpatia nei confronti dei memi è chiara. In Pievani 2007: 223-224, ripreso quasi alla lettera in Pievani (a cura di) 2008: 117118, il filosofo della biologia italiano fa sue, senza particolari approfondimenti e soprattutto senza fare alcun cenno alle controobiezioni, alcune obiezioni classiche alla Memetica. Cos’è un meme? È un’idea? È un concetto sotto forma di circuito neurale o di un enunciato verbale? La trasposizione dall’evoluzione biologica a quella culturale è solo una metafora suggestiva o si tratta di un’intuizione fertile da un punto di vista euristico? Appoggiandosi senz’altro a Sperber 1996, inoltre, egli osserva che «mentre nella replicazione genica la copiatura corretta è la norma e la mutazione è l’eccezione, nella replicazione memica accade l’inverso: la trasmissione di idee è molto più soggetta a variazione e la selezione cumulativa assai difficile» (Pievani 2007: 224). In tal senso, sempre sulla scorta di Sperber, Pievani perviene a una conclusione analoga a quella che abbiamo visto accennata da Cavalli-Sforza: «il termine stesso “meme” sembra troppo legato a una dimensione imitativa della trasmissione culturale» (ibid.). Assai curiosamente, poi, soprattutto alla luce di quanto visto poco sopra, Pievani definisce nei due testi citati (rispettivamente p. 224 e p. 118) “strada alternativa” la teoria della trasmissione culturale di Cavalli-Sforza. Eppure, Pievani 2014 sembra fornire implicitamente qualche spiraglio ai memi. Certo, quando li cita esplicitamente,

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Pievani cade nella caricatura: «i memi contagiosi (...) vanno per conto loro» (Pievani 2014: 136) e si tratta addirittura di «supposti equivalenti un po’ antropomorfici dei geni» (ivi: 169), a dispetto delle innumerevoli affermazioni in senso contrario contenute anche solo in Dawkins 1976 (qui presente a Pievani) e in Blackmore 1999 (citato in Pievani 2007: 241). Tuttavia, il programma di ricerca evoluzionistico abbozzato in questo libro da Pievani in termini esplicitamente lakatosiani (cfr. Pievani 2014: 83 e 238) è tutt’altro che lontano dalla Memetica. Un primo indizio è costituito dal fatto che egli si appoggia proprio a Cavalli-Sforza 2010 per sostenere ora che l’«evoluzione culturale (...) presenta meccanismi in parte analoghi e in parte differenti rispetto a quella biologica» (ivi: 159); ma, come abbiamo visto sopra, in questo libro Cavalli-Sforza, al di là delle questioni terminologiche, riconosce un’affinità concettuale di fondo con la Memetica. Un indizio ulteriore si trova in un contesto in cui Pievani cita la Memetica (ancorché indirettamente) per la terza e ultima volta. Nel quarto e ultimo punto del suo “sintetico abbozzo” di un programma di ricerca per la psicologia evoluzionistica del futuro (cfr. ivi: 242), in cui tra l’altro dovrebbe trovar posto l’adeguato riconoscimento del ruolo dei processi di cooptazione funzionale (cioè l’exaptation: cfr. ibid.), egli scrive: «Integrare nella psicologia evoluzionistica una teoria delle interazioni fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, che includa le risultanze recenti sulla coevoluzione fra geni e cultura» (ivi: 243). Questo invito, nelle intenzioni di Pievani, mira a un approccio integrato nel quale varie discipline («sociobiologia umana, psicologia evoluzionistica, ecologia del comportamento umano, coevoluzione geni-cultura, memetica», ibid.) collaborino alla creazione di «una visione pluralista dell’evoluzione della mente umana» (ivi: 244). Quanto precede basta da solo a rendere necessario un esame ravvicinato della teoria di Sperber. 104 Il § 3.2.1 costituisce una sorta di commentario analitico de Il contagio delle idee (Sperber 1996), condotto capitolo per capitolo; il suo scopo, anche a costo di cadere nella prolissità e nella pedanteria, è quello di presentare nel modo più dettagliato possibile una teoria importante 104

L’obiezione sperberiana è implicita anche in una discussione più recente ed equilibrata della Memetica e delle sue difficoltà nell’ambito di una brillante apologia del darwinismo come controversa “teoria del tutto” (con le dovute limitazioni): cfr. Ferrari 2015: 213-214.

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che non di rado è stata considerata (anche dal suo stesso autore) un’alternativa radicale alla Memetica. Nel § 3.2.2, invece, verranno prese in esame le contro-obiezioni di Dennett e Dawkins all’obiezione precisa alla Memetica avanzata in Sperber 2000. 3.2.1. LA TEORIA EPIDEMIOLOGICA DELLE RAPPRESENTAZIONI Introduzione. Scopo di Sperber è quello di delineare le basi di un approccio naturalistico alla cultura, il cui cardine è costituito da un’epidemiologia delle idee (o rappresentazioni mentali: idea e representation sono usati pressoché intercambiabilmente) connessa alla teoria della pertinenza (Sperber 1996: 6). Sperber usa senza indugio un linguaggio fisicalistico quando descrive il meccanismo di trasferimento delle idee o rappresentazioni da un cervello all’altro nel processo comunicativo: le idee nel cervello determinano o causano comportamenti osservabili, i quali, a loro volta, determinano o causano idee a volte simili alle prime (quando si riesce a farsi capire) nel cervello dell’osservatore. La cultura è costituita da idee contagiose che si trasmettono e propagano precisamente attraverso un siffatto processo materiale (material process). La traslazione della nozione di epidemiologia dall’ambito medico-sanitario a quello culturale è così diffusa che ormai, quando si parla di “contagio delle idee”, non si ha più l’impressione di usare una metafora. L’epidemiologia non è, dunque, solo lo studio di malattie contagiose, perché può essere applicata sia a malattie non contagiose (come il diabete) sia a stati contagiosi che tuttavia non sono malattie (come la credenza nelle streghe). L’approccio epidemiologico ha la peculiarità di concepire i macrofenomeni descrivibili a livello di popolazione come effetti cumulativi di microprocessi che avvengono su scala più ridotta, come la trasmissione di una malattia o di una rappresentazione mentale da un individuo all’altro (cfr. ivi: 8). Nel ricordare i precedenti, Sperber fa cenno al vecchio Le leggi dell’imitazione (1895) del sociologo francese Gabriel Tarde e soprattutto ai più recenti approcci neodarwinisti, come quelli di Campbell, Cavalli-Sforza, Wilson e altri. Già qui Sperber si sofferma un po’ di più sui memi di Dawkins, per dire che approcci di questo tipo, ispirandosi principalmente alla genetica delle popola-

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zioni (macrofenomeno), relegano in secondo piano gli aspetti psicologici della trasmissione culturale interindividuale (microprocessi). In tal senso, il suo approccio può collocarsi in una posizione precisa (anche se, sulla scorta di quanto abbiamo già visto e come vedremo meglio in seguito, non è del tutto esatto accusare la Memetica di trascurare gli aspetti cognitivi; l’osservazione sembra più pertinente nel caso, ad esempio, di Cavalli-Sforza): «[c]redo che la psicologia cognitiva fornisca una delle fonti principali di intuizione per spiegare la cultura. L’approccio che difendo qui è insieme epidemiologico e cognitivo e (...) più vicino al darwinismo sul versante cognitivo che su quello epidemiologico» (ivi: 9). L’epidemiologia delle rappresentazioni, dunque, può ambire al rango di programma di ricerca naturalistico delle scienze sociali, non dimenticando tuttavia che l’eclettismo salutare (cfr. ivi: 8 e 10) tipico delle scienze sociali, se esonera queste ultime da un appiattimento eccessivo sul metodo sperimentale e generalizzante proprio delle scienze naturali, deve comunque porle in continuità con queste ultime, nel senso che esse dovrebbero dialogare proficuamente con ambiti disciplinari adiacenti e già in avanzato stato di naturalizzazione, come è il caso appunto delle scienze cognitive (cfr. ivi: 10-11). Così come le scienze cognitive hanno dovuto affrontare la questione filosofica della collocazione del loro oggetto principale (i fenomeni mentali) nell’ambito della natura, allo stesso modo un programma di naturalizzazione delle scienze sociali deve rispondere alla domanda ontologica sul posto che occupano nella natura gli oggetti sociali, come la politica, il diritto, la religione, l’economia e l’arte. E così come le scienze cognitive cercano la naturalizzazione dei loro oggetti in almeno tre modi diversi (riduzione pura e semplice del mentale al naturale in quanto identici; indebolimento dei criteri naturalistici per salvaguardare l’intraducibilità del mentale in termini naturali, fatta salva l’identità ontologica ultima; riconcettualizzazione eliminativistica che esclude tutti i concetti non traducibili in termini naturalistici), lo stesso compito, secondo Sperber, deve essere affrontato dalle scienze sociali. Rifiutando il riduzionismo in quanto impossibile e le procedure di indebolimento della nozione di “naturale” in quanto inutili per gli oggetti sociali, Sperber opta per la terza via: «[c]redo invece che un approccio epidemiologico renda possibile, e anche necessario,

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riconcettualizzare il sociale. La mia proposta è la più modesta possibile per quanto sia concesso a progetti così ambiziosi. (...) [I]l nuovo schema concettuale stabilisce una relazione sistematica con quello standard, e ciò rende possibile trarre il massimo dei benefìci dai risultati già acquisiti nelle scienze sociali. Lo scopo del programma naturalistico si rivela essere non una Grande Teoria una fisica del mondo sociale, come l’immaginava Auguste Comte - ma un complesso di modelli interconnessi di scala media» (ivi: 12). 1. Come essere un vero materialista in antropologia. Le scienze sociali, e in particolare l’antropologia, non possono sottrarsi a una discussione sull’ontologia dei propri oggetti. Le scienze naturali, da parte loro, sono ormai coerentemente materialiste (o fisicaliste): i loro oggetti, dai batteri ai cervelli, dagli atomi alle stelle, sono radicalmente fisici e le loro interazioni causali sono dovute esclusivamente alle loro proprietà fisiche. Ma che genere di cose sono le cose culturali? Secondo Sperber, le opzioni ontologiche in campo sono di tre tipi: il monismo materialistico, che risulta vuoto in quanto non va oltre il postulato generico che proclama la natura materiale di tutte le cose; 2) il materialismo storico, che è autocontraddittorio nella misura in cui, pur inglobando il materialismo vuoto, si rivela una forma mascherata di dualismo laddove postula un rapporto di determinazione causale che va in modo unidirezionale da un livello propriamente materiale dell’ordine sociale (ecologia ed economia) ad uno non materiale (politica e cultura); 3) il pluralismo, che postula l’autonomia della sfera culturale senza mai spiegare nel dettaglio né la sua collocazione spaziotemporale né il meccanismo della sua interazione causale con quella materiale (cfr. ivi: 16-17). 1)

Poiché gli antropologi usano un linguaggio che fa riferimento a cose come i matrimoni, i sacrifici, le istituzioni religiose, i sistemi giuridici, ecc., sembra che questi loro oggetti siano irriducibili al livello della psicologia e della biologia e che quindi sia per loro naturale assumere un antiriduzionismo basato sull’idea dell’autonomia della sfera socio-culturale, ovvero almeno un dualismo ontologico. Secondo Sperber, tuttavia, non occorre pensare

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che questo comporti necessariamente un dualismo forte, cioè ontologicamente troppo impegnativo, perché l’antiriduzionismo in realtà è «compatibile con una forma modesta di materialismo che renda conto dei differenti livelli ontologici in un mondo interamente materialista» (ivi: 18). Gli sviluppi più recenti della filosofia della psicologia, infatti, possono suggerire agli antropologi un modo per non rimanere imprigionati nella gabbia di una scelta forzata tra le tre opzioni suddette, anche se tra la psicologia e l’antropologia rimane una profonda “disanalogia” (ivi: 20; disanalogy, ed. orig. p. 14) dovuta a questioni ontologiche essenziali. Nella ricostruzione di Sperber, è di Alan Turing il merito della rivoluzione concettuale che ha permesso alla psicologia di uscire dall’infanzia ingenuamente dualista e dalla secca della “censura comportamentista” (ivi: 18; behaviourist stricture, ed. orig. p. 13) sugli stati mentali. Turing, infatti, ha reso trattabile il problema della modellizzazione dei processi mentali e della loro realizzazione in strutture materiali in grado di elaborare le informazioni, spianando la strada a una forma di materialismo modesto che «assicura tuttavia una certa autonomia al livello psicologico» (ivi: 19). L’idea della macchina di Turing, con le sue implicazioni sulla realizzabilità multipla, consente così da un lato di uscire dal riduzionismo forte implicito nella teoria dell’identità dei tipi e dell’eliminativismo, e dall’altro di rimanere dentro il materialismo aderendo alla teoria dell’identità delle occorrenze, la quale, postulando la neutralità rispetto al sostrato materiale dei processi mentali, garantisce a questi ultimi un’autonomia ontologica sufficiente a trattarli in maniera relativamente indipendente (alla luce di quanto visto nel capitolo precedente, non si può concordare con Sperber laddove inserisce Dennett in una lista di eliminativisti per i quali il vocabolario dei tipi psicologici sarebbe privo di riferimento nel mondo, cfr. ivi: 20). L’adozione di un siffatto materialismo modesto sembra problematica per l’antropologia, la quale tratta categorie che, contrariamente a quelle della psicologia, non sono localizzabili. Per i suoi concetti e per le sue entità teoriche è difficile prefigurare una analoga teoria dell’identità delle occorrenze; essi, per Sperber, sono meri “strumenti interpretativi” (ivi: 21) dai quali non è possibile trarre conseguenze ontologiche, per cui l’autonomia della sfera culturale, fatto salvo il sapere prezioso, ancorché privo di preoccupazioni ontologiche, accumulato dagli antropologi, è assai più problematica di quella psicologica.

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Quello degli antropologi, dunque, è un vocabolario non teorico (cioè con impegni ontologici sul riferimento dei termini) ma interpretativo. Qui Sperber si richiama alla nozione tardo-wittgensteiniana di somiglianza di famiglia, ma per apportarvi una significativa correzione. Le somiglianze riguardano non tanto le cose o le attività denotate, quanto piuttosto i significati dei termini stessi: «[i] termini tecnici antropologici non vengono però usati semplicemente per descrivere, ma anche per tradurre o rendere i vocaboli o le nozioni dei nativi (o quelle che gli antropologi attribuiscono loro). Essi non sono usati descrittivamente, ma interpretativamente: più che di una somiglianza tra le cose cui ci si riferisce con il termine, si tratta di una somiglianza di significato fra tutte le nozioni rese attraverso il termine: possiamo chiamarla una ‘somiglianza interpretativa’» (ivi: 22). E così, per esempio, quando un antropologo parla di elfi per descrivere una credenza, lungi dal fare assunzioni ontologiche sugli elfi, si limita a rappresentare nella propria cultura la rappresentazione di un’altra cultura, riferendosi a una rete di somiglianze di significato tra termini come folletto, gnomo, spiritello ecc. (cfr. ivi: 23). Quando un antropologo descrive e interpreta oggetti culturali come matrimoni, sacrifici e tribù, non ci dice nulla sulla loro appartenenza o meno all’elenco delle cose che arredano il mondo. L’esempio dettagliato di ciò che gli antropologi intendono quando usano un termine vago e tuttofare come “matrimonio” per pratiche sociali tra loro diversissime mostra che in realtà la somiglianza di famiglia degli impieghi non dipende da vincoli descrittivi relativi a cose accomunate da proprietà, ma si tratta di una somiglianza relativa a nozioni interpretate attraverso il termine usato (cfr. ivi: 23-27): se un antropologo ci dice che due individui Ebelo sono sposati, noi intendiamo implicitamente che egli non si riferisca a un oggetto del mondo ma a un sistema di rappresentazioni culturali sotto forma di credenze nella mente di un certo numero di individui, visto che gli Ebelo coinvolgono nella nozione di matrimonio la benedizione degli spiriti degli antenati. Generalizzando, dice Sperber, «[q]uello che vale per ‘matrimonio’ vale in generale per il vocabolario dell’antropologia. ‘Tribù’, ‘casta’, ‘clan’, ‘schiavitù’, ‘stato’, ‘guerra’, ‘rituale’, ‘religione’, ‘tabù’, ‘magico’, ‘stregoneria’, ‘possessione’, ‘mito’, ‘storie’ e così via, sono tutti termini interpretativi. Esiste una somiglianza di famiglia - di tipo interpretativo - fra tutte le nozioni che ognuno di questi termini serve a rendere; quando sono usati per riferire esempi specifici di eventi

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o di stati di cose, essi aiutano il lettore a farsi un’idea del modo in cui le persone descritte percepivano la situazione (‘vedere le cose dal punto di vista indigeno’, come si usa dire). Cosa ci dicono questi resoconti interpretativi della natura di quello che sta avvenendo? Sicuramente che alcune rappresentazioni sono state concepite e comunicate» (ivi: 28). A questo punto Sperber può abbozzare i lineamenti di un’ontologia degli oggetti culturali che le scienze cognitive, sulla base di quelle fisiche, possono fornire alle scienze sociali. Se osserviamo esseri umani che si muovono in un ambiente fisico e producono effetti (per esempio, stanno uccidendo un animale), per capire quello che sta succedendo (per esempio, se stanno sacrificando o semplicemente macellando) dobbiamo chiamare in causa le rappresentazioni, sia pubbliche (codici semiotici di vario tipo) sia private (oggetti mentali come credenze, intenzioni, ecc.). Le scienze cognitive, secondo Sperber, sono in grado oggi di sottrarre al regno del mistero e di rendere trattabile il problema della materialità delle rappresentazioni private, la materialità di quelle pubbliche non essendo controversa (cfr. ivi: 29). In tal modo le scienze sociali possono ridefinire la propria nozione di rappresentazione mutuando quella maturata nell’ambito delle scienze cognitive e guadagnando così una legittimazione all’interno di un programma di ricerca adeguatamente materialista. L’epidemiologia delle rappresentazioni è una teoria delle idee e della loro comunicazione interindividuale che descrive la situazione nel modo seguente: «[c]osì come si può dire che una popolazione umana sia abitata da una popolazione molto più numerosa di virus, si può dire anche che sia abitata da una popolazione molto più numerosa di rappresentazioni mentali. La maggior parte delle rappresentazioni si trova in un solo individuo; alcune, invece, vengono comunicate: sono prima trasformate da chi le comunica in rappresentazioni pubbliche e poi ritrasformate da chi le percepisce in rappresentazioni mentali. Un numero molto ristretto di queste rappresentazioni comunicate viene comunicato ripetutamente. Attraverso la comunicazione (o, in altri casi, l’imitazione), alcune di esse si diffondono in una popolazione umana e possono abitarne ogni singolo membro per molte generazioni. Rappresentazioni così diffuse e durevoli sono casi paradigmatici di rappresentazioni culturali» (ivi: 30). Come si vede, si tratta di un quadro che, terminologia a parte, fino a questo punto è presso-

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ché identico a quello offerto dalla Memetica, ma Sperber aggiunge subito una considerazione che sembra costituire il punto essenziale che differenzia le sue rappresentazioni dai memi. A suo modo di vedere, a differenza dei virus, che mutano occasionalmente, le rappresentazioni mutano incessantemente e la fedeltà di copiatura è solo un caso limite. Il motivo è intrinseco allo stesso meccanismo cognitivo della trasmissione e della ricezione: una rappresentazione mentale deve essere espressa pubblicamente da una mente e un’altra mente deve interpretarla nella sua dimensione pubblica per ritrasformarla in una nuova rappresentazione mentale nell’atto della ricezione, della comprensione e della memorizzazione, e questo innesca un meccanismo che produce inevitabilmente molteplici versioni pubbliche e private di una stessa rappresentazione. Queste connessioni a catena, per quanto intricate e multiformi, si strutturano secondo lo schema elementare mentale-pubblico-mentale, e sebbene impediscano di pervenire a una teoria unificata, per via delle diverse logiche cui rispondono le capacità di propagazione delle diverse rappresentazioni, sono inscrivibili nel quadro ontologico di un approccio coerentemente materialistico: «[n]onostante questa eterogeneità, l’ontologia di un’epidemiologia delle rappresentazioni è strettamente materialista: le rappresentazioni mentali sono stati del cervello descritti in termini funzionali, e l’interazione materiale tra cervelli, organismi e ambiente ne spiega la distribuzione» (ivi: 31). Un mito, per esempio, dev’essere considerato come coincidente con l’insieme delle sue versioni e un modello esplicativo deve poter rendere conto, oltre che di fattori ecologici come la presenza o meno di contenitori esterni della memoria (come ad esempio la scrittura), delle catene causali di narrazioni e storie che legano insieme le varie versioni sulla base da un lato di una descrizione delle rappresentazioni pubbliche di cui c’è traccia e dall’altro di congetture su quelle private, inevitabilmente inaccessibili (cfr. ivi: 32). Secondo Sperber, un tale approccio, benché non nuovo, ha il merito di assegnare alla dimensione cognitiva il ruolo che le compete, senza che naturalmente questo implichi una riduzione delle scienze sociali alla psicologia cognitiva; piuttosto, l’epidemiologia delle rappresentazioni concepisce i fenomeni socio-culturali come “distribuzioni ecologiche di fenomeni psicologici” (ivi: 35 e 63). Altri approcci, tra cui quelli di Cavalli-Sforza e Dawkins, a suo parere, riducono il sistema mente/cervello a un semplice dispositivo di duplicazione rispettivamente di tratti culturali

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e di memi, ma «recuperare informazione non è l’inverso di immagazzinarla e comprendere non è l’inverso di esprimersi. La memoria e la comunicazione trasformano l’informazione» (ivi: 35). Come si vede, Sperber ha interesse ad insistere sul fatto che Dawkins non abbia sviluppato la teoria dei memi in senso cognitivo, ma trascura i contributi in tale direzione di altri, a cominciare da Dennett, che non a caso, come diremo meglio più avanti, vede in Sperber un falso nemico della Memetica (ma si pensi anche a Westoby 1994, dove non si trascura la fase mentale della vita degli oggetti culturali). Quanto visto in precedenza a proposito di Castelfranchi e Minsky, poi, rende spuntata l’obiezione di Sperber. Del resto, come dimostra anche l’esempio del meme-idea del darwinismo proposto da Dawkins, quest’ultimo aveva ben presente il problema già nella prima formulazione della teoria, cui pure Sperber fa riferimento in modo generico.105 2. Interpretare e spiegare le rappresentazioni culturali. Un gruppo sociale, dunque, è abitato da un numero di rappresentazioni di gran lunga superiore a quello dei suoi membri (ciascuno, da solo, ha in testa milioni di rappresentazioni mentali, senza contare quelle pubbliche), ma il loro grado di persistenza e diffusione è estremamente variabile: si va da quelle effimere, che nascono e 105

Cfr. infatti Dawkins 1976: 205: “quando diciamo che tutti i biologi oggi credono nella teoria di Darwin non vogliamo dire che ogni biologo ha, incisa nel cervello, una copia identica delle parole esatte di Charles Darwin. Ciascun individuo ha il suo modo personale di interpretare le idee di Darwin, che non ha probabilmente imparato dagli scritti originali dello scienziato ma da autori più recenti. Molto di quanto Darwin ha detto è, in dettaglio, sbagliato. Se Darwin leggesse questo libro a fatica vi riconoscerebbe la sua teoria originale (spero però che gli piacerebbe il modo in cui la esprimo). Eppure, a dispetto di tutto ciò, c’è qualcosa, una sorta di essenza del darwinismo, che è presente nella testa di ogni individuo che capisce la teoria. Se non fosse così, allora non si potrebbe quasi mai dire che due persone sono d’accordo. Un ‘meme-idea’ potrebbe essere definito come un’entità che è capace di essere trasmessa da un cervello a un altro. Il meme della teoria di Darwin è perciò quella base essenziale dell’idea che è comune a tutti i cervelli che capiscono la teoria. Le differenze nel modo in cui la gente rappresenta la teoria non sono allora, per definizione, parte del meme. Se la teoria di Darwin può essere suddivisa in componenti, così che alcuni credono al componente A ma non al componente B, mentre altri credono a B ma non ad A, allora A e B dovrebbero essere considerati memi separati. Se quasi tutti quelli che credono ad A credono anche a B - se i memi sono, per usare il termine genetico, strettamente ‘legati’ (linked) - allora è conveniente unirli insieme in un unico meme”.

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muoiono nelle menti nel giro di pochissimo tempo oppure non si diffondono pur essendo espresse pubblicamente, a quelle che durano millenni attraverso le generazioni e occupano vasti spazi pubblici e mentali. Sperber chiama rappresentazioni culturali il sottoinsieme (dai confini incerti) largamente diffuso e duraturo di tutte le rappresentazioni che abitano un certo gruppo e sottolinea che ogni rappresentazione mette in gioco almeno tre elementi: il rappresentante (that which represents), il rappresentato (that which is represented) e il fruitore (the user of the representation), cui si può aggiungere un produttore (producer) nei casi in cui questi non coincida con il fruitore (cfr. ivi: 37-38). Il rapporto tra rappresentazioni pubbliche e mentali con cui si intende veicolare uno stesso contenuto è un rapporto di interpretazione: «[u]n’interpretazione è una rappresentazione di una rappresentazione in virtù di una somiglianza di contenuto. In questo senso, una rappresentazione pubblica, il cui contenuto assomiglia alla rappresentazione mentale che serve a comunicare, è un’interpretazione di quella rappresentazione mentale. Di converso, la rappresentazione mentale che risulta dalla comprensione di una rappresentazione pubblica ne è un’interpretazione. Il processo di comunicazione può essere scomposto in due processi di interpretazione: uno dal mentale al pubblico, l’altro dal pubblico al mentale» (ivi: 39). Di conseguenza, poiché l’antropologo studia rappresentazioni culturali dotate di un contenuto attraverso l’individuazione delle credenze e delle intenzioni che sottostanno a determinati comportamenti individuali o collettivi, il suo lavoro è tipicamente interpretativo ed è rivolto solitamente a rappresentazioni collettive, cioè a rappresentazioni attribuite a un intero gruppo e tali che potrebbero non essere mai state pensate o espresse da un singolo individuo (cfr. ivi: 40-42): «[s]i può fare l’ipotesi che la migliore interpretazione sia la più fedele, ossia quella dal contenuto più simile a quello della rappresentazione interpretata. Se si riflette, però, le cose non sono così semplici. Se il suo scopo fosse quello di massimizzare la fedeltà, l’antropologo pubblicherebbe solo le traduzioni delle parole davvero pronunciate. La maggior parte delle frasi ascoltate dall’antropologo hanno invece senso solo nel contesto molto specifico in cui sono state pronunciate; sono basate su rappresentazioni culturali condivise che le frasi stesse non esprimono direttamente» (ivi: 43). Normalmente un antropologo spiega una rappresentazione culturale nel senso che la interpreta rendendola intelligibile al

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pubblico. Ma spiegare, sostiene Sperber, significa anche individuare un meccanismo che è in azione (cfr. ivi: 45) e in tal senso possono darsi quattro tipi di spiegazione. 1. Generalizzazioni interpretative: si parte da un’interpretazione di un certo fenomeno circoscritto a una data cultura e la si estende fino a comprendere tutti i fenomeni dello stesso tipo in tutte le culture, sulla base di dati sempre nuovi e diversi. La loro utilità consiste al massimo nell’aiuto che esse forniscono nella ricerca di un’interpretazione di fenomeni locali, ma non si tratta di spiegazioni ed ipotesi vere e proprie (cfr. ivi: 46-47). 2. Spiegazioni strutturaliste: sulla base delle prime, queste cercano di mostrare che «l’estrema diversità delle rappresentazioni culturali può risultare o da variazioni di un piccolo numero di temi sottostanti, o da varie combinazioni di un repertorio finito di elementi, o da trasformazioni regolari di strutture sottostanti semplici» (ivi: 47). In tal modo si privilegiano le relazioni di somiglianza (per esempio per imitazione) o differenza (per esempio per inversione) tra rappresentazioni culturali, ma ciò, osserva Sperber, pone un problema sia metodologico (siffatte relazioni sussistono fra interpretazioni di rappresentazioni, ma così qualsiasi cosa complessa può essere confrontata con qualsiasi altra, al punto che Cappuccetto rosso, l’eroina femminile che ama la madre e incontra una creatura infra-umana rassicurante che le vuole male e le dice di non affrettarsi, può essere interpretata come un’inversione strutturale di Amleto, l’eroe maschile che odia la madre e incontra una creatura umana terrificante che gli vuole bene e gli dice di fare presto) sia teorico (le analisi strutturali non sono veramente esplicative, nemmeno laddove fanno assunzioni non supportate dalla psicologia sulle basi mentali delle strutture, e inoltre non sono in grado di rendere conto della differenza tra proprietà epifenomeniche e strutturali di un fenomeno culturale, cfr. ivi: 48-50). 3. Spiegazioni funzionaliste: sono quelle, molto popolari in antropologia, che insistono sugli effetti positivi (oppure anche negativi o conflittuali, e in tal caso si rientra in quella particolare variante del funzionalismo costituita, secondo Sperber, dal marxismo) di un fenomeno culturale sul

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gruppo che lo produce, da un punto di vista biologico, psicologico o sociale, a seconda dei casi. Queste spiegazioni, però, mostrano il fianco a due obiezioni. La prima riguarda il potere esplicativo: «[p]uò la descrizione di un fenomeno culturale fornire una spiegazione per questo fenomeno? In linea di principio sì, ma con due riserve: primo, gli effetti del fenomeno non possono mai spiegare il suo emergere; secondo, per mostrare come gli effetti del fenomeno ne spieghino lo sviluppo, o almeno la persistenza, bisogna stabilire l’esistenza di qualche meccanismo di feedback» (ivi: 51). Il problema, osserva Sperber, è che spesso i funzionalisti mostrano che un determinato fenomeno culturale ha effetti benefici sulle possibilità di sopravvivenza dei “portatori” (carriers: ed. orig. p. 47), ma non forniscono spiegazioni sufficienti né hanno molto da dire sui fenomeni culturali persistenti e in qualche modo dannosi, nel senso che il loro contributo alla sopravvivenza non è correlato o è correlato negativamente alla loro persistenza. La seconda obiezione è ancora più grave, perché tocca i fondamenti concettuali del metodo, dal momento che esso «non fornisce alcun principio specifico per l’identificazione di tipi di fenomeni culturali, ma si basa in modo totalmente acritico su un approccio interpretativo» (ivi: 52), nel senso, visto in precedenza, di ‘interpretativo’ (senza impegni ontologici) in quanto contrapposto a ‘descrittivo’. Poiché i criteri per l’identificazione di un tipo di fenomeno culturale si basano su interpretazioni e non su funzioni né su comportamenti, l’antropologo si trova in una situazione di arbitrio ermeneutico che gli impedisce di pervenire a solide spiegazioni causali (cfr. ivi: 52). 4. Modellizzazione epidemiologica: un epidemiologo delle rappresentazioni culturali si chiede innanzi tutto perché queste abbiano più successo di altre in una data popolazione, posto che la loro natura, rispetto a quelle semplicemente individuali, sia determinata dalla persistenza e dal grado di diffusione sul piano psicologico ed ecologico. In tal senso, «[l]a spiegazione causale dei fatti culturali diventa (...) una sorta di epidemiologia delle rappresentazioni. Un’epidemiologia delle rappresentazioni cercherà di spiegare i macrofenomeni culturali come l’effetto cumula-

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tivo di due tipi di micromeccanismi: i meccanismi individuali responsabili della formazione delle rappresentazioni mentali e quelli interindividuali che, attraverso alterazioni dell’ambiente, sono la causa della trasmissione delle rappresentazioni» (ivi: 53). La connessione tra certe pratiche culturali con l’atteggiamento di credenza dei membri di un gruppo da un lato e con la loro efficacia dall’altro non è sempre stretta e l’epidemiologia deve rendere conto soprattutto di quei casi in cui certe pratiche persistono anche quando la loro efficacia è dubbia o inesistente (cfr. ivi: 5455). È qui che Sperber salda antropologia cognitiva e teoria della pertinenza: «[e]cco la proposta dell’approccio epidemiologico e cognitivo. Nel processo di trasmissione le rappresentazioni vengono trasformate; ciò non avviene solo in maniera casuale, ma in direzione di contenuti che richiedano minor sforzo mentale e generino un maggior numero di effetti cognitivi. Questa tendenza a ottimizzare il rapporto effetto-sforzo - e quindi la pertinenza delle rappresentazioni trasmesse (si veda Sperber e Wilson 1986) porta alla trasformazione progressiva delle rappresentazioni in una data società verso contenuti pertinenti nel contesto l’uno dell’altro» (ivi: 56). Per realizzare questo compito esplicativo, l’antropologo non deve fare altro che attivare i normali meccanismi interpretativi, basati sulla ricostruzione di catene causali che trasferiscono e trasformano contenuti dal piano mentale all’espressione pubblica, che nella vita ordinaria ci consentono di leggere le menti altrui e individuare le rappresentazioni pertinenti nel corso della trasmissione comunicativa interindividuale. Le domande cui cerca di rispondere l’epidemiologo delle rappresentazioni, allora, sono le seguenti (e si noti che esse sono in larga misura le stesse che tipicamente si pone il memetista, cui Sperber erroneamente non riconosce il possesso di una teoria cognitiva della costruzione e della ricostruzione delle rappresentazioni): «[q]uali sono i fattori che portano un individuo a esprimere una rappresentazione mentale nella forma di una rappresentazione pubblica? Quali rappresentazioni mentali è probabile siano costruite dai destinatari di una rappresentazione pubblica? Quali trasformazioni di contenuto è probabile che siano generate da questo

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processo? Quali fattori e quali condizioni rendono probabile la comunicazione ripetuta di alcune rappresentazioni? Quali proprietà, generali o contestuali, deve avere una rappresentazione per conservare un contenuto relativamente stabile nonostante le comunicazioni ripetute?» (ivi: 57-58). 3. Antropologia e psicologia: verso un’epidemiologia delle rappresentazioni. Qual è la relazione tra l’antropologia, in quanto studio dei fatti culturali, e la psicologia, in quanto studio dei processi cognitivi? Un’antropologia cognitiva, secondo Sperber, deve fare luce non solo sul fatto ovvio che la mente rende possibile la cultura ma anche sui meccanismi attraverso cui le capacità mentali determinano il contenuto e l’organizzazione stessa della cultura, dal momento che esiste una “psychological susceptibility to culture ” (ed. orig. p. 57), senza che questo implichi necessariamente una riduzione dell’antropologia alla psicologia. Il rapporto tra la mente umana e le rappresentazioni culturali, secondo Sperber, è in qualche modo analogo a quello tra il corpo e le malattie: «[l]a mente umana è suscettibile alle rappresentazioni culturali così come il corpo lo è alle malattie. Ovviamente le malattie sono per definizione nocive mentre le rappresentazioni non lo sono, ma pensate davvero che tutte le rappresentazioni culturali siano utili, funzionali o adattive? Io non lo credo. Alcune rappresentazioni sono utili, altre dannose; la maggior parte non ha probabilmente alcun effetto evidente negativo o positivo sul benessere individuale, del gruppo o della specie» (ivi: 60). Esaminare la distribuzione di certe rappresentazioni culturali in una popolazione è il primo passo per spiegare il motivo per cui alcune hanno più successo di altre, dove il successo è misurato dal grado del contagio. Ancora una volta Sperber sottolinea qui ciò che a suo parere distingue nettamente la sua epidemiologia delle rappresentazioni da altri modelli, come ad esempio quelli di Dawkins (1976) da un lato e Cavalli-Sforza e Feldman (1981) dall’altro. Questi modelli, in particolare, mentre da un lato trascurano certe differenze sostanziali tra la trasmissione delle malattie e quella delle rappresentazioni, dall’altro sottovalutano alcune analogie profonde. Innanzi tutto, occorre distinguere tra le tradizioni culturali, che si trasmettono lentamente attraverso le generazioni e corrispondono alle malattie endemiche, e le mode, che si trasmettono rapidamente e corrispondono alle epidemie. E mentre l’epidemiologia standard deve basarsi sulla replicazione di virus e batteri, in cui i fenomeni

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di mutazione sono rari e casuali, l’epidemiologia delle rappresentazioni deve partire dall’assunto che in ambito culturale è la replicazione ad essere rara, perché nel processo di trasmissione, come visto, la norma è la trasformazione e la replica esatta da una mente all’altra è un caso limite. In un altro senso, tra le due epidemiologie c’è una somiglianza profonda che consente di andare oltre l’alternativa tra riduzionismo e antiriduzionismo: così come l’epidemiologia standard, pur studiando fenomeni statistici e collettivi su larga scala, non può prescindere dalla patologia e dal suo impatto sull’individuo, allo stesso modo l’epidemiologia delle rappresentazioni non può prescindere dalla psicologia cognitiva, cioè dal luogo di incubazione degli elementi culturali. Queste ultime devono sovrapporsi parzialmente e ciò rende superflue le discussioni sulla riduzione della prima alla seconda o sulla loro indipendenza reciproca (cfr. ivi: 60-62). Si noti, di passaggio, che questa posizione di Sperber non solo è compatibile con la Memetica cognitiva ma è anche implicita nel modo in cui Popper tratta le compenetrazioni tra Mondo 2 e Mondo 3, come abbiamo visto nel primo capitolo. Quando Sperber, contro gli antiriduzionisti, nega ai fenomeni culturali l’appartenenza a un livello autonomo di realtà (cfr. ivi: 63), di fatto sta solo colpendo le versioni platonizzanti dei livelli ontologici, non certo il riconoscimento di un ordine di contenuti culturali prodotto dalle menti umane, veicolato dalle rappresentazioni e oggetto di una molteplicità di modelli esplicativi possibili (cfr. ibid. e passim per i numerosi riferimenti al contenuto delle rappresentazioni). Non è un caso che proprio in questo contesto ci si imbatta in un riferimento a Popper 1972, la prima raccolta di saggi in cui è delineata la teoria dei tre mondi. Ricapitolando la propria teoria della rappresentazione (la relazione a tre fra rappresentante, rappresentato e fruitore e la distinzione tra rappresentazioni pubbliche e mentali, entrambi tipi di oggetti materiali collocati nello spazio e nel tempo, nonché il compito per l’epidemiologia delle rappresentazioni di ricostruire le catene causali che si vengono a creare nel transito comunicativo dalle menti al mondo e dal mondo alle altre menti: cfr. ivi: 64), Sperber introduce un elemento nuovo, ovvero una terza nozione di rappresentazione, quella di rappresentazione astratta. Contrariamente alle altre, questa ha proprietà formali che possono essere discusse di per sé, senza alcun riferimento ai cervelli e ai veicoli materiali. Se ad

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esempio siamo interessati al rapporto narratologico tra Cappuccetto Rosso e Pollicino o Amleto, possiamo prescindere dalla loro concretizzazione nelle menti e nelle tracce di inchiostro e concentrarci sulle loro strutture astratte, le cui proprietà formali possono essere messe a confronto nelle pratiche discorsive della critica letteraria. Ma che tipo di oggetti sono le rappresentazioni astratte e in che rapporto stanno con quelle materiali (mentali e pubbliche)? Secondo Sperber le proprietà formali delle rappresentazioni astratte possono essere trattate in due modi which are not incompatible (aggiunge tra parentesi: ed. orig. p. 63): «come proprietà di oggetti astratti presi in considerazione in quanto tali (approccio platonista) o come proprietà che un meccanismo di trattamento dell’informazione, in questo caso la mente umana, può attribuire e utilizzare (approccio psicologico). In altre parole, le proprietà formali delle rappresentazioni (o almeno alcune di esse) possono essere considerate come proprietà potenzialmente psicologiche e sono significative per un’epidemiologia delle rappresentazioni. (...) L’approccio platonista può essere di grande interesse intrinseco, ma non è appropriato nel caso della ricerca di una spiegazione causale dei fatti culturali. Bisogna considerare sia le rappresentazioni mentali sia quelle pubbliche, e le proprietà formali devono essere descritte in termini psicologici» (ivi: 66). Ora, è proprio qui che Sperber rimanda in nota a Popper 1972 (unica opera popperiana citata nel libro) come esempio di un tipo di approccio che lui genericamente definisce Platonist, senza ulteriori specificazioni e soprattutto senza dire che sta alludendo alla teoria dei tre mondi. Ma a questo punto risulta del tutto evidente che la teoria sperberiana dei tre tipi di rappresentazioni, tolte le specificità terminologiche, non è altro che una declinazione di alcuni aspetti precisi della teoria popperiana che abbiamo illustrato alla fine del primo capitolo. Le rappresentazioni astratte, infatti, ovvero i loro contenuti, non sono altro che oggetti del Mondo 3 di Popper propriamente detto; quelle pubbliche coincidono con oggetti del Mondo 3 realizzati nel Mondo 1 esterno, mentre quelle mentali coincidono con i pattern neurali che tracciano nel Mondo 1 cerebrale gli oggetti del Mondo 3 disponibili al Mondo 2. Se questa interpretazione è corretta, allora la teoria di Sperber, lungi dall’essere un’alternativa all’approccio memetico e popperiano, fornisce un’interessante riformulazione del programma di ricerca unificato che qui cerchiamo di delineare.

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Il problema di discipline come l’antropologia e la sociologia, secondo Sperber, è che essere privilegiano il lato astratto delle rappresentazioni, indipendentemente dal fatto che l’ap-proccio sia materialista o idealista: «[l]a differenza tra coloro che si proclamano materialisti e coloro che sono da essi accusati di idealismo è che i materialisti vedono le rappresentazioni più come effetti di condizioni materiali, mentre gli idealisti le vedono più come cause di tali condizioni» (ibid.). Ora, può essere utile limitarsi a pattern astratti e sostenere, per esempio, che le strutture economiche determinino le sovrastrutture religiose; questo genere di spiegazioni, però, è incompleto, perché trascura i fattori ecologici microstrutturali relativi all’ambiente fisico pubblico e a quello cerebrale privato i cui effetti cumulativi, per il tramite dell’espressione individuale e della comunicazione interindividuale, rendono possibile la disponibilità delle rappresentazioni a un livello astratto. L’approccio epidemiologico non sottovaluta l’importanza della domanda sui fattori che rendono certe rappresentazioni più contagiose di altre, perché l’ancoraggio alla base psicologica della questione consente di scorgere la non pertinenza di risposte come quelle che si richiamano a proprietà come la complessità: un numero di venti cifre è certamente meno complesso di una favola, eppure la mente umana non ha alcuna difficoltà a comprendere e memorizzare il contenuto di quest’ultima, mentre trova estremamente difficile memorizzare il primo, pur comprendendolo. D’altra parte, potremmo dire aggiornando gli esempi di Sperber, un piccolissimo dispositivo elettronico non ha alcuna difficoltà a immagazzinare in memoria un’intera biblioteca, mentre un compito del genere è di complessità proibitiva per una mente umana, che tuttavia riesce senza difficoltà a immagazzinare e a trattare un numero enorme di storie, cioè di contenuti in sé, e questa è una capacità che ancora non siamo nemmeno in grado di definire chiaramente per poterla modellizzare e trasferire a un cervello elettronico: «ciò che è complesso per un cervello umano è diverso da ciò che lo è per un computer; la complessità non è una spiegazione, ma qualcosa da spiegare. Quello che fa sì che alcune rappresentazioni siano più difficili da interiorizzare, ricordare, o esplicitare di altre, ossia quello che le rende più complesse per gli esseri umani è l’organizzazione delle capacità cognitive e comunicative umane» (ivi: 69). Mettendosi ora dal punto di vista dell’epistemologia evoluzionistica, Sperber introduce la distinzione tra disposizioni (dispositions) e ricettività (susceptibilities), intese come effetti delle

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capacità cognitive geneticamente determinate e selezionate dall’evoluzione. Quando entrambe hanno effetti positivi di adattamento è difficile distinguerle, ma le ricettività, che sono un effetto collaterale delle disposizioni, possono risultare nocive in seguito a trasformazioni nell’ambiente originario di selezione delle disposizioni. L’esempio classico è quello della disposizione al cibo dolce: nell’ambiente moderno, in cui lo zucchero è prodotto in abbondanza dall’industria, l’essere recettivi al consumo di dolci ha effetti dannosi sulla salute malgrado il ruolo adattivo fondamentale della disposizione di base evolutasi in un ambiente assai diverso (cfr. ivi: 69-70). Tale distinzione può gettare luce sulla teoria antropologicopsicologica dei sistemi concettuali delle varie culture, ovvero sulla formazione dei cosiddetti concetti di base. Secondo Sperber la teoria componenziale (il bambino impara il concetto di “mamma” combinando quelli di “genitore” e “femmina”) e quella dell’ostensione (“Questo è un uccello”) possono essere combinate postulando disposizioni innate a individuare certe componenti basilari della segmentazione tassonomica della realtà che si attivano automaticamente alla presenza di stimoli pertinenti, per cui un bambino capisce “uccello” e non, per esempio, “una cosa su un ramo”, se gli si mostra un esemplare di uccello poggiato su un ramo. Questo spiegherebbe il carattere contagioso e transculturale di certi concetti fondamentali, mentre l’apprendimento di quelli relativi a domini semantici culturalmente più specifici, come la scienza e la religione, può essere spiegato ricorrendo alla nozione di ricettività (cfr. ivi: 71-72). In particolare, discutendo delle capacità della nostra mente di produrre non solo rappresentazioni delle cose del mondo esterno (alcune delle quali andranno a costituire la trama enciclopedica delle nostre rappresentazioni empiriche basilari e trattate come vere: cfr. ivi: 73) ma anche rappresentazioni di rappresentazioni, Sperber spiega il fatto che la nostra mente sia esposta a influenze culturali di ogni genere come sottoprodotto della nostra disposizione innata a costruire concetti anche sulla base di un materiale in ingresso povero o poco chiaro: «[l]a mia ipotesi è che gli esseri umani abbiano una disposizione a usare le capacità metarappresentazionali per ampliare la propria conoscenza e il proprio repertorio concettuale. D’altronde, le capacità metarappresentazionali creano anche notevoli ricettività. La funzione più plausibile della capacità di avere concetti e idee compresi a metà è di fornire un passo intermedio nel processo di comprensione. Ma

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la stessa capacità rende possibile l’invasione della mente da parte di misteri concettuali che non potranno mai essere chiariti» (cfr. ivi: 75). Le strutture cognitive umane, dunque, agiscono da filtro per le rappresentazioni e incidono sulla probabilità, per ciascuna, di diffondersi e diventare culturali. Ma la competizione, anche fra rappresentazioni tutt’altro che perspicue, è dura e la razionalità intrinseca non sembra un buon criterio per spiegare il successo di certi concetti: «[i]l fatto che idee e concetti misteriosi possano facilmente soddisfare i criteri di razionalità non è sufficiente a garantirne il successo culturale. Esiste un’infinità di misteri in competizione per occupare lo spazio mentale, e quindi lo spazio culturale. Di quale vantaggio dispongono i misteri che vincono la competizione? La mia ipotesi è che i misteri culturali siano più evocativi e quindi più facili da ricordare. (...) Le rappresentazioni più evocative sono quelle più vicine alle altre rappresentazioni del soggetto, ma a cui non si può dare un’interpretazione definitiva. Sono questi misteri pertinenti, come possiamo chiamarli, ad avere il maggior successo culturale» (ibid.). (Tale osservazione di epidemiologia cognitiva, si può notare, è così vicina alla Memetica cognitiva che è ci difficile non concordare con Castelfranchi allorché, nella nota 1 del suo saggio del 2001 discusso nel capitolo precedente, egli rimanda rapidamente a Sperber definendo la sua teoria “a different and quite interesting approach”, anche se qui tendiamo a minimizzare la portata di quel “different”). Questo consente a Sperber di prendere una posizione precisa nell’ambito degli studi cognitivi sulle credenze religiose. A suo parere è fuorviante ricondurle a disposizioni innate e universali, come se fossero rappresentazioni empiriche, perché in tal caso il loro violento contrasto con il senso comune costituirebbe una pressione selettiva così forte che le condurrebbe rapidamente all’estinzione. Esse, piuttosto, si sviluppano grazie alla ricettività. La loro forza risiede, secondo Sperber, nella loro pertinenza nell’ambito di un ordine cognitivo che trova un equilibrio tra il rispetto dell’autorità della fonte (in genere genitoriale) e l’adesione coerente ai misteri e ai paradossi proprio in quanto tali, cioè proprio in quanto rappresentano delle sfide al senso comune (cfr. ivi: 76). Il filtraggio cognitivo è particolarmente evidente laddove prevale l’oralità; qui le limitate capacità di memorizzazione e recupero delle rappresentazioni, non supportate da dispositivi esterni (che cambiano le condizioni ecologiche della trasmissione

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e delle circolazione della cultura), sottostanno a quella che Sperber chiama “legge dell’epidemiologia delle rappresentazioni”: «in una tradizione orale, tutte le rappresentazioni culturali sono facili da ricordare; quelle difficili da ricordare vengono dimenticate, o trasformate in rappresentazioni più facili da ricordare, prima di raggiungere il livello di distribuzione culturale» (ivi: 77. Corsivo nel testo). Che rapporto c’è tra le rappresentazioni interiorizzabili, cioè che possono risiedere nelle menti, e quel genere di rappresentazioni pubbliche che costituiscono le istituzioni? Le prime, secondo Sperber, sono caratterizzate da una distribuzione omogenea nell’ambito di una popolazione, mentre le seconde sono caratterizzate da una distribuzione differenziale e contengono regole costitutive per la loro definizione identitaria e la loro autoreplicazione: «[a]lcuni insiemi di rappresentazioni includono rappresentazioni del modo in cui l’insieme deve essere distribuito. Un’istituzione è la distribuzione di un insieme di rappresentazioni che è governato da rappresentazioni che appartengono all’insieme stesso. Ciò fa sì che le istituzioni siano in grado di autoperpetuarsi» (ivi: 78). In tal senso, anche le istituzioni rientrano nel campo di studio di un’epidemiologia delle rappresentazioni, che, lungi dal proporsi come un’alternativa radicale rispetto ad altri approcci antropologici, ambisce al rango di contributo ulteriore, utile alla spiegazione causale dei fenomeni culturali (cfr. ivi: 77). 4. L’epidemiologia delle credenze. Le rappresentazioni culturali costituiscono un sistema strutturato che contiene distinzioni, sia dicotomiche sia trasversali, di vario tipo. Sperber elenca le principali in apertura di capitolo: le rappresentazioni possono essere interne ed esterne, semplici e complesse, descrittive e normative, verbali, non verbali e multimediali (cfr. ivi: 81-82). Posto che la prima distinzione è quella decisiva, perché sta alla base della distinzione tra psicologia cognitiva e antropologia culturale, il problema che emerge è quello di stabilire quali, tra le rappresentazioni mentali e quelle pubbliche, siano più basilari. La questione, come noto, è controversa e, dovendo scegliere tra il campo di quelli che considerano prioritarie, se non esclusive, le rappresentazioni pubbliche (ispirandosi all’approccio antropologico dell’ultimo Wittgenstein), e il campo di quelli che, sulla scorta di Fodor, assegnano la priorità alle rappresentazioni

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mentali, Sperber tende a schierarsi con quest’ultimo, pur non disconoscendo le ragioni dell’altro.106 Le nostre rappresentazioni mentali possono sussistere senza quelle pubbliche, cioè possono non essere mai comunicate, come accade per esempio alle tracce mnestiche che si trovano nei cervelli degli altri animali, e questo fatto o non sembra preoccupare gli esternisti o li spinge a negare alle altre specie il possesso di rappresentazioni mentali (cfr. ivi: 82). Chi difende la tesi della priorità delle rappresentazioni pubbliche e vuole mantenersi fedele a un approccio materialistico deve affrontare un serio problema di carattere ontologico. Non c’è dubbio che da bambini siamo immersi in un ambiente di rappresentazioni pubbliche, cioè non autogenerate, che assorbiamo attraverso l’esperienza e la comunicazione, ma l’aspetto pubblico delle rappresentazioni impone di chiedersi che genere di oggetti siano i loro significati, anch’essi pubblici, cioè situati nel mondo e a disposizione di chi può afferrarli. Qual è, allora, il posto delle entità immateriali in un mondo di oggetti materiali? Secondo Sperber, «[n]el caso degli oggetti mentali, come i ricordi, la maggior parte degli psicologi accetta ormai almeno un materialismo minimale, detto ‘fisicalismo delle occorrenze’ (token-physicalism). Secondo questa visione, le occorrenze degli stati mentali sono identiche a occorrenze di stati e processi neuronali, mentre i tipi (types) di stati mentali non devono necessariamente essere identici a tipi di stati neuronali (...). Per esempio, gli psicologi cognitivi cercano di descrivere le rappresentazioni mentali nei termini di stati che possano essere implementati in un computer. Grazie allo sviluppo della psicologia cognitiva, cominciamo a cogliere che tipo di oggetti materiali possono essere le rappresentazioni mentali» (ivi: 84). Diverso è il caso dei significati delle rappresentazioni culturali, perché il loro status è più incerto e l’approccio materialista deve vincere la tentazione di arrendersi di fronte all’opzione del pluralismo ontologico. Se la rappresentazione è mentale, dice Sperber, il suo rapporto semantico con ciò che è rappresentato sembra intrinseco, perché tale rapporto si costituisce attraverso interazioni materiali e naturali. Nel caso della

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I testi di riferimento classici per questi due approcci contrapposti, citati dallo stesso Sperber, sono rispettivamente Wittgenstein 1953 e Fodor 1975. Per un’analisi dettagliata del cosiddetto Wittgenstein antropologo, sia consentito di rimandare a Trainito 2000.

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rappresentazione pubblica, invece, il rapporto semantico tra questa e il suo riferimento non è intrinseco, perché è istituito convenzionalmente: un significato è tale per chi lo attribuisce e lo usa nelle transazioni socio-culturali, sicché «le rappresentazioni pubbliche hanno significato solo se sono associate a rappresentazioni mentali» (ivi: 85). Il materialista, allora, può trovare una via d’uscita con una mossa che da un lato assume l’esistenza di entità astratte e dall’altro nega loro l’appartenenza all’insieme degli oggetti of this world (ed. orig. p. 81): ci sono solo rappresentazioni materiali, mentali (schemi neuronali) o pubbliche (veicoli fisici), le quali però, come dimostra il fatto che ci comprendiamo a vicenda condividendo esperienze e comunicazioni vincolate dalla biologia e dalla cultura di appartenenza, di solito convergono per somiglianza (cfr. ivi: 86) verso un unico contenuto astratto, che possiamo enucleare per individuare per esempio una particolare credenza o un particolare significato pubblico (le streghe volano sui manici di scopa), nel caso in cui siamo interessati a descrivere il sistema delle rappresentazioni di una cultura. Tra tutte le rappresentazioni materiali sussistono relazioni causali che l’an-tropologo materialista può scoprire con gli strumenti della spiegazione scientifica, e questo è tutto, perché la «sfida materialista è che per i fenomeni culturali non vi sia bisogno di altre spiegazioni oltre a quelle causali» (ivi: 85), dato che le spiegazioni interpretative, come parafrasi, riassunti ed esegesi, sebbene utili all’antropologo, non rientrano nel dominio dei modelli esplicativi e delle generalizzazioni teoriche. In tal senso, «[s]piegare le rappresentazioni culturali significa allora spiegare perché alcune di esse sono così largamente condivise; dato che le rappresentazioni sono più o meno condivise, non c’è un limite netto tra le rappresentazioni culturali e quelle individuali» (ivi: 86). A questo punto Sperber ribadisce quella che a suo giudizio è la principale differenza tra la propria epidemiologia delle rappresentazioni e le proposte precedenti, da quella del sociologo francese Gabriel Tarde (1890)107 alla Memetica: queste ultime in-

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Tarde, si noti, vedeva una stretta analogia tra l’imitazione culturale, l’ereditarietà biologica e la vibrazione fisica in quanto fenomeni di trasmissione e propagazione. Sul suo ruolo come precursore della Memetica, cfr. Ianneo 2005: 160-162.

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sistono troppo sulla copiatura, non accorgendosi che, contrariamente a quanto avviene in sede biologica, nel microprocesso della trasmissione culturale la riproduzione fedele è un’eccezione. Richiamandosi al modello inferenziale della comunicazione (contrapposto a quello del codice) sostenuto in Sperber e Wilson 1986, Sperber ribadisce che trasmettere una rappresentazione significa innescare un processo di trasformazione del rappresentante - e quindi del suo contenuto - che culmina, nella mente del ricevente, con la collocazione del risultato finale della comunicazione all’interno di un ventaglio di possibilità che ha come limite inferiore la distruzione (caso peggiore) e come limite superiore la duplicazione (caso migliore) della rappresentazione stessa; ma aggiunge una cosa che ogni memetista sottoscriverebbe: «[s]olo le rappresentazioni che vengono ripetutamente comunicate e molto poco trasformate dal processo diventano alla fine parte della cultura» (ivi: 87). Una siffatta epidemiologia delle rappresentazioni, dunque, avrà per oggetto non le singole rappresentazioni individuali idiosincratiche né quelle astratte, ma le famiglie di rappresentazioni materiali tenute insieme da relazioni causali e da somiglianze di contenuto, e si chiederà caso per caso come sorgono, come interagiscono, come si diffondono e perché si estinguono, senza pretendere di trovare un modello esplicativo unico e generale, anche se è lecito attendersi che siano in gioco tanto fattori psicologici quanto fattori ambientali o ecologici (cfr. ivi: 87-88). Contro il relativismo ontologico di molti antropologi, che riducono la realtà a una costruzione socio-culturale, Sperber difende un approccio realista che fa appello a un fondo di razionalità minima delle credenze umane garantito dall’evoluzione: «solo un sistema cognitivo epistemologicamente valido (ossia che produca approssimazioni alla conoscenza invece di belle associazioni o enigmi stupefacenti) può servire allo scopo, e, per questo, deve essere sufficientemente razionale. Questo modo di spiegare perché gli esseri umani sono razionali implica l’esi-stenza di una realtà oggettiva e che almeno una funzione della cognizione umana sia quella di rappresentare nei cervelli aspetti di questa realtà» (ivi: 89). I vincoli biologici comuni hanno dotato gli esseri umani di una “scatola delle credenze” (belief box: ed. orig. p. 86), non necessariamente registrata nella sua interezza nelle menti, che costituisce un deposito di rappresentazioni di base in grado di offrire una descrizione razionale della realtà oggettiva e di ricevere il nostro assenso. Molte di queste credenze non sono rappresentate

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nelle menti (difficilmente lo è la credenza razionale che sulla terra esistano più fenicotteri rosa che sulla luna) semplicemente perché possono essere inferite dalle altre credenze rappresentate, e il meccanismo inferenziale, che peraltro assicura un ordine razionale al sistema delle credenze, è associato alla “scatola” pur non essendo presente alla coscienza logica (cfr. ivi: 91). Queste credenze intuitive, distinte da quelle riflessive (che possono anche variare notevolmente ed essere non completamente comprese, in quanto acquisite in contesti e situazioni non del tutto pertinenti, come quando una maestra comunica ai bambini rappresentazioni che presuppongono conoscenze specialistiche), vanno a costituire quella trama di concetti basilari - concreti e affidabili, ancorché rigidi - che regge la visione del mondo del senso comune. D’altra parte, una credenza riflessiva acquisita attraverso fonti autorevoli (la mamma, la maestra, gli scienziati), una volta che sarà stata adeguatamente compresa, completata e fissata, potrà entrare a far parte della scatola delle credenze intuitive e diventare senso comune, a meno che non si tratti di credenze che, come quelle religiose, si sottraggono a questo processo di ancoraggio e rimangono attraenti solo in virtù del loro carattere misterioso (cfr. ivi: 93-95). La distinzione delle credenze in queste due classi, secondo Sperber, è una risposta al relativismo culturale: «[l]e credenze intuitive devono la loro razionalità a meccanismi percettivi e inferenziali essenzialmente innati; pertanto esse non variano in modo cruciale da una cultura all’altra e sono reciprocamente coerenti o facilmente conciliabili. Le credenze che variano attraverso le culture al punto da sembrare irrazionali dalla prospettiva di un’altra cultura sono credenze riflessive con un contenuto in parte misterioso anche per coloro che vi credono. È razionale assumere queste credenze non per il loro contenuto, ma per la fonte» (ivi: 96).108 Inoltre - e qui Sperber svolge considerazioni che non a caso verranno ampiamente accolte in un testo come Dennett 2006, a riprova della loro consonanza con l’approccio memetico - la distinzione tra i due tipi di credenze è alla base dei diversi meccanismi della loro distribuzione. Le credenze intuitive, dice Sperber, seguono percorsi di distribuzione transculturale abbastanza comuni, al di là dei loro eventuali aspetti idiosincratici. Essendo le-

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Per una riformulazione di questa distinzione alla luce delle più recenti acquisizioni nell’ambito delle scienze cognitive, si veda Perconti 2015.

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gate a meccanismi percettivi e inferenziali in gran parte automatici, esse sottostanno ai vincoli biologici degli esseri umani e pertanto sono in grado di superare le barriere culturali. Le intuizioni relative per esempio allo spazio fisico, ai colori, ai movimenti e alle proprietà dei corpi vengono apprese senza alcuna sollecitazione comunicativa intenzionale, perché rispondono a disposizioni adattive universali (non si è ancora incontrato qualcuno la cui fisica ingenua gli impedisca di imparare a guidare l’automobile, osserva Sperber: cfr. ivi: 97). Viceversa, le credenze riflessive, in quanto sensibili alle condizioni cognitive e culturali specifiche, seguono percorsi di propagazione non uniformi e sono più dipendenti dalla comunicazione intenzionale, ovvero dai microprocessi di trasmissione culturale. L’articolazione interna alle credenze riflessive è illustrata da Sperber con tre esempi precisi che mostrano in che senso esse si differenziano sul piano della capacità di propagazione. In una società senza scrittura, tutto quello che serve a un mito per propagarsi è la sua compatibilità con certi vincoli cognitivi (in particolare memorability e attractiveness: cfr. ed. orig. p. 95), nonché la presenza istituzionalizzata di occasioni per essere recepito (dalla tradizione o da un creatore autorevole), rievocato e ritrasmesso; per il resto esso ha quasi vita propria pur nelle varie occorrenze che ne costituiscono le molteplici versioni. D’altra parte, la diffusione della credenza secondo cui gli uomini nascono tutti uguali, non richiedendo particolari risorse cognitive per essere ricordata e proferita ed essendo particolarmente “pertinente” (nel senso tecnico di Sperber e Wilson 1986) in contesti politici che ne costituiscono la negazione, è funzione di condizioni ecologiche particolari, ovvero di istituzioni socio-culturali propizie (cfr. ivi: 101). Da ultimo, tanto le risorse cognitive quanto le condizioni ecologiche entrano in gioco quando si tratta della distribuzione di credenze scientifiche specialistiche e particolarmente complesse come il teorema di Gödel. In questo caso, benché l’ostacolo della piena comprensione individuale possa essere superato da pochi, la stessa cogenza intrinseca della credenza, unita all’autorevolezza di cui godono le istituzioni scientifiche, ne facilita la comunicazione e la condivisione, al punto che essa diventa patrimonio anche di chi non è in grado di comprenderla adeguatamente. È da questo complesso gioco tra forze di propagazione e resistenze interne ed esterne che le rappresentazioni culturali, intuitive e riflessive, prendono forma sullo sfondo del pulviscolo effimero di quelle che non hanno avuto la possibilità di

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replicarsi e diffondersi: «la cultura è il precipitato della conoscenza e della comunicazione in una popolazione umana» (ivi: 102). 5. Selezione e attrazione nell’evoluzione culturale. Gli elementi fondamentali su cui deve far leva un programma di spiegazione naturalistica e causale dei fenomeni culturali sono le catene di rappresentazioni materiali e i loro contenuti nei processi di trasmissione comunicativi e imitativi, ovvero entità i cui poteri causali non siano controversi in un contesto naturalistico. Il ciclo minimo è quello che parte da una rappresentazione mentale nel cervello dell’emittente, passa attraverso una rappresentazione pubblica (un enunciato, un’immagine, ecc.) e termina nel cervello del ricevente, che riproduce nella propria mente una rappresentazione-figlia dotata di un contenuto simile a quello della rappresentazione di partenza (cfr. ivi: 103-105): «[q]uando abbiamo una serie di rappresentazioni mentali sufficientemente simili nel contenuto da sembrare ognuna una versione dell’altra, è possibile e spesso utile produrre un’ulteriore versione pubblica che rappresenti in modo prototipico il loro contenuto in parte comune. Parliamo allora della credenza nella metempsicosi, della ricetta del risotto con i funghi, della storia di re Artù, ognuna identificata da un contenuto. Si tratta ovviamente di astrazioni, almeno quanto lo sono la zebra, l’ordine dorico, o il contadino russo» (ivi: 105). Una volta che abbiamo individuato una rappresentazione prototipica siffatta, possiamo ricorrere al potere esplicativo del modello darwiniano della selezione naturale. Secondo Sperber queste rappresentazioni hanno la proprietà di auto-riprodursi, ovvero di indurre nei portatori comportamenti che ne favoriscono la diffusione per replica da un cervello all’altro e nello spazio pubblico. Il richiamo a teorie analoghe è qui inevitabile e Sperber ricorda alcuni nomi, tra i quali quelli di Popper, Campbell, Monod, Cavalli-Sforza e, naturalmente, Dawkins (cfr. ivi: 106), per ricordare soltanto quelli già evocati nel presente lavoro. Ma è con i memi che egli intende qui confrontarsi direttamente. Innanzi tutto, Sperber sostiene che a suo parere, malgrado sia indispensabile per la spiegazione dell’uomo come animale culturale, il modello darwinista della selezione non sia adatto per un approccio naturalistico alla cultura, anche se il nuovo approccio da lui proposto deve pur sempre qualcosa al darwinismo in gene-

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rale. Ribadendo che i punti-chiave della sua teoria, e di conseguenza della sua critica alla Memetica, sono «1) che le rappresentazioni in generale non si replicano nel processo di trasmissione, ma si trasformano; e 2) che si trasformano sulla base di processi cognitivi costruttivi. La riproduzione, se mai avviene, deve essere vista come un caso limite di assenza di trasformazione» (ibid.), Sperber ricorda la contro-obiezione di Dennett, secondo cui il punto su cui lui insiste è corretto ma poco rilevante109 e cita alcuni passi di Dawkins 1982 che dimostrano come il biologo inglese fosse consapevole del problema della fedeltà di copiatura, al punto da sostenere che essa non è parte del concetto di meme 110. Secondo Dawkins, addirittura, in accordo con l’idea fondamentale che il gene non è il replicatore per eccellenza e che come il meme esso rappresenta solo un esempio di replicatore egoista, «[i]l processo di replicazione è probabilmente molto meno preciso che nel caso dei geni: potrebbe esserci una certa quantità di elementi “mutazionali” in ogni evento di trascrizione (...). I memi possono parzialmente mescolarsi con altri in un modo che i geni non fanno. 109

A tal proposito Sperber rimanda in nota a Dennett 1995: 453 e ss. (senza ulteriori specificazioni), dove per esempio si può leggere: “Quel che dice Sperber sulla mancanza di immediatezza del ruolo delle caratteristiche astratte è senz’altro vero, tuttavia, lungi dall’essere un ostacolo alla scienza, è il genere di invito migliore alla scienza: un invito a recidere il nodo gordiano di un ingarbugliato rapporto di causa ed effetto con una formulazione astratta che è predittiva proprio perché ignora tutte queste complicazioni” (p. 453). Più avanti, Dennett fa un’osservazione incidentale che costituisce l’idea-guida della nostra discussione: “Sperber preferisce pensare alla trasmissione della cultura utilizzando riferimenti epidemiologici piuttosto che genetici, ma la direzione della sua teoria assomiglia molto a quella di Dawkins - tanto da essere quasi indistinguibile, se si pensa a come il darwinismo tratta l’epidemiologia” (p. 454). 110 Vale la pena riportare per intero il capoverso di Dawkins di cui Sperber riporta solo le prime due frasi: “Nessun processo di duplicazione è infallibile. Non è contemplato nella definizione di replicatore che tutte le copie debbano essere perfette. Nell’idea di replicatore è di fondamentale importanza che, quando avviene un errore o ‘mutazione’, questa venga trasmessa alle copie seguenti: la mutazione conduce alla nascita di una nuova forma di replicatore il quale viene ‘fedelmente copiato’ sino a quando non compare un’ulteriore mutazione. Quando un foglio di carta viene fotocopiato, potrebbe comparire sulla copia una macchia che non era presente sull’originale. Se la copia viene a sua volta fotocopiata essa fornirà una seconda copia con la macchia (e ne potrebbe comparire una seconda). Il punto importante è che in una catena di replicatori gli errori sono cumulativi” (Dawkins 1982: 93).

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Le nuove “mutazioni” potrebbero essere “dirette” anziché randomizzate rispetto ai trends evolutivi. [L’equivalente del weissmannismo è meno rigido per i memi che per i geni: potrebbero esistere delle frecce causali di tipo “lamarckiano” che portano dal fenotipo al replicatore e viceversa.]111 Queste differenze potrebbero essere sufficienti a rendere inutili le analogie con la selezione naturale o anche a generare una certa confusione» (Dawkins 1982: 126)112. Questo punto concettuale decisivo è ben presente a Sperber, il quale riconosce a Dawkins il merito di averlo introdotto: «[i]l principale interesse di Dawkins e il suo contributo più rilevante consistono nell’aver osservato che i meccanismi di selezione naturale darwinista non sono in nessun modo riservati al materiale biologico, ma possono essere applicati a replicatoti di qualsiasi sostanza e qualsiasi tipo. I virus dei computer sono (purtroppo) replicatoti non biologici molto ben riusciti. Ecco un altro esempio di replicatore culturale» (ivi: 107). Adesso, però, non si capisce più in cosa possa consistere la differenza incolmabile che separa la teoria sperberiana delle rappresentazioni da quella dei memi, visto che il problema dell’alto tasso di mutazione in ciascun atto materiale di replica memica è superato sul piano più astratto del contenuto prototipico delle rappresentazioni culturali di Sperber, che in Dawkins 1976: 205, come abbiamo visto, viene denominato idea-meme in grado di veicolare il contenuto essenziale - sotto forma di patterns of information, come direbbero Dennett e Gabora - di un corpo di conoscenze (nel suo esempio, la teoria di Darwin). Da parte sua, Sperber sembra non cogliere questo punto, perché interpreta le parole di Dawkins come se non comportassero una distinzione (analoga alla sua) tra un livello astratto e un livello 111

Il passo qui racchiuso tra parentesi quadre è ‘tagliato’ nella citazione di Sperber, ma si è preferito riportarlo per il suo chiaro interesse: Dawkins, infatti, sotto le metafore biologiche esprime un’idea di catena causale di trasmissione culturale assai simile a quella sperberiana basata sul ciclo minimo mentale-pubblico-mentale relativo alle rappresentazioni. 112 Fin qui la citazione di Sperber; ma Dawkins continuava (e concludeva la sua parentesi sui memi ne Il fenotipo esteso) mettendo le mani avanti e quasi scusandosi per la sua incursione in un campo non suo come quello della cultura: “Personalmente credo che il suo valore stia non tanto nell’aiutarci a comprendere la cultura umana, bensì ad acuire la nostra percezione sulla selezione genetica naturale. Questo è l’unico motivo per il quale ho avuto la presunzione di parlarne, in quanto non sono abbastanza informato sulla letteratura esistente riguardo alla cultura umana per poter fornire un contributo serio al problema” (Dawkins 1982: 126).

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concreto, e in tal senso può concludere che, se in ogni evento di riproduzione memica c’è un alto tasso di mutazione, allora «la possibilità stessa di effetti cumulativi è messa in questione» (ivi: 108). Quando poi si tratta di fare esempi concreti di bits of culture that do replicate (ed. orig. p. 103), Sperber ricorre esattamente a quelli tipici della letteratura memetica: «[a]lcune persone copiano le lettere della ‘catena di sant’Antonio’, i monaci medioevali copiavano i manoscritti, molti manufatti tradizionali sono repliche. Un vaso può essere copiato da un vasaio, alcuni dei suoi vasi possono essere copiati da altri vasai, e così via per molte generazioni di vasi e vasai. Questo lento processo di riproduzione manuale è stato sostituito nei tempi moderni da tecnologie sempre più sofisticate, come la stampa, la televisione o la trasmissione per posta elettronica, che permettono di produrre un numero enorme di repliche» (ivi: 108). Il problema, secondo Sperber, è quello di stabilire se i memi siano rappresentazioni pubbliche poste come cause ed effetti di rappresentazioni mentali o, come sembra sostenere Dawkins, rappresentazioni mentali poste come cause ed effetti di rappresentazioni pubbliche. Entrambi i casi presentano dei problemi per un’interpretazione schiettamente darwiniana (che per Sperber è appiattita sull’analogia con i geni), perché in genere le rappresentazioni culturali presentano un numero indefinito di ascendenti immediati e il loro ruolo “genitoriale” è distribuito in modo non uniforme. In tal senso la teoria dei memi, grazie anche al suo accento sulla questione della competizione e del successo replicativo, assomiglierebbe alla vecchia teoria dell’influenza usata in modo più o meno esplicito in storia della filosofia e in psicologia sociale, ovvero sembrerebbe di poter considerare i memi come un caso limite di influenza, quando questa è al cento per cento e genera repliche e non semplicemente somiglianze vaghe nella discendenza delle rappresentazioni. E così Sperber torna a ribadire la presunta indifferenza della Memetica nei confronti di ciò che accade in termini di attività intenzionale nell’ambiente cognitivo, perché, analogamente alla teoria dell’influenza, anch’essa ridurrebbe gli organismi umani a meri agenti deterministici di riproduzione o di sintesi (cfr. ivi: 109-110). In tal modo cadono entrambe in errore, benché la teoria dell’influenza non identifichi la trasmissione con la replica e la consideri piuttosto come un caso limite. Come dimostrano anche i copisti medievali, che pure si imponevano una fedeltà meccanica di copiatura, persino in un caso come

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questo intervengono processi di comprensione, perché il copista, di fronte a una difficoltà di interpretazione, era chiamato a prendere delle decisioni. Da parte loro, invece, il modello dell’influenza e quello dei memi presuppongono una dipendenza totale dall’input che, una volta scelto (a seconda del peso), determina il risultato impedendo che questo contenga più informazione dell’input stesso, e ciò, osserva Sperber, non è quello che accade di solito, perché «i cervelli umani usano tutta l’informazione che viene loro sottoposta non per ricopiarla o sintetizzarla, ma come dato più o meno pertinente con cui costruire le proprie rappresentazioni» (ivi: 111). Ma qui egli semplicemente trascura il fatto che per i memetisti (si pensi a Dennett 1991a) lo stesso lavoro di computazione che si svolge nell’ambiente cognitivo è guidato da cascate di memi che funzionano, come abbiamo visto, come agenti di Minsky, dato che le stesse architetture cerebrali responsabili dei processi di comprensione, selezione e produzione sono costituite da memi assorbiti nel corso dello sviluppo e della formazione. Basandosi anche sulla spiegazione chomskiana del processo di generazione di una grammatica mentale specifica a partire dagli stimoli proposizionali ambientali e dalla presenza supposta di un dispositivo modulare innato di acquisizione del linguaggio (cfr. ivi: 111-112), Sperber ribadisce che la discendenza culturale è fatta di trasformazioni (le repliche essendo eccezioni) e propone un modello alternativo della trasmissione culturale che fa riferimento, più che all’imitazione e alla selezione darwiniana delle varianti, alla nozione di “attrattore” (attractor: ed. orig. p. 108): «[l]a somiglianza tra oggetti culturali deve essere spiegata in buona misura dal fatto che le trasformazioni tendono a essere influenzate dalla direzione di posizioni-attrattore in uno spazio di possibilità» (ivi: 113). Il modello sperberiano dell’attrazione mira a spiegare la discendenza di rappresentazioni in uno spazio di possibilità in funzione della presenza o meno di attrattori che costituiscono dei nuclei attorno ai quali convergono per gradi di somiglianza le rappresentazioni-figlie: «gli attrattori (...) sono costrutti astratti, statistici, come un tasso di mutazione o una probabilità di trasformazione. Dire che c’è un attrattore in uno spazio di possibilità significa solo dire che le probabilità di trasformazione sono configurate in un certo modo: esse tendono a essere influenzate in modo tale da favorire le trasformazioni verso un punto specifico, e quindi si distribuiscono intorno a quel punto» (ivi: 116). Se lo

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spazio delle possibilità non presenta alcun attrattore nelle vicinanze ed è possibile predire il punto in cui apparirà una discendenza, il modello degenera in quello dell’influenza, che in tal modo diventa un caso speciale di attrazione (cfr. ibid.). Pur non essendo oggetti materiali, gli attrattori devono la loro esistenza a fattori sia psicologici che ecologici, perché tanto lo spazio mentale quanto quello pubblico contengono vincoli precisi di natura biologica e culturale (sotto forma di adattamenti modulari ancestrali, dice Sperber utilizzando la psicologia evoluzionistica) che guidano il flusso delle rappresentazioni verso punti di attrazione attorno a cui si aggregano i contenuti trasmessi dotati di maggior successo riproduttivo (cfr. ivi: 117-118). I vincoli architettonici modulari del cervello, ereditati dall’evoluzione, costituiscono dei filtri per le informazioni in entrata e in uscita che il modello dell’attrazione e la teoria della pertinenza tengono nel dovuto conto: «Deirdre Wilson e io abbiamo sostenuto che l’equilibrio effetto-sforzo nel trattamento di qualsiasi tipo di informazione determina il suo grado di pertinenza (Sperber e Wilson 1986). La nostra idea è che i processi cognitivi umani siano guidati verso la massimizzazione della pertinenza. La maggior parte dei fattori che determinano la pertinenza sono altamente idiosincratici e hanno a che fare con la collocazione spazio-temporale unica di un individuo. Altri invece sono radicati in aspetti della psicologia determinati geneticamente. L’elaborazione degli stimoli per i quali esiste un modulo specializzato richiede allora comparativamente uno sforzo minore ed è potenzialmente più pertinente. Per esempio, fin dalla nascita gli esseri umani trattano i suoni della parola come stimoli pertinenti (un’aspettativa spesso delusa, ma mai abbandonata)» (ivi: 119). Questa strumentazione teorica conduce Sperber all’utilizzo di nozioni della sociobiologia e dell’epistemologia evoluzionistica che abbiamo già incontrato anche in Popper e nella Memetica (a riprova di un’aria di famiglia in cui le somiglianze sembrano sovrastare le differenze), come quelle di coevoluzione genecultura e pool delle rappresentazioni culturali che si contendono il cervello di un individuo immerso in una determinata cultura. E tuttavia, pur di non invischiarsi nella controversia filosofica relativa al potere causale della cultura in senso lato sulle menti, egli rifiuta un’opzione che potremmo definire popperiana (in cui l’ambiente culturale è identificato con un regno a sé di oggetti sia materiali che astratti) e opera una drastica riduzione materialistica

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intendendo l’ambiente culturale come l’insieme delle rappresentazioni pubbliche materiali (che sono parte del mondo degli oggetti fisici naturali) in grado di agire causalmente sui cervelli attraverso i canali sensoriali e innescare la produzione di rappresentazioni mentali dotate di contenuto intrinseco «determinato in parte dalle proprietà degli stimoli che le hanno provocate, e in parte da risorse mentali preesistenti» (ivi: 120). Il modello dell’attrazione spiega così la distribuzione delle rappresentazioni mentali e pubbliche in una data cultura su scala sia storica che individuale. Gli attrattori emergono, si spostano e svaniscono nel tempo in risposta a sollecitazioni psicologiche ed ecologiche. Attrattori come le mode possono rinforzarsi in risposta ad addensamenti di rappresentazione in prossimità del loro centro, oppure possono indebolirsi e svanire in seguito alla comparsa di attrattori nuovi e più forti in prossimità del loro stesso spazio. Sul piano individuale, le predisposizioni genetiche guidano inizialmente il bambino verso attrattori che saturano con input percettivi ambientali i loro moduli innati per l’acquisizione delle abilità primarie (mangiare, afferrare, parlare, riconoscere i volti, ecc.), mentre in seguito saranno altri fattori ecologici ed esperienziali (interessi, ruolo sociale, ecc.) a guidare verso le informazioni pertinenti, ovvero verso gli attrattori disponibili nel pool delle rappresentazioni culturali. Un approccio di questo tipo, ad avviso di Sperber, ha il merito di guadagnare in potenza esplicativa rispetto a quello neodarwinista di Dawkins, perché riduce i fenomeni di mera riproduzione a casi limite e ricorre a meno idealizzazioni, sottolineando il ruolo della costruzione sia nella ricezione degli input sia nella loro espressione come output pubblici, e riducendo altresì al minimo i casi di output che sono semplici copie degli input precedenti. D’altra parte, aggiunge Sperber, i contenuti relativamente stabili su cui insiste il modello dawkinsiano esistono di fatto, in quanto sono il prodotto della nostra tendenza innata a cercare somiglianze e a convergere verso un attrattore (cfr. ivi: 120-123). E tuttavia, conclude rimarcando le differenze e mantenendosi tuttavia entro lo stesso paradigma darwiniano, nonostante sia «in contrasto con i modelli neodarwinisti della cultura presentati da Dawkins e da altri, il modello dell’attrazione culturale (...) è di ispirazione darwinista nel senso che

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spiega regolarità su larga scala come l’effetto cumulativo di microprocessi» (ivi: 123).113 6. Modularità del pensiero ed epidemiologia delle rappresentazioni. Muovendo da una personale riformulazione della tesi fodoriana della modularità della mente (Fodor 1983), Sperber sostiene che essa, se viene messa in relazione con l’epidemiologia delle rappresentazioni, è in grado di rendere conto della diversità culturale. La variante proposta da Sperber è l’idea che la modularità, cioè un’architettura della mente/cervello costituita da meccanismi computazionali impermeabili, specializzati e specificati a livello genetico, contrariamente a quanto sostenuto da Fodor, non riguardi solo la periferia della mente, cioè il sistema degli elaboratori di input sensoriali, ma investa anche i processi cognitivi centrali, cioè il pensiero (e, per assunzione, anche i sistemi motori di output). È la tesi della modularità cosiddetta massiva, che Fodor ha etichettato come “modularità impazzita” (modularity theory gone mad, cit. da Sperber, ed. orig. p. 120). Una mente tutta modulare, a suo giudizio e contrariamente all’opinione prevalente, non è un ostacolo né per la plasticità mentale né per la diversità culturale (cfr. ivi: 125-126). Anche se il buon senso sembra porre almeno due seri ostacoli alla nozione di modularità massiva (deve pur esserci un quar113

Come nota Francesco Ianneo commentando proprio questo punto, “in tal modo Sperber dimostra di aver frainteso l’approccio memetico: il meme inevitabilmente muta durante la fase di trasmissione, essendo intimamente connesso all’esercizio fluido della memoria. La diffusione è costitutivamente inesatta e costellata da sviste e modifiche da parte del soggetto portatore e comunicatore, ma da ciò non deriva affatto la fallacia esplicativa del modello darwiniano-virale. L’Uomo è trasformatore proprio in quanto veicolo di memi” (Ianneo 2005: 49). Questa osservazione è coerente con la teoria della duplicazione di Minsky e con le altre formulazioni della Memetica in chiave cognitiva prese in esame in questo lavoro (in particolare quelle di Dennett e Castelfranchi). Ed è proprio qui uno dei limiti dell’approccio di Sperber: la sua insistenza sulle formulazioni di Dawkins (normalmente poco interessato agli aspetti specificamente cognitivi dei memi) gli fa perdere di vista gli sviluppi della Memetica per esempio contenuti in Dennett 1991a, che pure figura in bibliografia. D’altronde, come vedremo nel prossimo paragrafo, certi sviluppi recenti delle neuroscienze (relativi al ruolo del cosiddetto sistema specchio) rendono probabilmente meno interessante la questione del rapporto tra trasformazione e fedeltà di copiatura nel microprocesso della trasmissione culturale, a danno del grande investimento teorico di Sperber su di essa.

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tier generale centrale che integri in modo transmodale le informazioni provenienti dai moduli periferici, come sapeva già pure Aristotele, e inoltre sembra assurdo pensare che ci siano specificazioni genetiche ad hoc per gli interessi per esempio calcistici, musicali e scientifici di un occidentale medio), Sperber non si arrende: «[q]uesti due argomenti di buon senso sono così convincenti che le considerazioni più tecniche di Fodor (...) sembrano davvero uccidere un’idea già morta. Il mio scopo è di scuotere l’immagine del senso comune e suggerire che si possa raccogliere la sfida di articolare modularità, integrazione concettuale e diversità culturale per migliorare la nostra comprensione della psicologia e dell’antropologia» (ivi: 127). Richiamandosi ad alcuni risultati sperimentali, emersi in psicologia cognitiva tra gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, Sperber osserva che ormai un grado seppure debole di modularità a livello cognitivo è largamente accettato e riguarda certi processi transculturali specifici di categorizzazione e comprensione che investono la fisica, la biologia e la psicologia ingenue, come ha dovuto riconoscere anche Fodor di fronte all’osservazione del carattere pre-culturale dell’attribuzione di intenzionalità (cfr. ivi: 129). L’idea di base di Sperber (che curiosamente assomiglia non poco a quella dei polinemi e dei frames del mai citato Minsky) è quella di considerare la modularità concettuale come ortogonale rispetto alla schiera dei moduli percettivi, in modo da salvaguardare l’integrazione transmodale: «chi dice che i domini concettuali debbano corrispondere ai domini percettivi? Perché non pensare, a livello concettuale, a una partizione di domini completamente differente, più o meno ortogonale ai domini percettivi, con meccanismi concettuali che ricevono gli input da più moduli percettivi?» (ivi: 127). Per esempio, un modulo concettuale di questo tipo potrebbe raccogliere gli output dei moduli percettivi che hanno a che fare con le diverse rappresentazioni modali di un certo cane e trattarli con meccanismi inferenziali che portano a riconoscere concettualmente questo cane come un mastino (cfr. ivi: 128). Appoggiandosi agli studi di psicologia evoluzionistica di John Tooby e Leda Cosmides114, Sperber avverte che la modularità fodoriana dell’architettura neuronale (caratterizzata da specificità di dominio, determinazione genetica, pre-programmazione, 114

La cui plausibilità scientifica è oggi molto controversa: si veda, per tutti, Pievani 2014.

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rapidità, autonomia e incapsulamento informazionale) dev’essere non assunta in astratto per decreto teoretico ma testata sul piano neuroscientifico ed evoluzionistico, nel senso che occorre vedere se a un modulo cognitivo corrisponda o no un meccanismo cerebrale evolutosi con una storia filogenetica a sé (cfr. ivi: 129). Lo stesso Fodor aveva fatto cenno all’evoluzione ipotizzando che i moduli periferici debbano aver preceduto il sistema cognitivo centrale non modulare, la cui comparsa può essere stata determinata da una sorta di «liberazione graduale di certi tipi di sistemi per la soluzione di problemi da certi vincoli a cui sono soggetti gli analizzatori di input» (Fodor 1983: 77). Tuttavia, secondo Sperber, uno schema esplicativo siffatto, che è costretto ad ipotizzare una improvvisa demodularizzazione da qualche parte nel sistema percettivo periferico come condizione necessaria per l’emergere del sistema cognitivo centrale, è poco plausibile e troppo costosa. Viceversa, l’opzione della modularità massiva, che modularizza anche il sistema cognitivo facendolo emergere trasversalmente dai moduli periferici e agganciandolo al sistema di controllo motorio, ha il vantaggio di essere scientificamente meno costosa, perché evita di introdurre quei salti di qualità misteriosi nella storia evolutiva che spingono Fodor alla resa esplicativa di fronte alla complessità irriducibile del pensiero (cfr. Sperber 1996: 130-132)115. Per Sperber, dunque, il modello fodoriano ristretto sembra poco compatibile con le storie evolutive tipiche vincolate a certe assunzioni di fondo come le micro-trasformazioni vantaggiose cumulative e la miopia della selezione naturale, perché la demodularizzazione le nega entrambe: «[r]idurre il grado di specializzazione del modulo non avrà tanto l’effetto di rendere l’organismo più flessibile, quanto di diminuire l’automaticità della sua risposta al problema. Nella misura in cui l’evoluzione tende verso il miglioramento delle capacità di una specie, dovremmo allora aspettarci dei miglioramenti nel modo in cui i moduli esistenti svolgono il loro 115

Si noti che qui Sperber usa contro Fodor argomenti non dissimili da quelli usati da Dennett contro coloro che, anziché cercare le “gru” giuste per spiegare i processi evolutivi, vanno alla ricerca di “ganci appesi al cielo” e finiscono per evocare misteri insondabili (cfr. Dennett 1995, presente a Sperber in questo contesto). Né è da sottovalutare il fatto che la nozione di modularità massiva si avvicina molto al pandemonio (Sperber usa il termine una volta, a p. 138) di agenti nemici di Minsky e a quello di homunculi memici di Dennett, mentre, dalla prospettiva di Dennett 1991a, il sistema cognitivo centrale di Fodor ricade nel mito del “teatro cartesiano”.

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compito, o l’emergere di nuovi moduli per gestire nuovi problemi, invece di una demodularizzazione» (ivi: 133). I nuovi moduli concettuali sarebbero così adatti al contesto specifico che ne ha richiesto la messa a punto e nello svolgimento della loro funzione crescerebbero in sottigliezza, complessità e capacità inferenziale. Il risultato sarebbe un sistema mente/cervello assemblato in modi e momenti diversi e con un’architettura tale da far inorridire un ingegnere (cfr. ivi: 134).116 In un modello siffatto, i moduli concettuali emergerebbero evolutivamente attraverso una cascata bottom-up che li affrancherebbe via via dagli input percettivi, fino a formare una rete in cui i moduli di livello più alto sarebbero attivati solo dagli output di altri moduli cognitivi (come può essere il caso del modulo dell’attenzione, deputato a trattare le informazioni più pertinenti, cfr. ivi: 139). Quello che dovrebbe verificarsi per l’attivazione di un certo modulo, come per esempio quello dell’imprinting, che richiede la presenza di una creatura di grosse dimensioni nelle vicinanze (la madre, ma non sempre), sarebbe analogo al processo che in informatica prende il nome di “inizializzazione” (initialization: ed. orig. p. 130): «[u]n modulo cognitivo può, esattamente come un programma di computer, essere incompleto nel senso che un certo numero di informazioni deve essere specificato prima che il programma possa funzionare normalmente» (ivi: 136). In tal modo è possibile ricostruire la modularizzazione anche al livello concettuale. Ipotizzando la possibilità di reiterare l’inizializzazione di moduli-stampo di quello del riconoscimento di conspecifici, si può spiegare il modo in cui gli esseri umani arrivano a formare concetti relativi agli altri esseri viventi (cfr. ivi: 137). È lecito dunque «immaginare un sistema altamente modulare che integri le informazioni in tanti modi parziali cosicché non sia più affatto evidente che noi esseri umani le integriamo meglio. L’argomento contro il pensiero modulare basato su una supposta impossibilità di un’integrazione modulare dovrebbe almeno perdere il fascino immediato che il buon senso sembra conferirgli» (ivi: 140). C’è però un altro ostacolo da superare. Ci sono domini culturali più o meno recenti (come quelli della musica e del gioco degli scacchi) che è difficile ricondurre ad adattamenti biologici, a meno che non li si voglia postulare in mancanza di evidenze 116

Su questo modo di concepire il cervello c’è oggi accordo tra gli studiosi della sua evoluzione: cfr. ad es. DeSalle e Tattersall 2012: 10.

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empiriche. Come trattare il problema senza cadere in certi miti narrativi pseudoscientifici dell’adattazionismo della psicologia evoluzionistica? Secondo Sperber la strada giusta è quella indicata dal dibattito in filosofia del linguaggio tra individualists ed externalists. Contro i primi, che considerano il contenuto di un concetto come risolto nella mente dell’individuo, ovvero come una proprietà intrinseca del pattern neuronale che lo realizza fisicamente, gli esternalisti ne hanno difeso il carattere relazionale distribuito tra il sistema mente/cervello e il contesto oggettivo, e Sperber si dichiara dalla parte di questi ultimi, il cui testo di riferimento è Putnam 1975 (in cui si trova il celebre argomento della Terra Gemella). Egli ritiene che un discorso analogo debba essere fatto per il nesso tra i moduli cognitivi e il loro dominio ecologico-culturale: «[l]’osservazione si estende in modo evidente ai casi dei moduli specializzati nel trattamento di un dominio concettuale particolare. Un dominio è definito in termini semantici, ossia a partire dal concetto che comprende gli oggetti a esso appartenenti. Il dominio di un modulo non è dunque una proprietà della sua struttura interna (sia che la si descriva in termini neurologici sia in termini computazionali)» (ivi: 141). Niente della struttura interna di un modulo realizzato fisicamente in un cervello è in grado di dirci qualcosa sul suo dominio culturale, la cui determinazione richiede uno sguardo relazionale e contestuale. Quello che un modulo fa è imparare a elaborare certe informazioni in un certo modo e a operare determinate inferenze; ma questo vuol dire che nel corso dell’evoluzione un modulo può perdere il proprio contesto e rendersi disponibile per un nuovo utilizzo in un dominio differente e tuttavia in grado di soddisfare le sue condizioni di input. È vero che una chiave viene forgiata per una determinata serratura, che è il suo “dominio reale” (actual domain), ma ciò non le impedisce di adattarsi ad altre serrature, il cui insieme potenziale costituisce il suo “dominio proprio” (proper domain), se le circostanze dovessero richiederlo (cfr. ivi: 143, nonché p. 136 dell’ed. orig.). Analogamente, un modulo ipotetico evolutosi per reagire ai segnali percettivi connessi con l’arrivo di un elefante, può essere riutilizzato per reagire all’arrivo di un treno (cfr. ivi: 143), che addirittura può costituire ora il dominio reale del modulo pur non essendo il suo dominio proprio, perché la funzione originaria del

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modulo non poteva contemplare l’apparizione dei treni nell’ambiente di selezione117. Nel caso degli esseri umani, che producono, registrano e trasmettono una grande quantità di informazioni, il volume considerevole di scambi tra conspecifici impone, secondo Sperber, di distinguere, in relazione ai moduli cognitivi, il dominio culturale sia da quello reale sia da quello proprio. Questo perché il dominio reale si arricchisce di rappresentazioni culturali, mentali e pubbliche, sicché esso diventa considerevolmente più vasto del dominio proprio dei moduli cognitivi (cfr. ivi: 144-145). A questo punto la teoria della modularità massiva si salda con quella della pertinenza e con l’epidemiologia delle rappresentazioni, perché tale «processo di trasmissione ripetuto può continuare fino alla formazione di una catena di rappresentazioni mentali e pubbliche legate causalmente e simili nel contenuto - proprio grazie ai loro legami causali - che percorrono un’intera popolazione umana. Le tradizioni e i pettegolezzi si diffondono in questo modo. Altri tipi di rappresentazioni possono essere distribuite da catene causali di forma differente (attraverso l’imitazione, con o senza istruzioni, o attraverso la comunicazione di massa)» (ivi: 146). Spiegare la cultura, allora, significa spiegare il successo differenziale delle rappresentazioni, che competono nell’ambiente mentale (fattore psicologico) e in quello pubblico (fattore ecologico) per sfruttare al meglio le limitate risorse materiali disponibili e diffondersi il più possibile, soprattutto se sono spinte dalla forza della pertinenza, cioè dal rapporto tra l’efficacia cognitiva e lo sforzo che essa comporta: «[l]a pertinenza garantisce la motivazione sia per memorizzare che per trasmettere informazione, e l’indipendenza da un contesto immediato significa la pertinenza in un contesto più ampio di aspettative e credenze stabili. In una prospettiva modulare dei processi concettuali le credenze che sono stabili all’interno di una popolazione sono quelle che giocano un ruolo centrale nell’organizzazione modulare e nel trattamento della conoscenza. L’informazione che arricchisce o contraddice queste credenze modulari ha quindi maggiori possibilità di successo» (ivi: 147). Un modulo cognitivo ha condizioni di input, cioè vincoli per l’elaborazione di informazione, che possono

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È interessante osservare che su questo punto Sperber dichiara di concordare con Dennett 1987 (cfr. nota 6, ivi: 143).

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essere soddisfatte da un numero potenzialmente illimitato di informazioni create e immesse dagli esseri umani nel pool delle rappresentazioni, e sono queste rappresentazioni, in grado di parassitare il dominio proprio del modulo, che Sperber chiama domini culturali dei moduli (cfr. ibid.) e che un memetista identificherebbe con i memi in competizione per uno stesso spazio nell’ambiente cognitivo, già strutturato da altri memi, e nel pool memico. A tal proposito, Sperber propone alcuni esempi speculativi di domini culturali connessi con moduli di varia grandezza disponibili ad essere inizializzati, tra cui quello della musica, la quale può essere vista come un dominio culturale che ha parassitato un modulo cognitivo specializzato per la discriminazione di suoni pertinenti, come le voci dei conspecifici, e quello delle conoscenze zoologiche (relative anche ad animali favolosi o già estinti), che si impiantano probabilmente su un modulo specializzato evolutosi per la discriminazione degli animali che era possibile incontrare nell’ambiente di adattamento (cfr. ivi: 147-149). L’idea di fondo è che il «rapporto fra il dominio proprio e i domini culturali dello stesso modulo non [sia] un rapporto di trasferimento; il modulo non ha preferenze tra i due generi di domini e, in realtà, ignora completamente la distinzione, che è fondata sull’ecologia e sulla storia» (ivi: 151). Il caso del linguaggio, d’altra parte, dimostra che il dominio proprio e quello culturale possono sovrapporsi e innescare un meccanismo di coevoluzione con il modulo sottostante; esso, dice Sperber, suggerisce che il modulo si sia adattato ai suoi effetti, anche se la facoltà del linguaggio inizialmente «non può essere stata un adattamento a un linguaggio pubblico che non poteva esistere senza di essa. D’altra parte, sembra difficile dubitare del fatto che il linguaggio sia diventato il dominio proprio della facoltà del linguaggio» (ivi: 152). L’argomento della diversità culturale contro la modularità massiva, dunque, diventa meno temibile, né è necessario ipotizzare l’esistenza di conoscenze extramodulari (dalle credenze sulla Trinità a quelle sui quark) non riconducibili alle intuizioni innate relative alla biologia, alla zoologia e alla fisica ingenue. La soluzione può venire dalle ben note capacità metarapresentazionali umane, che ci consentono di costruire rappresentazioni di rappresentazioni e che sono così specializzate da lasciare pochi dubbi sulla loro natura modulare. Sperber nota che c’è un certo accordo nel vedere in questo modulo metarappresentazionale, il cui dominio reale è costituito da tutte le rappresentazioni di un individuo,

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l’organo della teoria della mente, nel senso che il suo dominio funzionale proprio (evolutivamente vantaggiosissimo) sarebbero le credenze e gli stati intenzionali in genere attraverso i quali formuliamo le spiegazioni causali del nostro comportamento: «[u]na volta che nella nostra ontologia si trovano gli stati mentali e la capacità di attribuirli agli altri, c’è solo un passo da fare perché abbiamo desideri su questi stati mentali - il desiderio che quella persona creda questo, che desideri quello, ecc. - e perché elaboriamo l’intenzione di modificare gli stati mentali altrui» (ivi: 154) attraverso la comunicazione e l’invito, implicito nell’atto comunicativo, a inferire il contenuto delle rappresentazioni mentali che si vogliono trasmettere. Nell’ipotesi evolutiva di Sperber, il modulo metarappresentazionale rende possibile lo sviluppo della comunicazione, che è la causa dello sviluppo di una lingua pubblica, a sua volta resa possibile da un modulo del linguaggio, in un circolo virtuoso di retroazioni a cascata che producono l’esplosione culturale (cfr. ibid.). Questa cornice teorica consente a Sperber di riprendere e fondare meglio sul piano cognitivo la distinzione introdotta in precedenza tra credenze intuitive e riflessive: «[g]li esseri umani, in virtù delle loro notevoli capacità metarappresentazionali, possono dunque avere credenze relative allo stesso dominio concettuale ma radicate in due moduli ben diversi: il modulo di primo ordine, specializzato nel dominio concettuale in questione e quello metarappresentazionale di secondo ordine, specializzato nelle rappresentazioni. Si tratta però di due credenze differenti, ‘credenze intuitive’, basate sul modulo di primo ordine, e ‘credenze riflessive’, basate su quello metarappresentazionale (...). Le credenze riflessive possono contenere dei concetti (per esempio quark, Trinità) che non appartengono al repertorio di nessun modulo e sono dunque disponibili agli esseri umani solo in modo riflessivo, attraverso le credenze e le teorie all’interno delle quali appaiono tali concetti» (ivi: 156). Secondo Sperber, una siffatta architettura della mente a tre strati (livello fodoriano dei moduli percettivi di input, livello dei moduli concettuali di primo ordine e livello del modulo metarappresentazionale) non solo spiega l’impermeabilità, per esempio, delle credenze intuitive di fisica ingenua alle nozioni controintuitive della fisica più avanzata, ma è compatibile con la reale diversità culturale che sperimentiamo (cfr. ivi: 157).

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Conclusione. La posta in gioco. Sperber conclude tornando alla questione della naturalizzazione della cultura come programma di ricerca e ai diversi tipi di conflitti tra programmi concorrenti. Giustamente egli distingue tra programmi in conflitto per ragioni epistemologiche oggettive (freudiani e junghiani, funzionalisti e marxisti), che impediscono loro di avere contemporaneamente ragione, e programmi in conflitto per mere questioni relative al prestigio accademico e ai finanziamenti della ricerca: «nelle istituzioni accademiche le risorse umane e materiali sono limitate e la competizione è inevitabile, per cui ciascuno tende a valorizzare il proprio programma, presentando semplici speranze come promesse - se non come risultati - e screditando i programmi concorrenti» (ivi: 159). L’epidemiologia delle credenze, aggiunge, è complementare a certi approcci interpretativi alla cultura e si distingue da altri approcci naturalistici che, a suo giudizio, puntano troppo sulla biologia e trascurano la sfera psicologica (e sappiamo che tra essi c’è la Memetica così com’è rappresentata da Sperber). Ciò di cui in ogni caso non bisogna aver paura è l’accusa di riduzionismo: se una riduzione della sfera socio-culturale a quella naturale avesse successo, essa sarebbe di per sé una conquista della conoscenza e non un’operazione eticamente esecrabile, come sembrano pensare quelli che temono le incursioni della scienza nei prodotti culturali umani. Altra cosa è la legittimazione pseudoscientifica di pratiche razziste e colonialiste che si è vista tra XIX e XX secolo; semmai, dice Sperber citando Cavalli-Sforza, se c’è qualcosa che la scienza biologica ha dimostrato è proprio l’infondatezza delle ideologie della prevaricazione, visto che, sul piano genetico, non esistono razze umane (né, tanto meno, razze migliori o peggiori di altre) e ciascun esemplare umano è in grado di apprendere qualsiasi lingua e qualsiasi cultura (cfr. ivi: 160161). Compito delle scienze, e di quelle sociali in particolare, è allora quello di arricchire e mettere in prospettiva certe immagini troppo stantie e consolatorie del senso comune, che in ogni caso non è facile né desiderabile sradicare proprio in virtù del funzionamento della mente umana che le scienze cognitive ci aiutano a rivelare. A tal proposito, Sperber è molto chiaro, perché considera importante non avallare un’immagine autoritaria, elitaria e monolitica della pratica scientifica: «[l]a mia conclusione è che si debba difendere una pluralità di metodi e di punti di vista. Il pluralismo è essenziale nelle scienze in generale, in quanto è una condizione del loro progresso. Qualsiasi prospettiva nuova e potenzialmente

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feconda merita di essere esplorata. Il pluralismo è doppiamente essenziale nelle scienze sociali, che devono - non singolarmente, ma insieme - rispondere a richieste sociali diverse, in particolare a quella di intelligibilità che suscita la democrazia (per imperfetta che sia)» (ivi: 162). 3.2.2. COMPORRE LE DIVERGENZE Come si vede da questa ampia sintesi analitica di Sperber 1996, la mossa tipica dell’antropologo francese si articola in due movimenti: presentazione di una consistente teoria naturalistica della cultura e sua differenziazione puntuale da approcci analoghi, tra i quali, soprattutto, quello memetico. Il problema, però, è che per fare questo Sperber fornisce una rappresentazione eccessivamente semplificata della Memetica, riducendola a qualche citazione tratta in genere, se non esclusivamente, da Dawkins. Gli sviluppi dennettiani in chiave cognitiva, per esempio, sono quasi del tutto ignorati, benché Dennett 1991a e 1995 facciano parte dell’orizzonte bibliografico di Sperber 1996. Lo si vede ancora meglio in Sperber 2000, il saggio specifico e molto citato sulla Memetica apparso nel volume, curato da R. Aunger, Darwinizing Culture: The Status of Memetics as a Science. Qui Sperber, dopo qualche riferimento d’obbligo a Dawkins 1976 e soprattutto 1982, dove, come abbiamo visto, il biologo inglese si mostra consapevole del problema della fedeltà di copiatura sin dalle prime formulazioni della teoria dei memi, si concentra esclusivamente su Dawkins 1999, ovvero sull’introduzione a The Meme Machine di Susan Blackmore, al cui contenuto, peraltro, non fa mai cenno, malgrado nell’opera sia contenuta una teoria psicologica dell’imitazione di gran lunga più sofisticata di quella un po’ generica implicitamente assunta da Dawkins. La pur arguta critica di Sperber, in tal modo, è non solo rivolta principalmente a un aspetto non cruciale della teoria dei memi, ma sceglie la formulazione meno sofisticata e in gran parte occasionale di tale aspetto, visto che l’esempio della copiatura degli origami, su cui Sperber si concentra, serve a Dawkins per illustrare brevemente gli sviluppi ben più articolati proposti dalla Blackmore. Come vedremo, l’impressione che Sperber in fondo demolisca uno straw man è al centro delle contro-obiezioni di Dennett (non citato nel saggio del 2000), il quale non si stanca mai di dire che, fatta la tara dei fraintendimenti

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più o meno intenzionali, Sperber è in realtà un prezioso alleato della Memetica. L’argomento di Sperber contro la Memetica può essere formulato nei termini seguenti. In un senso debole di “meme”, come quello fissato dall’Oxford English Dictionary, per cui un meme è «an element of a culture that may be considered to be passed on by non-genetic means»118, nessun antropologo potrebbe rifiutare la tesi memetica fondamentale secondo cui la cultura è costituita da memi, perché si tratterebbe della riformulazione in un linguaggio diverso di una tesi non controversa. Tuttavia Dawkins intende il termine in un senso forte e più interessante, caratterizzando i memi «as cultural replicators propagated through imitation, undergoing a process of selection, and standing to be selected not because they benefit their human carriers, but because of they benefit themselves» (Sperber 2000: 163). Il problema è allora stabilire 1) se simili entità siano teoricamente possibili e 2) se la tesi fondamentale della Memetica possa essere vera. Secondo Sperber, il primo punto non pone alcun problema, se non altro perché alcuni fenomeni virali, come le catene di sant’Antonio, soddisfano perfettamente la definizione forte di Dawkins. Ma la cultura è fatta soprattutto di altro, come credenze religiose, ideologie politiche, mode, ricette per la cucina, pregiudizi, racconti popolari ecc., e i memetisti pretendono di far rientrare anche questi fenomeni nell’estensione del loro concetto di “meme”. Ora, poiché nessuno dei fenomeni suddetti, dal punto di vista della propagazione mentale e pubblica, è descrivibile adeguatamente in termini di imitazione, cioè di copiatura, trattandosi piuttosto di processi dominati dalla riproduzione, e se per la propagazione dei memi è cruciale la copiatura, allora la cultura, nei suoi aspetti più rilevanti, non è fatta di memi: «most cultural items are “re-produced” in the sense that they are produced again and again – with, of course, a causal link between all these productions –, but are not reproduced in the sense of being copied from one another (...). Hence they are not memes, even when they are close “copies” of one another (in a loose sense of “copy”, of course)»

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È interessante osservare che qui Sperber omette di citare per intero la definizione dell’OED, che continua con “esp. imitation”, perché ha un interesse argomentativo a includere la nozione di imitazione solo nel senso forte di “meme”.

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(ivi: 164). La tesi fondamentale della Memetica, di conseguenza, è falsa. A nulla, dunque, serve la consapevolezza di Dawkins in merito al problema della fedeltà di copiatura (e a tal proposito Sperber riutilizza parte del passo di Dawkins 1982: 112 già riportato in Sperber 1996: 107), perché la trasmissione delle rappresentazioni culturali, così come prevede il peculiare paradigma cognitivista cui fa riferimento l’epidemiologia delle credenze, non è quasi mai un processo di copiatura. Addirittura, sostiene Sperber, non è interpretabile come imitazione per copiatura nemmeno l’esempio degli origami proposto in Dawkins 1999, che egli riformula servendosi di una variante di sua invenzione (cfr. Sperber 2000: 165-167). Supponiamo di prendere uno schizzo come quello della figura III.6 e di mostrarlo a un soggetto per dieci secondi; dopo dieci minuti chiediamo al soggetto di ridisegnare l’immagine vista. Ripetendo l’esperimento nove volte con nove soggetti diversi ci ritroveremo con nove versioni dello schizzo via via sempre più lontane da quello di partenza, dal momento che, anche se ciascuna assomiglierà di più a quella immediatamente precedente, non ci sarà una configurazione costante. Se poi mescoliamo le dieci versioni e chiediamo a qualcuno di disporle nell’ordine della loro realizzazione, possiamo attenderci che costui ottenga un risultato migliore del raggruppamento casuale, perché individuerà almeno alcune delle somiglianze tra le versioni vicine.

Figura III.6. Il test della copiatura dello schizzo caotico. Fonte: Sperber 2000.

D’altra parte, se ripetiamo l’esperimento usando come schizzo da riprodurre la stella a cinque punte, come nella figura III.7, non ci sarà alcuna correlazione tra l’ordine di realizzazione delle altre nove versioni e il loro grado di somiglianza, le diverse versioni presenteranno una certa stabilità nella configurazione di

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base e il nostro giudice non otterrà un risultato migliore del raggruppamento casuale. Perché?

Figura III.7. Il test della copiatura della stella. Fonte: Sperber 2000.

Secondo Sperber, poiché il primo schizzo è uno scarabocchio non riconducibile a qualche forma familiare, nel processo di immagazzinamento nella memoria, recupero e riproduzione il soggetto perde molte informazioni e nel contempo è spinto inintenzionalmente a introdurre delle variazioni, e questo spiega la non permanenza del pattern originario. D’altra parte, quando il soggetto è chiamato a riprodurre la stella, egli può basarsi su una forma che può associare a una regola di costruzione (già appresa oppure facilmente estraibile dal disegno) e al massimo introduce variazioni relative alle dimensioni e ad altre caratteristiche secondarie dell’originale. Fondamentalmente si tratta di realizzare un token a partire da un type posseduto sotto forma di rappresentazione mentale, ovvero un disegno fenotipico a partire da un’istruzione genotipica. A questo punto Sperber illustra il modo in cui un memetista spiegherebbe il fenomeno riportando alcuni passi di Dawkins 1999 ed evitando però di specificare che in quel contesto Dawkins sta sintetizzando la teoria della Blackmore. Quello che è accaduto, direbbe un memetista, è che nel primo caso è stato copiato il prodotto, in cui fenotipo e genotipo coincidono, e questo fatto ha dato il via alle mutazioni incontrollate; nel secondo caso, invece, ciascun soggetto non copia il fenotipo della stella, ma attinge all’istruzione genotipica che ha in testa, ed è quest’ultima che impedisce la trasmissione delle mutazioni fenotipiche e costituisce in ultima analisi il meme che viene copiato in modo relativamente fedele nell’esperimento: «The instructions are self-normalising. The code is error-correcting. Plato would enjoy it», dice Dawkins (in Blackmore 1999: xii. Si noti che Sperber non cita la frase su Platone, di cui abbiamo già detto nel primo capitolo). Secondo Dawkins, è questo il motivo per cui la Memetica può fare

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appello in ambito culturale al modello della selezione naturale: dietro l’alto tasso di variazione fenotipica al livello dei prodotti c’è una stabilità genotipica che consente l’applicazione dell’algoritmo darwiniano ai memi-istruzione che vengono trasmessi, e quello che accade nell’esperimento mentale può fornire un modello dei processi che avvengono nel caso della trasmissione del linguaggio, delle credenze religiose, dei costumi, e così via. Ebbene, secondo Sperber, che non si preoccupa di andare oltre le parole di Dawkins, questa spiegazione è semplicemente erronea, perché usa come spiegazione proprio ciò che dev’essere spiegato, vale a dire la proprietà delle istruzioni di essere autonormalizzanti, che a questo punto diventa misteriosa (qui il lettore che conosce Sperber sa che egli sta alludendo alla propria teoria degli “attrattori”, la quale offre una spiegazione della stabilizzazione delle rappresentazioni nello spazio delle possibilità ecologiche; come abbiamo visto, però, e ci torneremo più avanti parlando della contro-obiezione di Dennett, gli attrattori sono trattabili all’interno del vocabolario concettuale di una Memetica cognitiva). Egli è disposto a concedere a Dawkins due punti (cfr. Sperber 2000: 167-168): a) un elemento A può essere considerato una replica di B, pur non essendo identico a B, se condivide con B quell’insieme di caratteristiche la cui persistenza è oggetto di spiegazione; b) nell’esperimento mentale di Dawkins, la stabilità desiderata, per quanto variabile a seconda dei casi (un mito dura nel tempo più di una moda), è presente perché, al di là delle variazioni individuali, i vari elementi fenotipici rimangono nei pressi de quello di partenza in quanto realizzano una configurazione comune. Si tratta però di vedere se nei fenomeni culturali la stabilità riscontrata sia dovuta a processi di replica. Dawkins, dice Sperber, pensa che sia così e i suoi esperimenti immaginari con gli origami suggeriscono un criterio per decidere caso per caso se siamo in presenza di una replica culturale di memi. Si tratta del criterio desumibile anche dalla variante con la stella dell’esperimento: di fronte a una catena causale di rappresentazioni rimescolate a caso, se un soggetto è nell’impossibilità di riordinarle secondo i tempi della loro produzione, allora siamo in presenza della replica di un meme genotipico che sta dietro le molteplici versioni fenotipiche, le cui varianti accidentali non sono state copiate. Sperber, tuttavia, sostiene che se anche la cultura supera questo test, esso non è affidabile, perché ci sono esempi di catene causali di trasmissione non memetica (in quanto non c’è in atto un

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meccanismo di copiatura) che pure soddisfano il criterio. A suo parere un esempio tipico è quello del riso e della sua diffusione per contagio. Il riso è influenzato da fattori culturali, presenta variazioni e supererebbe il test di Dawkins perché nessuno sarebbe in grado di rimettere in ordine una catena di scoppi di risa. È interessante osservare, però, che la forza di questo esempio deve molto al modo piuttosto netto e deciso in cui Sperber interpreta le poche conoscenze che ancora abbiamo sulla base neurofisiologica e sulla funzione evolutiva del riso (come se parlare di disposizioni biologiche e di programma motorio nel 2000 non presentasse ambiguità e incertezze sul piano neuroscientifico): «Why is laughter not a meme? Because it is not copied. A young child who starts laughing does not replicate the laughters she observes. Rather, there is a biological disposition to laughter that gets activated and fine-tuned through encounters with the laughter of others. Similarly, an individual pushed into convulsive laughter by the laughter of others is not imitating them. The motor program for laughing was already fully present in him, and what the laughter of others does is just activate it» (ivi: 168). Perché ci sia vera replica, dice Sperber (cfr. ivi: 169), devono darsi tre condizioni minime: B deve essere causato da A (insieme alle condizioni di sfondo); 2) B deve essere simile ad A per aspetti rilevanti; 3) il processo che genera B deve ricevere da A le informazioni che rendono B simile ad A. 1)

Ora, i memetisti sembrano sostenere che bastino le prime due condizioni perché si possa parlare di eredità; le cose, però, non possono stare così, perché la causa può innescare solo effetti simili («[t]he cause may merely trigger the production of a similar effect», ibid.) e infatti, come dimostra l’esempio della risata e come dimostrano anche esempi di tipo meccanico quali le catene di registrazioni sonore, ci sono trasmissioni non memetiche che soddisfano 1) e 2) ma non soddisfano 3). Come si spiega allora quello che accade nei due esperimenti di “copiatura” di un disegno sopra descritti? Secondo Sperber, ciò a cui assistiamo non ha nulla a che vedere con l’imitazione, cui i memetisti attribuiscono invece un potere eccessivo;

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ovvero, se pure questa vi ha un ruolo, esso è marginale e soprattutto fallimentare. Nel primo caso, i soggetti si basano sul prodotto e si affidano alle capacità percettive, mnemoniche e motorie. Ma la loro imitazione fallisce («it fails», ivi: 170). Nel caso della stella, invece, «the stimulus is recognised» (ibid.), ovvero il soggetto osserva i tratti rilevanti, progettuali, del disegno (trascurando quelli secondari), i quali innescano il recupero mnemonico e l’attivazione di una conoscenza preesistente (la regola su come tracciare una stella a cinque punte senza sollevare la matita dal foglio). Quando poi egli è chiamato a riprodurre il disegno, è a quest’ultima, cioè a un dato rappresentazionale interno (il type), che egli ricorre per eseguire il compito. Il risultato è che nei due esperimenti mentali, i soggetti «are indeed bad at imitating figure 1, and they are not imitating figure 2 but merely producing a new token of the same recognisable type» (ibid.). In Dawkins 1999 (cfr. Blackmore 1999: xv-xviii) i due esperimenti mentali sono un po’ più complessi, ma Sperber ritiene che la semplificazione da lui introdotta preservi il senso del discorso. Nel primo, Dawkins immagina la seguente situazione. Si dia a un bambino il disegno di una giunca cinese da copiare; poi si usi il disegno del primo bambino e lo si sottoponga a un secondo bambino come modello da copiare, e così via per una ventina di volte. Quale sarà il risultato? Trattandosi di un compito lamarckiano di copia del prodotto (che è insieme genotipo e fenotipo, type e token), il tasso di mutazione sarà tale che probabilmente il disegno dell’ultimo bambino avrà ben poco in comune con il disegno originale. Nel secondo, invece, Dawkins introduce una modifica decisiva. Invece di mostrare a un bambino il disegno di una giunca cinese, gli si insegna a costruirne un modellino con la tecnica dell’origami. Il suo compito sarà poi quello di trasmettere la tecnica a un secondo bambino, e così via di nuovo per una ventina di volte. Quale sarà il risultato? Dawkins immagina più di uno scenario, a seconda della frequenza dell’esperimento. In ogni caso, trattandosi di un compito weismanniano di copia delle istruzioni, queste ultime si trasmetteranno in modo molto più stabile e le eventuali mutazioni memetiche verranno ereditate in funzione di fattori ambientali e cognitivi. Se per esempio il bambino n realizza una giunca cinese storta, il bambino n+1 non copierà l’errore se n gli ha insegnato bene la tecnica dell’origami. Viceversa, se n realizza una giunca mutante perché ha compreso male la procedura e se trasmette a n+1 la propria versione della tecnica, allora

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il suo errore verrà ereditato, ovvero sarà salvato dalla selezione culturale. Secondo Sperber, che legge il processo alla luce della proprie teorie linguistiche e psicologiche, la differenza fondamentale tra i due compiti immaginati da Dawkins è che il secondo coinvolge, oltre alla percezione e alla descrizione, la dimostrazione, e questo mette in gioco nell’osservatore la capacità interpretativa di attribuire scopi e intenzioni (cfr. Sperber 2000: ibid.). L’autonormalizzazione che Dawkins dà per scontata, allora, è un processo che avviene a seguito di un ben preciso lavoro cognitivo superiore di attribuzione di intenzioni: «[c]ontrary to what Dawkins writes, the instructions are not “self-normalising”. It is the process of attribution of intentions that normalises the implicit instructions that participants infer from what they observe» (ivi: 171). La tesi fondamentale di Sperber è che le istruzioni non possono essere copiate o imitate in nessun senso, anche perché non sono percepibili. Nel secondo esempio di Dawkins, esse sono piuttosto inferite e riprodotte nel corso di un processo di trasmissione culturale materiale la cui struttura in forma di catena causale, come abbiamo ampiamente visto, può essere ricostruita dall’epidemiologo delle rappresentazioni. Se le istruzioni venissero date per iscritto, esse dovrebbero essere comprese, cioè decodificate e inferite, secondo i meccanismi descritti dalla teoria cognitiva e rappresentazionale della trasmissione culturale e della rilevanza (cui Sperber rimanda in questo punto: cfr. ibid.): «the normalisation of the instructions results precisely from the fact that something other than copying is taking place. It results from the fact that the information provided by the stimulus is complemented with information already available in the system» (ibid.), scrive Sperber dando ancora una volta per scontato che per i memetisti la mente sia un recettore passivo privo di strutture in grado di opporre vincoli ed eseguire attivamente interpretazioni su informazioni in ingresso. Richiamandosi ancora una volta a Chomsky e alla sua teoria dell’acquisizione del linguaggio, Sperber sottolinea che gli stimoli culturali innescano meccanismi di acquisizione e competenze che sono più o meno domain-specific ed ereditati per via genetica. Un bambino, secondo questo approccio, non impara a parlare imitando, ma ricava la grammatica e la semantica della lingua cui è esposto operando inferenze su concetti e intenzioni comunicative a partire da stimoli linguistici poveri e sulla base di dispositivi cerebrali specifici cablati dai geni. In seguito, il peso specifico di fattori come

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l’imitazione e le disposizioni innate varierà a seconda del dominio culturale: nell’imparare il tip-tap, per esempio, l’imitazione ha un peso notevole, mentre lo stesso non può dirsi quando si parla dell’imparare a camminare. Dal canto loro, i memetisti, secondo Sperber, estendono senza alcuna giustificazione la portata dei processi imitativi nell’appren-dimento culturale, e questo costituisce un problema per il loro programma di ricerca, perché «such an idea goes against all major recent developments in developmental psychology and in evolutionary psychology» (ibid.). La Memetica, conclude Sperber, deve presentare evidenze empiriche a sostegno dell’idea che gli elementi culturali, nei microprocessi di trasmissione, ereditano l’informazione rilevante dai modelli di cui sono copia (in accordo con il terzo punto delle condizioni elencate sopra). Se ci riuscisse, cioè se riuscisse a dimostrare che «imitation does it all (or nearly so)!» (ivi: 173), allora dimostrerebbe che la psicologia dello sviluppo, la psicologia evoluzionistica e l’antropologia cognitiva, insistendo su disposizioni modulari innate e adattive, hanno trascurato un fattore in grado di introdurre una notevole semplificazione nei loro modelli esplicativi relativi all’apprendimento culturale: «If, as I believe, this is not even remotely the case, what remains of the memetic programme? The idea of a meme is a theoretically interesting one. It may still have, or suggest, some empirical applications. The Darwinian model of selection is illuminating, and in several ways, for thinking about culture. Imitation, even if not ubiquitous, is of course well worth investigating. The grand project of memetics, on the other hand, is misguided» (ibid.). Qui si può osservare che Sperber, se non si fosse fermato all’introduzione di Dawkins, avrebbe potuto trovare molto di quello che richiede alla Memetica nel libro della Blackmore, dove il confronto con le discipline suddette è continuo e argomentato su base sia teorica che empirica. La Blackmore, a sua volta, in un’occasione faceva un rapido riferimento all’epidemiologia di Sperber, inquadrando la questione dell’evoluzione culturale dal punto di vista memetico in modo molto chiaro: «Sotto certi aspetti è evidente che le idee e le culture si evolvono: in altre parole che i loro cambiamenti sono graduali e vanno a sommarsi a quelli che li hanno preceduti. Le idee si diffondono da un luogo all’altro e da un individuo all’altro (Sperber 1990). Le invenzioni non emergono dal nulla, ma dipendono da invenzioni precedenti, e così via. Eppure le spiegazioni auten-

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ticamente darwiniane necessitano di qualcosa di più della semplice idea di modificazioni che si accumulano nel tempo. Come vedremo, alcune teorie sull’evoluzione culturale contengono poco più di quest’idea; altre cercano di descrivere questo meccanismo, e tuttavia tornano sempre a rifarsi, come unica forza motrice, all’evoluzione biologica; solo alcune, infine, come quella memetica, implicano il concetto di un secondo replicatore. È proprio questo che rende la memetica tanto diversa e potente. In una teoria memetica dell’evoluzione culturale la questione è trattare i memi come replicatori a pieno titolo. Ciò significa che la selezione memetica dà impulso all’evoluzione delle idee nell’interesse della replicazione dei memi, e non di quella dei geni. Questa è la grande differenza che distingue la memetica dalle più antiche teorie sull’evoluzione culturale» (Blackmore 1999: 39-40)119 . Il grande merito di questo saggio di Sperber, molto popolare presso alcuni detrattori della Memetica, è stato quello di stimolare risposte intelligenti all’altezza delle obiezioni argute mosse alla nozione dawkinsiana di meme. È però quasi un paradosso il fatto che le repliche migliori siano venute da Dennett, cioè da chi nel corso degli anni Novanta del secolo scorso aveva sviluppato la teoria dei memi in una direzione che disinnescava in anticipo la minaccia della critica fondamentale di Sperber, il quale, da parte sua, come abbiamo visto, si concentra invece esclusivamente su alcuni passi di Dawkins. Questo fatto forse spiega l’atteggiamento di Dennett nei suoi confronti (chiaramente espresso già in Dennett 1995: 454, citato in precedenza), che potremmo riassumere brevemente in questi termini: Sperber è in realtà un alleato dei memetisti, sia perché il suo programma di naturalizzazione della cultura è fecondo e compatibile con quello memetico sia perché la sua critica ai memi è semplicemente sbagliata o, nella migliore delle ipotesi, fuori bersaglio. Sono numerosi i saggi in cui egli ha presentato le proprie contro-obiezioni, e i più importanti sono forse Dennett 2002 e 2005. Ma qui vogliamo soffermarci sulla più recente Appendice C di Dennett 2006, che costituisce una sorta di piccola summa delle risposte di Dennett a Sperber. Il testo è collegato alla nota 11 del quinto capitolo del libro, dove Dennett previene l’obiezione di chi potrebbe essere indotto ad osservare che è un po’ incongruente servirsi di Sperber e 119

Si noti che il riferimento è al saggio di Sperber che poi sarebbe stato ristampato come capitolo 4 di Sperber 1996.

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di altri studiosi a lui vicini nel suo tentativo di naturalizzazione della religione, visto che si tratta di critici decisi della prospettiva memetica: «[q]ualche lettore sarà infastidito dal mio continuo riferimento ai memi in questo capitolo, dato che gli antropologi di cui discuto gli studi in modo tanto favorevole (cioè Boyer, Atran e il loro mentore, Sperber) sono compatti nel rifiutare l’approccio memetico, come non mancano di dire in modo chiaro nei loro libri e articoli. Di ciò ho discusso con loro per un certo periodo, sia attraverso le pubblicazioni (...) [sia] in occasione di alcuni convegni. Penso che stiano commettendo un errore, ma si tratta di un minimo disaccordo tecnico (...). In ogni caso, una risposta alle loro obiezioni può risultare di aiuto ed è riportata nell’Appendice C»120. Dennett ammette di aver molto imparato riflettendo sulle obiezioni di Sperber e dei suoi colleghi, e il suo scopo, in questo scritto intitolato scherzosamente “Il fattorino e la ragazza di nome Tuck” (The Bellboy and the Lady Named Tuck), è quello di formularle in modo chiaro e mostrare perché a suo parere non sono convincenti. Il punto di partenza è il già citato passo di Sperber (2000: 169): [t]he cause may merely trigger the production of a similar effect. Come abbiamo visto, l’idea di fondo è che, pur essendo vero che gli elementi della cultura vanno incontro a esplosioni demografiche ed estinzioni e che ci sono “somiglianze di famiglia” (family resemblances, Dennett 2006: 379 ed. orig.; l’allusione wittgensteiniana non è accidentale) tutt’altro che casuali tra tali elementi e i modelli da cui provengono, la trasmissione sia descrivibile in termini di copiatura solo in casi marginali, come le catene di sant’Antonio. Di conseguenza, l’analogia con i geni cade e bisogna ricorrere a spiegazioni darwiniane di altro tipo. In particolare, per comprendere davvero l’evoluzione culturale «è meglio concentrarsi invece sui vincoli e le propensioni riscontrabili

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Dennett 2006: 425-426. Nella stessa nota Dennett fornisce ulteriori indicazioni bibliografiche sulla sua lunga disputa con Sperber sui memi. Più recentemente, nel capitolo 52 di Strumenti per pensare, Dennett ha annunciato a small book di repliche a tutti i critici della Memetica: “Per varie ragioni molti hanno un’antipatia viscerale per questo concetto, perciò tendono a credere senza riserve alle numerose critiche che sono state sollevate. Ho deciso che è mio dovere cercare ancora una volta di sostenere la causa dei memi e di affrontare tutti i critici, tanto i critici seri quanto gli atterriti odiatori dei memi, ma per questo sarà necessario un intero libretto” (Dennett 2013: 298).

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nei meccanismi psicologici che gli individui condividono» (Dennett 2006: 406). La chiave del discorso, osserva Dennett, è in quell’instead, ed è su tale parola che egli si concentra, perché, come abbiamo avuto modo di rilevare più volte anche sulla base di riferimenti indipendenti da Dennett, il punto debole della critica di Sperber sta proprio nel presupposto infondato che la Memetica non abbia niente da dire sul piano cognitivo: «[v]orrei contestare la convinzione degli sperberiani che ci sia bisogno di voltare le spalle ai memi per studiare i vincoli e le propensioni della psicologia» (ibid.). Secondo Dennett, così come le spiegazioni biologiche hanno bisogno tanto dell’ecologia quanto della genetica, anche se quest’ultima sembra prescindere dalle pressioni ambientali, le spiegazioni dei fenomeni culturali in chiave memetica hanno bisogno tanto dell’epidemiologia delle credenze su scala pubblica quanto di teorie psicologiche relative all’ambiente mentale della selezione dei memi, anche se taluni memetisti, nell’infuriare della polemica, sembrano ciechi rispetto alla mente121. Dennett qui usa il termine mindblind (cfr. p. 380 ed. orig.) prendendolo in prestito da Atran 2002: 241, dove appunto si lamenta il fatto che i memetisti trascurerebbero l’aspetto cognitivo. In aggiunta a quanto dice Dennett, si può osservare che il nono capitolo del libro di Atran ha un titolo tipicamente sperberiano: “The Trouble with Memes. Inference versus Imitation”, mentre il § 9.5 si intitola appunto “Mindblind Memetics”. Atran, che pure ha ben presente i testi di Dawkins, nonché Dennett 1995 e Blackmore 1999, riprende in particolare l’idea di Sperber secondo cui la teoria cognitiva della modularità costituisce un problema per la Memetica, dal momento che, alla luce della sua spiegazione in chiave inferenziale e interpretativa dei processi di trasmissione e comprensione delle rappresentazioni, «high-fidelity transmission of cultural information is the exception, not the rule. Constant, rapid ‘mutation’ of information during communication generates endlessly varied creations that nevertheless adhere to modular input conditions» (Atran 2002: 236). D’altra parte, poiché i processi inferenziali in opera nella pratica della comunicazione, relativi per esempio all’attribu-

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Per una ricostruzione storica e concettuale di questo dibattito, originato da qualche ambiguità presente nelle stesse opere di Dawkins, cfr. Ianneo 2005: 44-47.

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zione delle intenzioni e alla comprensione, sfociano nella ri-produzione anziché nella mera imitazione, la copiatura viene a cadere, ovvero, per dirla con la formula che costituisce il titolo del § 9.7, “No Replication without Imitation, Therefore No Replication” (ivi: 248). Si noti, di passaggio, il paradosso di questa precisazione da parte di Dennett, cioè del creatore di un modello della mente che, per quanto influente e controverso, è in genere trascurato nel suo punto fondamentale, che è radicalmente memetico: quasi nessuno, infatti, fatta eccezione naturalmente per Dawkins (cfr. 1993 e 1998), legge Dennett 1991a come il saggio che rappresenta la vera e propria fondazione della Memetica cognitiva.122 Lo stesso Boyer (2001), pur usando un lessico concettuale sperberiano per attaccare i memi, laddove considera la religione come lo sfruttamento parassitario, da parte di certi ceppi culturali particolarmente prolifici e adatti, di moduli cognitivi evolutisi in maniera indipendente, finisce con l’aderire a una tesi esplicativa di fondo che è tipica dei memetisti: «perché non incoraggiamo Boyer, Atran e Sperber a concentrarsi sulle forze selettive basate sulla psicologia, cosa che fanno così bene, lasciando il (banale?) compito di riunificazione ai memetisti in fondo al corridoio?» (Dennett 2006: 407). Secondo Dennett, infatti, l’evoluzione culturale va concepita sia in termini di memi sia in termini di vincoli psicologici, ed eventualmente anche in termini di interazioni tra i memi e tali vincoli (cfr. ibid.). Ispirandosi a uno studio empirico sulla correlazione positiva tra carattere disgustoso e capacità di diffusione di certe leggende metropolitane (come quella del fattorino d’albergo che si strofinava sui genitali lo spazzolino da denti degli ospiti dell’albergo, o quella del tassista che solo dopo molti chilometri si accorse di avere un neonato incastrato nel radiatore

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Un’eccezione significativa, alla luce di quanto vedremo nel prossimo paragrafo, è costituita da Marco Iacoboni, uno dei neuroscienziati di punta coinvolti nella ricerca sui neuroni specchio: “Daniel Dennett (...) in Coscienza propone l’ipotesi che i memi svolgano un ruolo preminente nell’evoluzione della coscienza umana. In realtà, considera la coscienza il prodotto delle interazioni fra memi e cervello” (Iacoboni 2008: 50), e prosegue (cfr. ivi: 50-51) riportando la prima frase del passo di Dennett 1991a: 233 che abbiamo citato sopra in 2.2.

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della macchina123), Dennett propone un contro-esperimento mentale per mostrare che quello sperberiano non è un buon argomento contro la Memetica: Supponiamo di inventare un migliaio di leggende metropolitane diverse nuove, non ancora presenti su internet - e di impiantarle scrupolosamente in diecimila ascoltatori, una per ogni individuo, in modo che ogni storia vada a dieci ascoltatori. Cerchiamo poi di inserire in questi memi potenziali dei “marker radioattivi”, includendo dettagli fittizi in ogni versione impiantata, del tipo: “Hai sentito di quel tassista brasiliano che...”. E poniamo anche di investire grandi somme per tracciare le traiettorie di questi marker, assumendo bande di detective privati che li spiano, intercettano le loro telefonate, e via di seguito (un’altra virtù degli esperimenti mentali è che non devi dare spiegazioni né alla redazione della rivista né alla polizia!), in modo da ottenere un bel po’ di buoni dati che ci dicano quali storie si estinguono dopo il primo racconto, quali si trasmettono e con quali parole. Il sogno degli sperberiani sarebbe che ci trovassimo tra le mani un bel niente! Che quasi tutti i nostri marker radioattivi scompaiano e che tutto ciò che rimane delle migliaia di storie diverse siano (diciamo) sette storie che continuano a essere reinventate, sempre di nuovo, perché solo queste riescono a solleticare tutti i vincoli psicologici innati. Guardando ai lignaggi, vedremmo che (diciamo) un centinaio di storie inizialmente molto diverse sono confluite alla fine in una singola favola, il loro “attrattore” più vicino nello Spazio delle Leggende Metropolitane. A volte, una storia si modifica gradualmente in direzione dell’attrattore favorito, ma se un ascoltatore già conosce questa favola, una nuova storia può interrompersi improvvisamente in una sorta di cul de sac: “Oh, davvero interessante. Mi ricorda qualcosa - hai mai sentito di quel ragazzo...?”. Se il risultato fosse questo, capiremmo che tutto il contenuto delle leggende metropolitane che prevalgono nel tempo era implicito nella psicologia degli ascoltatori e dei narratori, e che in pratica nessun elemento delle storie iniziali è stato replicato in modo fedele (ivi: 408-409).

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Cfr. Heath et al. 2001. Ricerche di questo tipo sono ormai molto frequenti, soprattutto da quando la rete è andata via via assumendo l’aspetto di mezzo di diffusione ideale dei memi. Una ricerca più recente, il cui resoconto è apparso su «Scientific American» nell’aprile del 2015, mette in relazione ancora una volta la viralità di certe notizie con la carica emotiva da esse veicolata: “[we] examined the virality of nearly 7,000 articles published online by the New York Times. We explored how an article’s valence (whether it was positive or negative), emotionality (affect ladenness), and likelihood of producing specific emotions (e.g., anger, awe, anxiety, sadness) related to its likelihood of making the Times’ most e-mailed list. Then we conducted a series of laboratory experiments to validate our underlying theories of virality” (Rees-Jones et al. 2015).

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Secondo la formulazione di Atran, mentre a livello genetico è in opera una weak selection, che garantisce agli effetti cumulativi di piccole mutazioni una direzionalità costante, a livello culturale opera una strong selection, nel senso che i moduli cognitivi oppongono forti vincoli di canalizzazione alle informazioni in ingresso; sicché, conclude Atran, «[c]ognitive modules, not memes themselves, enable the cultural canalization of beliefs and practices» (Atran 2002: 248). Ma questo, osserva Dennett, significa immaginare che il nostro cervello sia come una sorta di CD dotato di registrazioni di un numero imprecisato, per esempio, di leggende metropolitane: non appena ne sentiamo qualcuna che si approssimi a una di quelle che abbiamo in dotazione, scatta una “riproduzione innescata” (triggered production: Dennett 2006: 383 ed. orig.) che dunque non sarebbe un’imitazione, in accordo con l’esempio teorico dei suoni registrati proposto da Sperber (2000: 169): «[o]vviamente, il caso estremo di un risultato nullo è improbabile, e se un qualche contenuto venisse invece replicato da un portatore all’altro, coloro che ne sono infettati attiverebbero un nuovo vincolo sul destino di qualunque leggenda metropolitana essi sentissero da ora in poi. La canalizzazione culturale può essere dovuta tanto a una precedente esposizione quanto ai sottostanti moduli cognitivi dell’individuo» (Dennett 2006: 409). È fuorviante, dunque, pensare che tutto questo sia in contrasto con l’approccio memetico. Se si ripensa per esempio al già citato Dennett 1991a: 233 (ripreso poi in 1995: 462), dove è chiaramente espressa un’idea che, in accordo con la correzione sperberiana del modularismo di Fodor, potremmo definire della memicità massiva, si comprende la conclusione di Dennett, stando alla quale, per studiare l’interazione tra i contenuti trasmessi culturalmente e i vincoli cognitivi disposizionali che gli esseri umani condividono su base genetica, «dobbiamo seguire le orme della replicazione dei memi - nel miglior modo possibile» (Dennett 2006: 410). Questo perché a costituire dei vincoli per la selezione dei memi nell’ambiente cognitivo non sono solo i moduli adattivi, fissati geneticamente, postulati dagli psicologi evoluzionisti, ma anche gli altri memi che hanno modellato il cervello nel corso dello sviluppo e dell’apprendimento della lingua e della cultura: «proprio come possiamo essere sicuri che le barzellette raccontate in francese faranno fatica a diffondersi nei quartieri anglofoni, possiamo essere altrettanto sicuri che le concezioni politiche di una persona, o la sua conoscenza dell’arte (o della fisica quantistica, o delle

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pratiche sessuali), imporranno vincoli o propensioni potenti sulla sua ricettività e disponibilità a trasmettere vari memi potenziali» (ivi: 411). Secondo Dennett, in definitiva, le posizioni difese dagli sperberiani che rifiutano i memi possono, paradossalmente, essere meglio espresse nel linguaggio memetico: «una delle cose che affermano (...) è che l’evoluzione convergente svolge un ruolo talmente dominante nell’evoluzione culturale, che la trasmissione dei progetti per discendenza effettiva tramite lignaggi culturali è molto meno esplicativa delle somiglianze osservate di quanto lo sia il modellamento del progetto da parte delle forze selettive» (ivi: p. 412). Se per esempio volessimo spiegare le somiglianze tra cristianesimo e islam, avremmo due alternative: o diciamo che esse sono dovute al loro antenato comune, la religione di Abramo (come vorrebbero i memetisti), oppure dovremmo indagare il modo in cui le due religioni si sono adattate alle condizioni cognitive simili incontrate negli esseri umani che le professano (come ritengono gli sperberiani). Ma la questione non è possibile deciderla a priori (cfr. ibid.). A proposito di religione, è interessante a tal riguardo esaminare il modo in cui essa è affrontata in chiave memetica in Dawkins 2006 (che peraltro presuppone il pur coevo Dennett 2006). Si può notare, intanto, che Dawkins non cita mai esplicitamente Sperber, mentre assume nei confronti di Boyer 2001 e Atran 2002 un atteggiamento analogo a quello di Dennett: egli cita due volte il primo e tre volte il secondo, ma non fa mai alcun cenno diretto alle critiche alla Memetica contenute in tali libri, limitandosi piuttosto a raccomandarli sia come fonti autorevoli per conoscere la varietà delle credenze religiose sia come esempi importanti di studi cognitivi sulla mente religiosa (cfr. Dawkins 2006: 43, 178, 185). In altre parole, è come se Dawkins desse per definitivamente superate le stesse diatribe (cui pure allude, come vedremo) che Dennett nello stesso periodo confina ormai in una delle appendici del suo libro sulla religione come fenomeno naturale e memetico. Il penultimo paragrafo del quinto capitolo è dedicato specificamente ai memi ed è intitolato “Andate piano, mi state calpestando i memi” (Tread softly, because you tread on my memes: ed. orig. p. 191). Dawkins usa come base il proprio vecchio modello teorico, aggiornandolo con alcune delle proposte concettuali e terminologiche avanzate da Susan Blackmore (1999), per discutere un problema: posto che la teoria dei memi assume l’esistenza

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di replicatori culturali, e posto che il gene, pur essendo il replicatore archetipico (archetypal replicator: ibid.), è solo un esempio ovvio di replicatore, sicché il meme ha bisogno non di essere un omologo stretto (close analogue: ibid.) del gene, ma di comportarsi in modo simile al gene, «la teoria dei memi funziona nel caso specifico della religione?» (Dawkins 2006: 192). Affinché l’analogia gene/meme funzioni, occorre collocarla al giusto livello di descrizione, che non è tanto quello dei dettagli “fenotipici” quanto piuttosto quello dell’essenza dell’informazione codificata e trasmessa (un modo, come si vede, vagamente platonico di esprimere lo stesso concetto espresso da Sperber con la nozione di rappresentazione astratta e da Popper con la nozione di oggetto del Mondo 3). Nel caso dei geni, le mutazioni occasionali producono alleli che competono per occupare il medesimo locus cromosomico, e la competizione si svolge indirettamente sul piano fenotipico dell’anatomia, della fisiologia, della biochimica o del comportamento. La frequenza statistica di un gene nel pool genico è funzione del successo selettivo della sua espressione fenotipica. Esiste qualcosa di simile sul piano memico? Secondo Dawkins, è pur vero che qui «non c’è niente che corrisponda con precisione ai cromosomi, ai loci, agli alleli o alla ricombinazione sessuale. Il pool memico è meno strutturato e meno organizzato del pool genico. Tuttavia non è assurdo parlare di un pool memico in cui determinati memi abbiano una “frequenza” che cambia in conseguenza delle interazioni competitive con altri memi» (ivi: 193). Le obiezioni alla Memetica, ricorda Dawkins, hanno fatto leva sulle differenze prima facie tra memi e geni: questi ultimi, in quanto porzioni di Dna, hanno una natura fisico-chimica determinata e si sa dove andarli a cercare, mentre lo status dei memi ha ingenerato confusioni persino presso gli stessi memetisti. Da qui le controversie sulla loro collocazione precisa: i memi esistono solo nel cervello o possiamo considerare memi anche le varie copie cartacee ed elettroniche di un limerick? Senza contare la classica obiezione alla Sperber: la copiatura dei geni è caratterizzata da alta fedeltà, mentre quella dei memi è imprecisa, e in una situazione in cui il tasso di mutazione è alto l’algoritmo darwiniano non può agire, perché dopo poche fasi di trasmissione culturale la mutazione rischia di far scomparire l’oggetto stesso della selezione di cui dev’essere misurata la frequenza nel pool memico. Ma qui, egli osserva, si confondono i piani, sicché the problem is

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illusory (ed. orig. p. 193). Se si pensa a un carpentiere o a uno spaccapietre preistorico che viene imitato, risulta chiaro che ciò che viene trasmesso per imitazione da maestro ad apprendista non è ogni singolo gesto della mano, ma lo scopo (the goal) dell’azione, la regola che la orienta verso la realizzazione di un manufatto124. La varietà di gesti con la quale può essere riprodotto uno stesso oggetto è teoricamente illimitata, ma l’informazione di base può essere trasmessa senza mutazioni significative attraverso molti atti di imitazione sia in orizzontale che in verticale (nel senso di Cavalli-Sforza): «[i] particolari variano in maniera individuale (idiosyncratically), ma l’essenza (the essence) è trasmessa immutata ed è questo a rendere valida l’analogia tra memi e geni» (Dawkins 2006: 194; cfr. ed. orig. p. 193). Per ribadire il concetto, Dawkins torna all’esempio della giunca cinese proposto nella prefazione a Blackmore 1999 (su cui si era concentrato Sperber) e lo arricchisce significativamente con dei dettagli che vanno nella direzione di un approccio epidemiologico: «Ho imparato a costruire la giunca cinese quando ero bambino da mio padre, il quale, da bambino, aveva imparato a costruirla in collegio. Ai suoi tempi la mania delle giunche cinesi, cui aveva dato inizio la direttrice del collegio, si era diffusa come un’epidemia di morbillo, per poi estinguersi esattamente come un’epidemia di morbillo. Ventisei anni dopo, quando la direttrice era morta da un pezzo, entrai in quello stesso collegio e ridiedi vita a quella mania, che di nuovo si diffuse come un’epidemia di morbillo per poi estinguersi. Il fatto che un’abilità acquisibile 124

Si noti, come anticipazione di quanto si dirà più dettagliatamente nel prossimo paragrafo, la contiguità di questa osservazione dawkinsiana (e già della teoria dennettiana dell’atteggiamento intenzionale) con il tipo di approccio basato sulla cosiddetta simulazione incarnata, resa possibile dai neuroni specchio (“MN” nel passo che segue): “[o]ur speculative suggestion is that a ‘cognitive continuity’ exists within the domain of intentional-state attribution from non-human primates to humans, and that MNs represent its neural correlate (...). This continuity is grounded in the ability of both human and nonhuman primates to detect goals in the observed behavior of conspecifics. The capacity to understand action goals, already present in non-human primates, relies on a process that matches the observed behavior to the action plans of the observer. (...) [T]he understanding of action goals does not imply a full grasp of mental states such as beliefs or desires. Action-goal understanding nevertheless constitutes a necessary phylogenetical stage within the evolutionary path leading to the fully developed mind-reading abilities of human beings” (Gallese e Goldman 1998: 500).

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possa diffondersi come una malattia infettiva ci dice qualcosa di importante in merito all’alta fedeltà della trasmissione memetica. È certo che le giunche costruite dai ragazzi della generazione di mio padre negli anni ’20 erano, nel complesso, pressoché uguali a quelle costruite dai ragazzi della mia generazione negli anni ’50» (ivi: 194-195). Questa volta Dawkins sviluppa l’esempio introducendo nell’esperimento immaginario un elemento nuovo, e cioè la differenza tra processi analogici e processi digitali. Si considerino venti squadre composte da dieci elementi e si immaginino due compiti distinti: 1) nel primo caso si insegna ai venti capisquadra la tecnica dell’origami per la costruzione di una giunca cinese; poi ciascuno dovrà trasmetterla a un membro della propria squadra, e così via fino alla decima generazione; 2) nel secondo caso si dà da copiare a ciascun caposquadra un disegno di una giunca; la copia del caposquadra dovrà essere a sua volta copiata da un membro della sua squadra e il risultato dovrà poi essere riprodotto da un membro di “terza generazione”, e così via. Ebbene, secondo Dawkins la diversità dei risultati dipenderà dal fatto che nel primo caso il compito è di tipo digitale, mentre nel secondo è di tipo analogico. I vari passaggi del primo compito sono semplici e del tipo tutto o niente; se vengono sempre rispettati, la giunca di decima generazione sarà pressoché identica a quella delle generazioni precedenti, perché i passaggi stessi sono autonormalizzanti; se invece qualcuno, per esempio 3.5 (immaginando di etichettare ciascun membro con il numero della squadra e con quello della generazione di appartenenza), introduce una modifica nella procedura che poi verrà trasmessa, le giunche prodotte dai membri 3.6-10 presenteranno la “mutazione” digitale. D’altra parte, nel caso del compito analogico ci si aspetta una progressiva degenerazione (per impoverimento o per arricchimento di informazioni, a seconda della creatività dei membri e del tempo a disposizione) del modello originario, perché la copiatura avviene al livello del fenotipo e le modifiche possibili sono continue, non discrete (cfr. ivi: 195-197). Sul piano del linguaggio, l’autonormalizzazione e la degenerazione funzionano in maniera del tutto analoga: «Le parole, quando sono comprese, sono autonormalizzanti come i vari atti che portano alla costruzione di un origami. Nel gioco originale del passaparola, si racconta una storia o

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si dice una frase a un bambino, poi gli si dice di ripeterla al bambino successivo e così via. Se la frase è composta da meno di sette parole della madrelingua dei bambini, vi sono buone probabilità che sopravviva immutata fino alla decima “generazione”. Se è in una lingua straniera e i bambini sono indotti a un’imitazione fonetica anziché a una ripetizione parola per parola, il messaggio non sopravvive; si altera e il modello di decadimento nel corso delle generazioni diventa lo stesso della copiatura del disegno. Quando ha senso nella madrelingua dei bambini e non contiene parole strane come “fenotipo” o “allele”, il messaggio sopravvive. Invece di compiere un’imitazione fonetica, ciascun bambino riconosce ciascuna parola come componente di un vocabolario finito e la trasmette al bambino successivo, anche se molto probabilmente la pronuncia con un accento diverso. Il linguaggio scritto è a sua volta autonormalizzante, perché i ghirigori sulla carta, pur differendo nei dettagli, sono tutti tratti da un alfabeto finito di (per esempio) ventisei lettere» (ivi: 197). Il fenomeno dell’autonormalizzazione, dovuto alla capacità di afferrare istruzioni e scopi nel processo imitativo, garantisce una certa precisione, e questo, osserva Dawkins alludendo implicitamente a Sperber, dovrebbe mettere a tacere le obiezioni alla Memetica basate sulla (presunta) scarsa fedeltà delle riproduzioni di rappresentazioni nel microprocesso della trasmissione culturale. Il punto principale della Memetica, che in questa fase iniziale del suo sviluppo non è ancora in grado di fornire «a comprehensive theory of culture» (ed. orig. p. 196), perché non ha ancora i suoi Watson e Crick, è quello di sottolineare il fatto che il gene non è l’unico replicatore in gioco, come era già chiaro ne Il gene egoista. Dopo aver ricordato rapidamente alcuni contributi alla Memetica125, Dawkins riconosce che l’esito migliore dell’opera 125

Dawkins non manca di menzionare anche testi importanti sull’evoluzione culturale che pure si discostano dalla Memetica, come ad esempio Richerson e Boyd 2005, di cui dice una cosa interessante proprio in relazione al fatto che già Dawkins 1976 era un tentativo di mettere in luce che not by genes alone è fatta la biologia, soprattutto se si pone mente a quel particolare prodotto biologico che è la cultura: “Peter Richerson e Robert Boyd sottolineano il concetto già nel titolo di un loro libro prezioso e meditato, Non di soli geni, anche se, per ragioni che espongono, hanno deciso di non adottare il termine «meme» preferendo «variante culturale»” (ivi: 197). È interessante osservare che questi due autori, i quali propongono esplicitamente una terza via rispetto a quella delle due fazioni contrapposte (diciamo Dawkins-Dennett-Blackmore

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collettiva di sviluppo della teoria resta Blackmore 1999, dove la prospettiva anti-soggettivistica consente di rappresentare «un mondo pieno di cervelli (e altri ricettacoli o condotti, come computer o bande di radiofrequenza) e di memi che sgomitano per occuparli. Come i geni nel pool genico, i memi che prevalgono sono quelli abili a replicarsi, abili o perché hanno un’attrattiva diretta, come il meme dell’immortalità per qualcuno, o perché fioriscono in presenza di altri memi che sono già divenuti numerosi nel pool memico. Questo dà luogo a complessi di memi, o “memeplessi”» (ivi: 198). L’illustrazione del concetto di meme complex (o memeplex) dà modo a Dawkins di approfondire in modo dettagliato l’analogia meme/gene, che spesso, nelle discussioni filosofiche, è viziata da fraintendimenti dovuti a una conoscenza superficiale della genetica. La metafora del “gene egoista”, introdotta per scopi meramente didattici, si è esposta al rischio di essere presa troppo alla lettera, facendo dimenticare che i geni non solo non viaggiano da soli ma non agiscono mai in maniera indipendente. La prima circostanza, relativa alla collocazione dei geni, riguarda la genetica, mentre la seconda, relativa alla loro azione, riguarda l’embriologia, e non di rado si rischia di confondere i due piani. Dal punto di vista strettamente genetico, si sa che i geni e i loro alleli sono legati tra di loro in modo rigido lungo la catena cromosomica in loci specifici, e su questo versante l’analogia non può andare molto lontano, perché, come abbiamo visto, non c’è niente che a livello memico corrisponda ai cromosomi, agli alleli e alla ricombinazione sessuale. Ben diverso è il discorso dal punto di vista dell’embriologia. Qui, dire che l’azione dei geni non è indipendente significa dire che non c’è una corrispondenza uno a uno tra contro Sperber-Boyer-Atran), non nascondono di condividere nella sostanza gli argomenti avanzati in Sperber 1996 contro l’approccio memetico (cfr. Richerson e Boyd 2005: 112-116). Del resto, il loro approccio “popolazionale” alla cultura, intesa come informazione depositata soprattutto in cervelli, non è molto distante da quello epidemiologico di Sperber e dalla teoria della trasmissione di Cavalli-Sforza, e alla sua prima occorrenza nel libro (cfr. ivi: 10) la nozione di meme sembra perfettamente integrata nel quadro concettuale proposto, che tra l’altro assegna un ruolo di rilievo anche all’imitazione e alla relativa indipendenza della fitness culturale da quella genetica, due componenti fondamentali della Memetica (cfr. in particolare ivi: 18-21). Più specificamente, essi riconoscono alla teoria dei memi, così come esposta in Dawkins 1976, il merito di “dare risalto alla somiglianza tra geni e proprietà della cultura” (ivi: 17, nota 16).

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un gene e un tratto fenotipico, perché un fenotipo non è un mosaico mappato su un genotipo isomorfo; analogamente, una singola istruzione di una ricetta non ha un corrispondente in una porzione della relativa pietanza, perché il processo che porta dalla ricetta alla pietanza coinvolge una serie così complessa di interazioni e vincoli ambientali da rendere impossibile una descrizione in termini di mappatura uno a uno. Il concetto-chiave qui introdotto da Dawkins è quello di “cartello”, desunto dal mercato, perché è ad esso che egli farà ricorso per interpretare in termini memetici la religione e il suo funzionamento: «I geni, dunque, cooperano con i loro “cartelli” alla costruzione di organismi, e questo è uno dei principi fondamentali dell’embriologia. Si sarebbe tentati di dire che la selezione naturale favorisce cartelli di geni in una sorta di selezione di gruppo tra cartelli alternativi, ma sarebbe fuorviante. In realtà gli altri geni del pool genico costituiscono una parte fondamentale dell’ambiente in cui ogni gene è selezionato a discapito dei suoi alleli. Poiché ciascuno è selezionato affinché abbia successo in presenza degli altri, i quali a loro volta sono selezionati in maniera analoga, i cartelli di geni cooperanti emergono» (ivi: 198-199). È la ben nota logica dell’orologiaio cieco tanto cara a Dawkins: così come c’è una sorta di invisible hand (cfr. ed. orig. p. 197) che in un libero mercato fa sì che lo spazio tra un macellaio e un panettiere venga occupato, poniamo, da un fabbricante di candelieri (contrariamente a quanto avviene in un’economia pianificata, che può deliberatamente favorire una tale troika di attività), allo stesso modo l’evoluzione biologica e quella culturale si muovono nello spazio dei progetti favorendo certi cartelli di geni e di memi a discapito di altri. Il pool genico dei carnivori, per esempio, è di per sé un ambiente selettivo che favorisce certi cartelli o certe combinazioni di geni, per esempio connessi con le capacità percettive, gli artigli, la dentatura e la digestione, che non avrebbero alcuna speranza di essere selezionati e replicati nell’ambiente costituito dal pool genico degli erbivori; in maniera del tutto analoga, «[b]enché i pool memici siano meno irreggimentati e strutturati dei pool genici, possiamo ugualmente definire un pool memico una parte importante dell’“ambiente” di ciascun meme nel memeplesso» (ivi: 200). I memeplessi, dunque, sono cartelli di memi che emergono nei pool memici in quanto riescono ad adattarsi meglio alle condizioni ambientali definite da altri memi strutturati. I memi isolati sono astrazioni, perché ciò che si dà nell’agone della cultura sono

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memeplessi all’interno dei quali i memi si sostengono reciprocamente per aumentare le probabilità di essere ricopiati e diffusi. Com’è noto, sin da Dawkins 1976 e (soprattutto) 1993, quello della religione è l’esempio preferito dal biologo inglese, e in tal senso L’illusione di Dio è la summa del suo pensiero sull’argomento. Definita la nozione di memeplesso e richiamate le idee del paragrafo precedente sull’interpretazione memetica di certi fenomeni relativi all’evoluzione del linguaggio (come la mutazione vocalica tra il medio inglese e l’inglese moderno avvenuta nel corso dei secoli XV-XVIII, cfr. ivi: 190 e 200), Dawkins testa l’apparato concettuale così messo a punto sulle credenze religiose126. Geni e memi possono avere in teoria meriti assoluti, ovvero possono avere capacità intrinseche di sopravvivere nei rispettivi ambienti di selezione; tuttavia, come accade normalmente, è quando si aggregano in cartelli che possono diventare delle formidabili macchine da sopravvivenza. In tal senso, certe idee religiose sono esempi di memi perfettamente adattati, prima ancora che a memeplessi culturali derivati, all’ambiente cognitivo specie-specifico, la cui architettura memica fondamentale è stata plasmata nel corso dell’evoluzione per la soluzione di problemi relativi al riconoscimento degli agenti (nel senso cui si faceva cenno nella nota precedente). Ecco l’elenco di Dawkins, che mette insieme credenze comuni alle tre grandi religioni monoteiste: - Si sopravvive alla morte. - Se si muore da martiri, si accede a un angolo particolarmente bello di paradiso dove si potrà godere della compagnia di settantadue vergini (si pensi per un attimo alle sfortunate vergini). - Gli eretici, i bestemmiatori e gli apostati devono essere uccisi (o comunque puniti, per esempio con l’ostracismo delle loro famiglie).

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A tal proposito, è utile ricordare che Dawkins aderisce sostanzialmente all’idea che la religione sia, come recita il titolo del paragrafo che precede immediatamente quello che stiamo esaminando da vicino, il prodotto indiretto di qualcos’altro (un fenomeno di exaptation a livello cognitivo e culturale, in altre parole), e a tal proposito egli si basa soprattutto su Dennett 1987 e 2006, da cui ricava tutta la teoria dei sistemi intenzionali. Da Dennett 2006 (in part. p. 117) Dawkins (2006: 185) ricava anche il concetto di hyperactive agent detection device (HADD) di Justin Barrett (2000), che si rivela molto utile per spiegare gli sconfinamenti nel soprannaturale di capacità cognitive evolutesi per ottimi scopi naturali. Per una panoramica sulle teorie della mente religiosa come exaptation e sul loro sostegno sperimentale, si veda Girotto-PievaniVallortigara 2008.

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- Credere in Dio è una virtù suprema. Se sentiamo la fede vacillare, cerchiamo in ogni modo di rinsaldarla e chiediamo a Dio di aiutarci a vincere l’incredulità. (...) - La fede (credere senza prove) è una virtù. Più le proprie convinzioni contrastano con le prove concrete, più si è virtuosi. I campioni della fede capaci di credere a cose stranissime, che non sono né saranno mai suffragate da prove e sono contraddette dall’evidenza e dalla ragione, riceveranno una ricompensa speciale. - Tutti, anche i non credenti, devono mostrare un rispetto automatico e indiscusso per le credenze religiose, molto superiore al rispetto dovuto ad altri tipi di credenze (...). - Vi sono cose strane (come la Trinità, la transustanziazione, l’incarnazione) che non siamo fatti per capire. Non si cerchi nemmeno di capirle, perché il solo tentativo le distruggerebbe. Ci si accontenti di definirle un mistero. Si ricordi la violenta condanna della ragione pronunciata da Martin Lutero e si vedrà quanto impegno sia stato profuso per la sopravvivenza del meme. - La musica, l’arte e le Scritture con la loro sublime bellezza sono simboli autoreplicanti di idee religiose (ivi: 201)127.

Alcuni di questi memi potrebbero anche essere dotati di capacità assolute di sopravvivenza, ma è più interessante, secondo Dawkins, considerarli capaci di entrare in memeplessi alternativi a seconda del modo in cui si combinano. Le religioni (come anche i generi artistici, aggiunge Dawkins nella nota ad locum, cfr. ivi: 377) possono essere viste come memeplessi alternativi non progettati deliberatamente da qualcuno, e in tal senso, stando all’esempio precedente, l’islam sarebbe come un pool genico carnivoro in grado di favorire certe combinazioni memiche che non potrebbero trovare un ambiente altrettanto propizio nel buddismo, assimilabile in questo caso a un pool genico erbivoro, senza che questo implichi giudizi di valore: a questo livello di descrizione, i memeplessi alternativi non sono ordinati su scale assiologiche, perché si tratta di comprendere naturalisticamente (nel senso di Dennett e Sperber) i fenomeni religiosi come spazi ecologico-culturali dotati di vincoli selettivi ben precisi per i memi o i memeplessi che cercano di prosperare al loro interno (cfr. ivi: 202). A tal riguardo, anche se Sperber non è menzionato, è del tutto evidente il tentativo di Dawkins, posto a conclusione del paragrafo, di difendere la Memetica come programma di ricerca in grado di soddisfare la sua richiesta di integrazione della prospettiva psico-

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Si confronti questo elenco con i sette sintomi della mente infettata da virus religiosi discussi in Dawkins 1993 (in 2003: 186-195).

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logica con quella epidemiologica nell’ambito di una teoria unificata che, sempre entro la cornice neodarwiniana, tiene conto sia dei fattori inconsci e meccanici sia delle azioni deliberate 128 (e a tal proposito casi esemplari di studio sono Scientology, il mormonismo e i cosiddetti culti del cargo, in quanto memeplessi religiosi emersi in epoca relativamente recente e caratterizzati da una particolare virulenza): «[i]l ruolo della selezione naturale genetica nel processo è di fornire il cervello, con le sue predilezioni e inclinazioni, ossia la piattaforma hardware e il software di base che costituiscono lo sfondo della selezione memetica. Dato questo sfondo, una qualche selezione naturale memetica spiega a mio avviso in maniera plausibile l’evoluzione specifica di particolari religioni. Ai primi stadi dell’evoluzione di una religione, prima che essa diventi organizzata, memi semplici sopravvivono grazie all’attrattiva universale che esercitano sulla psicologia umana. È in questa fase che la teoria memetica della religione e la teoria psicologica della religione come prodotto secondario si sovrappongono. Gli stadi successivi, nei quali la religione diventa organizzata, elaborata e arbitrariamente diversa dalle altre, sono ben spiegati dalla teoria dei memeplessi, ossia dei cartelli di memi reciprocamente compatibili. I memeplessi però non escludono il ruolo supplementare della deliberata strumentalizzazione a opera di preti e altri agenti. Con tutta probabilità, le religioni, come le scuole e le tendenze artistiche, sono almeno in parte progettate in maniera intelligente» (ivi: 202-203). Torniamo per un attimo al passo di Sperber (2000: 168) sul carattere non memetico del riso e del suo contagio. Come notavamo di passaggio, lì Sperber si mostra forse eccessivamente ottimista sulle conoscenze neuroscientifiche all’epoca a sua disposizione, al punto da pensare di poter escludere che il fenomeno del riso abbia a che vedere in qualche modo con processi imitativi. Innanzi tutto si può osservare che già alla fine degli anni Novanta 128

E questa, sia detto per inciso, era già una vecchia idea di Popper, il quale, in opposizione alle teorie sociali della cospirazione, concepiva le scienze sociali come l’insieme delle teorie che tentano di spiegare l’emergenza delle conseguenze inintenzionali delle nostre azioni intenzionali e rifletteva sul diverso ruolo giocato dall’imitazione nelle tradizioni e nelle istituzioni: si vedano, per tutti, le due conferenza del 1948 poi ristampate come capitoli 4 e 16 di Popper 1963 (rispettivamente pp. 207-233, in part. 215 e 231, e pp. 571588, in part. 580).

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del XX secolo, un testo come Ramachandran e Blakeslee 1998 (in particolare il capitolo X, pp. 224-237, il cui titolo è diventato quello dell’intero volume nell’edizione italiana: La donna che morì dal ridere) offriva una discussione dettagliata della complessità del problema neurologico ed evolutivo del riso. Inoltre, in quegli stessi anni il dibattito internazionale - non solo strettamente neuroscientifico - stava cominciando ad essere investito dalla scoperta del cosiddetto sistema specchio, che avrebbe imposto di ripensare su basi diverse molte questioni proprie delle scienze cognitive, tra cui anche quelle discusse da Sperber e usate in chiave anti-memetica. La rivoluzione concettuale determinata (a torto o a ragione, come vedremo nel prossimo paragrafo) dai mirror neurons ha per esempio portato a ripensare su nuove basi il fenomeno dell’imitazione, che sembra un meccanismo embodied evolutosi proprio perché in stretta relazione simbiotica con i vantaggi rappresentati dall’evoluzione culturale. Come si vedrà, già nel 2000 lo stesso Ramachandran non solo celebrava l’importanza dei neuroni specchio per comprendere l’esplosione dell’evoluzione culturale umana, ma li metteva in relazione con i memi. Questa circostanza sembra costituire un problema per l’approccio di Sperber, soprattutto nella misura in cui esso presume di essere alternativo alla Memetica. Fino ad ora, infatti, abbiamo visto come i memetisti (soprattutto Dennett e Dawkins) hanno replicato alle critiche di Sperber dall’interno della prospettiva memetica, sostenendo, in sostanza, che Sperber sbaglia ad insistere sulla bassa fedeltà di copiatura propria dei veri microprocessi di trasmissione culturale sulla base dell’idea che nei casi più significativi non di copiatura si tratti ma di vera e propria riproduzione. Il contro-argomento, in sintesi, era di questo tipo: Sperber non distingue adeguatamente gli aspetti genotipici astratti dei memi dalle loro manifestazioni fenotipiche, e per tale ragione esagera la portata delle mutazioni nei processi di trasmissione; l’informazione, al contrario, può essere trasmessa e diffusa con un tasso di fedeltà soddisfacente per chi intende guardare all’evoluzione culturale con la strumentazione concettuale fornita dall’algoritmo darwiniano della replicazione, della variazione e della selezione (nel senso di Dennett 1995 e Blackmore 1999). La piega presa dal dibattito proprio a partire dai primi anni Duemila, però, sembra minare dall’esterno le basi concettuali stesse dell’argomento di Sperber, proprio per-

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ché, come si accennava, l’imitazione è tornata in auge come meccanismo incarnato nei circuiti neuronali (soprattutto) umani per ottime ragioni evolutive. Questo, inoltre, sembra segnare un grosso punto a favore della Memetica, perché, come vedremo, qualcosa di simile al sistema specchio poteva persino essere predetto da una teorica dei memi come Susan Blackmore. In tal senso, dunque, il richiamo di Sperber al meccanismo del riso potrebbe ritorcersi contro la sua stessa obiezione, perché la Memetica e la teoria dei neuroni specchio non solo sono in grado di estendersi esplicativamente a fenomeni automatici come il riso, ma possono persino andare oltre la sfera umana e coinvolgere altre specie. Si consideri per esempio il canto degli uccelli. Per una coincidenza davvero singolare, con il canto di certi uccelli come esempio di trasmissione culturale non umana in parte indipendente dall’eredità genetica si apriva l’undicesimo capitolo de Il gene egoista, appena un paio di pagine prima che facesse la sua apparizione il concetto di meme (cfr. Dawkins 1976: 198-199). Per tale ragione, Dennett, nella sua monografia da enciclopedia dedicata ai “nuovi replicatori”, ha inserito il canto degli uccelli, insieme ad altri comportamenti e manufatti non umani, nell’abbozzo di albero tassonomico dei memi che riportiamo di seguito (Figura III.7. Dennett 2002, in 2006: 368)129.

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In un saggio più recente di social cognition nei non-primati si può leggere, per esempio: «It is also a songbird family that offers the best example in the non-human animal kingdom where memes keep genes on a leash» (Bshary et al. 2007: 90. Corsivo nostro).

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Figura III.7. La tassonomia dei nuovi replicatori. Fonte: Dennett 2006: 368.

A conclusione di questo ampio paragrafo, si può ricordare che Dawkins 1999 contiene un gustoso aneddoto memetico relativo a Wittgenstein - su cui Sperber ha assai significativamente sorvolato nel suo saggio del 2000 - che costituisce un ponte ideale per le questioni che discuteremo nel paragrafo seguente: «c’era una ragazza che ostentava un’insolita abitudine. Se le ponevi una domanda che richiedeva un’attenta riflessione, strizzava gli occhi, abbassava la testa premendo il mento sul petto e restava immobile anche per mezzo minuto, poi rialzava lo sguardo e rispondeva con intelligenza e proprietà di linguaggio. La cosa mi divertiva, e una sera ne feci un’imitazione per intrattenere i miei colleghi al termine di una cena. Fra loro c’era un insigne filosofo di Oxford che immediatamente disse: “Ma quello è Wittgenstein! Per caso la tua studentessa si chiama xxx?”. Con mia grande sorpresa il nome era proprio quello. “Lo sapevo” continuò il mio collega. “I suoi genitori sono due professori di filosofia, entrambi devoti seguaci di Wittgenstein”. Quel modo di fare era passato dal grande filosofo austriaco a uno dei genitori della mia allieva, o forse a entrambi, e infine a lei. Sebbene io lo avessi imitato solo per scherzo, suppongo di dovermi considerare, nei confronti di quel gesto, un trasmettitore di quarta generazione. E chissà da chi l’aveva preso

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Wittgenstein» (in Blackmore 1999: xi-xii; cfr. Dawkins 2003: 160).

3.3. L’imitazione, i memi e il sistema specchio Come abbiamo visto nel primo capitolo, nel suo saggio del 1975 Popper assegnava un ruolo tutt’altro che marginale all’imitazione nel meccanismo di istruzione a livello culturale. A tal proposito, è utile guardare da vicino le pur diverse teorie dell’apprendimento presupposte da Popper e dalla Blackmore. Per quest’ultima (cfr. Blackmore 1999: 6 e 73-75) bisogna distinguere l’apprendimento per imitazione, su cui fa leva la Memetica, da altre forme di apprendimento, che per lei si riducono soltanto al condizionamento classico (pavloviano) e al condizionamento operante (skinneriano), che a sua volta coinciderebbe con l’apprendimento per prova ed errore. Diversa è la tassonomia dell’apprendimento proposta da Popper nel terzo paragrafo del primo volume del Postscript (Popper [1956] 1983: 67-61). Qui egli, partendo dal presupposto che l’apprendimento per condizionamento classico semplicemente non esiste (è una delle tesi classiche di Popper, su cui non ci soffermeremo), distingue fra tre tipi di apprendimento: 1) apprendimento per prova ed errore, ovvero per congetture e confutazioni; 2) apprendimento per ripetizione, ovvero per formazione di abitudini e 3) apprendimento per imitazione, ovvero per “assorbimento” di una tradizione. Secondo Popper, queste tre forme di apprendimento sono comuni in natura e governano l’acquisizione sia di abilità pratiche sia di conoscenze teoriche e fattuali. La cosa interessante, però, è che Popper considera rilevante per la crescita della conoscenza solo il primo tipo di apprendimento, mentre gli altri due risultano significativi da questo punto di vista solo nella misura in cui sono forme mascherate dell’apprendimento per prova ed errore. A proposito dell’imitazione, infatti, Popper scrive: Si tratta di una delle forme più primitive e importanti di apprendimento; qui la base istintiva altamente complessa dell’apprendimento e il ruolo che vi ricoprono la suggestione e le emozioni sono più evidenti che in altri modi di

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apprendere (nonostante siano, naturalmente, sempre presenti). Ciò che è importante per la nostra discussione è che, dal punto di vista di chi apprende individualmente, l’apprendere per imitazione sia sempre un tipico processo per prova ed errore: un bambino (o un cucciolo di animale) cerca, consciamente o inconsciamente, di imitare il proprio genitore e o si corregge da solo o viene corretto dal genitore stesso. Questo processo per prova ed errore costituisce il primo e fondamentale stadio del processo imitativo. È quindi un processo di scoperta: il bambino scopre come camminare per imitazione; e questo significa, in parte, per prova ed errore. Esso può essere seguito, naturalmente, da uno stadio nel quale l’abilità appena scoperta, come risultato della «pratica», viene esercitata inconsciamente e diventa così un’abitudine (ivi: 70).

Come si vede, siamo in un orizzonte di problemi analogo a quello incontrato in Sperber 2000 (anche qui, a p. 172, come si ricorderà, era presente l’esempio del ruolo dell’imitazione nell’imparare a camminare). Rispetto alla Blackmore, che distingue nettamente tra apprendimento per prova ed errore e apprendimento per imitazione, la teoria di Popper presuppone una loro intima relazione evolutiva. Ma forse la distanza può essere colmata, se si pensa sia al fatto che la Blackmore insiste spesso sulla natura complessa e cognitivamente attiva dell’imitazione, che non a caso sembra piuttosto rara tra gli animali ed è per questo considerata da lei come cifra dell’umano (cfr. Blackmore 1999: 4-6, 77 e ss.), sia soprattutto al fatto che nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso il destino del concetto cognitivo e neuroscientifico di imitazione stava subendo una svolta epocale grazia alla scoperta dei cosiddetti mirror neurons. Il primo a celebrarne l’importanza per capire il gran balzo in avanti evolutivo compiuto a un certo punto dall’uomo grazie alla diffusione esplosiva di scoperte e tecnologie per contagio imitativo orizzontale e verticale, facendo peraltro esplicito riferimento alla nozione di meme pool, è stato il neuroscienziato indiano-americano Vilayanur Ramachandran, il quale già nel 2000 scriveva: The discovery of mirror neurons in the frontal lobes of monkeys, and their potential relevance to human brain evolution (...) is the single most important “unreported” (or at least, unpublicized) story of the decade. I predict that mirror neurons will do for psychology what DNA did for biology: they will provide a unifying framework and help explain a host of mental abilities that have hitherto remained mysterious and inaccessible to experiments. (...) Based on this analogy I suggest, further, that even the first great leap forward was made possible largely by imitation and emulation. (...) [I]nventions like fire, tailored clothes,“symmetrical tools”, and art, etc. may have fortuitously

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emerged in a single place and then spread very quickly. Such inventions may have been made by earlier hominids too (even chimps and orangs are remarkably inventive - who knows how inventive Homo Erectus or Neandertals were) but early hominids simply may not have had an advanced enough mirror neuron system to allow a rapid transmission and dissemination of ideas. So the ideas quickly drop out of the meme pool. This system of cells, once it became sophisticated enough to be harnessed for “training” in tool use and for reading other hominids minds, may have played the same pivotal role in the emergence of human consciousness (and replacement of Neandertals by Homo Sapiens) as the asteroid impact did in the triumph of mammals over reptiles. (...) Thus I regard Rizzolati’s discovery - and my purely speculative conjectures on their key role in our evolution - as the most important unreported story of the last decade (Ramachandran 2000. Corsivi miei).

Si registra qui, en passant, come mero esempio di entusiasmo forse eccessivo il seguente passo di Daniel Goleman: «Un giorno, forse, i memi saranno considerati neuroni specchio all’opera» (Goleman 2006: 52). Giustamente più cauto è Pascal Jouxtel, che pure non sottovaluta l’importanza dei neuroni specchio per la Memetica: «La scoperta dei neuroni specchio porta a considerare l’imitazione legata a un’intenzionalità in maniera assolutamente paradossale, perché ne fa un processo mentale al tempo stesso involontario e orientato verso la copia delle intenzioni, almeno nella stessa misura - se non di più - degli effetti visibili del comportamento. (...) Il dibattito si ripropone dunque in maniera più appassionante che mai, ed è troppo presto per azzardare affermazioni categoriche. L’imitazione, anche se certamente occupa un posto di tutto rispetto nelle costruzioni culturali e nella diffusione delle modalità operative, probabilmente descrive soltanto alcuni degli stratagemmi che possono essere utilizzati dai codici autoreplicanti. (...) Su questo punto, sembra che la memetica abbia ancora bisogno di molti prestiti dalle altre scienze dell’uomo» (Jouxtel 2005: 129).130

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Per le rimodulazioni del concetto di imitazione nell’ambito della letteratura sui neuroni specchio, si vedano in particolare Iacoboni 2005, il cap. 6 di Rizzolatti e Sinigaglia 2006 (136-163) e i capp. 8 e 9 di Rizzolatti e Vozza 2008 (77-100). Una digressione significativa sui memi, con riferimento esplicito a Dawkins 1976, Dennett 1991a e Blackmore 1999, si trova in Iacoboni 2008 (cfr. 50-51), un’importante monografia sui neuroni specchio in cui vengono citati con approvazione anche il saggio di Ramachandran (cfr. 15) e la tesi della Blackmore sulla centralità dell’imitazione nella cognizione umana (cfr. 47).

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Una rielaborazione aggiornata di saggio citato di Ramachandran costituisce ora il quarto capitolo di Ramachandran 2011, intitolato “I neuroni che forgiarono la civiltà”, che è opportuno esaminare da vicino perché offre una sorta di quadro paradigmatico della celebrazione (forse eccessiva, come vedremo meglio più avanti) del ruolo dei neuroni specchio come pre-condizione biologica per lo sviluppo esplosivo della cultura umana. Secondo Ramachandran, la cultura è il grande vantaggio che la specie umana riceve in cambio dell’investimento costoso e rischioso costituito dalle cure parentali richieste dal fatto che, contrariamente a quanto accade nelle altre specie, nasciamo bisognosi di tutto per un tempo insolitamente lungo. Le conoscenze e le competenze che costituiscono una data cultura vengono trasmesse fondamentalmente attraverso l’imitazione e il linguaggio, due facoltà strettamente interdipendenti che a loro volta dipendono dallo sviluppo della cosiddetta “teoria della mente”, cioè dalla nostra capacità di adottare il punto di vista degli altri e di attribuire loro intenzioni e credenze. Richiamandosi alla letteratura sul rapporto tra imitazione e neuroni specchio, per esempio Gallese e Goldman 1998 e Iacoboni 2008, Ramachandran assume che, sul piano evolutivo, i neuroni specchio già presenti negli antenati pre-umani devono essere stati coinvolti in un processo di exaptation che li ha trasformati nella base biologica delle abilità sociali e culturali proprie della specie umana (cfr. Ramachandran 2011: 134-135)131. 131

In tal senso si può considerare esemplare il seguente passo di Gallese che introduce una discussione del cosiddetto effetto camaleonte: “Il mio modello unifica diversi meccanismi neuronali di rispecchiamento e simulazione che non attengono solo al dominio dell’azione, ma (...) anche a quello delle emozioni o delle sensazioni. Tutto ciò potrebbe essersi evoluto filogeneticamente in relazione all’ottimizzazione del controllo delle relazioni corporee con il mondo, e successivamente essere stato ‘exaptato’ in ambito sociale, in quanto rivelatosi utile anche per interpretare il comportamento altrui, mediante l’utilizzazione di un canale interpersonale diretto, non esplicitamente rappresentato alla coscienza o mediato cognitivamente. Secondo la mia ipotesi (...), questi meccanismi generano molte delle certezze implicite che noi automaticamente attiviamo ogni volta che ci rapportiamo con l’altro. Sono importanti nel generare il senso di identità e reciprocità con gli altri di cui normalmente facciamo esperienza. Questi meccanismi di simulazione sono fortemente coinvolti nell’imitazione. Sia nell’imitazione di gesti che sono già parte del nostro repertorio comportamentale, che durante l’apprendimento imitativo di nuovi compiti motori a noi sconosciuti(...). Durante l’apprendimento imitativo si è osservata l’attivazione del sistema dei neuroni specchio” (Gallese 2007: 202203).

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Naturalmente questo non vuol dire che i meccanismi evolutivi che hanno riguardato il nostro cervello e la nostra mente siano noti al punto da consentire la costruzione di modelli esplicativi non controversi, e a tal proposito Ramachandran propone una lista di sei problemi ancora aperti: 1. I dati paleoantropologici a disposizione sembrano contenere

una lacuna imbarazzante per la teoria dell’evoluzione, costituita dal grande intervallo di tempo tra il compimento della lunga messa a punto neuroanatomica del nostro cervello (circa 300.000 anni fa) e le prime espressioni culturali relativamente evolute di cui abbiamo traccia (circa 75.000 anni fa): «[c]ome mai è stato necessario tanto tempo perché fiorisse tutto quel potenziale latente, e come mai è fiorito così all’improvviso? Considerato che la selezione naturale può selezionare solo le abilità espresse e non quelle latenti, come ha fatto tutto quel potenziale latente a costituirsi?» (ivi: 136). 2. Le prime prove di industrie litiche, opera presumibilmente di Homo abilis, sono i cosiddetti arnesi taglienti olduvaiani, risalenti a circa 2,4 milioni di anni fa, quando il cervello era ancora ben lontano dalle dimensioni attuali. Un progresso tecnico notevole (per esempio, taglio liscio anziché frastagliato) si registra nei ritrovamenti litici risalenti a circa un milione di anni dopo, mentre intorno a 200.000 anni fa le abilità umane raggiunsero la fase della produzione seriale di armi litiche bifacciali, simmetriche e dotate di manico. Se così stanno le cose, si chiede Ramachandran, «[p]erché l’evoluzione della mente umana è stata contrassegnata da queste esplosioni relativamente improvvise di cambiamento tecnico? Che ruolo ha avuto l’uso degli arnesi nel forgiare la cognizione umana?» (ibid.). 3. Una variante del problema 1: la grande “esplosione di creatività” (circa 60.000 anni fa) che vede su larga scala l’apparizione di pitture rupestri, l’uso di indumenti in pelle lavorata e la costruzione di abitazioni, sembra troppo in ritardo rispetto al raggiungimento delle necessarie dimensioni del cervello, avvenuto parecchie centinaia di migliaia di anni prima e dopo un processo durato alcuni milioni di anni (cfr. ibid.). 4. Dov’è e come si è evoluto il presunto modulo della teoria della mente, che tra l’altro ci rende creature machiavelliche in grado

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di ricorrere in modo premeditato all’astuzia e alla manipolazione? Se esso è presente anche in altri primati, cosa ha di così speciale il nostro da consentire pensieri e comportamenti tanto sofisticati? (Cfr. ivi: 137). 5. Uno dei più grandi enigmi dell’evoluzione del linguaggio riguarda l’armonizzazione dei due prerequisiti essenziali: le aree cerebrali del linguaggio e il peculiare apparato vocale umano. Come è avvenuta la loro coevoluzione? A tal proposito, Ramachandran assume un modello esplicativo darwiniano ben preciso: «ipotizzo che i meccanismi vocali e la notevole capacità di modulare la voce, propri dell’uomo, si siano evoluti soprattutto per produrre richiami emozionali e suoni musicali durante il corteggiamento nei primati più antichi, tra cui i nostri antenati ominini. Una volta evolutisi quelli, il cervello, specie l’emisfero sinistro, evidentemente cominciò a usarli per il linguaggio» (ibid.). 6. Ma il nostro organo del linguaggio così specializzato è speciespecifico ed emerso “dal nulla”, come vuole l’approccio chomskiano, oppure è venuto ad innestarsi su un’impalcatura precedente costituita dal sistema motorio su cui si basa la ben più primitiva comunicazione gestuale? Secondo Ramachandran, è proprio la scoperta dei neuroni specchio che può gettare luce su questo annoso dilemma (cfr. ibid.). Va subito osservato, alla luce anche di quanto vedremo più avanti, che Ramachandran accetta la versione forte della teoria dei neuroni specchio, così come essa si è andata sviluppando in letteratura a partire dal classico articolo fondativo in cui venne coniata l’espressione mirror neurons (Gallese et al. 1996), ovvero: a) nei macachi, i neuroni specchio permettono di riconoscere e prevedere le azioni altrui finalizzate (tirare, afferrare, portare in bocca), fornendo le basi di una forma rudimentale di mind reading; b) nell’uomo, essi sono anche alla base del riconoscimento e della comprensione di azioni più complesse e dei loro scopi, nonché dell’imitazione attiva di abilità nuove sviluppate da altri (ciò che consente la trasmissione culturale, la quale, in accordo con quanto già sostenuto da Popper e dalla Blackmore, può aver fornito la pressione selettiva giusta per orientare e accelerare l’evoluzione del cervello della nostra specie), compresa quella linguistica, in questo caso attraverso il rispecchiamento dei movimenti delle labbra e della lingua degli altri parlanti (cfr. ivi: 138-139). In tal

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senso, la comprensione delle intenzioni e delle vocalizzazioni altrui è la capacità neuroanatomicamente incarnata che può aver innescato l’evoluzione del linguaggio, il quale così non dipenderebbe più da un organo del linguaggio unico ed evolutivamente misterioso; il punto importante, nota Ramachandran, «è l’osservazione di Rizzolatti secondo la quale una delle principali aree in cui abbondano i neuroni specchio, l’area premotoria ventrale delle scimmie, sarebbe il precursore della nostra celebrata area di Broca» (ivi: 140).132 Il problema, a questo punto, è dimostrare che le aree dell’emisfero sinistro coinvolte nella produzione e nella comprensione del linguaggio sono effettivamente ricche di neuroni specchio, visto che gli esperimenti eseguiti sul cervello delle scimmie non possono essere replicati nello stesso modo sul cervello umano, per ovvie ragioni etiche. Secondo Ramachandran, un primo indizio proviene da quel 5% circa di pazienti colpiti da ictus che presentano anosognosia, cioè il rifiuto di riconoscere la disabilità fisica nella metà del corpo controlaterale rispetto all’emisfero colpito. In alcuni casi, i pazienti affetti da anosognosia arrivano a negare persino la paralisi degli altri pazienti simili con i quali entrano in contatto: «tale bizzarro fenomeno si comprende meglio immaginando una lesione dei neuroni specchio di Rizzolatti. È come se, ogni volta che volessimo emettere un giudizio sui movimenti di qualcun altro, lanciassimo una simulazione computerizzata dei corrispondenti movimenti nel nostro cervello; e senza neuroni specchio non saremmo in grado di farlo» (ivi: 141). Nei termini di Gallese, è come se l’impossibilità di eseguire 132

Questo nesso evolutivo ipotetico tra l’area premotoria ventrale delle scimmie e l’area di Broca nell’uomo - su cui, come vedremo, si concentra la dura critica di Gregory Hickok (2014) alla versione forte della teoria dei neuroni specchio alla base della comprensione umana - venne istituito in modo chiaro già nell’ultimo capoverso dell’articolo fondativo della teoria: “A final point worth noting is that the mechanism matching action observation and execution discussed in the present article is very similar to that proposed by Liberman and his colleagues for speech perception (motor theory of speech perception) (...). According to this theory, the objects of speech perception are not to be found in the sounds, but in the phonetic gesture of the speaker, represented in the brain as invariant motor commands. (...) Although our data concern essentially hand actions, however, considering the homology between monkey F5 and human Broca’s area, one is tempted to speculate that neurons with properties similar to that of monkey ‘mirror neurons’, but coding phonetic gestures, should exist in human Broca’s area and should represent the neurophysiological substrate for speech perception” (Gallese et al. 1996: 607).

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la simulazione incarnata provocasse un deficit di comprensione dei movimenti altrui. Un secondo indizio proviene dalla scoperta, compiuta da lui stesso e dai suoi colleghi, che le cosiddette “onde mu” rilevate dall’EEG hanno un comportamento analogo a quello del sistema specchio, perché scompaiono sia quando si compiono movimenti volontari con la mano sia quando si osserva qualcuno che compie movimenti analoghi (cfr. ibid.; il fatto che esse non scompaiano quando certi bambini autistici osservano movimenti di mani è una delle basi empiriche della teoria del deficit del sistema specchio come causa o concausa dell’autismo). In aggiunta a ciò, Ramachandran ricorda anche la scoperta di quello che sembra un vero e proprio sistema specchio al livello dei nocicettori sensoriali del cingolo anteriore. Questi neuroni rispondono ai recettori cutanei del dolore e in rilevazioni effettuate nel corso di interventi neurochirurgici si è osservato che essi rispondevano anche quando il paziente vedeva che ad essere punto con un ago era qualcun altro: «[e]ra come se il neurone provasse empatia per qualcun altro. (...) Mi piace chiamare queste cellule “neuroni Gandhi”, perché essi rendono meno netto il confine tra sé e gli altri» (ibid.). Queste scoperte, osserva Ramachandran, pongono interrogativi inquietanti e interessanti, anche sul piano filosofico. Poiché sembra che i confini del nostro corpo siano molto più sfumati di quanto siamo abituati a pensare, come mai non siamo trascinati ad imitare ciecamente ed automaticamente qualsiasi azione osservata e a provare il dolore di chiunque soffra accanto a noi? In effetti l’ecoprassia, il disturbo dell’imitazione incontrollata di azioni correlato neurologicamente a danni nei circuiti inibitori frontali, fa supporre a Ramachandran che il nostro controllo libero (un aspetto del vecchio libero arbitrio) dell’imitazione attiva sia il risultato evolutivo di una sorta di necessario gioco di equilibrio a tre fra gli inibitori frontali, i neuroni specchio fronto-parietali pronti ad attivarsi e i segnali nulli (“Non mi stanno toccando”) provenienti dai recettori cutanei e articolari collegati alla corteccia somatosensoriale, con i primi che bloccano la simulazione sulla base dei dati contrastanti forniti dagli altri due: «è l’interazione dinamica tra i segnali provenienti dai circuiti inibitori frontali, i neuroni specchio (sia frontali sia parietali) e i segnali nulli dei recettori a permetterci di godere della reciprocità con il nostro prossimo preservando nel contempo la nostra individualità» (ivi:

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142).133 Come abbiamo visto, se dei tre componenti del gioco viene a mancare il circuito inibitorio, il sistema specchio agisce indisturbato e provoca un’imitazione incontrollata. Ma cosa succede se vengono a mancare i segnali nulli? Qui Ramachandran riferisce alcune sue scoperte sorprendenti. Il caso estremo è quello del paziente con un arto fantasma che sentiva sulla mano assente le carezze che lo sperimentatore faceva sulla mano di un’altra persona bene in vista; non sorprende, allora, che il fenomeno si verifichi anche quando l’arto del soggetto sperimentale venga semplicemente anestetizzato. In questi casi, il circuito inibitorio non si attiva perché non riceve segnali contrastanti dagli altri due componenti (i segnali nulli non ci sono) e così i neuroni specchio agiscono indisturbati producendo iperempatia acquisita (cfr. ivi: 143). Ma a cosa servono davvero i neuroni specchio dell’uomo e perché si sono evoluti? La tesi di Ramachandran, in accordo per esempio con Rizzolatti e Sinigaglia 2006, è che essi, a prescindere dal fatto che siano fissati dai geni o che si sviluppino per via epigenetica attraverso l’interazione con l’ambiente, abbiano una funzione ben più ampia di quella descritta dal loro stesso nome. Qui egli affronta un’obiezione scettica sui neuroni specchio che è esattamente quella fatta propria per esempio da Gregory Hickok, di cui diremo specificamente più avanti. Secondo tale obiezione, il sistema specchio non è altro che il risultato emergente di un processo di apprendimento riconducibile ai meccanismi - ben noti da tempo in ambito neuroscientifico - del condizionamento pavloviano e della plasticità hebbiana: le scimmie da laboratorio, come tutte le altre scimmie, in realtà avevano già appreso ad associare i neuroni motori dell’afferrare ai neuroni sensoriali coinvolti nell’esperienza visiva della propria mano che afferra, per cui, dato che insiemi di neuroni che si attivano in concomitanza rafforzano le loro connessioni sinaptiche, ad esse bastava vedere una mano diretta verso un oggetto perché traducessero l’esperienza sensoriale sulla corrispondente mappa motoria dell’azione osservata. Questa spiegazione, ricorda Ramachandran, deve affrontare il cosiddetto problema della corrispondenza, che nessun modello

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Per un’interpretazione non troppo dissimile della tensione tra il normale effetto camaleonte e le sindromi patologiche dei cosiddetti ecofenomeni (ecoprassia ed ecolalia), cfr. Hickok 2014: 215-216.

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dell’apprendimento associativo ha ancora risolto in modo convincente (come sanno bene anche i sostenitori di tale modello: cfr. Hickok 2014: 199 e 207): come fa il cervello ad eseguire questa prodigiosa traduzione da una mappa all’altra? A tal proposito Ramachandran, come aveva già fatto la Blackmore (1999: 83-84, 188) e come assai significativamente farà lo stesso Hickok (2014: 196 e ss.), si richiama ai noti esperimenti di Andrew Meltzoff sulle abilità imitative dei bambini134 (un bambino nato da appena 42 minuti può arrivare a tirare fuori la lingua come risposta a un’azione analoga compiuta davanti a lui), per dire sia che esse devono essere già cablate nel cervello sin dalla nascita, come se la stessa evoluzione avesse risolto con un meccanismo automatico il fondamentale problema della corrispondenza tra sfere sensomotorie diverse, sia che probabilmente esse sono basate sul sistema specchio: «[n]on è stato dimostrato se i neuroni specchio siano responsabili di questi comportamenti imitativi precoci, ma è molto probabile di sì. La capacità dipenderebbe dal fatto che il neonato riesce a mappare l’aspetto visivo del sorriso o della lingua protrusa della madre sulle proprie mappe motorie e a controllare una calibratissima sequenza di contrazioni muscolari del viso. (...) [Q]uesta sorta di traduzione fra mappe è proprio quello che si ritiene facciano i neuroni specchio, e se tale capacità è innata, è davvero sbalorditiva. La chiamerò la versione “strafiga” [sexy nell’orig.] della funzione dei neuroni specchio» (Ramachandran 2011: 144-145). Se la teoria dei neuroni specchio è valida, nota Ramachandran, si può pensare che nell’uomo essi abbiano subito un processo di exaptation a cascata, perché ci consentono di sviluppare abilità inaccessibili, o accessibili solo in modo embrionale, ai primati non umani. Innanzi tutto, simulando i gesti osservati nel sistema motorio, essi ci consentono di afferrare gli scopi delle azioni degli altri, ovvero di sviluppare la cosiddetta teoria della mente e assumere la prospettiva non solo visiva ma anche concettuale delle altre persone (questo magic step, egli ammette, è tutt’altro che facile da dimostrare per via sperimentale). Un ta-

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Da parte sua, Sperber non cita mai Meltzoff in 1996, mentre lo cita di sfuggita in 2000: 171 per dire che “no psychologist believes that cultural learning is essentially a matter of imitation (this is true even of psychologist who attribute an important role to imitation)”.

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lento del genere, inoltre, si presta ad essere applicato ricorsivamente, sicché la simulazione del punto di vista altrui in generale può specificarsi nella simulazione del punto di vista altrui su di noi, e questo apre la strada all’autocoscienza sociale, uno degli ingredienti fondamentali del nostro orientamento consapevole nel mondo. Un’altra funzione dei neuroni specchio, grazie alla loro proprietà di correlare mappe sensoriali differenti, potrebbe essere quella di favorire l’astrazione cross-modale, fondamentale per coordinare i movimenti in un ambiente ricco di stimolazioni visive e acustiche, e questo potrebbe essere il primo passo evolutivo per giungere alle tipiche capacità umane di astrazione concettuale (cfr. ivi: 146-147). Tutto questo, per Ramachandran, è compatibile sia con certi casi clinici di danni neurologici localizzati sia con le nostre attuali conoscenze di neuroanatomia comparata: «il lobulo parietale inferiore (LPI) ha svolto con tutta probabilità un ruolo essenziale (...). Nei mammiferi inferiori l’LPI non è molto grande, mentre diventa più cospicuo nei primati, sproporzionatamente grande nelle scimmie antropomorfe e di dimensioni massime nell’uomo. Infine, solo negli uomini vediamo una grande porzione di questo lobulo suddividersi ulteriormente in due parti, il giro angolare e il giro sopramarginale, il che fa pensare che nel corso dell’evoluzione umana sia successo qualcosa di importante in tale regione cerebrale. Trovandosi all’incrocio tra la visione (lobi occipitali), il tatto (lobi parietali) e l’udito (lobi temporali), l’LPI è in una posizione strategica per ricevere informazioni da tutte le modalità sensoriali. In sostanza, l’astrazione cross-modale comporta la dissoluzione delle barriere per creare rappresentazioni libere da modalità. (...) [Q]uesta capacità di mappare una dimensione su un’altra è una delle caratteristiche che si reputa abbiano i neuroni specchio, e non a caso essi sono abbondanti in prossimità dell’LPI. Il fatto che questa regione del cervello umano sia sproporzionatamente grande e differenziata fa pensare a un balzo evolutivo» (ivi: 148). E questo, si noti di passaggio, indipendentemente dal fatto che neuroni specchio e imitazione siano o meno così strettamente collegati, è coerente con l’ipotesi memetica fondamentale, formulata nel modo più articolato in Blackmore 1999, secondo la quale la preferenza comportamentale e culturale per l’imitazione può aver rappresentato la pressione evolutiva decisiva per la ben nota tendenza a crescere del cervello umano, innescando quel loop di feedback positivo che porta i memi a guidare

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certi percorsi evolutivi della neuroanatomia; non a caso Blackmore 1999 fa parte dell’orizzonte bibliografico fondamentale del libro di Ramachandran e Dawkins e Dennett compaiono nella lista degli autori di riferimento principali (cfr. ivi: 369). Ramachandran, com’è ormai facile aspettarsi, è tra quelli che istituiscono un legame strettissimo tra neuroni specchio e imitazione, arrivando persino a dichiarare che i primi, almeno negli esseri umani, rendono possibile la seconda (cfr. ivi: 149)135. La cosa più interessante da rilevare qui, però, è che egli è anche tra quelli che attribuiscono all’imitazione un’importanza decisiva dal punto di vista dell’evoluzione culturale, in ciò trovandosi a concordare persino con un acerrimo nemico dei neuroni specchio (o, più precisamente, di quella che Ramachandran chiama la versione sexy della loro funzione) come Hickok, secondo il quale, come vedremo tra poco, “ci vuole qualcosa in più oltre ai neuroni specchio per spiegare l’imitazione umana” (Hickok 2014: 200): «[l]’imitazione potrà non apparire importante (dopotutto, “scimmiottare” è un termine spregiativo, il che è paradossale se si considera che la maggior parte delle scimmie in realtà non è molto brava a imitare), ma (...) è stata probabilmente il passo fondamentale nell’evoluzione degli ominini e ha prodotto la capacità di trasmettere conoscenza attraverso l’esempio. Quando fu compiuto questo passo, la nostra specie all’improvviso passò dall’evoluzione darwiniana per selezione naturale, che si basa sui geni e ha 135

In un articolo a tal riguardo molto importante (non citato da Ramachandran), Rizzolatti e Craighero così illustrano il problema del rapporto tra neuroni specchio e imitazione dal punto di vista evolutivo: “the mirror-neuron system is the system at the basis of imitation in humans. Although laymen are often convinced that imitation is a very primitive cognitive function, they are wrong. There is vast agreement among ethologists that imitation, the capacity to learn to do an action from seeing it done (...) is present among primates, only in humans, and (probably) in apes (...). Therefore, the primary function of mirror neurons cannot be action imitation” (Rizzolatti e Craighero 2004: 172). Nel corso dell’evoluzione, dunque, il sistema specchio deve essere mutato e nell’uomo deve essere stato riadattato per nuovi scopi comunicativi e culturali, altrimenti, come nota Hickok (2014: 200-201), si cade in contraddizione (i neuroni specchio sono alla base dell’imitazione o si tratta di due cose indipendenti che cooperano pur evolvendosi separatamente?): “[i]t is likely that the great leap from a closed system to a communicative mirror system depended upon the evolution of imitation (...) and the related changes of the human mirror-neuron system: the capacity of mirror neurons to respond to pantomimes (...) and to intransitive actions (...) that was absent in monkeys” (Rizzolatti e Craighero 2004: 183).

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tempi biblici, all’evoluzione culturale» (Ramachandran 2011: 150). Il “grande balzo in avanti” che ha consentito all’umanità l’accesso alla ben più tumultuosa evoluzione culturale resta oggetto di ricostruzioni speculative e le spiegazioni basate sulle mutazioni che hanno riguardato il cervello non rendono conto adeguatamente dell’esplosione simultanea della cultura tra centomila e sessantamila anni fa. A tal proposito Ramachandran propone tre spiegazioni possibili. Secondo la prima, quella che consideriamo un’esplosione è solo l’effetto di un’illusione di prospettiva, perché potrebbe darsi che il processo che ha portato alla cultura sia distribuito su un intervallo di tempo più ampio (e tuttavia si tratterebbe pur sempre di un tempo relativamente breve rispetto ai milioni di anni di lenti mutamenti che, anche all’interno del genere Homo, hanno portato alla nostra speciazione). Una seconda spiegazione potrebbe ridurre i mutamenti del cervello necessari alla produzione della cultura a piccole modifiche innestatesi su un’intelligenza di base già presente (ma questa spiegazione espone il fianco alle stesse critiche che hanno investito la nozione unitaria di intelligenza intesa come abilità media misurabile per mezzo del Q. I.). La terza spiegazione possibile, che Ramachandran intende difendere e che in linea generale (cioè prescindendo dal sistema specchio) coincide con quella sostenuta dai memetisti e da Popper, chiama in causa direttamente i neuroni specchio: «[i]potizzo che ci sia stata davvero una mutazione genetica nel cervello, ma che, paradossalmente, essa ci abbia liberato dalla genetica, rafforzando la nostra capacità di apprendere gli uni dagli altri. Questa capacità unica avrebbe affrancato il nostro cervello dalle pastoie darwiniane, consentendo la rapida diffusione di invenzioni straordinarie, come fare collane con conchiglie di ciprea, usare il fuoco, costruire arnesi e ripari, inventare nuove parole. Dopo sei miliardi di anni di evoluzione la cultura finalmente decollò, e con essa furono gettati i semi della civiltà. Questa ipotesi presenta un vantaggio: per spiegare l’emergere contemporaneo di numerose, variegate e singolari capacità mentali, non ci obbliga più a postulare che mutazioni distinte si siano verificate quasi simultaneamente. Sarebbe invece aumentata la sofisticatezza di un singolo meccanismo, come l’imitazione e l’interpretazione delle menti altrui, a giustificare l’enorme divario comportamentale tra noi e le scimmie» (ivi: 151). L’illustrazione di questa storia evolutiva sotto forma di narrazione spiega perché Ramachandran si sia servito già nel saggio

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del 2000 dell’espressione meme pool, introdotta da Dawkins nel testo fondativo della Memetica e poi ripreso per esempio in Dennett 1995, Lynch 1996, Brodie 1996 e soprattutto Blackmore 1999. Si confrontino, dice Ramachandran, le due più grandi esplosioni culturali di cui abbiamo notizia: quella avvenuta circa cinquantamila anni fa e quella, ben più grande, avvenuta dal 500 avanti Cristo ad oggi. Un naturalista marziano che osservasse l’evoluzione umana degli ultimi cinquecentomila anni non potrebbe non notarle, e tuttavia potrebbe essere indotto a pensare erroneamente che anche la seconda sia stata dovuta a una serie di mutazioni genetiche. Oggi sappiamo, però, che se tra il Sapiens degli ultimi tre millenni circa e il Sapiens dei cinquantamila anni precedenti c’è più scarto culturale e comportamentale che, poniamo, tra l’Homo erectus e il primo Sapiens, ciò è dovuto a fattori ambientali quasi esclusivamente culturali. Un discorso analogo potrebbe allora essere fatto per il primo grande balzo: «[f]orse, a una fortunata serie di circostanze ambientali si aggiunsero alcune invenzioni casuali compiute da pochi individui particolarmente dotati, che sfruttarono una preesistente capacità di imparare e diffondere in fretta le informazioni, capacità che rappresenta la base della cultura. (...) [Q]uella facoltà si sarebbe potuta basare su un sofisticato sistema di neuroni specchio» (ivi: 152). È ovvio che questi ultimi costituiscono una condizione necessaria ma non sufficiente per la propagazione e l’evoluzione della cultura, perché avere un sistema specchio senza avere nel contempo le altre strutture cerebrali integrate che consentono l’invenzione e la comunicazione delle invenzioni non può portare allo sviluppo della civiltà; e questo, sia secondo Ramachandran sia, significativamente, secondo Hickok (2014: 217), spiega perché alle scimmie il sistema specchio non serva per produrre e comunicare cultura in modo significativo (secondo il nostro metro). Ed ecco la conclusione di Ramachandran: «una volta instauratosi, il meccanismo di propagazione avrà esercitato una pressione selettiva per rendere alcuni, eccentrici membri della popolazione più innovativi. Questo perché le innovazioni sono preziose solo se si diffondono rapidamente. Sotto questo aspetto, potremmo dire che i neuroni specchio svolsero all’inizio dell’evoluzione degli ominini la stessa funzione che svolgono oggi Internet, Wikipedia e il blogging. Quando la cascata si mise in moto, non si poté più recedere dalla strada che conduceva all’umanità» (ivi: 153).

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Susan Blackmore, da parte sua, ha avuto il merito, particolarmente rilevante dal punto di vista epistemologico e storico, di impostare una sintesi teorica della Memetica in chiave esplicitamente falsificazionista136, perché non solo ha delineato degli esperimenti cruciali sul nesso tra imitazione e altruismo (inteso anche come veicolo di memi), ma ha addirittura avanzato delle predizioni sull’esistenza di qualcosa di assai simile al sistema specchio, quando ancora ben pochi (come dimostra il passo citato di Ramachandran 2000) discutevano delle implicazioni sul piano della cultura umana della scoperta nelle scimmie dei neuroni specchio, all’epoca ancora agli albori: «studi cognitivi dovrebbero dimostrare che l’imitazione richiede molta elaborazione e che noi possediamo meccanismi specializzati per farlo, e ricerche effettuate avvalendosi delle tecniche di scansione cerebrale dovrebbero dimostrare che ha bisogno di una gran quantità di energia, e che l’attività extra è localizzata in modo predominante nelle parti del cervello più recenti dal punto di vista evolutivo, proprio quelle che ci differenziano dalle altre specie. Non sarei sorpresa se venissero scoperti neuroni specifici che eseguono parte dei compiti fondamentali legati all’imitazione (tipo fare proprie espressioni facciali o azioni osservate negli altri); tuttavia, per sapere che cosa cercare, dobbiamo sapere molto di più sull’imitazione» (Blackmore 1999: 135. Corsivo mio). Si comprende allora il pur prudente entusiasmo manifestato alcuni anni dopo nella sua nota di commento a Iacoboni 2005: «I was thrilled when I learned of Iacoboni’s discovery that when a chimpanzee’s brain is morphed onto a human brain the areas of greatest expansion are those that are used in imitation. “Yes!” I thought “This is exactly what I predicted on the basis of memetic theory. Whoopee - memetics is right!” but then I had to pause because this is how to make the worst mistake in the book. Construct a wacky theory, derive a prediction from that theory, discover the prediction is correct and then (illegitimately) conclude that the theory must be true. So I would like to describe the prediction and consider whether these 136

“Se queste previsioni non fossero confermate, tutte le fondamenta di questo tipo di altruismo indotto dai memi ne risulterebbero profondamente scosse” (Blackmore 1999: 293); “Alcune di queste previsioni sono fondamentali per i processi alla base dell’altruismo indotto dai memi, e pertanto, se non dovessero dimostrarsi esatte, indicherebbero che la mia teoria è sbagliata” (ivi: 297). Su imitazione e Memetica, cfr. anche Blackmore 1998.

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findings do have any implications for memetics or not» (Blackmore 2005a: 203)137. Ben consapevole del rischio di cadere nella fallacia verificazionista, che in un sistema ipotetico-deduttivo consiste nel ricavare la verità dell’antecedente di un’implicazione (congettura) dalla conferma del conseguente (predizione), la Blackmore prosegue vagliando il significato che possono assumere per la Memetica le scoperte relative al sistema specchio. La previsione, come visto, stabiliva che le scansioni cerebrali avrebbero dovuto mostrare che l’attività di imitazione fosse localizzata nelle aree evolutivamente più recenti della corteccia e che tale abilità fosse correlata a una classe specifica di neuroni. Inoltre, dato che il livello umano della capacità di imitazione è molto più alto anche rispetto a quello dei parenti evolutivamente più prossimi, le aree del cervello umano che più differiscono da quelle (per esempio) corrispondenti degli scimpanzé devono essere particolarmente coinvolte nelle attività imitative. I risultati di Iacoboni e colleghi, in accordo con la congettura avanzata, come abbiamo visto, già nell’ultimo capoverso di Gallese et al. 1996, indicherebbero proprio questo, e cioè che le aree del linguaggio si siano sviluppate laddove anche a livello pre-umano è presente un sistema di neuroni specchio, nel senso che l’architettura funzionale delle aree linguistiche si è innestata nel corso dell’evoluzione in aree che già consentivano di coordinare l’osservazione e l’esecuzione di un’azione (ed è un dato, questo, che la letteratura successiva sul sistema specchio sembra abbia confermato ulteriormente). La Memetica, conclude la Blackmore, fornisce un modello per spiegare in via congetturale tali fatti evolutivi e dati sperimentali: il nesso 137

Ma si veda già Blackmore 2001: 242-243: “We can only speculate about what the precursors to human imitation may have been, but likely candidates include general intelligence and problem-solving ability, the beginnings of a theory of mind or perspective-taking, reciprocal altruism (which often involves strategies like tit-for-tat that entail copying what the other person does), and the ability to map observed actions onto one’s own. The latter sounds very difficult to achieve - involving transforming the visual input of a seen action from one perspective into the motor instructions for performing a similar action oneself. However, mirror neurons in monkey premotor cortex appear to belong to a system that does just this. The same neurons fire when the monkey performs a goal-directed action itself as when it sees another monkey perform the same action (...). Given that mirror neurons occur in monkeys, it seems likely that our ancestors would have had them, making the transition to true imitation more likely”.

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tra capacità imitative e proliferazione di memi consente di sostenere che lo sviluppo funzionale delle aree linguistiche sia stato guidato dai memi in un’ottica di coevoluzione, perché il linguaggio rappresenta un canale potentissimo per la codificazione e la diffusione dei memi. Non basta, dunque, fare appello al vantaggio esclusivo dei geni, perché, dice tipicamente il memetista, «when it comes to human evolution there may be more than one replicator competing for survival» (Blackmore 2005a: 204). Lo stesso Rizzolatti ha proposto recentemente di rileggere la nozione di meme alla luce della scoperta dei neuroni specchio, ancora una volta sulla base di Ramachandran 2000: I memi sono solo una curiosa invenzione di un genetista o hanno una base neurale? È verosimile che sia vera la seconda ipotesi. I primati sono dotati di un meccanismo chiamato “meccanismo mirror”. Il meccanismo mirror trasforma l’informazione sensoriale in informazione motoria. Se vedo una persona afferrare una tazzina, nel mio cervello si attiva in programma motorio “afferrare la tazzina”. Se sento delle parole, nel mio cervello si attivano programmi motori per ripetere i fonemi che le formano. Se vedo una persona soffrire si attivano gli stessi circuiti neurali che sono responsabili del mio soffrire quando ricevo uno stimolo doloroso. Il meccanismo mirror sia nei primati non umani sia nell’uomo serve primariamente a capire cosa fanno o sentono gli altri. Nell’esempio del dolore non ho bisogno di centri cognitivi che mi dicano che uno soffre, la visione della sofferenza altrui fa soffrire immediatamente anche me. È stato proposto dal famoso neurologo americano Ramachandran che, ad un certo punto dell’evoluzione, circa 100.000 anni fa, il sistema mirror, originariamente un sistema per capire, sia diventato un sistema anche per imitare e che questo momento sia stato fondamentale per il tumultuoso sviluppo della nostra specie. La capacità di imitare divide, infatti, in maniera netta l’uomo dai primati, inclusi i primati superiori. Se si fa vedere ad uno scimpanzé un congegno che si apre mediante una sequenza di movimenti, lo scimpanzé imparerà ad aprirlo, ma con sforzo e talvolta fallirà del tutto. Un bambino invece imparerà a farlo in pochi minuti. L’uomo è una macchina per imitare. Questa capacità porta ad una conseguenza fondamentale: la cultura. Se un individuo inventa qualche cosa ed un altro individuo sa imitare, la sua invenzione resterà nel tempo e diventerà patrimonio di tutti. Se nessuno sa imitare l’invenzione fatta da un singolo individuo, finirà nel nulla. La comparsa delle capacità imitative ha trasformato Homo sapiens da una specie che si evolve seguendo le leggi dell’evoluzione Darwiniana in una specie che si evolve intellettualmente seguendo le leggi dell’evoluzione Lamarckiana. Modificazioni acquisite (scoperte, invenzioni) sono trasmesse alle altre generazioni. L’imitazione è utile, ma può essere anche dannosa. Pensate a un portiere in una squadra di calcio. Se dovesse imitare quello che fa un attaccante sarebbe un disastro. Per evitare che questo accada esistono dei meccanismi di controllo. L’azione degli altri entra in noi ma è bloccata da freni posti nel lobo frontale e, come scoperto di recente a Londra, anche da meccanismi intrinsici

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al meccanismo mirror. I memi rappresentano la patologia di un meccanismo, la codifica di comportamenti altrui e la sua ripetizione, che hanno permesso lo sviluppo della cultura. Sono imitazioni parassite che compiamo senza volere (Rizzolatti 2013).138

Da questa rapida rassegna su come in letteratura è stato trattato il nesso tra memi, imitazione e neuroni specchio negli ultimi anni si può trarre se non altro una conclusione che riguarda il genere di obiezione alla Memetica di cui Sperber è stato il paladino: sottovalutare i meccanismi imitativi e la loro funzione evolutiva in ambito sociale e culturale non sembra una buona mossa dialettica. L’imitazione, infatti, appare come un complesso dispositivo cognitivo che, nei suoi meccanismi di basso livello, risulta incarnato e agganciato a risposte neurali automatiche già in specie affini a quella umana in cui gli individui hanno bisogno di regolare certe risposte comportamentali sulla base di una pur rudimentale teoria della mente. In tal senso, tutta l’ap-passionata difesa di Sperber della produttività cognitiva umana contro la passività della semplice imitazione sembra fuori bersaglio, o almeno non in perfetta sintonia con certi sviluppi recenti delle neuroscienze dell’imitazione e della trasmissione culturale.139 Né con questo si vuole sostenere che i neuroni specchio e l’interpretazione prevalente della loro funzione nell’uomo rappresentino l’ultima parola sulla questione. La situazione, com’è noto, è ben diversa e la stessa teoria dei neuroni specchio ha esposto il

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Ma cfr. anche Iacoboni 2008: 51: “Quando realizzarono le implicazioni della loro inattesa scoperta fatta a Parma, Rizzolatti e i loro colleghi avevano buona familiarità con la teoria dei memi e, man mano che i vari tasselli di spiegazione andavano al loro posto, si resero conto che le proprietà di questi neuroni, di cui non si era mai prima di allora sospettata la presenza, si adeguavano alla perfezione a questa teoria”. 139 A tal proposito c’è un passo molto interessante nel capitolo di Sacks 1995 dedicato al caso dell’artista autistico inglese Stephen Wiltshire (dotato di prodigiose capacità mimetiche sul piano pittorico e in quello musicale). Richiamandosi alla nozione di “rappresentazione enattiva” di Jerome Bruner (relativa allo sviluppo cognitivo dei bambini) e a quella di “stadio della mimesi” di Merlin Donald (relativo alla modalità cognitiva dominante in un predecessore del Sapiens come Homo erectus), Oliver Sacks sottolinea l’importanza che l’imitazione incarnata, in quanto modalità cognitiva “ancestrale”, cioè pre-simbolica e pre-linguistica, riveste ancora in svariate attività umane, per esempio “nei mimi, negli attori, in tutti gli artisti dello spettacolo e nei sordi” (Sacks 1995: 325, nota).

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fianco a numerose critiche140. È interessante a tal riguardo prendere in considerazione il recente contro-modello proposto da Gregory Hickok non solo per vedere da vicino alcune anomalie della teoria dei neuroni specchio ma anche per capire in che modo la Memetica potrebbe essere coinvolta nell’eventuale crollo del paradigma del sistema mirror. Già in un saggio del 2009 Hickok elencava otto problemi per la teoria dei neuroni specchio relativa alla comprensione delle azioni nei macachi e negli esseri umani. Eccoli nella formulazione originale (cfr. Hickok 2009): 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

There is no evidence in monkeys that mirror neurons support action understanding. Action understanding can be achieved via non-mirror neuron mechanisms. M1 contains mirror neurons. The relation between macaque mirror neurons and the “mirror system” in humans is either non-parallel or undetermined. Action understanding in humans dissociates from neurophysiological indices of the human “mirror system”. Action understanding and action production dissociate. Damage to the inferior frontal gyrus is not correlated with action understanding deficits. Generalization of the mirror system to speech recognition fails on empirical grounds.

Nel volume del 2014, dedicato al “mito” dei neuroni specchio, i “problemi” della teoria si riducono a cinque e coincidono con altrettante tesi difese dal neurolinguista americano (Hickok 2014: 12): 1. Non abbiamo prove dirette del fatto che nelle scimmie i neuroni specchio siano alla base della comprensione delle azioni. 2. I neuroni specchio non sono necessari per la comprensione delle azioni. 3. Le risposte dei neuroni specchio dei macachi e le risposte di tipo specchio negli esseri umani sono diverse. 4. L’esecuzione e la comprensione delle azioni negli esseri umani sono separate. 5. Danni all’ipotizzato sistema specchio umano non causano deficit di comprensione delle azioni. 140

Per un’ampia panoramica sullo stato del dibattito internazionale, si vedano gli articoli raccolti in Pascolo (a cura di) 2013.

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Hickok, con brillante vis polemica, affronta la versione forte della teoria dei neuroni specchio e ne apre il nucleo, mostrando che dentro c’è molto meno di quanto la retorica che la accompagna vorrebbe far credere. Rivisitandone i testi fondativi e quelli più recenti sulla base di una quantità impressionante di dati sperimentali supplementari, egli cerca di dimostrare che, nella migliore delle ipotesi, siamo di fronte a una cascata di travisamenti che si annidano nell’interpretazione stessa degli esperimenti sui macachi che ormai sono entrati nell’immaginario collettivo. A tal proposito è interessante osservare che quando Iacoboni deve fare un esempio di meme penetrante e resistente, il cui grado di infettività è del tutto indipendente dalla sua veridicità, cita la “leggenda internazionale” relativa proprio alla scoperta dei neuroni specchio: «Una delle tante storie che girano negli ambienti scientifici di tutto il mondo vorrebbe che Vittorio Gallese stesse leccando un cono di gelato quando un neurone registrato nel cervello del macaco si attivò. Ho sentito questa storia più volte in svariate occasioni, e a un certo punto ho iniziato anch’io a crederci. Anzi, sono addirittura diventato uno dei veicoli di trasmissione di questo meme, perché ho raccontato la storia del gelato in alcuni seminari e persino a dei giornalisti che mi hanno intervistato sui neuroni specchio. Avevo pensato di metterla anche in questo libro, ma ho deciso che fosse meglio prima chiedere a Rizzolatti e Gallese conferma della sua veridicità. E così è saltato fuori che non è vera per niente. Nessuno sa in che modo sia nata e perché, ma è affascinante e si è dimostrata una storiella gradevole e persistente sia per chi la racconta sia per chi la ascolta» (Iacoboni 2008: 51)141. Il libro di Hickok, in tal modo, è di notevole interesse non solo per gli specialisti di neuroscienze ma anche per chi si interessa di epistemologia e storia delle idee, perché la teoria dei neuroni specchio allargata all’interpretazione dei processi cognitivi tipicamente umani (comprensione delle azioni, imitazione, mentalizzazione, linguaggio, ecc.) è descritta come un paradigma kuhniano costruito nascondendo al grande pubblico tutta una serie di anomalie sperimentali che supportano spiegazioni alternative e 141

Più avanti il neuroscienziato italo-americano si chiede se non sia un altro “meme ad alto tasso di replicabilità” quello che circola tra attori e registi, secondo i quali i neuroni specchio non fanno altro che rendere esplicito ciò che loro sanno, ovvero sentono, da sempre (cfr. ivi: 223, testo e nota 1). Su quest’ultimo punto si veda anche Rizzolatti e Sinigaglia 2006: 1 e 4.

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più tradizionali di quanto osservato negli esperimenti classici (i neuroni specchio, in estrema sintesi, non servono tanto per comprendere quanto per scegliere le azioni, e in tal senso secondo Hickok sono parte di un meccanismo sensomotorio basato semplicemente sull’associazione già scoperta dagli studi sul condizionamento classico). Può darsi che Hickok si sbagli, come si legge in una recensione molto piccata di Rizzolatti e Sinigaglia142, e la questione resta aperta. Ma se Hickok dovesse avere ragione, tutto l’entusiasmo ormai quasi ventennale scatenato dalla scoperta casuale di questi particolari neuroni, interpretati come supereroi (cfr. ivi: 239) in grado di spiegare praticamente tutto, dalla comprensione del linguaggio al grado dell’erezione del pene, dalla comprensione delle intenzioni altrui al contagio dello sbadiglio, dal tifo sportivo all’autismo, dalla reazione estetica alle opere d’arte al vizio del fumo (cfr. ivi: 32-34), si rivelerà fondato su una delle più singolari mistificazioni della storia della scienza. Assai significativamente il libro si apre con una citazione del passo di Ramachandran 2000 (contenuto nel brano che abbiamo riportato più sopra) divenuto così celebre da essere stampato come blurb nella quarta di copertina di Rizzolatti e Sinigaglia 2006 e in quella di Iacoboni 2008: «I predict that mirror neurons will do for psychology what DNA did for biology». Lo stesso secondo capitolo vi si ispira nel titolo (“Ciò che il DNA è stato per la biologia”), ma solo per illustrare l’idea che alla base di tutto questo entusiasmo ci sono probabilmente dei pesanti fraintendimenti dei dati sperimentali. Il vecchio numero otto torna 142

La replica si basa sostanzialmente sull’idea che il sistema specchio sia diffuso e polifunzionale: “The mirror mechanism is a very general, widespread mechanism transforming sensory information into a motor format. According to where neurons endowed with this mechanism are located, their functions change. The mirror mechanism may underlie, therefore, the recognition of songs in birds or the sharing of others’ emotions in humans, the understanding of action goals in macaque monkeys (and humans) or the recognition of phonemes in humans” (Rizzolatti e Sinigaglia 2015: 3; corsivo degli autori). Rizzolatti e Sinigaglia, dunque, sottolineano che i neuroni specchio della corteccia motoria delle scimmie sono solo un esempio di un gran numero di neuroni coinvolti nel meccanismo specchio (cfr. ivi: 2-3), mentre Hickok, a loro parere, confonde i neuroni specchio con il sistema specchio (cfr. anche la controreplica: Hickok 2015). Secondo Hickok, invece, questa estensione (presente in letteratura, soprattutto in relazione all’embodied cognition) è in contrasto con l’articolo fondativo sui neuroni specchio, dove si diceva che il sistema specchio umano era limitato all’area di Broca.

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nell’elenco delle “anomalie” del paradigma presentato nel quarto capitolo (cfr. ivi: 49-85): 1.

2. 3. 4. 5.

6.

7.

8.

La percezione del linguaggio senza il sistema motorio per la produzione del linguaggio (se la teoria fosse corretta, la cosiddetta afasia di Broca non dovrebbe esistere). La comprensione di azioni che non sappiamo eseguire (un fatto che va contro la necessità della simulazione motoria come medium per la comprensione). L’aprassia degli arti (non sempre chi ne è affetto presenta deficit nel riconoscimento delle azioni eseguite dagli altri). La sindrome di Moebius (chi ne è affetto non sembra mostrare deficit nel riconoscimento delle emozioni altrui). Il rispecchiamento può essere maladattativo (come abbiamo visto in Ramachandran e nel passo di Rizzolatti riportato sopra, il rispecchiamento automatico ha bisogno di sistemi inibitori al livello di centri di controllo superiori, altrimenti, per esempio nel gioco del calcio, un portiere non potrebbe rispondere adeguatamente all’azione di un attaccante che gli viene incontro con la palla al piede; e questo, per Hickok, è segno che il sistema specchio può essere un ostacolo nelle situazioni che richiedono risposte rapide). Il sistema specchio è flessibile (reazioni di rispecchiamento possono essere apprese, e questo potrebbe costituire un argomento a favore di chi ritiene che il meccanismo mirror potrebbe non essere altro che un caso di apprendimento classico per associazione stimolo-risposta). I neuroni specchio sono outlier funzionali nell’organizzazione dei sistemi corticali (le evidenze a favore dell’esistenza di due “flussi” almeno nel sistema visivo e il quello uditivo - il flusso ventrale del che cosa e il flusso dorsale del come - rendono anomala la supposta funzione dei neuroni specchio nel riconoscimento delle azioni, posto che essi facciano parte solo del sistema motorio; il principio dei due flussi, infatti, sembra in contrasto con l’idea che i neuroni specchio abbiano un ruolo essenziale nella comprensione di azioni, perché nel loro caso significherebbe assegnare una tipica funzione che cosa a elementi del flusso del come). La simulazione e l’«attribuzione di obiettivi» come via di comprensione (la teoria dei neuroni specchio alla base della comprensione sembra in contrasto con certi risultati sperimentali,

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da cui emerge già nelle scimmie una certa divaricazione tra simulazione motoria e conoscenza del risultato di certe azioni; ovvero, sembra che la simulazione motoria richieda la conoscenza dell’obiettivo di un’azione, ma a quel punto, visto che il risultato è già noto, la stessa simulazione diventa inutile). Nessuna di queste anomalie, precisa Hickok, è di per sé letale per la teoria dei neuroni specchio, e infatti gli stessi componenti del gruppo di Parma le conoscono bene e le hanno affrontate singolarmente. Messe insieme, però, non rappresentano una buona notizia e questo dovrebbe indurre i neuroscienziati a tentare sintesi teoriche alternative (cfr. ivi: 85). Uno dei punti-chiave della critica di Hickok, come già accennato, riguarda il supposto coinvolgimento del sistema motorio del linguaggio nella percezione e nella comprensione del linguaggio stesso, perché ci sono evidenze sperimentali che smentiscono questa ipotesi psicolinguistica (cfr. ivi: 87-121, dove si trova una serrata confutazione sperimentale della teoria motoria della percezione del linguaggio): «i danni all’area di Broca e alle regioni adiacenti causano effettivamente deficit di produzione del linguaggio - il sistema umano di produzione del linguaggio non è bilaterale, come lo è, secondo Rizzolatti, il sistema specchio delle scimmie - e se questo sistema “di esecuzione di azioni” linguistiche è importante per la comprensione delle azioni, perché chi ha subito un ictus che ha danneggiato questo sistema non presenta deficit di comprensione del linguaggio?» (ivi: 28). D’altra parte, nel modello di Rizzolatti e collaboratori la collocazione dell’area di Broca negli esseri umani rispetto all’area motoria corrispondente nel cervello delle scimmie è il fondamento neuroanatomico per un’ipotesi evolutiva affascinante, già anticipata alla fine dell’articolo fondativo del 1996. Il punto è ribadito in un articolo successivo, dove si esplicita ancora meglio il nesso tra meccanismo mirror del riconoscimento delle azioni nelle scimmie ed evoluzione dell’area del linguaggio nel cervello umano: «in primates, there is a fundamental mechanism for action recognition. We argue that individuals recognize actions made by others because the neural pattern elicited in their premotor areas during action observation is similar to that internally generated to produce that action. This mechanism in humans is circumscribed to the left hemisphere. (...) [T]his action-recognition mechanism has been the ba-

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sis for language development. (...) Our proposal is that the development of the human lateral speech circuit is a consequence of the fact that the precursor of Broca’s area was endowed, before speech appearance, with a mechanism for recognizing actions made by others. This mechanism was the neural prerequisite for the development of interindividual communication and finally of speech» (Rizzolatti e Arbib 1998: 190). Insomma, ragionando nello stile della Blackmore, si può esprimere tutto questo ipotizzando che la pressione selettiva per la messa a punto dell’area di Broca sia stata esercitata dai memi vantaggiosi, che in tal modo hanno retroagito favorendo, a partire da una base già preesistente, la selezione di circuiti neurali (non importa se mirror o no) sempre più adatti alla loro circolazione e diffusione nei canali di comunicazione interindividuale. Dal punto di vista epistemologico, però, questo modello teorico corre il rischio di intrappolarsi in una circolarità catastrofica, perché si basa su due assunti strettamente legati tra loro: 1) il sistema specchio delle scimmie è alla base della comprensione delle azioni e quindi 2) quello umano svolge la stessa funzione ed è alla base delle successive specializzazioni di quest’ultima in direzione delle capacità umane superiori (linguaggio, teoria della mente, empatia, ecc.). Ma cosa succederebbe se il primo assunto si rivelasse falso, come di fatto sembrerebbe alla luce di una più attenta lettura degli stessi dati sperimentali forniti dal gruppo di Parma? Il ragionamento che sta alla base dell’intera versione forte della teoria dei neuroni specchio crollerebbe (cfr. ivi: 34). Hickok, va ribadito, non è uno scettico sull’esistenza dei neuroni specchio nell’uomo; egli, piuttosto, è uno scettico su quella che Ramachandran chiama versione sexy della teoria: «è praticamente certo che i neuroni specchio umani esistono. Come faccio ad essere tanto sicuro? Lo sono perché gli esseri umani sanno imitare facilmente le azioni osservate (...) e per poterlo fare deve esistere un collegamento neurale tra un’azione osservata e un’azione eseguita personalmente; in altre parole, qualche sistema deve trasformare le azioni osservate in azioni eseguite» (ivi: 35). Visto che la teoria dei neuroni specchio alla base della comprensione delle azioni si è intrecciata con l’approccio embodied alla cognizione (cfr. ivi: 139), Hickok sferra un attacco anche a quest’ultimo, dimostrando sostanzialmente che la teoria della cognizione incarnata è un’alternativa alla teoria classica della rappresentazione concettuale (quella cosiddetta a sandwich, con la

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cognizione collocata tra i moduli sensoriali di input da un lato e quelli motori di output dall’altro), non alla teoria classica della mente basata sull’elaborazione delle informazioni a tutti i livelli neuronali, dalla retina alla codifica delle azioni nell’area motoria primaria, passando per l’astrazione concettuale. In tal senso, «il movimento della cognizione incarnata, pubblicizzato spesso come un allontanamento radicale dal modello cognitivo “classico”, in realtà è poco più del riconoscimento che i sistemi sensoriali e motori sono di per sé sofisticati meccanismi di elaborazione delle informazioni, capaci di eseguire complesse operazioni “cognitive”» (ivi: 139). In altre parole, è come se gli studiosi della rappresentazione concettuale avessero «teorizzato la propria disoccupazione» (ivi: 137), dichiarando che si tratta di un compito da affidare ai neuroscienziati che si occupano del sistema sensomotorio del cervello. Secondo Hickok, non c’è alcunché di esplicativo nel sostenere che la rappresentazione concettuale si realizza attraverso la simulazione incarnata, perché così facendo si sposta la questione da un dominio (la cognizione) a un altro (il sistema dell’elaborazione motoria e sensoriale) e si dice una cosa che gli scienziati che se ne occupano sapevano già, ovvero che che il sistema sensomotorio è in grado di eseguire complesse computazioni astratte (cfr. ivi: 138); in fondo, se “simulazione” significa qualcosa di concreto sul piano neuroscientifico, dev’essere pressoché identico a “elaborazione delle informazioni” o “computazione” (cfr. ivi: 154). L’embodied cognition, peraltro, incorre nelle stesse difficoltà sperimentali della teoria mirror allargata: «la disfunzione del cuore del sistema specchio (l’area di Broca) e della corteccia motoria primaria, su cui oggi si concentrano molti concetti di azione incarnata, non sembra essere collegata a deficit di conoscenza delle azioni» (ivi: 147-148). In definitiva, il problema dei due approcci è che con ogni probabilità pongono il significato, il cosa, la semantica, nel posto sbagliato (cfr. ivi: 166). Più sopra abbiamo visto che a un certo punto Hickok fa riferimento all’imitazione per dire che essa ha un qualche legame con i neuroni specchio. Ebbene, l’ottavo capitolo è tutto dedicato all’Homo imitans, nel senso esatto di Meltzoff 1988, su cui, come abbiamo avuto modo di rilevare, si erano già basati Blackmore e Ramachandran. Questo punto è molto importante per il nostro discorso, perché da esso emerge che la teoria dei memi può non essere legata in modo eccessivamente vincolante a quella dei neu-

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roni specchio (contrariamente, per esempio, a quanto sostiene Goleman). E infatti, come vedremo, pur ridimensionando notevolmente la teoria di Rizzolatti e collaboratori (nonché gli entusiasmi alla Ramachandran), Hickok non ha alcuna difficoltà a riferirsi ai memi esattamente nello stesso contesto (l’evoluzione culturale) che aveva spinto Ramachandran a servirsi di un’espressione come meme pool. Nella ricostruzione storica di Hickok, ci sono delle circostanze precise che hanno portato a uno slittamento concettuale in merito all’interpretazione della funzione dei neuroni specchio. A suo parere il gruppo di Parma, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, fece la scoperta davvero importante sulla corteccia premotoria e la questione poteva finire lì (cfr. ivi: 21). Si tratta della “teoria magnifica” stando alla quale «la corteccia premotoria fa parte di un sistema di associazioni sensomotorie che può avere come input un numero qualunque di caratteristiche dimensioni, forma, colori, oggetti, gesti - e usare queste informazioni per scegliere l’azione appropriata. Ciò non vuol dire che queste cellule siano responsabili della comprensione delle dimensioni, della forma, del colore, degli oggetti o dei gesti; significa soltanto che le informazioni fornite da questi stimoli possono essere usate per guidare la scelta dell’azione» (ivi: 203). Tuttavia, a partire soprattutto dall’articolo del 1996 la funzione dei cosiddetti neuroni specchio (battezzati così proprio in quell’occasione) fu in qualche modo reinterpretata per aggirare un problema: mentre da un lato essi sembravano essere la base neurale dei processi imitativi tipicamente umani, dall’altro la loro scoperta avvenne studiando animali che rivelavano notevoli difficoltà nell’eseguire compiti di imitazione. Come uscirne? La mossa “naturale”, nota Hickok, fu quella di considerare i neuroni specchio delle scimmie come base per la comprensione delle azioni, per cui, attraverso «un percorso logico breve, da lì si arrivò a spiegazioni teoriche del linguaggio, della teoria della mente, dell’empatia e, alla fine, a uno scontro frontale con dati empirici che attestano il contrario» (ibid.). La cosa interessante, poi, è che oggi le conoscenze a disposizione sono diverse da quelle di vent’anni fa, sia perché la teoria della comprensione delle azioni via sistema specchio si è rivelata empiricamente poco fondata sia soprattutto perché si è scoperto che in realtà i macachi imitano (cfr. ivi: 204). Questo, a giudizio di Hickok, impone di ripensare all’intera questione resti-

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tuendo all’imitazione il ruolo che le compete, che è quello di essere «il fondamento stesso di ciò che significa essere umani dal punto di vista culturale e sociale» (ivi: 199). Negli ultimi vent’anni, dice Hickok, si è arrivati a un certo accordo sulla classificazione dei comportamenti imitativi di base. Fondamentalmente si distingue tra un’imitazione semplice o automatica, quando copiamo un’azione già presente nel nostro repertorio comportamentale, e un’imitazione complessa o apprendimento asservazionale, quando copiamo una serie di azioni nuove da un modello (ed evidenze sperimentali recenti dimostrano che le scimmie hanno accesso ad entrambe le forme di imitazione: cfr. ivi: 204-206). Inoltre, mentre l’imitazione si limita prevalentemente a riprodurre movimenti corporei, l’emulazione mira a copiare gli obiettivi delle azioni (cfr. ivi: 204). C’è poi un “argomento formidabile”, ancorché controverso, che fa dipendere da meccanismi imitativi innati la possibilità di costruire una teoria della mente. Tale argomento può essere articolato in tre parti (ivi: 198-199): 1. Gli esseri umani nascono con la capacità di riconoscere (non necessariamente in modo conscio) l’equivalenza tra le azioni altrui percepite visivamente e le azioni eseguite personalmente. Questo è il problema della corrispondenza (...). 2. Attraverso l’esperienza, i bambini imparano la relazione tra i propri movimenti e i propri stati mentali (...). 3. La capacità di riconoscere una corrispondenza tra le proprie azioni e quelle altrui (parte 1), insieme alla comprensione del fatto che le proprie azioni sono causate da particolari stati mentali (parte 2), permette di dedurre che le azioni compiute dagli altri sono causate dai loro stati mentali, cioè di avere una teoria della mente.

Tutto ciò, a giudizio di Hickok, sembra indicare che lo stesso meccanismo mirror non sia altro che un modo originale di chiamare qualcosa di noto da molto tempo, perché l’apprendimento sociale di tipo imitativo si può spiegare perfettamente con la classica associazione pura: «[i] macachi raggiungono e afferrano oggetti continuamente e osservano le proprie azioni. Ben presto, si forma un’associazione tra l’esecuzione di un’azione e l’(auto)osservazione della stessa azione. Et voilà! Nascono i neuroni specchio. Quando la scimmia vede lo sperimentatore eseguire

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un’azione simile a quelle che essa stessa ha eseguito in precedenza, le cellule scaricano a causa della preesistente associazione basata sulla auto-osservazione. Non ha nulla a che fare con la comprensione» (ivi: 207). Quest’idea, che Hickok mutua dalle ricerche compiute dalla psicologa Cecilia Heyes (2010), suggerisce che i neuroni specchio facciano parte di normali circuiti plastici di associazione sensomotoria che costituiscono la base dell’apprendimento sociale imitativo. Tuttavia rimane un problema. Se anche le scimmie possiedono questo circuito sensomotorio di associazione che sta alla base dell’imitazione, come mai non esibiscono niente che si avvicini anche lontanamente ai nostri prodigiosi talenti imitativi? A tal proposito Hickok avanza una congettura basata sull’idea che, per uscire dall’apparente paradosso, occorra invertire i termini della questione. Per comprendere il grande balzo in avanti della cultura umana è necessario considerare l’imitazione come un processo non basilare ma emergente e perfettibile (cfr. ivi: 217), nel senso che essa non andrebbe intesa come una capacità modulare specializzata che sta all’origine di prestazioni di livello più alto come la teoria della mente, ma come il risultato di un’attività top-down che muove da strutture cognitive superiori e sfrutta al meglio le potenzialità di una capacità di livello più basso condivisa con altre specie: «[l]’imitazione non è la causa, ma la conseguenza dell’evoluzione delle capacità cognitive umane. I macachi non imitano non perché sprovvisti dell’apparato neurale fondamentale - chiaramente costituito dai loro neuroni specchio! - ma perché non hanno i sistemi cognitivi per ricavare tanto quanto noi dall’imitazione» (ivi: 211). Di conseguenza, noi imitiamo perché siamo esseri sociali, e non viceversa (cfr. ivi: 216). In definitiva, si può dire che ad essere primitivo e incorporato nei neuroni specchio è il semplice meccanismo dell’imitazione, basato essenzialmente sull’associazione. Tutto allora dipende da cosa e quando associare e qui entrano in gioco i diversi modi che hanno gli esseri umani e i macachi di sfruttare lo stesso meccanismo di base; mentre questi non hanno alcun bisogno di andare oltre la possibilità di scegliere le azioni più adatte in risposta a ciò che osservano nell’ambiente, gli esseri umani possono sfruttare lo stesso meccanismo mettendolo al servizio, per esempio, del linguaggio e della social cognition (cfr. ivi: 216-217). Da ultimo, si può osservare che questa riformulazione per ridimensionamento della teoria del nesso tra imitazione e neuroni

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specchio sembra non arrecare alcun danno a quella dei memi. Anzi. L’idea che l’imitazione raffinata sia un talento filogeneticamente emergente e guidato da sistemi cognitivi di livello superiore è in accordo con l’idea tipica dei memetisti della pressione selettiva esercitata dai replicatori culturali che guidano ciecamente la messa a punto di dispositivi cognitivi e tecnologici sempre più adatti alla loro propagazione ottimale. A ulteriore conferma di ciò si può notare che nel suo libro Hickok fa due importanti riferimenti ai memi, uno indiretto (nel settimo capitolo) e uno diretto (nel capitolo sull’Homo imitans). Il primo riferimento si trova in un contesto in cui Hickok sta illustrando il fondamento sensoriale, anziché motorio, del linguaggio attraverso l’esempio del fenomeno noto come gestural drift, ovvero la tendenza in gran parte inconscia a modificare le nostre configurazioni articolatorie conformandole a quelle dei suoni linguistici emessi dai parlanti intorno a noi (in genere, ma non necessariamente, quando ci si trova in una regione diversa da quelle di appartenenza). A tal proposito, Hickok chiama in causa l’“esempio spettacolare” del cosiddetto uptalk, il fenomeno bizzarro, diffusosi da alcuni anni nell’inglese nordamericano, consistente nell’assumere un’intonazione interrogativa ascendente anche quando si proferiscono normali enunciati dichiarativi come “Mi chiamo così e così e faccio questo e quello”. Ebbene, trattandosi di un fenomeno virale già oggetto di attenzione da parte di psicologi, sociologi e linguisti, Hickok cita alcuni studi in merito, tra cui un articolo dello psicologo canadese Hank Davis in cui l’uptalk viene definito, tra le altre cose, “meme infernale” (ivi: 161). La cosa per noi interessante a tal riguardo è che, se andiamo a vedere l’articolo di Davis, intitolato The Uptalk Epidemic. Can you say something without turning it into a question?, ci accorgiamo che esso è basato su un’interpretazione memetica del fenomeno, con tanto di citazioni bibliografiche canoniche, come mostra vividamente tutto l’incipit: I’ve done everything I can to stop it. Whatever modest sphere of influence I have, I’ve used. Teaching large undergraduate classes, writing newspaper articles, giving interviews - all to no avail. I’m fighting a steamroller here or, in the more colorful language of Evolutionary Psychology, a very powerful meme. This is the meme from Hell. The kind of cultural thing Richard Dawkins must have had in mind when he introduced the term in The Selfish Gene in 1976. This was, he argued, the way culture spreads - longitudinally as a virus spreads within a population. The meme is the basic unit of culture. As

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Dawkins argued, memes “travel horizontally, like viruses in an epidemic”. They compete with other memes and the winners take up residence in our minds, defining what our culture looks and sounds like. When Susan Blackmore wrote The Meme Machine in 1999, she didn’t have the topic of this column as an example to draw upon. That’s unfortunate. This one is the equivalent of a viral video. About all you can do is stand back and watch it spread. In this case, of course, you’d have to listen to it spread, since it has become part of speech. What am I talking about, you ask? Uptalk. That ever-growing tendency to end statements with upward inflections to make them sound like questions. Like you’re not quite sure what you’re saying is true. Or clear. Or will be acceptable to your audience. To suggest that you’re willing to back down, or restate your point, or change your viewpoint altogether if your listeners don’t nod their approval (Davis 2010).

Il secondo riferimento è ancora più interessante, perché è lo stesso Hickok a usare l’espressione “memi culturali” in un contesto molto simile a quello del pur criticato Ramachandran. Discutendo il carattere “intelligente” del comportamento imitativo finalizzato all’apprendimento sociale per osservazione, Hickok sottolinea che esso è piuttosto antico, essendo testimoniato in qualche modo da certe tracce scoperte in insediamenti umani risalenti al neolitico: In un sito archeologico neolitico situato nella Svezia meridionale sono venute alla luce tracce di un possibile gioco imitativo dell’attività di battere la selce (...). In una piccola area del sito si sono trovare tracce della produzione abile, sistematica, di uno strumento specializzato, un’ascia, mentre l’area all’intorno presentava i segni della produzione non sistematica di schegge, come se un bambino avesse battuto la selce per gioco spostandosi qua e là intorno al costruttore esperto di utensili. Se questa interpretazione del sito archeologico è corretta, illustra quale sia la funzione di trasmissione culturale dell’apprendimento per imitazione: tramandare tecnologie e altri memi culturali da una generazione all’altra (Hickok 2014: 198).

Questo passo sembra chiudere il cerchio del lungo discorso che affrontato in questo capitolo conclusivo della nostra rivisitazione della Memetica come programma di ricerca unificante, perché in esso confluiscono e trovano una sintesi molte delle posizioni che abbiamo preso in esame, da quella di Dawkins a quella di Cavalli-Sforza, da quella della Blackmore a quella di Ramachandran, da quella di Dennett a quella dello stesso Sperber, se si prescinde dalla sua ostilità - un po’ eccessiva nella forma ma tutto sommato trascurabile nella sostanza - nei confronti dell’imitazione. I memi, come ha suggerito Hofstadter, catturano la realtà del sistema mente/cervello e degli elementi della cultura a uno

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specifico livello di descrizione, e questo forse spiega perché essi possano uscire indenni da talune controversie neuroscientifiche specialistiche relative alla base neurofunzionale di certe abilità cognitive umane. Come abbiamo visto illustrando per sommi capi la proposta teorico-sperimentale di Hickok, che pure è esplicitamente ostile alla versione sexy della teoria dei neuroni specchio alla base della comprensione delle azioni, la sua perfetta consonanza con la posizione di Ramachandran sulle condizioni e sulle modalità del grande balzo in avanti che ha permesso al Sapiens di diventare creatore di cultura - ovvero, nella prospettiva da noi assunta, dei pool memici dawkinsiani o del Mondo 3 popperiano - è un segno evidente della capacità della Memetica di costituire una sorta di koinè o paradigma di riferimento in grado di rappresentare in via congetturale aspetti non banali della cognizione e della cultura.

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CONCLUSIONE LE FRONTIERE DELLA MEMETICA E IL MEME DI ANASSAGORA

Lei dove si colloca tra evoluzionismo e disegno divino? «Non condanno affatto l’evoluzionismo. Ma perché non pensare che quando Dio ha infuso lo spirito nell’uomo lo abbia lasciato crescere partendo dall’animale?». Quindi lei crede nel disegno divino? «Senza dubbio. Sono profondamente convinto che dal nulla derivi il nulla. Ci sono problemi di natura cosmologica che scienza e metafisica affrontano in modi diversi. L’insegnamento ne deve tener conto». [Giovanni Reale intervistato da Antonio Gnoli, «La Repubblica», 2 dicembre 2012, p. 53].

Lo sviluppo della rete e dei sistemi di replicazione automatica e autonoma di testi, foto e video ha indotto in anni più recenti Susan Blackmore a introdurre un terzo replicatore, che per riprodursi non si serve più (necessariamente) di macchine umane ma prospera e si diffonde usando come veicoli le macchine tecnologiche digitali create dall’uomo per la trasmissione delle informazioni. Lei ha proposto di chiamarlo teme, che in italiano equivale a “tecnomeme” o “meme tecnologico” (Blackmore 2008a e 2008b). Come ha osservato in un articolo uscito su «The Guardian» del 18 settembre 2015, non considerare lo sviluppo del terzo replicatore dal punto di vista del darwinismo universale può indurre anche le menti più avvertite a cadere nell’illusione del controllo, soprattutto quando si invocano principi etici da applicare in un campo che ormai è in gran parte al fuori del controllo umano, come può esserlo, sul piano biologico, un’epidemia virale: «Stephen Hawking, Bill Gates and now Demis Hassabis of Google’s DeepMind have all warned of the dangers of artificial intelligence

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(AI), urging that we put ethical controls in place before it’s too late. But they have all mistaken the threat: the AI we have let loose is already evolving for its own benefit. (...) The third replicator is, I suggest, already here, but we are not seeing its true nature. We have built machines that can copy, combine, vary and select enormous quantities of information with high fidelity far beyond the capacity of the human brain. With all these three essential processes in place, this information must now evolve» (Blackmore 2015). Che il teme sia strettamente intrecciato al viral marketing, il cui scopo principale è appunto quello trasformare il teme in un meme che vada ad impiantarsi nel cervello dei consumatori, è già stato messo in luce dagli studiosi di Memetica esperti di comunicazione commerciale.143 Pascal Jouxtel, da parte sua, ricordando che nel 2003 la Blackmore si era rifiutata di collaborare con dei pubblicitari per una questione di etica professionale, nel 2005 si limitò a fare un pronostico che oggi sembra persino cauto: «se anche gli scienziati non si interesseranno da vicino alla memetica, i commercianti, invece, lo faranno» (Jouxtel 2005: 198). Non sorprende, allora, che negli ultimi decenni la Memetica abbia trovato applicazioni varie nell’ambito delle scienze sociali computazionali, inserendosi nella costellazione di approcci (come la Network Science e le Digital Humanities) che usano la rete come luogo in cui si svolgono precise manifestazioni dell’agire umano e per i quali, dunque, attraverso le possibilità di indagine offerte dalla consultazione ed elaborazione dei Big data e dai social network, il computer diventa una sorta di “macroscopio” e punto privilegiato di osservazione (Bennato 2015). Un’intera area di ricerca, la MA (Memetic Algorithms), coniugando l’approccio memetico classico con uno di tipo evoluzionisticocomputazionale, mira a estendere l’analisi memetica a vari domini di popolazioni di entità in trasformazione (Moscato 1989, Neri e Cotta 2012), mentre una rivista come Memetic Computing, edita da Springer, promuove esplicitamente euristiche ibride (hybrid metaheuristics) per applicare metodi memetico-computazionali ad ambiti di ricerca molto diversi tra loro, dalle scienze sociali all’intelligenza artificiale, passando per le neuroscienze (cfr. MC

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Si vedano, ad es., il capitolo 11 di Brodie 1996, Collina e Simonte 2007: 35-65 e Somigli 2011: 35-53, 76-79, 85-92.

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2015). A ciò vanno aggiunte le proposte di analisi in chiave memetica di una molteplicità di fenomeni culturali in evoluzione, dalla musica (Gatherer 1997b) alla diffusione della Bibbia (Pyper 1998), dall’architettura (Daru 1999 e 2000) alla traduzione (Regattin 2011). Queste varie applicazioni dimostrano che la Memetica è tuttora un programma di ricerca dotato di vitalità e in espansione. Qui, però, in accordo con l’approccio generale seguito nel presente lavoro, incentrato soprattutto sugli aspetti della Memetica riconducibili alla filosofia e alle scienze cognitive, vogliamo concludere proponendo per grandi linee un esempio di applicazione della prospettiva memetica alla storia del pensiero e ai suoi legami con l’evoluzione delle strutture cognitive umane. Abbiamo più volte avuto modo di vedere come l’approccio memetico tratti la questione delle credenze religiose. Adesso, però, possiamo esaminare più da vicino ciò che considereremo per comodità come un singolo meme (a seconda del livello di analisi che scegliamo, il nostro meme potrebbe essere scomposto in altri memi più semplici) e che non è confinato nell’ambito strettamente religioso; anzi, come vedremo, il nostro meme è una sorta di condizione di possibilità delle credenze religiose ed è indipendente da specifici contenuti dottrinari. Si tratta di quello che chiameremo meme di Anassagora, ovvero meme dell’ Intelletto divino. Com’è noto, c’è ormai un largo accordo nell’ambito delle scienze cognitive e della psicologia evoluzionistica sul fatto che noi saremmo dei natural born dualists (Bloom 2005; Dawkins 2006; Girotto-Pievani-Vallortigara 2008; McCauley 2011; Shermer 2011; De Waal 2013), nel senso che nasciamo dotati di una sorta di senso comune psicologico che, prima ancora di essere esposti a contenuti culturali specifici, ci fa interagire con il mondo e soprattutto con gli altri sulla base di quello che Dennett chiama atteggiamento intenzionale. Come ha sintetizzato Perconti (2015: 93-94), «la capacità di dar senso ai comportamenti usando un vocabolario mentalistico, di leggere - cioè - nelle menti delle altre persone, è innata nella specie umana. Siamo, per così dire, degli psicologi nati. Se lo sviluppo infantile procede in modo tipico, nel volgere di qualche anno e attraverso fasi caratteristiche, i bambini diventano invariabilmente degli abili psicologi naturali (...). Basta loro uno sguardo per capire le intenzioni di uno sconosciuto». Gli esperimenti sulla sorprendente tendenza dei bambini a popolare

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l’ambiente circostante di agenti intenzionali invisibili, ampiamente discussi per esempio nei testi di Bloom e Girotto-PievaniVallortigara citati sopra, pone il problema della spiegazione evolutiva di una tale disposizione innata. Un’ipotesi ampiamente condivisa è che l’iperattività del dispositivo cerebrale del riconoscimento di agenti intenzionali (Dennett 1987 e 2006; Barrett 2000), che peraltro condividiamo con altre specie (si pensi ai frequenti falsi positivi dei cani da guardia), abbia un notevole vantaggio evolutivo, perché le probabilità di sopravvivere, e quindi di riprodursi, aumentano se si dispone di un meccanismo che, di fronte a un pericolo potenziale, sceglie sistematicamente la fuga. Michael Shermer, nel suo Homo credens, ha proposto una formalizzazione molto semplice di questo principio razionale in fluttuazione libera (come direbbe Dennett, ben presente a Shermer144) che l’evoluzione ha trovato e implementato nei sistemi nervosi esplorando lo spazio dei progetti. Secondo Shermer, la nostra tendenza irresistibile (che lui chiama patternicity, “schemismo”) a individuare schemi percettivi ed esplicativi nel rumore di fondo dell’ambiente, abbinata con la tendenza (che lui chiama agenticity, “intenzionismo”) ad attribuire significati e intenzioni a tali schemi, è alla base della generazione continua di credenze da parte del nostro cervello, la cui giustificazione è sempre successiva (la sua tesi di fondo, continuamente ribadita, è: «prima viene la credenza, poi le spiegazioni»). Questo fatto ha alcune conseguenze interessanti. Innanzi tutto, «una volta costruite le credenze, il cervello cerca (e trova) prove a loro sostegno, il che lo incoraggia e rende le convinzioni ancora più radicate, un loop di feedback positivo che accelera il processo di rinforzo» (Shermer 2011: 6); inoltre, questo meccanismo di rinforzo, alla base del ben noto bias di conferma (cfr. ivi: 308-311), si specifica nel bias autogiustificativo, cioè la razionalizzazione e giustificazione a posteriori delle decisioni prese, le cui vittime principali, nota maliziosamente Shermer sulla base di studi specifici relativi alle previsioni politiche ed economiche, sono proprio le persone più intelligenti, ovvero i cosiddetti esperti: «come l’euristica autogiustificativa lasciava presupporre, gli esperti sono notevolmente meno inclini dei profani ad ammettere di essersi sbagliati. A me piace dire che le 144

La nozione shermeriana di “intenzionismo” (agenticity) è esplicitamente mutuata da quella dennettiana di “atteggiamento intenzionale” (intentional stance): cfr. Shermer 2011: 101, nota.

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persone intelligenti credono alle cose strane perché sono più brave a difendere le credenze a cui sono arrivate per ragioni non intelligenti» (ivi: 313; cfr. anche 40-41). Il motivo per cui il nostro cervello è così iperattivo nella generazione di schemi e di credenze in agenti intenzionali va ricondotto allo stesso algoritmo darwiniano, che premia in termini evolutivi il pool genico che produce un numero sempre maggiore di copie di se stesso. Di fronte a una configurazione percettiva dominata dal rumore di fondo, osserva Shermer, una possibile preda può incorrere in due tipi di errori molto diversi tra loro in termini di costi. L’errore del primo tipo (T1) è il falso positivo, che consiste nel presumere la presenza di qualcosa che non c’è, per esempio scambiando per un predatore un fruscio prodotto dal vento. Indubbiamente T1 ha un costo (C), per esempio in termini di energia spesa per la generazione e il riconoscimento di uno schema (predatore), per l’attivazione dello schema motorio della fuga e così via. L’errore del secondo tipo, T2, è il falso negativo, che consiste nel presumere l’assenza di qualcosa che invece c’è, per esempio non collegando per associazione un fruscio nell’erba alla presenza di un predatore in agguato. Anche se prima facie T2 comporta un notevole risparmio di energia sul piano cognitivo e motorio, è evidente che il suo costo è talvolta la vita stessa. Di conseguenza, sostiene Shermer, poiché è molto più difficile e costoso, in termini di ricerca e sviluppo, tentare la strada della messa a punto di un dispositivo cerebrale in grado di distinguere con la massima rapidità gli schemi falsi da quelli reali e pesare di volta in volta i costi di T1 e T2, l’evoluzione ha optato per la soluzione più economica: «l’orientamento di default è presumere che tutti gli schemi siano reali: in altre parole, che tutti i fruscii nell’erba siano pericolosi predatori» (ivi: 68). Noi, dunque, con la nostra architettura neurale cablata in modo tale da farci reagire rapidamente a pattern significativi (come i volti e i movimenti) sin dalla nascita, attribuendo ad essi intenzioni e scopi in perfetto stile cartesiano, siamo i discendenti dei migliori generatori di falsi positivi, cioè di credenze in agenti invisibili, indipendentemente dal fatto che questi siano realmente esistenti. Tutto ciò è da Shermer sintetizzato con una formula che descrive l’emergere dello schemismo (S) come il risultato di situazioni ecologico-evolutive nelle quali il costo di T1 è sistematicamente inferiore a quello di T2 (ibid.):

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S = C (T1) < C (T2). Questo quadro esplicativo spiega perché la stragrande maggioranza delle persone dichiari di credere in una qualche divinità. Shermer (ivi: 197) riporta il dato aggiornato al 2009 della World Christian Encyclopedia (pubblicata dalla Oxford University Press), secondo la quale l’84% della popolazione mondiale, cioè circa 5,7 miliardi di esseri umani, è costituita da affiliati a una qualche religione organizzata. Questo dato coincide con quello più aggiornato e dettagliato fornito dal Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, che a pagina 9 di The Global Religious Landscape: A Report on the Size and Distribution of the World’s Major Religious Groups as of 2010, pubblicato nel dicembre 2012, fornisce il quadro illustrato nella Figura C.1 145. La disposizione a credere, dunque, per dirla con McCauley, sembra del tutto naturale, perché il generatore di credenze si è installato nel nostro cervello per valide ragioni evolutive e le credenze stesse «si manifestano sotto forma di pattern regolari in ogni fase storica e culturale» (ivi: 198). Con la nozione di pattern regolare siamo già a un passo dai memi e Shermer, anche se non li cita mai, ha ben presente Dawkins, con il quale è in dialogo continuo (cfr. ad es. ivi: 30 e 234-237).

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Lo stesso Pew Research Center, nel rapporto di demografia religiosa The Future of World Religions: Population Growth Projections, 2010-2050, pubblicato il 2 aprile 2015, colloca nel 2070 la data dell’inizio del “sorpasso” dei musulmani sui cristiani. Né si prevedono in generale tempi migliori per i non affiliati, malgrado incrementi locali in alcuni paesi come Stati Uniti e Francia (cfr.http://www.pewforum.org/2015/04/02/religious-projections-2010-2050/; per una sintesi dettagliata del rapporto del PRC, cfr. Filippi 2015).

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Figura C.1. La distribuzione mondiale delle religioni. Fonte: Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, The Global Religious Landscape: A Report on the Size and Distribution of the World’s Major Religious Groups as of 2010, 2012, p. 9.

La definizione generale di “Dio” proposta da Shermer è basata proprio sull’apparato concettuale appena delineato: «Dio è lo schema supremo capace di spiegare tutto ciò che accade dalla nascita dell’universo alla fine del tempo, anche e soprattutto il destino di noi esseri umani. Dio è l’agente intenzionale per eccellenza che dà senso all’universo e uno scopo alla nostra vita. Schemismo e intenzionismo formano un amalgama che rappresenta il fondamento cognitivo di sciamanesimo, paganesimo, a-nimismo, politeismo, monoteismo e ogni altra forma di teismo e spiritualismo creata dall’uomo» (ivi: 198). Sulla base di un quadro teorico siffatto, possiamo ora provare a vedere quali ulteriori considerazioni consente di sviluppare l’approccio memetico, concentrandoci su un meme ben preciso che sembra attraversare la quasi totalità delle credenze religiose e delle teorie filosofiche sviluppatesi praticamente in ogni cultura,

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costituendone quasi, a voler usare la terminologia filosofica classica, una sorta di a priori kantiano. Si tratta del meme che induce quasi irresistibilmente a concepire il mondo nei termini del prodotto intenzionale di un agente intelligente con connotati sovrumani, cioè, solitamente, divini. Alla luce di quanto abbiamo appena visto a proposito della distribuzione delle credenze nella popolazione mondiale, la forza darwiniana di questo meme risiede nel fatto che esso è perfettamente adattato all’ambiente dell’ecologia cognitiva umana prodotta dall’evoluzione, e pertanto è in grado di parassitare tutte le menti e prenderne il controllo. Si noti, inoltre, che non è solo questione di presentare la questione con una terminologia alternativa, perché la Memetica aggiunge dell’altro. Il meme dell’Intelletto divino ha sfruttato disposizioni cognitive evolutesi per ragioni precise di sopravvivenza, ma quando ha potuto replicarsi nella memosfera in modo autonomo (o nel Mondo 3), la sua fitness si è sganciata da quella dei suoi portatori umani, in accordo con quanto prevede la versione della teoria sostenuta soprattutto da Dawkins, Dennett e Blackmore. Per illustrare questo fatto, basterà riflettere sulla sconcertante contraddizione tra il grado di diffusione del meme nella popolazione umana attuale (vicino al massimo assoluto, cioè alla piena saturazione delle menti), be-ninteso nel ruolo di guida nel rapporto epistemico che un individuo intrattiene con il mondo, e la sua plausibilità esplicativa alla luce delle teorie biologiche e cosmologiche più corroborate. Dato per scontato che siamo nel regno della lotta tra congetture generali e costitutivamente fallibili sulla realtà, è evidente che un’ovvia conseguenza della biologia darwiniana e della fisica dell’universo condivisa dalla comunità scientifica è che qualunque cosa noi intendiamo con “intelletto ordinatore”, “intenzione creatrice”, “disegno intelligente”, ecc., è sempre riconducibile, in modo più o meno metaforico, al nostro lessico concettuale mentalistico, cioè, in ultima analisi, alla nostra stessa mente, di cui sappiamo, con il grado di certezza più elevato di cui ci è dato disporre, che è un prodotto recentissimo dell’evoluzione biologica (per non parlare delle scale geologiche e cosmologiche). Questo vuol dire, per usare un gergo tardowittgensteiniano, che nel gioco linguistico della scienza contemporanea più corroborata un enunciato come “Nell’universo conosciuto non c’era alcuna mente sovrumana prima della comparsa di Homo sapiens”, del tutto incompatibile con quello che può esprimere linguisticamente

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il meme in questione, funge da muro maestro146 quasi tautologico a partire dal quale è possibile costruire l’edificio delle congetture e delle confutazioni nella discussione razionale pubblica. E tuttavia, come ha ben messo in luce McCauley (2011), è il meme dell’Intelletto divino a prendere il controllo della stragrande maggioranza delle menti, proprio perché è più compatibile con le strutture cognitive umane naturali, mentre quello ricavabile dalla conoscenza scientifica più avanzata e condivisa suona del tutto innaturale al nostro rilevatore iperattivo di agenti intenzionali.147 La mente umana, dunque, costituisce una sorta di pa-radiso replicativo per questo meme, e ciò ne spiega la diffusione così sproporzionata rispetto al suo contenuto informativo pressoché nullo rispetto all’attuale sapere di sfondo più controllato148. È un tipico meccanismo memetico, così come è stato messo in luce dai principali memetisti: un meme ha solo bisogno di opportunità per replicarsi e diffondersi, e se può farlo, lo farà, indipendentemente dalla fitness dei suoi portatori, che tuttavia potrebbero trarre qualche vantaggio collaterale dal fatto di esserne parassitati e guidati (per esempio in termini di consolidamento della base sociale del sé come conseguenza dell’appartenenza a un gruppo che condivide un sistema di credenze incardinato sul meme in questione). Vale la pena, allora, proporre una ricostruzione per grandi linee della trasmissione e della diffusione di questo meme nel pensiero occidentale, per vedere come le sue linee di discendenza nella cultura filosofica e religiosa siano solo il tratto visibile, perché espresso e inciso su veicoli esterni (il linguaggio, i libri, ecc.: 146

Grundmauer / foundation-wall, cfr. Wittgenstein 1969: § 248. È questa, per inciso, la ragione per cui Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara hanno usato come sottotitolo del loro libro del 2008, qui più volte citato, l’espressione “Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin”. 148 Con buona pace di Nagel, il quale, pur di estendere il suo antiriduzionismo e il suo antinaturalismo dal problema mente-corpo alla scala cosmica, arriva oggi a recuperare esplicitamente un’idea platonico-hegeliana di intelligibilità oggettiva dell’intera realtà, vista metafisicamente come permeata da forze razionali intrinseche di tipo teleologico: “La convinzione che mi guida è che la mente non sia solo il prodotto di un’aggiunta successiva, un evento accidentale o un accessorio, ma che sia un aspetto fondamentale della natura” (Nagel 2012: 20). Un idealismo oggettivo, come si vede, onestamente esibito e addirittura raccomandato agli scienziati (cfr. ivi: 21), che costituisce una riproposizione in grande stile - da parte di uno dei più influenti filosofi della mente contemporanei - di quello che qui chiamiamo “meme di Anassagora”. 147

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si veda la tassonomia integrata dei memi proposta, qui, in I.4), di un percorso sotterraneo continuo che coinvolge qualsiasi mente in grado di riflettere sulla natura e sull’origine delle cose. Benché, come visto, il nostro meme sia implicito praticamente in qualsiasi cultura sufficientemente organizzata per lasciare tracce (soprattutto relative a credenze nel soprannaturale), è del filosofo greco del V secolo a. C. Anassagora il merito di averlo formulato compiutamente per iscritto in una forma in grado di essere riconosciuta, compresa e ritrasmessa. Il celebre frammento 12, infatti, giuntoci grazie a Simplicio, un filosofo neoplatonico-aristotelico vissuto nel VI secolo d. C., è un esempio tipico di meme dotato di una forza virale straordinaria, come dimostra la storia stessa della sua propagazione. Eccone un ampio estratto: Tutte le altre cose hanno parte di tutto, l’Intelligenza [Noûs, νοῦς] invece è infinita, indipendente, e non mescolata ad alcuna cosa, ma è sola, lei in se stessa (...). È infatti la più sottile di tutte le cose e la più pura, ha perfetta conoscenza di tutto e grandissima forza; e quante cose hanno vita, più grandi o più piccole, tutte domina l’Intelligenza. E l’Intelligenza dette impulso alla rotazione di tutto quanto, così che avesse inizio il moto rotatorio. E la rotazione iniziò dapprima dal piccolo, svolgendosi poi verso il grande, e si svolgerà ancora di più. E l’Intelligenza riconobbe tutte le cose che si formavano per mescolanza, e quelle che si formavano per separazione e quelle che si dividevano, e quelle che stavano per essere, e quelle che erano e ora non sono, e quante sono ora e quali saranno, l’Intelligenza le dispose tutte, e la rotazione che compiono le stelle e il sole, la luna e quella parte di aria e di etere che si va separando (in Presocratici 2006: 1077 e 1079).

È esattamente l’idea espressa in questo passo che qui si vuole indicare come meme di Anassagora. Per un capriccio della storia, la sua immensa fortuna filosofica nasce da una stroncatura. Caso volle, infatti, che esso saltasse nel cervello di Platone, il quale però ne rimase del tutto insoddisfatto. Le pagine famose del Fedone in cui Platone, per bocca di Socrate, propone una mirabile recensione filosofica del libro perduto di Anassagora, costituiscono il primo potente veicolo pubblico usato dal meme per propagarsi. Questo meccanismo di trasmissione culturale orizzontale (nel senso di Cavalli-Sforza) attraverso un libro è descritto vividamente dallo stesso Platone nel passo che, nell’edizione DielsKranz di quanto rimane dei Presocratici, costituisce la testimonianza 47:

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Un giorno udii un tale leggere un libro che dichiarava esser di Anassagora, il quale diceva che è l’Intelligenza che ordina e causa tutte le cose. Io mi rallegrai di questa causa e mi parve che, in certo senso, andasse bene porre l’Intelligenza come causa di tutto, e dentro di me pensai che, se questo fosse stato vero, l’Intelligenza ordinatrice avrebbe dovuto ordinare tutte quante le cose e sistemare ciascuna di esse in quella maniera che per sé è la migliore possibile (...). Presi dunque i suoi libri con la massima rapidità, e li lessi prima possibile, per poter conoscere prima possibile il meglio e il peggio. Ma da questa meravigliosa speranza, amico mio, venivo allontanato, perché mentre procedevo nella lettura del libro, mi accorgevo che il nostro uomo non si serviva affatto dell’intelligenza e non le attribuiva alcun ruolo di causa nella spiegazione dell’ordinamento delle cose, e attribuiva, invece, il ruolo di causa, all’aria, all’etere, all’acqua e a molte altre cose strane (Phaedo, 97b-98c = 59A47DK, in Presocratici 2006: 1035 e 1037).

Come si vede, Platone rimane insoddisfatto della versione anassagorea del meme per il fatto che essa spiega troppo poco e non distingue, per esempio, tra cause fisiche e motivazioni eticopolitiche ispirate a valori del comportamento umano (subito dopo, com’è noto, Socrate propone un modello esplicativo alternativo per dar conto adeguatamente del suo trovarsi in quel preciso momento nel carcere della città di Atene). Platone, quindi, non elimina il meme di Anassagora, ma lo modifica sotto almeno due aspetti al fine di potenziarlo: da un lato lo smaterializza e dall’altro ne estende il dominio di applicazione, precisandone meglio il ruolo di guida assiologicamente privilegiata in ogni aspetto della realtà fisica e umana. Un atteggiamento simile è esibito da Aristotele, la cui opera costituisce il secondo vettore di lancio per il meme di Anassagora. C’è un passo della Metafisica così platonico nell’atteggiamento di fronte al meme che Diels e Kranz lo hanno inglobato nella medesima testimonianza 47: Anassagora si serve dell’Intelligenza come di una macchina scenica per la costruzione del mondo, e solo quando non sa quale causa produca necessariamente un fatto, allora la mette in campo, ma in ogni altra circostanza collega la causa di ciò che accade a tutto anziché all’Intelligenza (Metaph., I, 4, 985a18 = 59A47DK, ivi: 1037).

Tuttavia Aristotele è tornato numerose altre volte sul meme di Anassagora, non solo replicandolo ma mettendolo ulteriormente a punto sul piano linguistico e concettuale. Se si vanno a vedere le varie menzioni di Anassagora che si trovano in opere capitali per il pensiero occidentale come la Metafisica, l’Anima, il

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Cielo e la Fisica, ci si accorge che anche per Aristotele il problema non è tanto quello di uccidere un’idea rivale (si pensi, per contrasto, a Democrito e al silenzio assoluto su di lui nell’opera di Platone) quanto piuttosto quello di modificarla ulteriormente per adattarla a un nuovo e più consistente edificio teorico. A conferma di ciò, si consideri solo il seguente passo della Fisica, che costituisce la testimonianza 56 (e si noti che il frammento 12 ci è pervenuto proprio grazie al fatto che Simplicio ha trascritto il passo anassagoreo nel suo commento a quest’opera aristotelica): Anassagora dice bene, affermando che l’Intelligenza è impassibile e priva di mescolanza, dato che la pone come principio del movimento. Infatti, potrebbe muovere solo se non fosse mossa, e avere potere solo essendo priva di mescolanza (Physica, VIII, 5, 256b24-25 = 59A56DK, ivi: 1041).

Per avere un’idea della forma affilata e penetrante che il meme di Anassagora assume dopo essere passato per il filtro platonico-aristotelico, basterà considerare la testimonianza 48, dovuta a Cicerone, dalla quale risulta evidente che la messa a punto del meme è tale che esso può essere formulato con estrema efficacia espressiva nella lingua che sarebbe diventata per più di mille anni il veicolo principale della cultura occidentale: Anassagora, che trasse insegnamento da Anassimene, fu il primo a sostenere che l’ordine e l’assetto di tutte le cose fosse deciso e compiuto dalla potenza razionale di una Intelligenza infinita (mentis infinitae vi ac ratione) (De natura deorum, I, 11, 26 = 59A48DK, ivi: 1037).

Sarebbe un inutile esercizio di compilazione offrire un elenco esauriente dei filosofi e degli scienziati medioevali, moderni e contemporanei il cui pensiero sembra egemonizzato dal meme di Anassagora. Tutto il pensiero ebraico-cristiano è sotto il suo controllo e in I.3 abbiamo avuto modo di fare cenno alla teoria dell’Intelletto del filosofo aristotelico arabo Averroè. Basterà invece fare un cenno ad alcuni snodi del pensiero moderno e contemporaneo particolarmente significativi, perché dimostrano l’azione del meme anche al di fuori di approcci strettamente filosofico-religiosi. Nel decimo capitolo del quarto libro del Saggio sull’intelletto umano di John Locke ci sono alcuni paragrafi che non a caso hanno attirato l’attenzione di Dennett, perché il filosofo empirista inglese si avventura in una singolare dimostrazione a priori della

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necessità di ammettere una Mente eterna all’origine di tutto. Locke non cita mai Anassagora149, ma le sue pagine sul primato della Mente sono un esempio vivido di come il meme di Anassagora possa indurre un pensatore cauto e laico a perdersi in una sua fondazione logica assoluta che, alla luce del nostro sapere di sfondo, è solo una ruota che gira a vuoto. Si ripensi alle parole di Shermer citate sopra che illustrano l’idea che le credenze precedano le loro stesse giustificazioni: «le persone intelligenti credono alle cose strane perché sono più brave a difendere le credenze a cui sono arrivate per ragioni non intelligenti». Come ha scritto Dennett, il cui L’idea pericolosa di Darwin può essere considerato come nient’altro che un’opera di demolizione implacabile della pagina di Locke (cioè del meme di Anassagora), condotta nello spirito di Hume e della teoria dell’evoluzione, la dimostrazione lockiana «illustra perfettamente il blocco dell’immaginazione che era in atto prima della rivoluzione darwiniana» (Dennett 1995: 31). Dennett (ivi: 31-33) si concentra solo su IV, X, 10 (Locke [1690] 2004: 1171 e 1173), ma è possibile allargare il quadro e ricostruire i passaggi salienti della dimostrazione di Locke sulla base dei semplici titoli dei §§ 8-18 di IV, X (ivi: 1169-1183), perché si tratta di uno dei sofismi filosoficamente più interessanti che il meme di Anassagora abbia stimolato per accreditarsi nell’ambito della metafisica: 8. Qualcosa esiste fin dall’eternità (perché dal nulla non può derivare alcunché). 9. Esistono due specie di esseri: pensanti (cogitative) e non pensanti (incogitative). 10. Un essere non pensante non può produrre un essere pensante (allo stesso modo in cui il nulla non può produrre la materia). 11-12. Deve esistere fin dall’eternità un essere pensante (eternal Wisdom), dotato di attributi come l’onniscienza, l’onnipotenza e la provvidenza, dato che è a tutti evidente che altri esseri pensanti esistono attualmente. 13. Questo essere non può essere materiale. 149

Non è superfluo osservare che Anassagora verrà invece citato esplicitamente da Newton, in una nota dello “Scolio generale” aggiunto alla seconda edizione dei Principia, tra i precursori antichi della sua idea che nel Dio pantocratore, presente in tutto sostanzialmente, “gli universi sono contenuti e mossi, ma senza nessun mutuo perturbamento” (Newton [1687, 1713] 2008: 800; nel latino originale: [In ipso] continentur & moventur universa, sed absque mutua passione). Un passo che, come si vede, è una riformulazione in grande stile del meme di Anassagora in una delle opere capitali del pensiero scientifico occidentale

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14. Primo: perché ciascuna particella di materia non è pensante. 15. Secondo: perché una sola particella di materia non può essere pensante. 16. Terzo: perché un sistema di materia non pensante non può essere pensante. 17. Se l’essere pensante eterno fosse materiale, ne deriverebbero delle assurdità sia considerandolo in quiete sia considerandolo in movimento. 18. La materia non è coeterna a uno spirito eterno (eternal Mind).

Se tutto ciò proviene da un filosofo empirista, è quasi superfluo andare a vedere come stiano le cose nella tradizione razionalista più speculativa. A tal proposito sarà sufficiente ricordare che l’unica occorrenza del nome di Anassagora in tutta la Scienza della logica di Hegel (trascurando le ampie trattazioni del suo pensiero contenute nei corsi di storia della filosofia) costituisce proprio un inno al nostro meme: «Vien celebrato Anassagora come quegli che per primo abbia pronunciato che il Nus, il pensiero, è il principio del mondo, che l’essenza del mondo è da determinarsi come il pensiero. Egli pose con ciò il fondamento di una veduta intellettuale dell’universo, una veduta la cui forma pura dev’esser la logica» (Hegel [1812] 2004: 31). Nel XIX secolo, d’altronde, c’è un caso più interessante che si pone proprio sulla soglia della rivoluzione darwiniana. Si tratta della singolare situazione di Alfred Russel Wallace, passato alla storia come il co-scopritore della teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale. Scrive Dennett: «A proposito dell’evoluzione della mente umana, agli inizi Wallace era molto più disponibile di quanto Darwin fosse disposto a essere e in un primo momento sosteneva in maniera decisa che la mente umana non faceva eccezione alla regola secondo cui tutte le caratteristiche degli esseri viventi sono prodotte dall’evoluzione; malgrado tutto ciò, non riuscì a considerare il “ragionamento bizzarramente capovolto”150 come la chiave per comprendere quanto fosse importante la grande idea. Facendo eco a John Locke, Wallace dichiarò che “la meravigliosa complessità di forze che sembrano

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Questa espressione descrive l’idea esattamente opposta a quella del meme di Anassagora, ovvero l’idea che l’artefice di tutto sia l’Ignoranza Assoluta, anziché la Saggezza Assoluta. Essa venne coniata da Robert MacKenzie in un attacco anonimo alla teoria di Darwin pubblicato nel 1868. Mentre MacKenzie intendeva così screditare la teoria dell’evoluzione agli occhi di quello che potremmo chiamare il senso comune anassagoreo, secondo Dennett si tratta di una sintesi perfetta (in forma di anti-meme) della rivoluzione darwiniana (cfr. Dennett 1995: 81).

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controllare la materia, se addirittura non la costituiscono, è, e deve essere, un prodotto della mente”» (Dennett 1995: 82).151 Come abbiamo osservato sopra, sarebbe erroneo pensare che oggi, nell’era della relativamente massima diffusione e autorevolezza della conoscenza scientifica, il meme di Anassagora goda di poca salute152. Al contrario, esso non è mai stato tanto diffuso nelle menti umane e replicato su supporti esterni, dalla carta al web. Abbiamo cercato di fornire una spiegazione cognitiva ed evolutiva della sua longevità e capacità replicativa, e forse vale la pena concludere con un esempio particolarmente plastico della sua resistenza, perché si tratta di vederlo in azione in modo assai determinato e polemico in un libro recente scritto da uno scienziato e divulgatore scientifico di fama internazionale, prematuramente scomparso il 26 novembre 2015. Un dettagliato esame critico di questo libro, che costituisce un attacco esplicito rivolto

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Sulla posizione di Wallace, sempre più controllata dal meme di Anassagora fino a una vera e propria svolta nella direzione dello spiritismo, si vedano anche Blackmore 1999: 112 e soprattutto Ramachandran e Blakeslee 1998: 213-216, dove si può trovare una ricostruzione dettagliata delle considerazioni teoriche ed empiriche che spinsero Wallace ad affidarsi a un gancio appeso al cielo per spiegare l’evoluzione del cervello e della cultura dell’uomo. 152 Uno degli interpreti più acuti del processo di trasformazione del meme di Anassagora dalla formulazione originaria alla sua integrazione nell’edificio teologico del cristianesimo, passando soprattutto per la stazione decisiva delle pagine del Fedone platonico, è stato Giovanni Reale. In particolare, nel quinto capitolo della sua monumentale opera sulle dottrine non scritte di Platone, intitolato “La seconda navigazione come passaggio cruciale dal piano fisico della ricerca dei Presocratici al piano metafisico della realtà soprasensibile (Fedone, 96a-102a)” (cfr. Reale 1984: 137-158), nonché nei §§ 17 e 18, intitolati rispettivamente “Platone e la seconda navigazione” e “Agostino e la terza navigazione: ‘nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla Croce di Cristo’”, del suo saggio introduttivo alla traduzione italiana di alcuni commenti di Agostino a Giovanni (cfr. Reale 1994: 49-55), Reale offre la sua interpretazione, ispirata al suo peculiare storicismo cristiano, della progressiva spiritualizzazione della nozione anassagorea di Intelletto. Si segnala qui tutto questo semplicemente per porre in una luce adeguata il fatto memetico che quella di Reale può essere considerata un tipico esempio di grande mente storico-filosofica controllata fino alla fine da una versione sofisticata del meme di Anassagora, come dimostra chiaramente il passo dell’intervista usato come epigrafe di questa Conclusione.

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principalmente a Dawkins e a Dennett, ci consentirà di sintetizzare l’orizzonte filosofico e concettuale entro il quale il presente lavoro si muove per scelta di campo. Il matematico e statistico israelo-americano Amir D. Aczel, esperto anche di paleoantropologia e fisica quantistica (ha pubblicato, tra l’altro, monografie sull’ultimo teorema di Fermat, sul cosiddetto Uomo di Pechino e sull’Entanglement), si propone nel suo Perché la scienza non nega Dio (Aczel 2014) il compito di disperdere il drappello dei cosiddetti Neoatei, i quali si sarebbero arrogati il diritto di stabilire che le attuali conoscenze scientifiche in campo fisico e biologico sono in grado di escludere un intervento divino per la spiegazione dell’origine del mondo e della vita. Nell’Introduzione e nel Prologo Aczel indica chiaramente l’occasione e il bersaglio del libro. Nel novembre del 2010, partecipando a Puebla (Messico) a un dibattito pubblico nell’ambito de La Ciudad de las Ideas, egli sentì Dawkins fare un’affermazione sorprendente su un campo di studio non suo: la fisica odierna ci consente di escludere il creazionismo. Come poteva l’autore de L’illusione di Dio spacciarsi per uno così competente in fisica e matematica da sostenere una tesi tanto impegnativa? Fu così che Aczel decise di scrivere il suo libro, il cui scopo è demolire non solo la tesi di Dawkins, ma tutto il movimento del New Atheism, promosso da un gruppo di sodali costituito principalmente, oltre che dallo stesso Dawkins, da Daniel Dennett, Sam Harris, Christopher Hitchens e Lawrence Krauss, che in aggiunta godono dell’appoggio esterno di scienziati come Stephen Hawking, autore, insieme a Leonard Mlodinow, di un libro di cosmologia pura in cui si sostiene la tesi che non c’è alcun bisogno di un intervento divino per spiegare la genesi dell’universo (cfr. Hawking e Mlodinow 2010). Aczel sa bene che il suo libro è destinato a suscitare delle polemiche, ma l’amore per la verità esige coraggio: «Come scrittore di scienza che si è costruito una carriera riferendo di alcuni dei più complessi ed eccitanti progressi dell’indagine empirica e della matematica nell’ultimo quarto di secolo, mi rendo conto che nel pubblicare un libro del genere corro un certo rischio. In queste pagine, infatti, critico i ragionamenti di molti insigni scienziati e pensatori, e comprendo che, verosimilmente, ciò a sua volta mi porterà degli attacchi. Ma avverto in modo assai deciso che l’integrità della scienza è stata compromessa da alcuni scienziati e

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divulgatori, e come sia importante rimettere a posto le cose ristabilendo la distinzione fra logica rigorosa e supposizione improbabile» (Aczel 2014: XV). Il risultato di questi nobili intenti è un libro pieno di dottrina fisico-matematica che tuttavia esibisce, sul piano logico-filosofico, un’approssimazione a tratti imbarazzante e in ultima analisi riporta il dibattito indietro di molti anni rispetto, per esempio, ai testi che intende demolire, come Dennett 1991a e 1995 e soprattutto Dawkins 2006. Se proviamo a dare uno sguardo analitico ravvicinato a una buona parte dei capitoli del libro, vedremo come Aczel usi tutta la sua competenza scientifica per sostenere una tesi cosmologica sostanzialmente identica, se non altro sul piano del semplice schema esplicativo di fondo, a quella contenuta nel frammento 12 di Anassagora. Nel primo capitolo, intitolato “La coevoluzione della scienza e della religione”, Aczel lascia intendere che una carrellata paleoantropologica di preistoria e storia delle religioni, dalla Venere di Willendorf alla Vergine Maria, viste come rappresentazioni materne di forze naturali legate alla fertilità, abbia qualcosa a che vedere con le critiche dei Neoatei alle religioni e addirittura illustri il nesso di parentela strettissima tra l’odierna fisica delle forze fondamentali e gli antichi culti della fertilità e delle altre forze della natura (alle pp. 12-13 egli insinua, per esempio, che il modus operandi della divinità egizia nht, di cui si parla in un papiro risalente al XII secolo a. C. e conservato al British Museum, sia straordinariamente simile al modo in cui la forza nucleare debole agisce attraverso i bosoni W e Z). Aczel, inoltre, attribuisce ai Neoatei le tesi seguenti: a) la religione è il male (ivi: XXVI); b) la morale non ha niente a che vedere con la religione (ivi: 21). E sostiene, sulla base del solito assunto secondo cui la spiritualità sembra “insita nella natura umana” (ivi: 3), che: a’) la moralità e i codici comportamentali delle prime forme di civiltà hanno avuto origine con le prime religioni (ivi: 13); b’) la religione ha favorito la conoscenza scientifica, come è dimostrato per esempio dalla tecnologia architettonica implicita nella realizzazione delle cattedrali gotiche (ivi: 19).

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Ora, è evidente che nessun Neoateo sostiene a). A proposito di b), la tesi Neoatea è semmai che la religione non è necessaria per fondare sistemi etici, contrariamente a quanto si è sostenuto per buona parte del pensiero occidentale, per esempio da Agostino a Kant. A riprova di ciò, alcune scoperte recenti sui primati mostrano che anche i cugini degli umani (e altri mammiferi), pur privi di sistemi culturali elaborati, sono dotati di intuizioni che diremmo “etiche” (cfr., per esempio, De Waal 2013), per cui oggi c’è un certo accordo sulla falsità di a’). Nessun Neoateo si sognerebbe di sostenere che il pensiero filosofico-religioso non abbia contribuito all’elaborazione di nozioni morali. Quindi Aczel ha ragione a dire che b) è sbagliata, ma ha torto a pensare che si tratti di un “elemento cardine” del Neoateismo. Infine, b’) è una ovvietà assoluta nella misura in cui dice che l’architettura religiosa ha consentito di porre e risolvere problemi di tecnologia delle costruzioni, ma è falsa nella misura in cui insinua che lo sviluppo della tecnologia abbia fondamenti esclusivamente religiosi (la tesi del capitolo, peraltro, è illustrata nel titolo). Nel quinto capitolo, “Einstein, Dio e il Big Bang”, una rapida esposizione delle teorie della relatività, dell’espansione dell’universo e del Big Bang serve ad Aczel per sistemare alcuni cavalli di Troia cui tipicamente fanno ricorso i sostenitori del disegno intelligente per sostenere l’idea che la stessa teoria del Big Bang (introdotta dal sacerdote cattolico belga Lemaître, rileva Aczel) imponga di pensare a qualcuno o qualcosa che lo precede e rende possibile (cfr. ivi: 65). L’occasione è offerta dalla vicenda dell’errore di Einstein sulla costante cosmologica, un dispositivo matematico inserito nelle equazioni per costringere l’universo all’immobilità. E così, fino ai primi anni Trenta, quando cioè dovette cambiare idea in seguito alla scoperta di Hubble dell’espansione dell’universo, Einstein rimase convinto che questo fosse statico, ingenerato e imperituro. Questa vicenda, ci rivela Aczel, dimostra che anche le menti scientifiche e matematiche più formidabili possono sbagliare, se gli assunti da cui muovono le loro eleganti e inesorabili equazioni sono errati. Nel caso specifico, a vedere giusto e meglio di Einstein erano stati gli antichi estensori della Genesi, che avevano parlato di un universo creato da una potenza superiore in un lampo di luce. Naturalmente Aczel si guarda bene dal dire che di miti e teorie sulla nascita dell’universo

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analoghi a quello della Genesi sono piene la letteratura e la filosofia antiche (da Esiodo a Ovidio, da Platone a Lucrezio). Il capitolo si conclude con la solita discussione sulla posizione di Einstein rispetto a Dio, dopo un rapido accenno alla nozione di “superforza”, che ha caratteristiche tali da poter essere chiamata Dio (cfr. ivi: 66). Aczel, dunque, costruisce uno straw man e insinua che Einstein sia l’icona atea per eccellenza per i Neoatei, e così può divertirsi a demolire questo fantoccio rielencando le ben note frasi ambigue di Einstein su Dio, sul suo spinozismo e sulla sua idea che le leggi della fisica siano opera di una potenza superiore. Il trucco logico-retorico su cui si basa questo capitolo è chiaro: si usano affermazioni di fisici teorici (in questo caso Steven Weinberg: cfr. ivi: 65) sull’impossibilità di definire lo stato delle cose nel punto di singolarità del Big Bang (dove le leggi fisiche perdono il loro significato) e soprattutto “prima”, per dire che ciò rende sensata e non incompatibile con la scienza l’ipotesi di un intervento divino (guarda caso da parte del dio biblico), tacendo del fatto puramente logico che ciò rende altrettanto plausibili in teoria un’infinità di altre ipotesi. La strategia retorica cui ricorre Aczel nel sesto capitolo, “Dio e la fisica quantistica”, in maniera se possibile ancora più evidente rispetto al capitolo precedente, è la regola aurea del polverone. Essendo un esperto di fisica quantistica, Aczel offre una brillante panoramica introduttiva sulle nozioni principali e più note di questa disciplina, dal gatto di Schrödinger al principio di indeterminazione di Heisenberg, dall’Entanglement all’interpretazione a molti mondi di Hugh Everett III, dall’esperimento della doppia fenditura all’approccio ogni-cammino di Feynman (in particolare nell’interpretazione proposta da Stephen Hawking e Leonard Mlodinow), dalla teoria della “Realtà velata” di Bernard d’Espagnat alla nozione di beable di John Bell. Lo scopo di tutto ciò, in relazione al tema del libro, è duplice: da un lato Aczel intende mostrare come la fisica quantistica ci restituisca un’immagine così enigmatica e imprecisa della realtà che siamo costretti a riconoscere di non essere dotati delle capacità di concettualizzazione adatte per comprenderne l’intima natura, dall’altro egli mira a screditare quei Neoatei (come Lawrence Krauss) che, presumendo di aver compreso la teoria, asseriscono che essa ci dice che Dio non serve, dato che le leggi che essa postula spiegano la nascita dell’universo “dal nulla quantistico” (cfr. ivi: 74). In relazione al primo punto, e sulla base di d’Espagnat, Aczel insinua

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l’idea che, così come noi siamo più bravi degli altri animali a concettualizzare, dovremmo accettare la possibilità che ci sia una mente con capacità di comprensione superiore alla nostra, che sia soprattutto in grado di capire appieno la teoria dei quanti e conoscere così la vera Realtà da essa esibita dietro il velo, che per noi è del tutto controintuitiva (cfr. ivi: 81 e 83). In relazione al secondo punto, sviluppato nel capitolo successivo, il messaggio è che chiunque pensi di appoggiarsi alla per noi incomprensibile immagine della realtà restituitaci dalla meccanica quantistica per fare asserzioni sull’ipotesi di Dio, non solo compie un ingiustificato salto logico, ma è pure una sorta di millantatore che al massimo crede di aver capito una teoria le cui implicazioni sono sostanzialmente fuori dalla portata delle attuali capacità cognitive umane. Ancora una volta, Aczel dà per scontato che tutto ciò che sfugge alla nostra comprensione rimandi automaticamente al dio della tradizione ebraico-cristiana (o a qualcosa di molto simile), come se nient’altro fosse concepibile. L’ottavo capitolo, “E l’ottavo giorno Dio creò il multiverso”, prende le mosse dalla rievocazione di un episodio spiacevole accaduto ad Aczel nel 2011. Invitato a un dibattito pubblico sul libro di un fisico che credeva suo amico (La realtà nascosta. Universi paralleli e leggi profonde dl cosmo di Brian Greene), Aczel si trovò di fronte a un muro di silenzio tutte le volte che chiedeva all’autore di difendere con prove sperimentali la propria teoria del multiverso. Attraverso il libro di Greene, Aczel illustra le quattro teorie che implicano in modo indipendente la nozione di multiverso: 1) l’ipotesi di Alan Guth dell’universo inflazionario (che ipotizza non osservabili derive inflazionarie di porzioni del nostro universo); 2) l’interpretazione a molti mondi di Hugh Everett III della funzione d’onda delle entità a comportamento quantistico (è quella preferita da Greene); 3) la teoria puramente matematica delle stringhe di Gabriele Veneziano e Edward Witten (che deduce delle entità del cosmo da semplici equazioni); 4) il principio antropico (che, contrariamente alle prime tre, non dispone nemmeno di una teoria sul meccanismo di generazione

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degli altri universi e deduce in maniera puramente speculativa universi governati da pacchetti di leggi fisiche ostili alla nostra esistenza). La critica alle varie teorie sul multiverso serve qui ad Aczel per difendere due tesi: a) se anche la nozione di multiverso fosse plausibile, essa, contrariamente a quanto pensano gli atei (che a suo parere la accolgono tutti con entusiasmo), lascerebbe indecisa la questione dell’esistenza di Dio (cfr. ivi: 102). Non è vero, infatti, che il multiverso renda irrilevante l’idea del creatore del nostro universo, che sarebbe solo uno tra i tanti (se non infiniti) universi che costituiscono il sottoprodotto di leggi quantistiche; un modo alternativo di ragionare, infatti, impone di pensare che «se esistono svariati, forse infiniti, universi, allora qualsiasi cosa li abbia creati deve essere ancora più potente di qualsiasi cosa abbiamo mai contemplato prima» (ivi: 101. Si noti il ricorso all’antico sofisma aristotelico-tomista della catena graduata delle cause, già smascherato dai mai citati Hume e Kant); b) la nozione di multiverso non è controllabile sperimentalmente, è troppo speculativa e non è parsimoniosa (in effetti costituisce una plateale violazione della regola di Occam), senza contare che alcuni fisici la difendono solo perché sono certe equazioni astratte ad imporla. Sull’ultimo punto Aczel ha indubbiamente ragione, perché certi fisici teorici rischiano di introdurre fino a undici dimensioni sulla base di nient’altro che prove a priori matematico-ontologiche. E tuttavia, pur in un contesto in cui sembra in grado di sbaragliare gli avversari, Aczel tradisce una superficialità notevole nel momento in cui deve attaccare il nemico principale. Nelle ultime pagine del capitolo, infatti, egli cita maliziosamente un passo de L’illusione di Dio (che si trova alle pp. 149-150 dell’edizione italiana). Dawkins, di cui Aczel sottolinea con compiacimento la mancanza di adeguata competenza in campo fisico e matematico (cfr. ad es. ivi: XI, 101 e 109), si mostra sedotto dall’idea di multiverso e la difende dicendo che chi la considera un “lusso sfrenato” al pari di quella di Dio non è stato ancora illuminato dalla selezione naturale. Aczel sottolinea correttamente che qui Dawkins sottovaluta quanto sia davvero “sfrenata” la “pletora di universi”, ma aggiunge sorprendentemente che nessuno sa cosa

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c’entri il multiverso con la slezione naturale (cfr. ivi: 101). Questa osservazione smaschera da sola una frequentazione a dir poco superficiale con l’autore e soprattutto con l’opera che Aczel intende demolire, perché il passo da lui stesso citato segue immediatamente la densa sintesi da parte di Dawkins della controversa variante darwiniana della teoria del multiverso avanzata nel 1997 da Lee Smolin nel suo La vita del cosmo (una variante cui Aczel, peraltro, non fa mai alcun cenno nel libro), dove il nesso tra multiverso e selezione naturale delle mutazioni nel pacchetto delle leggi fisiche degli universi-figli è invece illustrato con una chiarezza esemplare: Un altro fisico teorico, Lee Smolin, ha ideato un’affascinante variante darwiniana della teoria del multiverso che include elementi sia seriali sia paralleli. La teoria, esposta in La vita del cosmo, si basa sull’ipotesi che universi figli nascano da universi padri, non in un vero e proprio Big Crunch, ma, più localmente, in buchi neri. Smolin aggiunge una forma di eredità: le costanti fondamentali di un universo figlio sono versioni leggermente «mutate» delle costanti dell’universo padre. L’eredità è l’ingrediente essenziale della selezione naturale darwiniana e il resto della teoria di Smolin consegue in maniera naturale da tali premesse. Gli universi che hanno quanto occorre per «sopravvivere» e «riprodursi» finiscono per prevalere nel multiverso. Tra «quanto occorre» è compreso il durare abbastanza a lungo da «riprodursi». Poiché l’atto della riproduzione ha luogo nei buchi neri, gli universi di successo devono avere quanto occorre per produrre buchi neri. Questa capacità implica varie altre proprietà. La tendenza della materia a condensarsi in nubi e poi in stelle è, per esempio, un prerequisito per la produzione di buchi neri. Inoltre, come abbiamo visto, le stelle sono i precursori dello sviluppo di una chimica e dunque della vita. Smolin suggerisce quindi che ci sia stata una selezione naturale darwiniana, degli universi nel multiverso, e che questa selezione abbia favorito in maniera diretta l’evolversi della fecondità dei buchi neri e in maniera indiretta il formarsi della vita. Non tutti i fisici apprezzano la sua teoria, ma pare che il premio Nobel Murray Gell-Man abbia detto: «Smolin? È quel giovane con quelle idee folli? Chissà, forse non ha neanche torto». Un biologo malizioso potrebbe chiedersi a questo punto se non vi siano anche altri fisici che hanno bisogno di un darwiniano risveglio della coscienza (Dawkins 2006: 149).

E si noti inoltre che la teoria di Smolin è discussa anche da Roger Penrose nel § 28.6, dedicato al principio antropico, de La strada che porta alla realtà (cfr. Penrose 2004: 824), appena un paio di pagine prima rispetto a quelle, più volte citate da Aczel (cfr. Aczel 2014: 130, 131 e 185), in cui Penrose assegna a por-

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zioni di universo dotati di vita e intelligenza probabilità evanescenti, dell’ordine di 1 su 10 elevato a un numero come 10 elevato a 117 (cfr. Penrose 2004: 826). Lo schema argomentativo del nono capitolo, “La matematica, le probabilità e Dio”, può essere descritto nei termini seguenti: la matematica, che in sé possiede uno statuto ontologico metafisico, ha un’importanza imprescindibile per la scienza, al punto che chi (come Dawkins e i teorici del multiverso) non la padroneggia adeguatamente è condannato a un vaneggiamento pseudoscientifico e a un ateismo frutto di pura disinformazione. Per difendere una tesi così impegnativa, Aczel ricorre a dei trucchi davvero interessanti, che sono una piccola summa di scorrettezze nell’uso delle fonti. Includendo se stesso tra i matematici platonisti (per i quali gli enti matematici esistono in un mondo astratto separato, creato da una qualche forza esterna, «per esempio, Dio», Aczel 2014: 103), egli si richiama alla teoria dei tre mondi presentata da Penrose nel § 1.3 de La strada che porta alla realtà. E già qui è curioso il modo di procedere di Aczel. Se si va a vedere il ponderoso volume di Penrose, si scopre - come abbiamo già visto qui in I.4 - che l’autore presenta ben tre versioni della teoria, due nel luogo suddetto e una nel § 34.6. La terza è un ulteriore arricchimento in chiave platonizzante della prima, che è quella sostenuta da Penrose. La seconda, invece, Penrose la presenta come concessione a coloro che, magari ispirati da concezioni dualistiche di matrice religiosa in merito al rapporto mentecorpo, rifiutano i suoi “pregiudizi” di scienziato (come li chiama lui stesso). Ebbene, nella sua ripresa della teoria, Aczel non fa alcun cenno alle tre versioni e punta direttamente su quest’ultima, come se fosse quella di Penrose (ingannando così il lettore). In questa versione, i tre mondi (quello fisico, quello mentale e quello matematico) si intersecano parzialmente, per cui, per esempio, solo una parte di quello mentale deriva da quello fisico, solo una parte di quest’ultimo è accessibile alla mente con strumenti matematici e solo una parte del mondo matematico è accessibile alla mente ed è rappresentato nelle leggi del mondo fisico. Lo scopo ideologico preciso di questo uso distorto di Penrose (del quale Aczel non a caso sottolinea la dipendenza dai ben noti risultati di Gödel) è chiaro: «Le conclusioni di Penrose sono molto profonde e affrontano il tema di questo libro dicendoci che la scienza ha dei limiti. Limiti che emergono dal fatto che, forse, non tutto in natura può essere affrontato matematicamente, non tutto il contenuto

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della matematica è accessibile alla nostra mente e la mente umana stessa può non essere del tutto governata e derivata da strutture puramente fisiche, materiali» (ivi: 107). Aczel, con mossa tipica (l’aveva già fatta Kant), celebra i limiti della scienza perché è più interessato a ciò che sta al di là di essi e alla scorciatoia fideistica per raggiungerlo. Stabilito il senso della capacità quasi miracolosa della matematica di rappresentare il mondo fisico con le sue entità apparentemente estranee alla realtà (e a tal proposito ricorda che la misteriosa equazione della curva di Gauss, che serve a rappresentare distribuzioni di probabilità in una popolazione, contiene il pi greco: cfr. ivi: 108), Aczel attacca alcuni brevi passi del secondo capitolo de L’illusione di Dio, dove, a suo dire, Dawkins si dimostra un perfetto incompetente in statistica e calcolo delle probabilità. Il problema è che la lezione di matematica qui impartita da Aczel è ineccepibile, solo che è rivolta a uno straw man costruito con alcune citazioni opportunamente estrapolate da un contesto ben più denso. Se infatti si va a controllare alla fonte l’obiezione probabilistica di Dawkins all’esistenza di Dio, si scopre che Aczel va clamorosamente fuori bersaglio, inducendo addirittura il lettore a credere che Dawkins non sia nemmeno in grado di capire né come si assegna una probabilità di 1/2 in una situazione in cui ci siano solo due alternative (Dio esiste o non esiste: cfr. ivi: 109111) né come si valuta la rappresentatività di un elementare sondaggio statistico (cfr. ivi: 113-114). In realtà, il punto della tesi di Dawkins nel discutere la “miseria dell’agnosticismo” di Thomas Huxley (e poi dei “magisteri non sovrapposti” di Stephen Jay Gould) è un altro. Secondo Dawkins, attribuire astrattamente un 50% a testa alle due opzioni su Dio è errato nella misura in cui si sgancia la questione dai dati forniti dalla conoscenza scientifica del mondo. L’argomento, qui del tutto ignorato da Aczel, è in sintesi il seguente. Le migliori conoscenze fisico-biologiche a nostra disposizione ci dicono che le capacità mentali umane sono un prodotto assai improbabile e piuttosto recente della storia del mondo e della vita; l’ipotesi di una mente sovrumana in grado addirittura di pianificare e costruire un universo non solo fa riferimento a un oggetto infinitamente più improbabile della mente umana, ma lo colloca addirittura prima della formazione degli elementi chimici, che sono una pre-condizione imprescindibile per la nostra esistenza (né ci è dato sapere come possa formarsi una mente senza materia organica e inorganica); di conseguenza, l’esistenza di una

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siffatta mente creatrice esiste con probabilità praticamente indistinguibile dallo zero. Da parte sua, Aczel sostiene che Dawkins e i teorici del multiverso hanno anche il problema di «una scarsa comprensione del concetto matematico di infinito» (ivi: 117). A suo dire, costoro non si rendono conto che, mettendo insieme probabilità non nulle (per quanto basse) e un’infinità di possibilità a disposizione, si può dimostrare qualsiasi cosa con probabilità massima, secondo il seguente principio: «In un numero infinito di test, qualsiasi risultato che abbia una probabilità diversa da zero di essere ottenuto alla fine lo sarà - e di fatto si verificherà infinite volte» (ivi: 115). Ora, secondo Aczel tutti i sostenitori del multiverso, postulando infiniti universi, cadono in questa fallacia (la stessa, egli nota, di quelli che pensano di provare qualcosa con la classica immagine della scimmia che, avendo a disposizione un tempo infinito, digita al computer la sequenza di lettere che costituisce l’Amleto), anche se lui lo dimostra solo nel caso del principio antropico, che infallibilmente è in grado di trovare a priori quella combinazione di parametri fisici che rendono per noi disponibile e abitabile l’universo (cfr. ivi: 117)153. Come abbiamo visto, però, Dawkins si ispira al modello di Lee Smolin, che Aczel non cita mai, nemmeno per rigettarlo. Riformulando tutto in chiave di teoria dell’informazione, Aczel cade nel bias cognitivo tipico di chi si lascia condurre dall’iperattività del meccanismo cognitivo dell’attribuzione di in-

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A proposito della fallacia delle probabilità combinate con l’infinito, vale la pena osservare che una sua esposizione pressoché definitiva si trova nel § 67 di Popper 1934 (209-211), mai citato da Aczel. Ma è ancora più interessante osservare che Aczel trascura un altro fatto relativo a Popper, che invece avrebbe fatto bene a tenere presente e a discutere, perché mina le basi di tutto il suo libro. Nella nota 66 (e nel testo relativo) dell’undicesimo capitolo di Popper 1963 (471-472) si trova una dimostrazione logica che la fallacia in questione è alla base della “formula metafisica per eccellenza”, cioè dell’enunciato “Esiste qualcosa che ha la proprietà di essere Dio”, il quale in un dominio attualmente o potenzialmente infinito è logicamente vero ed empiricamente vuoto, proprio come il principio antropico e l’eterno ritorno. Un uso simile di Popper in un contesto di questo genere (ma con riferimento ad altri luoghi testuali) si trova in Stenger 2007: 24-25. Aczel avrebbe fatto meglio a confrontarsi con questo libro mai citato, scritto da un astronomo fisico, perché esso rappresenta il tentativo concettuale esattamente opposto al suo ed è ricco di argute contro-argomentazioni neoatee sull’ipotesi Dio.

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tenzionalità: posto che l’universo e la vita siano riducibili a pacchetti di informazione, ovvero a regole costitutive codificate, CHI ha creato questi pacchetti? Ecco che l’ipotesi di un “qualcosa”, di “un qualche potere o forza esterna”, diventa “praticabile” (ivi: 118), come se in tal modo il problema non si trasformasse in quello, ben più difficile, di capire chi abbia creato il super-pacchetto di informazioni implementato in una siffatta intelligenza sovrumana (a questa obiezione classica Aczel risponderà nella Conclusione). L’undicesimo capitolo, “Fra Dio e il principio antropico”, è «il più importante di tutto il libro», dice subito Aczel. Il lettore, però, non ha affatto questa impressione, perché il capitolo sembra non aggiungere nulla a quanto già detto. Prima facie, si tratta di un’esplicitazione più dettagliata del principio antropico e dei suoi limiti esplicativi, cui già si era fatto cenno nell’ottavo capitolo. Ma allora dove sta l’importanza di questo capitolo? Un indizio è già nel titolo: Aczel vuole impiantare nella mente del lettore una falsa dicotomia attraverso la ben nota strategia della falsa equivalenza. Presentando la tesi creazionista come opzione in gioco equivalente alle altre nell’agone del dibattito scientifico sulla cosmologia, Aczel cerca di rafforzarla smascherando con decisione (e anche con qualche colpo basso) la debolezza del principio antropico, dopo aver preparato il campo in modo da lasciar intendere che l’alternativa sia fondamentalmente tra queste due ipotesi, tra le quali la scienza non sarebbe in grado di decidere: «Se voleste controllare quale ipotesi sia vera, un universo creato con specifici requisiti, o un universo che soddisfa i requisiti soltanto perché li osserviamo, vi accorgereste che non vi è alcuna maniera scientifica di determinare la risposta» (ivi: 138). La strategia retorica del capitolo, dunque, è piuttosto comune, perché si basa su una ben nota fallacia: nessuno scienziato serio, infatti, potrebbe ritenere che nozioni come il multiverso e il principio antropico, per quanto problematiche, fiorite di recente nel corso di un dibattito specialistico, siano equivalenti a un’idea mitologica (o al più metafisica) risalente a oltre due millenni fa. Chi lo fa agisce in questo modo o per ragioni apologetiche o, come abbiamo visto con Shermer, semplicemente per tentare di giustificare razionalmente un sistema di credenze mitiche, ereditato nel corso dell’infanzia dalla famiglia per trasmissione culturale, cui non riesce a rinunciare per una forma di resistenza psicologica e culturale.

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È già rivelatore il modo in cui Aczel cerca di usare la debolezza del principio antropico per screditare Dawkins, il quale, nella nota 24 del quarto capitolo de L’illusione di Dio dichiara di trovare tale principio un’idea “bella”, malgrado l’avversione dei fisici, perché la coniuga con la selezione naturale (cfr. Dawkins 2006: 376). Come già detto, Aczel non prova mai nemmeno a illustrare questa sintesi concettuale, che Dawkins desume da Lee Smolin. A lui interessa sottolineare due cose: 1) i Neoatei come Dawkins vanno a nozze con il principio antropico (cfr. Aczel 2014: 129), mentre 2) parecchi fisici lo avversano per la sua inconsistenza esplicativa (esso in fondo dice che le cose sono come sono perché altrimenti non saremmo qui a chiederci perché mai siano così: cfr. ivi: 133). In tal modo, Aczel prende due piccioni con una fava: scredita i Neoatei, in quanto ingenui sostenitori di una tautologia avversata dai veri scienziati, e nel contempo rafforza indirettamente la reputazione dell’altro corno dell’antinomia, cioè l’ipotesi creazionista («Il principio antropico non è un buon sostituto di Dio»: ivi: 133). È importante però sottolineare che il primo punto è falso, per almeno due ragioni che peraltro stanno sotto gli occhi di Aczel. In primo luogo, nelle pagine del quarto capitolo de L’illusione di Dio dedicate al principio antropico, cui Aczel sta facendo riferimento, Dawkins rileva di passaggio che esso, invece, è molto amato (perché frainteso) dagli “apologeti della religione” (Dawkins 2006: 139, mai citato da Aczel). In secondo luogo, un altro Neoateo bersaglio del libro, cioè Dennett, nel § 7.3 de L’idea pericolosa di Darwin (un’opera che pure compare nella bibliografia di Aczel) discute il principio antropico in un modo che è molto lontano da quello che vuol fare intendere Aczel. Dennett, infatti, è dell’idea che, nella sua forma debole, tale principio non sia altro che una banale e innocua formulazione del modus ponens, mentre nella sua forma forte è una equivoca e insostenibile versione mascherata di una sorta di finalismo provvidenzialistico e antropocentrico (cfr. Dennett 1995: 208-209). Come si vede, dunque, la tesi di Aczel secondo cui il principio antropico sarebbe una sorta di paradiso concettuale dei Neoatei come Dawkins e Dennett è platealmente falsa. Perché i parametri, le costanti, le forze e le leggi della fisica sembrano sintonizzati in modo da consentire un universo abitabile da noi? Nessuno lo sa, anche se sappiamo che leggere variazioni della sola gravità renderebbero impossibile la vita sulla Terra

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come la conosciamo. Perché le cariche dei quark sono 2/3 per il tipo alto e -1/3 per il tipo basso, sicché combinandosi in un modo preciso a tre a tre (2/3 + 2/3 - 1/3 = 1 e 2/3 - 1/3 -1/3 = 0) danno vita a protoni (carica + 1) e neutroni (carica 0), le particelle che insieme agli elettroni (carica -1) costituiscono gli atomi, cioè tutta la materia dell’universo? Nessuno lo sa e la risposta antropica (se non fosse così noi non ci saremmo) è insoddisfacente (cfr. Aczel 2014:138-139). E dunque, conclude trionfalmente Aczel, dopo aver impostato chiarissimamente la sua falsa dicotomia («si tratta, in fondo, di Dio o del principio antropico?», ivi: 139): «dal momento che il principio antropico, come si è visto, è così insoddisfacente, si dovrebbero prendere in considerazione altre ipotesi, che possono includere un intento divino, o per lo meno qualcosa che è oltre la nostra attuale capacità di comprensione» (ivi: 140). Da manuale delle fallacie logiche, si direbbe, anche se Aczel aveva superato se stesso in precedenza con l’ipse dixit, allorché aveva riportato, come se avesse una qualche rilevanza scientifica o anche solo filosofica, la battuta che nel 1981 Giovanni Paolo II pare abbia rivolto a Stephen Hawking in Vaticano: è inutile che gli uomini ci provino, avrebbe detto il papa, perché la conoscenza del momento esatto della nascita dell’universo è qualcosa che può giungerci solo dalla rivelazione di Dio (cfr. ivi: 132). Con il capitolo dodicesimo, “I limiti dell’evoluzione”, Aczel tocca il punto forse più basso dal punto di vista sia concettuale sia dell’onestà intellettuale, perché alle banali fallacie logiche aggiunge delle scorrettezze ad personam nei confronti non solo del solito Dawkins ma anche di Dennett. Il capitolo si apre con un ampio tributo ai meriti di Darwin: dopo una piccola carrellata sui precursori (Linneo, Cuvier, Lamarck e il nonno Erasmus), Aczel racconta con apparente entusiasmo la rivoluzione darwiniana, dal viaggio intorno al mondo a bordo del brigantino Beagle alla pubblicazione de L’origine delle specie, fino alle controversie per far accettare la teoria, affrontate con a fianco il suo bulldog Thomas Huxley. Le cose cominciano a prendere la piega prevista quando Aczel riporta il celebre passo finale de L’origine delle specie e sottolinea che in esso è lasciato uno spazio al “creatore” delle “diverse forze” evolutive “originariamente impresse... in poche forme, o in una forma sola” (cfr. ivi: 144). Questo dà ad Aczel lo spunto per richiamarsi alla posizione dell’ultimo Gould, il quale, pur dichiarandosi ateo, considerava la religione e la scienza due

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magisteri non sovrapponibili e liberi di svilupparsi nei propri ambiti rispettivi e mostrava simpatia per coloro che, da una posizione religiosa, accettano e addirittura arricchiscono la teoria dell’evoluzione. Questi ultimi hanno un celebre capostipite in Teilhard de Chardin, cui Aczel non manca di rendere omaggio come fervente credente, evoluzionista e paleontologo (cfr. ivi: 147-148). Naturalmente Aczel non entra nel merito della critica serrata di Dawkins alla posizione espressa da Gould ne I pilastri del tempo (1999), premendogli di più dipingere il primo come un ateo scientista un po’ fanatico e intollerante e il secondo come uno scienziato “imparziale e obiettivo” attraverso la citazione di un passo de L’illusione di Dio in cui Dawkins accusa Gould di scarsa sincerità (cfr. ivi: 146). Adesso Dawkins è descritto come uno “appassionatamente convinto che Dio non esista”, una sorta di religioso evangelizzatore teso alla conversione dei credenti alla fede atea (cfr. ivi: 154), mentre lo stesso Aczel nel Prologo (cfr. ivi: XXII) aveva ricordato che Dawkins, a p. 57 de L’illusione di Dio, si autocollocava tra gli atei de facto (che assegnano a Dio probabilità bassissime, ma non nulle), distinguendosi dagli “atei convinti” (che invece assegnano a Dio probabilità zero), verso i quali tuttavia inclina (cfr. Dawkins 2006: 58). Né Aczel si preoccupa di esaminare la critica precisa che a Gould rivolge Dennett in Rompere l’incantesimo (cfr. in particolare Dennett 2006: 32), un testo da lui mai citato; piuttosto si limita a insultare lui e la moglie che, contrariamente alle suore, ai rabbini e agli imam, i quali sono sempre pronti a soccorrere i bisognosi, solitamente organizzano e partecipano a crociere per atei ricchi come loro (cfr. Aczel 2014: 151152). La cosa straordinaria di questo capitolo è che si tratta di un perfetto esempio di culto delle lacune, cioè della “fallacia del Dio delle lacune”, cui Dawkins dedica un intero paragrafo nel quarto capitolo de L’illusione di Dio (superficialmente evocato dallo stesso Aczel negli ultimi capoversi: cfr. ivi: 155). Dopo aver tessuto le lodi della teoria darwiniana come strumento in grado di spiegare tutto l’albero della vita, Aczel si butta a capofitto sulle sue (spesso presunte) lacune, naturalmente al solo scopo di lasciare spazio all’ipotesi creazionista, come se ogni difficoltà della teoria di Darwin implicasse automaticamente l’assegnazione di un punto a favore dell’ipotesi dell’intervento sovrannaturale (come direbbe Dennett, Aczel muore dalla voglia di aggrapparsi a ganci appesi al cielo). A tal proposito, egli cita fenomeni che per lui sono

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assolutamente fuori dalla portata di una spiegazione evoluzionistica, come la coda del pavone e l’altruismo disinteressato che si riscontra negli uomini e che talvolta sfocia nell’autolesionismo. Quest’ultimo, secondo Aczel (al quale sfugge la circolarità del ragionamento), non può essere spiegato con il vantaggio genetico, ma occorre fare appello alla moralità e alla generosità umane (cfr. ivi: 151). Sarebbe troppo semplice evidenziare qui la limitata conoscenza di Aczel del dibattito su questi temi interno al neodarwinismo, che per esempio lo spinge ad identificare le spiegazioni evoluzionistiche con quelle che riconducono o tentano di ricondurre tutti i comportamenti (anche quelli trasmessi per via culturale) al semplice vantaggio dei geni di chi li esibisce (pur parlando di Dawkins e Dennett, Aczel non fa mai alcun cenno alla teoria dei memi, che pure è ampiamente presente in tutte le opere dei due autori che lui tiene in considerazione). Basterà qui osservare che la sua ansia di misteri irrisolti per l’evoluzionismo lo porta a scrivere una cosa chiaramente falsa come la seguente: «Dawkins, per citare uno dei Neoatei, non si preoccupa delle domande alle quali l’evoluzione non è stata in grado di fornire risposta: come abbia avuto origine la vita sulla Terra, come si sia arrivati alle cellule eucariotiche, come si siano sviluppate l’intelligenza e la coscienza» (ivi: 155). Oltre a L’illusione di Dio, in bibliografia Aczel riporta anche Il gene egoista; ebbene, pur senza contare testi notissimi come L’orologiaio cieco, in quei due testi Dawkins affronta ampiamente le “domande” citate da Aczel. Non solo, ma esse sono alla base dei ponderosi Coscienza e L’idea pericolosa di Darwin di Dennett, entrambi presenti nella bibliografia di Aczel. Ma una scorrettezza se possibile ancora più grave Aczel la commette a pagina 152, allorché propone una tabella in cui mette a confronto la meccanica quantistica e la teoria dell’evoluzione (entrambe care ai Neoatei; e si noti la sottile insinuazione): mentre la prima è estremamente matematica, capace di predizioni probabilistiche verificabili, ricca di formule precise, confermata in modo sbalorditivo, senza sostegni naturali, precisissima e dotata di principi complicati, la seconda è non matematica, incapace di fare predizioni affidabili, povera di formule matematiche, non ancora confermata con precisione, capace di descrivere direttamente la natura, generica e dotata di principi in apparenza semplici. Tutto ciò per dire (come se questo quadro epistemologico aumentasse la plausibilità di un intervento divino) che la teoria dell’evoluzione

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è incompleta, perché spiega molto ma non produce predizioni, e addirittura non è in grado non solo di predire ma nemmeno di spiegare la comparsa dell’Homo sapiens (cfr. ivi: 155). Se fin qui Aczel ha proposto con circospezione la pseudoalternativa creazionista, nel capitolo tredicesimo, “L’arte, il pensiero simbolico e il confine invisibile”, getta via la maschera e propone la teoria del quid, della polverina magica che Dio avrebbe spruzzato sul cervello degli ominidi per dare origine all’avventura specificamente umana, caratterizzata dal pensiero simbolico e creativo. Una sintesi della narrazione paleoantropologica standard del passaggio evolutivo dai primi australopitechi (circa 5 milioni di anni fa) alle prime testimonianze pittoriche propriamente umane nell’Europa del Paleolitico (circa 40 mila anni fa), serve per drammatizzare il mistero del “confine invisibile” tra il preumano e l’umano, segnato dall’enigma dell’emergenza della coscienza. Per Aczel, la scienza è condannata a prendere atto di una serie di emergenze, senza tuttavia riuscire a spiegarle: quella della materia cosmica dalla schiuma quantistica, quella della materia organica autoreplicantesi dalla materia inorganica, quella della coscienza dal cervello dei primati. Ecco perché non si può escludere l’intervento di un “potere creativo” dall’esterno (cfr. ivi: 160). Anzi, le scienze cognitive odierne non potranno mai chiarire il mistero-chiave della coscienza, proprio perché si accostano al problema con due strumenti inadeguati: la teoria dell’evoluzione e l’idea che la coscienza sia riproducibile artificialmente (cfr. ivi: 161). La prima è inadeguata perché noi non siamo animali come gli altri, mentre la seconda lo è perché nessuno fino ad ora è riuscito a costruire macchine coscienti e intelligenti. Ecco perché Dennett, considerando il cervello umano sia come una sorta di computer sia come un prodotto dell’evoluzione dal basso, è destinato a fallire e a non cogliere il “balzo enorme” dal cervello degli altri mammiferi al nostro (cfr. ivi: 164). E dato che la scienza (a suo dire) ha fallito nel suo tentativo di capire doti umane come la coscienza, la creatività e il libero arbitrio, la “spiegazione alternativa” (di nuovo la fallacia della falsa dicotomia) si impone: si tratta di doni di Dio, il quale ha inserito nel cervello del Sapiens qualcosa che la scienza non ha ancora trovato e spiegato (cfr. ivi: 164 e 166). Appoggiandosi a Il cammino dell’uomo (1998) di Ian Tattersall, Aczel sostiene che il quid umano specie-specifico è il “pensiero simbolico” cosciente, cui dobbiamo il linguaggio, l’arte

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e la scienza; e poiché i Neoatei si rifiutano di credere che si tratti di un dono divino, si condannano da soli a cercare invano spiegazioni scientifiche della sua emergenza e a bloccare così il cammino della loro causa con le loro stesse mani (si noti il sofisma: la coscienza resta un mistero per la scienza perché essa si rifiuta a priori di ammettere che essa potrebbe essere un dono del cielo, cfr. ivi: 166). Vale la pena notare ancora una volta il modo tendenzioso e riduttivo in cui Aczel usa le fonti testuali, quando si tratta di screditarne gli autori. Qui i testi di Dawkins e Dennett citati sono rispettivamente Il gene egoista e Coscienza. Ebbene, dalle citazioni (un paio a testa) il lettore ignaro è indotto a credere che in tali opere siano sostenute tesi grottesche. Ne Il gene egoista, suggerisce Aczel, si sostiene che le macchine possono essere coscienti, o essere trattate come esseri coscienti, e che la mente umana, a sua volta, è una semplice macchina (commento indignato di Aczel con appeal to emotion incorporato: «Ancora una volta, senza alcuna giustificazione scientifica, un Neoateo vuole ridurre la stupefacente mente umana con le sue speranze, i suoi desideri, le sue aspirazioni, le sue capacità, il suo genio creativo, la bontà, l’amore e altre complesse emozioni e caratteristiche a una semplice macchina»: ivi: 165). Nel libro di Dennett (da cui Aczel preleva ex abrupto e senza commento di chiarimento un passo dell’inizio del nono capitolo), si propone invece una strana teoria della mente in cui si rigettano cose come il Teatro Cartesiano, il Quartier Generale e l’Autore Centrale, mentre si introducono entità come circuiti specializzati che lavorano in parallelo e Molteplici Versioni imbottigliate in un’architettura neumanniana. Dallo stesso punto, peraltro, poco prima Aczel aveva citato un passo in cui sembra che Dennett definisca “idioti” inconcludenti i suoi colleghi psicologi, neurobiologi, filosofi e ricercatori dell’IA (ma se avesse allungato la citazione di una sola riga, il lettore avrebbe capito che Dennett in realtà stava dicendo una cosa molto diversa: cfr. Dennett 1991a: 285). Nient’altro su due delle opere di filosofia della mente e di filosofia della biologia più influenti (e controverse) degli ultimi 40 anni.154

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Per avere un’idea della ben diversa reputazione, per esempio, di Dennett 1991a nell’ambito delle ricerche e teorie neuroscientifiche più avanzate sulla coscienza, si veda Dehaene 2014 (in part. 31, 33, 143 e 226-227).

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Il capitolo quattordicesimo, “Affrontare l’infinito”, si apre con una definizione di Dio come creatore infinito e onnicomprensivo sulla base di un passo della lettera paolina agli Efesini (4.6), e tuttavia si concluderà con il sospetto, suggerito dai teoremi limitativi di Gödel, che la questione dell’esistenza di Dio sia fuori dalla portata delle nostre capacità logico-scientifiche. Nel mezzo c’è una discussione mistico-filosofica sulle nozioni matematiche di vuoto e infinito che ha lo scopo di screditare l’uso fisico-cosmologico che ne fanno i Neoatei. Secondo Aczel, quando costoro parlano di nascita dell’universo dal “nulla” e di multiverso (e quindi di infiniti universi) fanno un uso equivoco e disinformato, e in definitiva assurdo (cfr. Aczel 2014: 170), di nozioni che hanno la loro vera patria nella matematica speculativa, dove esibiscono una problematicità così abissale da rendere inconsistente qualsiasi tentativo di trasferirle nel campo della fisica. Come si è visto, Krauss chiama “nulla” qualcosa che in realtà sarebbe pieno di entità quantistiche, laddove la nozione matematica di insieme vuoto definisce uno “spazio” che è davvero privo di qualsiasi cosa (spazio compreso, cfr. ivi: 167-168). Ancora più profondamente problematica è la nozione di infinito. Servendosi dell’antinomia di Russell sull’insieme degli insiemi normali (con annessa semplificazione tramite il “Paradosso del barbiere di Siviglia”), dell’ipotesi del continuo di Cantor, dell’esperimento mentale dell’albergo infinito di Hilbert e dei teoremi limitativi di Gödel (compreso quello sull’indecidibilità dell’ipotesi del continuo per mezzo della nostra matematica), Aczel intende mostrare quanto siano inafferrabili e paradossali certe proprietà dell’infinito per la nostra mente. Una, per esempio, è quella già intuita da Galileo (cfr. ivi: 173 e 42) e formalizzata da Cantor: due insiemi infiniti (come quello dei numeri interi e quello dei numeri quadrati) possono avere la stessa cardinalità nonostante siano l’uno un sottoinsieme proprio dell’altro. I cosmologi atei, pertanto, farebbero bene ad evitare di parlare di infiniti universi, perché con ogni probabilità non sono consapevoli del labirinto inestricabile in cui andranno a cacciarsi. L’appassionato ritratto di Cantor, ossessionato dall’infinito (che identificava con Dio nella sua versione più potente) e dalle emozioni mistiche che esso gli suscitava (al punto da convincersi della verità della sua ipotesi perché Dio stesso gli aveva detto che essa era vera), dà ad Aczel il modo di ribadire che a suo parere la nostra mente nasconde una scintilla divina: essa «ha qualcosa di

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speciale, che le consente di fare cose stupefacenti, impossibili per computer, cani o scimmie. Io credo che questo misterioso elemento speciale entro il nostro cervello - come anche la capacità di Cantor di affrontare l’immenso concetto dell’infinito - sia collegato al divino» (ivi: 176). Ma è passando a Gödel, altra mente tormentata da una spiritualità esasperata, che Aczel finisce in un vero e proprio ginepraio di contraddizioni. Il primo passo è una discutibile interpretazione filosofica dei teoremi di incompletezza, i quali, a suo parere, dimostrerebbero anche «che alcune verità sono al di fuori della nostra conoscenza, e non possono che restare così» (ivi: 177). E se una di tali verità fosse proprio l’esistenza di Dio? Può darsi, dice Aczel, tanto più se si tiene presente che Dio dovrebbe dimorare al di fuori dell’universo e noi, come visto, non siamo in grado di accedere scientificamente né alla sua origine né, tanto meno, a ciò che viene prima dell’origine stessa. Ecco, quindi, che la questione dell’esistenza di Dio si pone al di fuori dell’indagine scientifica e matematica, ovvero costituisce assai probabilmente una di quelle verità gödelianamente indecidibili. Ma qui c’è una curiosa ironia della storia. Aczel, per riguardo nei confronti della potenza dei teoremi di incompletezza di Gödel, accetta onestamente l’agnosticismo su Dio che essi potrebbero implicare, ma sembra del tutto ignaro del fatto che proprio Gödel, ispirandosi a Cartesio e soprattutto a Leibniz, ci ha lasciato una raffinatissima prova ontologica dell’esistenza di Dio nel linguaggio formale della logica modale (cfr. Gödel 2006). Il che, semplicemente, rende piuttosto surreali le ultime pagine del capitolo. Nel quindicesimo e ultimo capitolo, “Perché l’argomentazione scientifica in favore dell’ateismo non funziona”, Aczel esordisce con un noto aneddoto storico variamente tramandato e probabilmente apocrifo (un ottimo esempio di meme, peraltro). Pare che un giorno Caterina II di Russia, seccata per l’ostentato ateismo di Diderot, abbia chiamato in soccorso il matematico Eulero, uomo profondamente religioso, il quale mise in imbarazzo il filosofo francese dicendogli: Monsieur, (a + bn)/n = X, donc Dieu existe; répondez! Aczel vuole sostenere che i Neoatei siano come Eulero, perché sembrano dire: «La scienza prova che Dio non esiste. Ri-

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spondi!». Questo capitolo è tutto un inno cosmologico ed epistemologico al mistero, al miracolo e all’improbabilità (i termini ricorrono con una certa frequenza), che impongono di non escludere l’ipotesi di un progetto da parte di una “grande forza creativa”. Malgrado i progressi della scienza, la nostra conoscenza è costellata di lacune relative alle questioni più importanti. Non sappiamo niente del come e del perché dell’aggregazione di quark a tre a tre per formare i protoni e i neutroni, non sappiamo niente del come e del perché si siano formati il nostro sistema solare, il nostro pianeta, gli acidi nucleici, le cellule eucariotiche, i cervelli e infine le menti coscienti, intelligenti e creative (cfr. Aczel 2014: 183-186). È tutto un miracolo di probabilità così evanescenti che è “futile” (ivi: 185) chiamare in causa il caso, il principio antropico e l’evoluzione: i veri scienziati, contrariamente ai Neoatei, sanno che un intervento divino dall’esterno non può essere escluso. Aczel ci tiene a precisare che il suo libro non propone una prova dell’esistenza di Dio, ma solo una confutazione della tesi secondo cui la scienza ne avrebbe dimostrato la non esistenza (cfr. ivi: 189). Ai Neoatei che chiedono: “Chi ha creato Dio?”, occorre rispondere riconoscendo umilmente che non lo sappiamo e che non potremo mai saperlo: «Si tratta di una bella domanda: obiettivamente, non conosciamo la risposta. Ma solo perché a questa domanda non si può dare risposta, non significa che formularla dimostri in qualche modo che Dio non esiste. Indica semplicemente che l’esistenza di Dio e di ciò che, eventualmente, avrebbe “creato Dio” si trova al di fuori del novero delle domande alle quali scienza e matematica possono rispondere» (ivi: 187). Confortato dai limiti della fisica e dai teoremi limitativi di Gödel, Aczel non coglie l’irrimediabile assurdità della propria posizione, perché, per dimenticarsi che essa può funzionare per qualsiasi cosa ci piaccia porre al di là dell’universo, gli basta far precipitare le questioni nel mistero insondabile e fare appello all’umiltà e allo stupore dall’interno di una precisa tradizione culturale che al Dio letterale e ormai improponibile delle Scritture ha sostituito il Dio astratto e più intelligente dei fisici (cfr. ivi: 189). E non serve che Dawkins ricordi che gli scienziati sono in maggioranza non religiosi, perché il cosmologo israeliano Jacob Bekenstein, il cui nome è legato alla cosiddetta legge della radiazione dei buchi neri di Bekenstein-Hawking, sta lì a dimostrare, con la sua fedeltà ai precetti degli ebrei ortodossi, che scienza e religione si fondano

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sul medesimo impulso a conoscere la natura e pertanto possono convivere senza contraddizione (cfr. ivi: 188-189). Come si vede, dunque, lo schema anassagoreo di interpretazione dell’ordine cosmico è un meme ancora tenacemente installato nell’architettura cognitiva del Sapiens e prospera quasi indisturbato non solo nel senso comune ma persino nelle regioni filosoficamente e scientificamente più sofisticate del Mondo 3.

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RINGRAZIAMENTI

Questo lavoro è stato realizzato nell’ambito del XXVIII ciclo del Dottorato di Ricerca in Scienze Cognitive presso l’Università degli Studi di Messina (triennio 2013-2015). Un sentito ringraziamento, pertanto, va al prof. Antonino Pennisi, Direttore del Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali (COSPECS), e al prof. Pietro Perconti, che ha seguito la mia ricerca in qualità di tutor. A vario titolo sono stati preziosi compagni di viaggio i professori Domenica Bruni, Alessandra Falzone, Sebastiano Nucera e Dario De Salvo, nonché tutti gli altri docenti e colleghi del Dipartimento con i quali ho avuto modo di scambiare informazioni e idee nel corso degli anni del Dottorato.

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