La filosofia come fraintendimento

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Descripción

Questo è il testo di una presentazione informale fatta al Dip di Filosofia e comunicazione nel seminario organizzato da Eva Picardi. Non è un testo rifinito, non è da citare.

La filosofia come fraintendimento Paolo Leonardi

Università di Bologna

Eva Picardi mi ha sollecitato, con molto garbo, a intervenire. Poi, ha fatto una mossa pericolosa – sabato mi ha chiesto un titolo. Mi è venuto in mente qualcosa che andava molto sulla rivista Analysis in altri anni, tipo “Su Horwich su Kripke su Wittgestein”. Aiuto. Dirò qualcosa su Horwich su Kripke? No. Di chi dei tre parlerò di più? Sabato non lo sapevo ancora. Così ho pensato un titolo che fosse cinque volte ambiguo. Il mio titolo non ha superato l’esame della professoressa Picardi, e dunque non è quello che ha girato nelle mail. Qui, però, oggi, userò il mio titolo: “La filosofia come fraintendimento.” Cinque volte ambiguo, sì, ma cercherò di sciogliere quelle ambiguità – e non perché il fraintendimento sia qualcosa di intrinsecamente negativo. Primo, “La filosofia come fraintendimento” non è il mio modo di vedere la filosofia, né quella che praticano altri né quella che pratico io. Tutti qualche volta fraintendiamo, ma non penso affatto che i filosofi normalmente fraintendano o che la filosofia sia una somma di fraintendimenti. W sembra aver pensato che la filosofia fosse una somma di fraintendimenti. Nel Tractatus logico-philosophicus ci sono due punti in cui W parla della filosofia – la proposizioni sub 4.11 e la 6.53. Quest’ultima recita: 6.53 Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare –, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro –non avrebbe la sensazione che gli insegniamo filosofia –, eppure sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto.

Questa proposizione sembra dire che effettivamente i filosofi producono solo qualcosa di molto simile a un fraintendimento e che, se si parla correttamente, si produce scienza non filosofia – la filosofia sarebbe indicibile

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– può essere mostrata ma non detta. Qualcosa di più possiamo ricavarlo dalla 4.111(b) e dalla 4.112(b): 4.111(b) (La parola «filosofia» deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali.) 4.112(b) La filosofia non è una dottrina, ma un’attività.

Continuando ad andare a ritroso, la 4.112(b) ci offre un’altra spiegazione dell’impossibilità del discorso filosofico: la filosofia è un’attività, non un discorso. La 4.111(a), invece, ci dice che la filosofia non sta sullo stesso piano, ma sta sopra o sotto le scienze naturali. (Un inciso, non credo che solo le scienze naturali ci offrano conoscenza. Anche il senso comune produce conoscenza. Sappiamo fare da mangiare, sappiamo tenere pulita la nostra casa, sappiamo trattare con altre persone, ecc. Almeno l’ultima è una cosa che non possiamo fare scientificamente. Gli ambiti del senso comune sono diversi dagli ambiti delle scienze: il senso comune è l’insieme di conoscenze che applichiamo immediatamente tutti i giorni, e che applichiamo anche per produrre scienza, perché lo scienziato vede luci, sente rumori, ecc, come noi, anche se a ciò che vede e ai rumori che sente ha saputo dare un valore che chi non pratica la sua scienza non sa dare. Fine dell’inciso.) Facendo adesso un piccolo passo avanti, sempre nel Tractatus, W scrive: 4.113 La filosofia delimita il campo disputabile della scienza naturale.

La filosofia, infatti, si occupa dei fondamentali che usiamo per conoscere (senso comune e scienze) e dell’orizzonte di senso che le nostre conoscenze delineano. Il sotto e il sopra. Neppure W, dunque, pensa che la filosofia sia un fraintendimento, anche se, come vedremo, per W c’è un fraintendimento in filosofia. Nelle Ricerche filosofiche, la questione di cosa sia la filosofia è affrontata nelle sezioni 109-133. Cominciamo dalla terza riga della 109: … [n]on ci è dato costruire alcun tipo di teoria. Nelle nostre considerazioni non può esserci nulla di ipotetico. Ogni spiegazione dev’essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto. E questa descrizione riceve la sua luce, cioè il suo scopo, dai problemi filosofici. Questi non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto. La

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filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio.

Qui ci sono alcune cose che prima non c’erano: la filosofia descrive, non spiega, e questa descrizione riceve luce dai problemi filosofici. La descrizione sembra riguardare il funzionamento del nostro linguaggio, «contro una forte tendenza a fraintenderlo», ecco quasi la parola del mio titolo! Considerate l’ultima riga e mezza, la battaglia ecc, come un’uscita quasi retorica. La mia parola compare, proprio lei, nella sezione 120, di cui riporto solo i paragrafi (c) e (d) (c) E i tuoi scrupoli sono fraintendimenti. (d) Le tue domande si riferiscono a parole; debbo pertanto parlare di parole.

Queste brevi osservazioni rimarcano che il problema è venire in chiaro con le nostre parole – ciò che va descritto è come le usiamo. Non accettare questo è un fraintendimento. La filosofia non è un fraintendimento – è un’azione chiarificatrice e non una dottrina. Il fraintendimento è produrre teorie sulla natura delle cose, anziché mettere in luce tale natura. Per il momento, mi fermo qui su W. Dunque, neppure per W la filosofia è un fraintendimento, anche ci sono dei fraintendimenti su cosa sia la filosofia. (Questi fraintendimenti avevano, penso, delle buone ragioni, ma non le hanno più.) La mia impressione, avvicinandoci ai due testi in discussione oggi, che sono i due più bei testi “wittgensteiniani” che io conosca, è che ciascuno, su un punto nodale, fraintenda W. (Fraintendimenti 4 e 5.) W non è uno scettico, come lo presenta K, e non fa metafilosofia, come sostiene Horwich. Il secondo fraintendimento è plausibile, perché W discute, come abbiamo visto, di cos’è la filosofia e di come non la si faccia, ma questo è parte del suo fare filosofia, e non una discussione “meta”. Preliminarmente, perché sono due testi belli? Perché fanno filosofia, partendo da W, pensano per conto proprio – che era ciò che W si augurava accadesse a qualcuno leggendo ciò che scriveva. Poi, perché, ci pongono con intensità un problema, e così ci fanno ragionare meglio su di esso e anche, consideriamolo un beneficio marginale, su quello che W sosteneva in relazione ad esso.

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Prendiamo K, per primo. K sostiene che non c’è nessun elemento di fatto che determini che con ‘+’ io significhi più invece che quiù, o più in generale che una regola vada applicata nel modo a invece che nel modo b. K, così, riporta W a Hume. La soluzione di W sarebbe una soluzione scettica, concedendo che l’obiezione scettica non ha risposta, ma negando che la pratica abbia bisogno di essere giustificata. W nega che ci sia un fatto, addirittura un superfatto, scrive K, alla base del nostro seguire una qualsiasi regola, e dunque anche quella dell’addizione. K fa poi una serie di considerazioni su W, a cominciare da quella che W sostituirebbe le condizioni di asseribilità alle condizioni di verità, considerazioni che non condivido, e che m sembrano all’origine del fraintendimento di K. K avrebbe potuto rivedere la questione asseribilità/verità, se si fosse soffermato sulla sezione 429 delle Ricerche: L’accordo, l’armonia di pensiero e realtà consiste in questo: che quando dico falsamente che una cosa è rossa, essa è pur sempre non rossa. E quando voglio spiegare a qualcuno la parola «rosso» nella proposizione «Questo non è rosso», indico una cosa rossa.

La stessa sezione 136, che ha indotto H a ritenere W un minimalista, avrebbe potuto essere usata allo stesso fine. Il punto di W è che nessuna espressione è autoesplicativa, capace di indicare da sola come va usata, cioè cosa significa. Come mostra nelle sezioni che si frammischiano a quelle sulle regole, il comprendere dipende da un addestramento, addestramento circa cosa fare, per esempio, quando qualcuno dice ‘Lastra’, o ‘Passami una lastra’. Questa idea sta dietro alla sezione 201: Che si tratti di un fraintendimento si può già vedere dal fatto che in questa argomentazione avanziamo un’interpretazione dopo l’altra; come se ogni singola interpretazione ci tranquillizzasse almeno per un momento, finché non pensiamo a un’interpretazione che a sua volta sta dietro la prima. Vale a dire: con ciò facciamo vedere che esiste un modo di concepire una regola che non è un’interpretazione, ma che si manifesta, per ogni singolo caso d’applicazione, in ciò che chiamiamo «seguire la regola» e «contravvenire a essa».

L’esserci scottati una volta è causa sufficiente del tenerci lontani dal fuoco, ma non c’è una causa sufficiente in segni come ‘57+68’ per replicare ‘125’. Ci arriviamo con un addestramento che seleziona le nostre risposte – un addestramento che a un certo livello compete a matematici di professione. Quando Cantor scoprì i transfiniti, cioè gli infiniti più grandi di ω, l’infinito dei numeri naturali, ci furono molte perplessità nel considerare queste entità

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esse stesse numeri, e fu solo quando si riuscirono a estendere a essi le operazioni elementari (somma, sottrazione, moltiplicazione, addizione) che i matematici convennero che sì, erano proprio numeri. Nello stesso tempo, per W, non c’è nessun a priori se non contingente – una regola grammaticale sembra essere un a priori del genere – e la giustificazione, se è una giustificazione, di una pratica è nel suo successo, è cioè anch’essa a posteriori e in qualche misura rivedibile. Una giustificazione, che con la disapprovazione di W, direi darwiniana. Le proposizioni grammaticali sono al più un a priori contingente del genere, e mi sembrano le descrizioni proprie della filosofia secondo W. (Se vi turba l’idea che non ci siano degli a priori necessari, chiedetevi perché ci dovrebbero essere, e, siccome gli a priori riguardano la descrizione, il ragionamento, e sono qualcosa di mentale, domandatevi come saremmo arrivati a padroneggiarli.) K fraintende W insomma proprio sul linguaggio e il significare. Lo fraintende nel caso matematico, che è particolarmente complesso in W, perché W concepisce la matematica non come una realtà rappresentata ma come un sistema di rappresentazione, analogo in qualche misura alla lingua. Non è, quella di K, solo una nostalgia platonista, è un quadro di riferimento platonista che permane anche quando qualcuno, K stesso qui, lo mette radicalmente in discussione. (Per inciso, il caso della matematica a me sembra particolarmente complesso, ma un elemento per dare qualche ragione a W è che in natura non ci sono numeri, che la prima sequenza ordinata secondo la relazione ≥ che abbiamo sono i numerali. I numerali non sono numeri ancora – infatti, non sono di per sé solo una filastrocca ordinata, ma diventano numeri quando usiamo la filastrocca e gli oggetti di cui è composta, per misurare quanti oggetti ci sono, per contare.) Non vorrei negare la prossimità delle riflessioni sulle regole con quelle del linguaggio privato. W sposta le sue schede per metterle vicine, e ciò indica che le sentiva vicine, che quell’ordine gli stava bene. Eppure sono due casi diversi e la sezione 201 delle Ricerche non basta a trattarli unitariamente. Anche nel caso del linguaggio privato K fraintende il significato di espressioni come ‘Provo dolore’, suggerendo che W neghi che chi dice «Provo dolore» abbia dolore, e che la pratica di dire ‘Provo dolore’ sia una pratica sociale, legata a un qualche genere di normatività, di capacità degli altri di approvare o correggere l’uso di un’espressione del genere, e nulla più. Quello che W sostiene non è che non ci sia (non possa esserci) il dolore. Nega che per es la nostra parola ‘dolore’ designi il dolore che proviamo, e quindi che il mio dolore possa essere usato come regolo per descrivere il dolore, mio e altrui – «come [potrei] generalizzare quest’unico caso in maniera così irresponsabile?» (RF 201).

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Quando provo dolore posso avere un’aria grigia, lamentarmi vocalizzando, senza parlare – «Ahi!» –, muovermi nervosamente, o muovere nervosamente una mano, un piede, ecc. Quando un altro ha comportamenti simili, e quest’altro mi assomiglia – è un animale come me – immagino che la ragione sia simile a quella che provoca in me quegli stessi comportamenti. Se quest’altro è un bambino, gli insegno a esprimere il dolore, non come un maestro o un professore, ma facendogli per esempio delle domande. «Ti fa male il braccio?», «Senti come un ago vicino al gomito?», ecc. Domande diverse per manifestazioni diverse. Non è che per W non esista un modo di descrivere le sensazioni – il suo punto è che il significato di queste espressioni non ha origine da un riferimento diretto alle sensazioni che un individuo prova. Il linguaggio che descrive le sensazioni è pubblico, come tutte le forme di linguaggio. Il linguaggio pubblico, nonostante W usi l’espressione ‘gioco linguistico’ non è un gioco il cui senso, e i cui effetti, siano tutti interni al gioco stesso – e non è per nulla simile al battere le mani tre volte l’ora per compiere una buona azione, esempio che Philippa Foot propone per mostrare i difetti della metaetica di Richard Hare. (“Moral Beliefs”, 1959) Questo poteva essere compreso soffermandosi sulla sezione 293, famosissima: Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza so che cosa significa la parola «dolore», – non debbo dire la stessa cosa anche agli altri? E come posso generalizzare quest’unico caso in maniera così irresponsabile? Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da se stesso! ––– Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che chiamiamo «coleottero». Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. – Ma supponiamo che la parola «coleottero» avesse tuttavia un uso per queste persone! – Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota. – No, se si distinguono per la cosa che è nella scatola, di qualunque cosa si tratti, non si distinguono per nulla.

Sia come sia, K offre però un’interpretazione interessante – la sua discussione su Hume, sul modo in cui Hume critica Descartes – non ‘io penso’, ma ‘c’è un pensiero’, non ‘ho prurito’ ma ‘c’è un prurito’, ecc – l’argomentazione del perché la posizione di Hume sia insoddisfacente, sono molto belle. K fa filosofia, anche se fraintende – il fraintendimento è creativo, e dunque è utile.

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Il secondo fraintendimento, seppure più lieve, è quello di H, che ha una posizione quietista – non c’è una filosofia positiva, ma ci sono solo terapie filosofiche, per lo più dirette a presunte dottrine filosofiche positive. Questa posizione è tipicamente attribuita a W – perché allora sostenere che H fraintende anche lui W? Ora, non credo innanzitutto che W fosse un quietista, e non solo perché era una persona inquieta. Indipendentemente dal quietismo, W non mi pare interessato a fare metafilosofia. Ricordavo prima il secondo capoverso della proposizione 4.111 del Tractatus: 4.111(b) (La parola «filosofia» deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali.)

Una proposizione del genere sembra essa stessa metafilosofica – dice qualcosa della filosofia – e nello stesso tempo se si occupa di qualcosa che sta sopra o sotto, e non c’è una dottrina filosofica, può essere immaginata come ridotta alla filosofia come terapia. W, però, non si propone affatto una rinuncia alla filosofia, bensì critica le filosofia che propongono dottrine proprie in qualche modo in concorrenza con la scienza e col senso comune. La filosofia sta sopra e sotto – da un lato punta semplicemente a descrivere, a prendere atto di ciò che c’è e di come lo usiamo, di come conosciamo, ecc – anziché di definire cos’è l’essere, cos’è la conoscenza, ecc. Ciò che sta sotto è la descrizione dei fondamentali. Dall’altro lato, costruire un orizzonte di senso – cosa che per W fu più difficile – è ciò che sta sopra. Entrambe le cose possono essere dette rappresentazioni perspicue, e la seconda forse una “visione del mondo”. Come scrive nella sezione 122 (b) delle Ricerche: Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un significato fondamentale. Designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose. (È, questa, una visione del mondo?)

La posizione di W è interessante non perché limita a questo la filosofia contro Platone, Agostino, Descartes, ma perché questo ridisegna la filosofia, cogliendo il mutamento avvenuto tra il 17.mo e il 20.mo secolo nel mondo del conoscere, con le diverse scienze che sono divenute del tutto autonome, o si sono formate e sono rapidamente cresciute e con l’impossibilità di perseguire individualmente una conoscenza completa – Platone, e soprattutto Aristotele, sono due splendidi esempi di un’impresa del genere; Dante è ancora uno che cerca di conoscere tutto anche se non fa, come Aristotele, ricerca a tutto campo; Descartes è l’ultimo tentativo di perseguire una conoscenza completa (Leibniz ha progetti grandiosi, ma non ne porta avanti e dunque non ne

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termina nessuno); Kant è la registrazione del fallimento di quell’impresa e nello stesso tempo l’ambiguo tentativo di trovare un nucleo dottrinale proprio della filosofia nello stabilire l’a priori dell’esperienza. W è il riconoscimento della peculiarità riflessiva della filosofia. La filosofia si libera dei compiti che competono alle scienze. (W ha ragione però, e H lo segue, nell’essere così tranchant sul punto, perché ancora la maggior parte dei testi filosofici propone dottrine, come fa anche Kant che pure coglie l’aspetto riflessivo.) Una posizione che allude al disinteresse per la metafilosofia si trova nelle Ricerche alla sezione 121: Si potrebbe pensare: se la filosofia parla dell’uso della parola «filosofia», dev’esserci una filosofia di secondo grado. Ma non è affatto così; il caso corrisponde piuttosto a quello dell’ortografia, la quale deve occuparsi anche della parola «ortografia», ma non per questo è una parola di secondo grado.

Per quanto si possa leggere in più modi questo passo, il mio modo di intenderlo è che non c’è una metafilosofia, perché se la filosofia si occupa della parola ‘filosofia’ è per dire cos’è la filosofia o come si fa filosofia. Eppure il frantendimento di Horwich è minore perché l’osservazione della 121, o la 4.111(b) del Tractatus o la sezione 133 delle Ricerche cui arriverò fra poco, hanno anche un valore metafilosofico. Nello stesso tempo, credo non ci sia distinzione fra filosofia e metafilosofia, perché in entrambi i casi, pur cambiando soggetto – dalla conoscenza o la giustizia, si passa a parlare di filosofia – lo si fa continuando a fare filosofia, come gli stessi metodi, gli stessi principi, con cui si fa una filosofia non “meta”. Chi fa una filosofia vicina alla scienza, così la caratterizzerà, usando argomenti cui si richiama quando fa filosofia; chi ritiene che la filosofia sia un’attività diversa dalla scienza, userà argomenti prodotti in quel modo per sostenere che la filosofia è appunto un’attività diversa dalla scienza. Fra i due testi passano 30 anni, e anche se H dice di aver lavorato per 25 anni al proprio saggio su W e la sua metafilosofia, alcune differenze fra K e H sono riconducibili a diverse convinzioni sulla lettura delle Ricerche, che sono maturate in quei 25 anni. H difende la continuità fra il Tractatus e le Ricerche, per es, e offre una ricostruzione tutta propria del significato come uso. (Una ricostruzione su usi prototipici, come nella teoria prototipica dei concetti, e una generalizzazione a mo’ di legge, che non incorre nei problemi wittgensteiniani sulle regole, perché non è una formulazione di cui si servano i parlanti, ma una ricostruzione del linguista.) [Le obiezioni di H a K non sono wittgensteiniane, ma alla H. C’è un parallelo e un contrasto fra K e H nell’ultima parte dei due libri. Si occupano entrambi del problema della mente

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– le altre menti uno, la coscienza, l’altro, entrambi cercano di dissolvere i problemi, ma con argomentazioni antitetiche: conosciamo la mente degli altri come la nostra, K, conosciamo la mente degli altri differentemente dalla nostra, H. Quando Eva mi ha invitato a intervenire, mi sono sentito onorato. Quando una di voi mi ha scritto suggerendo che avrei detto cos’era corretto pensare mi sono preoccupato. Il mio è un contributo a capire. In filosofia ogni problema si gira da tutte le parti, perché questo è il modo per vedere se un’idea o un’argomentazione funziona, ed anche il modo per trovare un’idea e un’argomentazione migliore. Questo è l’esperimento in filosofia. Vorrei chiudere il mio intervento parlando ancora della filosofia di W. Le sezioni più esplicitamente dedicate alla filosofia nelle Ricerche si chiudono con la 133, che recita: Non vogliamo raffinare o perfezionare in modo inaudito il sistema di regole per l’impiego delle nostre parole. La chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio. – Quella che mette a riposo la filosofia, così che essa non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia stessa. – Invece si indica un metodo dando esempi; e la serie degli esempi si può interrompere. – Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie.

Alcune di queste sezioni sono troppo retoriche, e anche qui ‘questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente’ è troppo enfatico, e parziale, per capirsi. La filosofia è rendersi conto di quali sono gli strumenti che usiamo per conoscere – un lavoro riflessivo – che non ha termine, e quindi può essere interrotto e ripreso. Che non ha termine non per incapacità o inquietudine, ma perché gli strumenti di conoscenza che usiamo cambiano, non sono sempre quelli – la scienza progredisce, i modi di vita mutano. (La filosofia sta sotto, ricordate?) Perché l’orizzonte stesso cambia, per quelle stesse ragioni, e quindi il senso va ricostruito di volta in volta. Due idee espresse male, penso nella sezione 126:

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La filosofia si limita, appunto, a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla. – Poiché tutto è lì in mostra, non c’è neanche nulla da spiegare. Ciò che è nascosto non ci interessa. «Filosofia» potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione.

Ogni nuova scoperta e invenzione cambia, insomma, ciò che sta sotto e ciò che sta sopra. W rappresenta una nostalgia platonica – per un cielo delle stelle fisse, un cielo delle idee – e nello stesso tempo il suo superamento. Nulla manca con la scomparsa di quel cielo. Il cielo è lì, diverso, mutevole, in espansione. S’è persa un’immagine del cielo, non il cielo.

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