La dimora del principe

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La dimora del Principe marco folin

Secondo un’ininterrotta consuetudine risalente all’età romana, nell’Europa medievale il palatium del sovrano rappresentava uno dei primi e più tangibili segni della regalità monarchica, e se ne potrebbero addurre innumerevoli esempi: dalla Costantinopoli di Giustiniano all’Aquisgrana di Carlo Magno, dalla Goslar di Enrico IV alla Foggia di Federico II.1 In seguito ci pensarono gli autori di specula principum a ribadire e codificare la tradizione, annoverando la Magnificenza – intesa anche e soprattutto come magnificentia aedificandi – nel ristretto gruppo delle Virtù sovrane per eccellenza.2 Così, per esempio, in uno dei manuali più letti e citati ancora in pieno Rinascimento, Egidio Colonna poteva rifarsi all’autorità di Aristotele (e san Tommaso) per sostenere che «reges et principes debeant habere habitationes mirabiles et subtili industria constructas»: per ra1. Sul tema delle ‘architetture di potenza’ e della relativa eredità, cfr. E. Baldwin Smith, Architectural Symbolism of Imperial Rome and the Middle Ages, Princeton 1956; K.M. Swoboda, Palazzi antichi e medioevali, «Bollettino del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura», XI (1957), pp. 3-33; Id., The Problem of the Iconography of Late Antique and Early Mediaeval Palaces, «Journal of the Society of Architectural Historians», XX (1961), pp. 7985; e più recentemente E. Voltmer, «Palatia» imperiali e mobilità della corte (secoli IX-XIII), in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, I, Tempi, Spazi, Istituzioni, Torino 2002, pp. 557-630; M. Bacci, Artisti, corti, comuni, ivi, pp. 648-654. 2. Cfr. A.D. Fraser Jenkins, Cosimo de’ Medici’s Patronage of Architecture and the Theory of Ma-

gnificence, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXXIII (1970), pp. 162-170; L. Green, Galvano Fiamma, Azzone Visconti and the Revival of the Classical Theory of Magnificence, ivi, LIII (1990), pp. 98-113; M. Warnke, Liberalitas principis, in Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento (1420-1530), a cura di A. Esch e C.L. Frommel, Torino 1995, pp. 83-92; L. Giordano, Edificare per magnificenza. Testimonianze letterarie sulla teoria e la pratica della committenza di corte, in Il principe architetto, Atti del convegno internazionale, Mantova, 21-23 ottobre 1999, a cura di A. Calzona, F.P. Fiore, A. Tenenti e C. Vasoli, Firenze1992, pp. 215-227; per qualche riferimento transalpino cfr. anche S. Thurley, The Royal Palaces of Tudor England, New Haven-London 1993, pp. 11-23.

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gioni appunto di Magnificenza, per imporre ai sudditi un’immagine di irraggiungibile superiorità che avrebbe scoraggiato possibili sommosse e infine per dare alloggio a una corte sempre più numerosa («ubi sunt multae divitiae, multi sunt qui comedunt illas»).3 E di queste idee è facile seguire l’intensa circolazione, nella letteratura tardomedievale e ancora rinascimentale, da Galvano Fiamma a Christine de Pisan, da Leonardo Bruni a John Skelton, dal Platina a Pontano e a molti altri ancora. Di qui un fenomeno del tutto ricorrente nel corso dei secoli: a ogni fase di consolidamento del potere dinastico, se non a ogni ascesa sul trono di un sovrano dalla personalità particolarmente energica, sembra immancabilmente corrispondere la (ri)costruzione di una o più regge in forme monumentali, come manifesto delle ambizioni della Corona. Così, per limitare l’attenzione ai più clamorosi casi quattrocenteschi, avvenne in Francia con Carlo V il Savio ai primi del secolo; 4 così accadde in Inghilterra con Edoardo IV di York; 5 così in Borgogna con Filippo II l’Ardito e in Provenza con Renato d’Angiò; 6 né furono da meno i grandi monarchi-architetti del Cinquecento – da Francesco I nella Valle della Loira a Enrico VIII lungo il Tamigi, da Massimiliano I a Innsbruck a Filippo II all’Escorial –, le cui imprese edilizie anzi possono essere comprese appieno solo sullo sfondo di questo contesto di lungo periodo.7 3. «Quod autem reges et principes debeant habere habitationes mirabiles et subtili industria constructas, probat Philosof. duplici ratione, quarum prima sumitur ex parte magnificentiae regiae, secunda ex parte populi. Possumus autem et nos tertiam rationem addere, ex parte familiae et ministrorum ... Secunda via investigandum hoc iem sumitur ex parte ipsius populi, et hanc tangit Philosophus, ubi ait quod Principes decet sic magnifica facere, et talia aedificia construere, quod populus ea videns quasi sit mente suspensus propter vehementem admirationem, nam populus minus insurgit contra principem, videns ipsum sic magnificum ... Tertia via sumitur ex parte ministrorum et familiae, nam ubi multae sunt divitiae, multi sunt qui comedunt illas. In domibus ergo regum et principum oportet multos abundare ministros, ut ergo non solum personas regis et principis, sed etiam multitudo ministrorum debite commorari possint in aedificiis constructis, oportet ipsa esse magnifica» (Egidio Colonna, De regimine principum libri III, Roma, Bartolomeo Zanetti, 1607, pp. 353-356; su cui cfr. R. Lambertini, Il filosofo, il principe e la virtù. Note sulla ricezione e l’uso dell’Ethica Nicomachea nel De regimine principum di Egidio Romano,

«Documenti e Studi sulla Tradizione Filosofica Medievale», II (1991), pp. 239-279). 4. Cfr. F. Autrand, Charles V le Sage, Paris 1994, pp. 760-766; e B. Bove, Les palais royaux à Paris au Moyen Âge (XI e-XV e siècles), in Palais et pouvoir de Constantinople à Versailles, a cura di M.F. Auzépy e J. Cornette, Paris 2003, pp. 67-74. 5. Thurley, The Royal Palaces, cit., pp. 18-21. 6. F. Robin, La cour d’Anjou-Provence. La vie artistique sous le règne de René, Paris 1985, pp. 93-164. Quanto alla committenza architettonica dei duchi di Borgogna, cfr. ancora O. Cartellieri, The Court of Burgundy, London 1972 (I ed. 1929), pp. 24-35. Sulla situazione spagnola, per certi versi comparabile a quella delle altre monarchie europe, cfr. R. Domínguez Casas, Arte y Etiqueta de los Reyes Católicos. Artistas, residencias, jardines y bosques, Madrid 1993; e più recentemente M.A. Ladero Quesada, Los alcázares reales en la Baja Edad Media castellana. Política y sociedad, in Los Alcázares reales. Vigencia de los modelos tradicionales en la arquitectura áulica cristiana, a cura di M.Á. Castillo Oreja, Madrid 2001, p. 11-35. 7. Cfr. H. Günther, Kaiser Maximilian I. zei-

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All’interno di questo comune orizzonte va tuttavia registrata una vistosa eccezione: quella costituita dall’Italia centro-settentrionale, dove le dinastie signorili che pur si erano andate affacciando sulla scena urbana sin dalla fine del Duecento non arrivarono mai a emanciparsi del tutto dalle proprie origini municipali – un po’ per l’inconsistenza dei loro titoli di sovranità, un po’ per la forza della tradizione comunale che continuò sempre a condizionare il linguaggio politico cittadino –, non riuscendo per tutto il Medioevo a imporre un’immagine di sé pleno iure monarchica.8 Non v’è città che non abbia il suo palazzo comunale, nel nostro paese; ma sino all’alba dell’Età moderna erano relativamente poche quelle che potevano vantare la presenza di una vera e propria reggia dinastica: ossia di una sede di rappresentanza del sovrano, allestita come sua dimora privilegiata – e dunque munita di una serie di locali deputati, articolati intorno alla vecchia triade canonica aula regia, cubiculum, capella –, ma al tempo stesso attrezzata anche per l’esercizio dei poteri di governo (e quindi fornita di spazi atti al lavoro degli officiali signorili, a partire dalla cancelleria). Senza dubbio, nella Penisola sin dal Trecento non mancarono i tentativi di tradurre le ambizioni dinastiche in ‘architetture di potenza’ di respiro monumentale, che finirono per modificare in profondità il paesaggio urbano delle città in cui vennero costruite: tale fu certo il caso, per esempio, del palazzo di Azzone Visconti a Milano (1340 ca.), o quello della cosiddetta ‘Reggia’ innalzata a Padova da Marsilio e Ubertino da Carrara di lì a qualche anno.9 Ma sono esempi abbastanza isolati, e che non paiono generalizzabili: al contrario, alla base di molti dei più imponenti complessi signorili costruiti nel corso del XIV secolo non sembrano esserci state tanto ansie di magnificenza, quanto assai più concrete urgenze d’ordine difensivo-militare; tant’è che in principio neppure l’Augusta di Castruccio Castracani a Lucca (1332) o il Castelvecchio di Cangrande II della Scala a Verona (1354) sembrano essere stati concepiti come residenze privilegiate del Signore, bensì essenzialmente come una fra le tante abitazioni temporanee di cui la casata disponeva in città.10 chnet den Plan für sein Mausoleum, in Il principe architetto, cit., pp. 493-516; J. Guillaume, François Ier architecte: les bâtiments, ivi, pp. 517-532; e M. Chatenet, Francesco I architetto: i documenti, ivi, pp. 533-544; su Filippo II, cfr. R. Mulcahy, Philip II of Spain, Patron of the Arts, Dublin 2004, e la bibliografia ivi citata; quanto a Enrico VIII, cfr. Thurley, The Royal Palaces, cit., pp. 39-66. 8. Cfr. G.M. Varanini, La propaganda dei regimi signorili: le esperienze venete del Trecento, in Le forme della propaganda politica nel Duecento e Trecento, a cura di P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 311-343.

9. Cfr. ancora G. Lorenzoni, L’intervento dei Carraresi, la reggia e il castello, in Padova. Case e palazzi, a cura di L. Puppi e F. Zuliani, Vicenza 1977, pp. 29-50; e, per il palazzo di Azzone Visconti, P. Boucheron, Le pouvoir de bâtir. Urbanisme et politique édilitaire à Milan (XIV e-XV e siècles), Roma 1998, pp. 108-125. Altrettanto significativo, ed eccezionale, il caso del castello di Pavia: cfr. A. Vincenti, Castelli viscontei e sforzeschi, Milano 1981, pp. 54-66. 10. Cfr. L. Green, Castruccio Castracani. A study on the origins and character of a fourteenthcentury Italian despotism, Oxford 1986, pp. 104-112; sul Castelvecchio, cfr. G.M. Varani-

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In effetti, la scarsa propensione delle consorterie signorili italiane a dotarsi di residenze di rango regale non derivava solo dal loro bisogno di darsi un contegno ‘popolare’, ma anche dai loro particolari usi successori, e nella fattispecie dall’introduzione assai tarda nella Penisola del sistema della primogenitura, il cui portato era un’altissima conflittualità intestina in seno alla famiglia dominante, fra i diversi rami che avevano pari diritti ereditari e che tendevano a risiedere in edifici, spesso in quartieri, nettamente distinti, se non contrapposti.11 In certi casi (il più emblematico, ma non certo l’unico, è quello della Milano di Bernabò e Galeazzo Visconti) la città si trovava così ad essere spaccata in due o più settori assoggettati al controllo di condòmini in lotta fra loro e che non condividevano solo la titolarità della signoria, ma anche analoghe, e antagonistiche, esigenze di visibilità, che trovavano espressione nella costruzione di rocche e dimore l’una contro l’altra armate.12 Ne risultava un paesaggio urbano particolarmente variegato, in cui le strutture che avevano polarizzato la città comunale si intersecavano senza forti soluzioni di continuità con gli spazi e gli edifici di pertinenza signorile – tanto numerosi quanti erano i rami collaterali che si contendevano il patrimonio dinastico –, senza peraltro far ombra alle grandi magioni aristocratiche delle élites patrizie che partecipavano ancora in parte agli onori e agli oneri del governo della città. È una situazione abbastanza ben documentata nella maggior parte delle città che per un certo periodo di tempo furono sede di una corte signorile: a Verona come a Mantova, a Ferrara come a Camerino, a Pesaro come a Foligno, le fonti tardomedievali non ci parlano mai di un ‘palazzo’, bensì di una congerie di domus, più o meno fortificate, a volte ma non necessariamente contigue, spesso sparse sui due lati di una piazza o di una via pubblica e in cui si sovrapponevano in maniera concorrenziale funzioni sostanzialmente analoghe.13 Del resto, queni, Castelvecchio come residenza nella tarda età scaligera, «Verona illustrata. Rivista del Museo di Castelvecchio», II (1989), pp. 11-18; più in generale, cfr. anche N. Rubinstein, Fortified Enclosures in Italian Cities under Signori, in War, Culture and Society in Renaissance Venice. Essays in Honour of John Hale, a cura di D.S. Chambers, C.H. Clough e M.E. Mallett, London 1993, pp. 1-8. 11. Sulle consuetudini successorie delle consorterie signorili italiane, cfr. ancora F. Niccolai, I consorzi nobiliari e il comune nell’alta e media Italia, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», XIII (1940), pp. 116-147; M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna 1984, pp. 189-203; e più recentemente F. Leverotti, Famiglia e istituzioni nel medioevo italiano, Ro-

ma 2005, pp. 73-83, 162-167. 12. Cfr. L. Beltrami, Il castello di Milano sotto il dominio dei Visconti e degli Sforza, Milano 1894, pp. 20-28. Altro caso particolarmente interessante e ben documentato è quello carpigiano, su cui cfr. M. Ghizzoni, Ordinamenti politici e strategie signorili: note di storia urbanistica carpigiana tra Medioevo e Rinascimento, in L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale, a cura di E. Svalduz, Venezia 2004, pp. 121-154. 13. Per Verona, cfr. G.M. Varanini, Patrimonio e fattoria scaligera: tra gestione patrimoniale e funzione pubblica, in Gli Scaligeri 1277-1387. Saggi e schede pubblicati in occasione della mostra storico documentaria allestita dal Museo di Castelvecchio di Verona, a cura di Id., Verona

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sto assetto avrebbe continuato a connotare i centri dinastici italiani (salvo a Napoli, unica vera ‘capitale’ della Penisola) 14 per buona parte del Quattrocento: e non solo in realtà ‘minori’ come Carpi, ma anche in centri di grande vivacità culturale come Ferrara, dove, per quanto nel corso del secolo i cancellieri avessero ideologicamente preso a datare i loro documenti dal palatium estense, i cronisti ci descrivono viceversa un agglomerato informe di corpi di fabbrica di varia consistenza, confusi fra «puzi, casabitoli, letame da cavali, le legne dela corte, stancie da cani et mile gaiofarie» tracimanti sulle «piacete stomogose» che circondavano la corte.15

Rocche Fu solo intorno alla metà del Quattrocento che anche in Italia – con il progressivo cristallizzarsi degli equilibri politici sanciti dalla pace di Lodi e dopo che molte delle dinastie al potere erano riuscite ad assicurarsi titoli di sovranità più solidi e autorevoli che in passato – iniziarono a maturare le condizioni per la costruzione di vere e proprie regge, specificamente e programmaticamente costruite per ospitare il sovrano e la sua corte, simboleggiandone la pienezza del potere in città.16 Nel giro di pochi anni furono così avviate alcune operazioni di inedito respiro in quelle che all’epoca erano le tre principali sedi dinastiche della Penisola: 1988, pp. 383-386; e G. Perbellini, Castelli scaligeri, Milano 1982, pp. 34-40; per Mantova, G. Rodella, Le strutture architettoniche, in Il palazzo ducale di Mantova, a cura di G. Algeri, Mantova 2003, pp. 17-52; e M. Romani, Una città in forma di palazzo. Potere signorile e forma urbana nella Mantova medievale e moderna, Brescia 1995, pp. 61-88; per Ferrara, M. Folin, La committenza estense, l’Alberti e il palazzo di corte di Ferrara, in Leon Battista Alberti. Architetture e Committenti, Atti dei Convegni del Comitato Nazionale (Firenze-Rimini-Mantova, 12-16 ottobre 2004), a cura di A. Calzona et alii, Firenze, Olschki, 2009, I, pp. 257-304; per Camerino, F. Paino, The Palazzo of the da Varano Family in Camerino (Fourteenth-Sixteenth Centuries): Typology and Evolution of a Central Italian Aristocratic Residence, in The Medieval Household in Christian Europe, c. 850-c. 1550. Managing Power, Wealth and the Body, a cura di C. Beatti-A. Maslakovic-S. Rees Jones, Turnhout, Brepols, 2003, pp. 335-358; per Pesaro, M. Frenquellucci, Il palazzo ducale sulla scena della piazza di Pesaro all’epoca dei Malatesta e degli Sforza, in La corte di

Pesaro: storia di una residenza signorile, a cura di S. Eiche, M. Casciato, M.R. Valazzi e M. Frenquellucci, Modena 1986, pp. 57-66; per Foligno, V. Franchetti Pardo, Palazzo Trinci nel contesto della città di Foligno, in Il palazzo Trinci di Foligno, a cura di G. Benazzi e F.F. Mancini, Perugia 2001, pp. 29-50. 14. Cfr. M. Berengo, La capitale nell’Europa di antico regime, in Id., Città italiana e città europea. Ricerche storiche, a cura di M. Folin, Reggio Emilia, in corso di pubblicazione. 15. Cfr. U. Caleffini, Croniche, 1471-1494, a cura di F. Cazzola, Ferrara 2006, pp. 17 (dicembre 1472) e pp. 36-37 (27 marzo 1473); e Folin, La committenza estense, cit., pp. 277284; quanto al caso carpigiano, cfr. ora Il palazzo dei Pio a Carpi. Sette secoli di architettura e arte, a cura di M. Rossi e E. Svalduz, Venezia 2008. 16. I primi a farsi investire del titolo ducale furono i Visconti, nel 1395; fu poi il turno dei Savoia (1416), dei Montefeltro (1443) e degli Este (1452, 1471). I Gonzaga, dal canto loro, ottennero il titolo ducale solo nel 1530.

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ossia la ristrutturazione del Castelnuovo per mano di Alfonso d’Aragona a Napoli dal 1446 in poi; 17 la ricostruzione del castello di Porta Giovia a Milano, voluta da Francesco Sforza dopo il suo ingresso in città nel 1450; 18 e il rinnovamento del palazzo vaticano progettato da Nicolò V a Roma a partire dal 1453.19 Sono iniziative legate da un’evidente aria di famiglia: il modello cui continuavano a far riferimento, seguendo peraltro la strada già imboccata da Sigismondo Pandolfo a Rimini qualche anno prima con l’impresa di Castel Sismondo,20 rimaneva quello trecentesco della rocca cittadina, il quale veniva però ora profondamente rinnovato in termini sia funzionali che di linguaggio architettonico. Salvo poche eccezioni, infatti, le rocche tardomedievali erano destinate a usi prevalentemente militari, e solo di rado e in via straordinaria venivano adibite a scopi residenziali: anche le rocche viscontee di Vigevano o Pandino, per esempio, in origine non erano pensate come luoghi di soggiorno abituale e duraturo per il sovrano (e la stessa scelta di Filippo Maria Visconti di risiedere per vent’anni nel castello di Porta Giovia fu unanimemente stigmatizzata come eccentrica dai suoi contemporanei).21 Al contrario, pur senza abbandonare le funzioni militari e l’aspetto autoritario – che ancora per Leon Battista Alberti ne costituivano uno degli elementi distintivi, sì da farne l’«aes tyrannorum» per eccellenza 22 –, le rocche innalzate da Alfonso d’Aragona e Nicolò V (e in parte anche quella eretta da Francesco Sforza) si configuravano essenzialmente come edifici di corte: palcoscenici deputati all’esercizio del potere monarchico, attrezzati non solo per ospitare il sovrano e il suo seguito ma anche, in via ordinaria, una serie di offici di governo. Era lo stesso aspetto architettonico a manifestare queste 17. In generale, sul Castelnuovo aragonese, cfr. ancora R. Filangieri, Castelnuovo reggia angioina e aragonese di Napoli, Napoli 1934, pp. 39-191; e più recentemente A. Beyer, Napoli, in Storia dell’architettura italiana, Il Quattrocento, a cura di F.P. Fiore, Milano 1998, pp. 437-440, con la bibliografia ivi citata. 18. Cfr. E. Welch, Art and Authority in Renaissance Milan, Yale 1995, pp. 169-238; e Boucheron, Le pouvoir de bâtir, cit., pp. 200-217. 19. Cfr. C.L. Frommel, Roma, in Storia dell’architettura italiana, Il Quattrocento, cit., pp. 377-379; e da ultimo F. Cantatore, In margine alla Vita di Giannozzo Manetti: scrittura e architettura nella Roma di Niccolò V, in Leon Battista Alberti. Architetture e committenti, cit., II, pp. 570-578 e la bibliografia ivi citata. 20. Su quell’episodio straordinariamente anticipatore che fu Castel Sismondo (13371446 ca.), cfr. Castel Sismondo. Sigismondo Pandolfo Malatesta e l’arte militare del primo

Rinascimento, a cura di A. Turchini, Cesena 2003, e la ricca bibliografia ivi citata; in particolare, sull’uso celebrativo dell’icona del castello come ‘reggia’ da parte di Sigismondo Pandolfo, cfr. J. Woods-Marsden, How Quattrocento Princes used Art: Sigismundo Pandolfo Malatesta of Rimini and cose militari, «Renaissance Studies», III (1989), pp. 387-414. 21. P.C. Decembrio, Vita Philippi Mariae tertii Ligurum ducis, a cura di A. Butti, F. Fossati e G. Petralione, Bologna 1925-1958, pp. 281-282. 22. Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, V, 3 (Id., L’architettura [De re aedificatoria], a cura di G. Orlandi, Milano 1966, I, pp. 347349); per le implicazioni autoritarie dell’immagine della rocca, cfr. J. Woods-Marsden, Images of Castles in the Renaissance: Symbols of «Signoria»/Symbols of Tyranny, «Art Journal», XLVIII (1989), 2, pp. 130-137; e Boucheron, Le pouvoir de bâtir, cit., pp. 200-217.

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nuove valenze nel modo più esplicito e programmatico, ricorrendo al linguaggio all’antica per incastonare nella struttura di matrice tardogotica una serie di elementi decorativi di scoperto valore celebrativo – logge, gallerie, cortili d’onore, giardini... –, rivestendo di nuovi significati ‘trionfali’ le forme ereditate dalla tradizione (come nel caso degli ingressi fra torri accoppiate del Castelnuovo di Napoli o del palazzo vaticano di Nicolò V).23 Né erano da meno gli ambienti interni, «regaliter exornat[i]» (come scriveva Giannozzo Manetti riferendosi al nuovo palazzo pontificio) 24 e progettati espressamente, a partire dal grande salone destinato alle udienze solenni, per rispondere alle esigenze dei cerimoniali di corte. Così nella reggia di Napoli, per esempio, chi oltrepassava i battenti bronzei che rievocavano la vittoria aragonese sui baroni ribelli si trovava in un cortile circoscritto da portici e prospetti riccamente decorati: di fronte a sé aveva la facciata della cappella palatina e lo scalone d’accesso alla Gran Sala, mentre tutto intorno – al piano terra – erano distribuiti i principali offici di governo (la Sommaria, la cancelleria, la tesoreria...); ai piani superiori si trovavano invece gli appartamenti destinati al re, alla regina, ai rispettivi familiari e cortigiani, affacciati sul parco e i giardini che circondavano il castello.25 Secondo Patrick Boucheron questa sorta di «smilitarizzazione simbolica» dell’immagine della rocca non era solo una questione di gusti estetici, ma corrispondeva anche e soprattutto a una precisa esigenza ideologica: quella di attenuare la carica di aggressività connaturata alla matrice militare dell’architettura castellana, presentando il regime signorile come espressione di un potere sì monarchico, sovrano, ma del tutto esente da velleità tiranniche.26 Certo è che con queste innovazioni, lungi dall’essere percepite come un residuo del passato, nella seconda metà del secolo il modello della rocca acquistò una nuova visibilità, confermandosi come una delle tipologie di dimora ‘regale’ per eccellenza: tant’è che si possono citare almeno tre casi di prima grandezza – Mantova all’indomani della Dieta del 1459-1460, Milano per volontà di Galeazzo Maria Sforza (1467-1468), Ferrara su iniziativa della duchessa napoletana Eleonora d’Aragona (1476) – in cui si decise di trasferire in vecchie rocche rimodernate per l’occasione una parte dei locali di corte che prima si trovavano in ‘palazzi di città’ affacciati su antiche piazze civiche.27 Basterà ricordare i nomi degli artisti coinvol23. Cfr. ora C.L. Frommel, Alberti e la porta trionfale di Castel Nuovo a Napoli, «Annali di Architettura», XX (2008), pp. 13-36, con la bibliografia ivi citata. 24. I. Manetti, De vita ac gestis Nicolai quinti summi pontificis, a cura di A. Modigliani, Roma 2005, p. 73. 25. Filangieri, Castelnuovo reggia angioina, cit., pp. 159-178.

26. Cfr. P. Boucheron, «Non domus ista sed urbs»: Palais princiers et environnemenet urbain ua Quattrocento (Milan, Mantoue, Urbino), in Les palais dans la ville. Espaces urbains et lieux de la puissance publique dans la Méditerranée médiévale, a cura di P. Boucheron e J. Chiffoleau, Lyon 2004, pp. 249-284. 27. Sul trasferimento della corte gonzaghesca nel castello di Mantova, cfr. G. Rodella, S.

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ti in tali imprese (Mantegna a Mantova, Bonifacio Bembo e in seguito Bramante e Leonardo a Milano, Biagio Rossetti a Ferrara) per dire sino a qual punto queste operazioni, solo apparentemente anacronistiche, potevano essere allora considerate perfettamente aggiornate e compatibili con l’adozione di soluzioni all’antica.

Palazzi Per tutto il Quattrocento, dunque, il ‘tipo’ della rocca costruita minacciosamente ai margini della città, per quanto variamente ingentilito da innesti classicheggianti, rimase un costante punto di riferimento per i prìncipi italiani. Non era certo l’unico, però, e le stesse ibridazioni a cui veniva correntemente sottoposto sono il segno più tangibile della straordinaria varietà di modelli che convivevano nella cultura rinascimentale italiana e che in definitiva ne costituivano il tratto distintivo nel contesto europeo. Lo si è già sottolineato, la maggior parte delle dinastie regnanti dal Tevere alle Alpi non avrebbe mai reciso del tutto i legami con le proprie radici municipali, spesso mercantili: radici generalmente abbarbicate in una o più case di città, fulcro di un potere che si fondava anche e soprattutto su relazioni simbiotiche con gli spazi di mercato e con la società che li utilizzava, e che dunque erano improntate da assetti, funzioni e dislocazioni spesso totalmente diversi rispetto a quelli delle rocche di cui si è appena detto. Si trattava in genere di organismi edilizi che, pur senza rinunciare completamente ai parafernali della sicurezza militare (torri, merli, ‘corridori’ fortificati...) presentavano però caratteri marcatamente civili: dalla destinazione commerciale del piano terra all’affaccio appunto su una piazza o una strada trafficata; dalla presenza di logge e cortili liberamente accessibili ai sudditi all’articolazione del complesso di diversi corpi di fabbrica addossati disordinatamente gli uni agli altri, senza un piano d’insieme e in funzione delle esigenze che si erano andate di volta in volta presentando alla casata. Nella maggior parte dei casi, in effetti, il processo di affermazione del potere signorile in città era stato lento e accidentato, e la configurazione delle residenze dinastiche non faceva che rispecchiare questa crescita graduale, non priva di ambiguità e contraddizioni: nel corso del tempo gli spazi di corte si erano andati progressivamente ampliando e avevano fagocitato gli edifici circostanti, ma senza mai amalgamarsi con essi in una struttura coerente, anzi spesso ricalcandone l’impianto originario; di rado si era intervenuti a modificare la rete stradale, per esempio, preferendo piuttosto collegare le diverse pertinenze di corte tramite passaggi aerei costruiti a cavallo della via. Ne risultava una congerie di blocchi edilizi variamente aggregati e sostanzialmente indistinguibili dagli edifici circostanti, privi com’erano di chiari segni di demarcazione che ne delimitassero il perimetro.

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Nel corso del Quattrocento, soprattutto nella seconda metà del secolo, praticamente tutti questi edifici vennero profondamente rinnovati, e in certi casi ricostruiti dalle fondamenta. È luogo comune che il palazzo mediceo in via Larga, costruito da Michelozzo di Bartolomeo per Cosimo de’ Medici a partire dal 1444, possa essere considerato il prototipo del nuovo palazzo quattrocentesco all’antica, caratterizzato da una pianta tendenzialmente regolare e un impianto assiale, articolato nella sequenza androne d’ingresso, cortile d’onore e giardino sul lato opposto rispetto all’entrata: caratteri, questi, destinati a imporsi dapprima in Toscana – da Firenze a Pienza –, in seguito a Roma e a Urbino, per poi di qui diffondersi un po’ in tutte le città della Penisola, influenzando profondamente i gusti delle élites aristocratiche italiane.28 Ed è stato più volte sottolineato come le soluzioni sperimentate intorno alla metà del secolo fra il Tevere e l’Arno abbiano contribuito ad alimentare un canone di forme e maniere emulate anche altrove nel nostro paese: in proposito si potrebbero addurre vari esempi, dal palazzo dei Bentivoglio a Bologna a quelli di Giulio Cesare Varano a Camerino o di Alessandro Sforza a Pesaro.29 L’Occaso, «...questi logiamenti de castello siano forniti et adaptati...». Trasformazioni e interventi in Castello all’epoca del Mantegna, in Andrea Mantegna e i Gonzaga. Rinascimento nel Castello di San Giorgio, a cura di F. Trevisani, Milano 2006, pp. 21-35; sugli interventi di Galeazzo Maria Sforza nel castello sforzesco, cfr. Welch, Art and Authority, cit., pp. 203240; quanto alla figura di Eleonora d’Aragona e la trasformazione del castello in struttura residenziale, cfr. M. Folin, La corte della duchessa: Eleonora d’Aragona a Ferrara, in Donne di potere nel Rinascimento, a cura di L. Arcangeli e S. Peyronel Rambaldi, Roma 2008, pp. 481-512; e Id., Eleonora d’Aragona et Ercole I d’Este: un couple de souverains bâtisseurs, relazione presentata al convegno Homme batisseur et femme batisseuse: analogie, ambivalence, antithèse?, Parigi, INHA, 1-2 dicembre 2008. Per inciso, va osservato che anche la maggior parte delle dinastie signorili ‘minori’ continuarono per tutto il secolo a utilizzare come sede di rappresentanza una rocca, o un «palazzo in rocca», come lo si trova definito a Imola: cfr. S. Zaggia, Una piazza per la città del principe. Strategie urbane e architettura a Imola durante la Signoria di Girolamo Riario (1473-1488), Roma 1999, pp. 76-78; e, per qualche altro esempio, S. Beltramo, La committenza architettonica di Ludovico II: i castelli di Verzuolo e di Saluzzo, in Ludovico II marchese di Saluzzo. Condottiero, uomo di Stato, mecenate

(1475-1504), a cura di R. Comba, Cuneo 2005, pp. 563-584; B. Adorni, Il castello si sdoppia: il palazzo di corte vicino alla rocca di Cortemaggiore, in Il principe architetto, cit., pp. 153-164; e Rocche e fortificazioni nello Stato della Chiesa, a cura di M.G. Nico Ottaviani, Perugia 2004. 28. Cfr. A. Bruschi, Brunelleschi e la nuova architettura fiorentina, in Storia dell’architettura italiana, Il Quattrocento, cit., pp. 104-106; F.P. Fiore, Leon Battista Alberti, palazzi e città, in Leon Battista Alberti e l’architettura, Catalogo della mostra, Mantova, 16 settembre 2006-14 gennaio 2007, a cura di M. Bulgarelli, A. Calzona, M. Ceriana e F.P. Fiore, Milano 2006, pp. 99-100; e C.L. Frommel, Abitare all’antica. Il palazzo e la villa da Brunelleschi a Palladio, in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, a cura di H. Millon e V. Magnago Lampugnani, Milano 1994, pp. 183-203; sul palazzo di via Larga, in particolare, cfr. Il Palazzo Medici-Riccardi di Firenze, a cura di G. Cherubini e G. Fanelli, Firenze 1990. 29. Sulle ascendenze fiorentine della facciata del palazzo di Alessandro Sforza a Pesaro, cfr. S. Eiche, Architetture sforzesche, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, Venezia 1989, pp. 278-279; su quelle del palazzo Bentivoglio a Bologna, S. Valtieri, Il palazzo Bentivoglio a Bologna, in Il palazzo del principe, il palazzo del

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In effetti, è un po’ in tutta Italia che il rinnovamento dell’architettura palaziale nella seconda metà del Quattrocento segue analoghe direttrici: ovunque, in particolare, si nota la tendenza ad accorpare i nuclei edilizi prima divisi per renderne i prospetti più omogenei e leggibili in quanto tali, staccandoli visivamente dal tessuto circostante ed eventualmente allontanandone le funzioni meno nobili, trasferite in corpi di fabbrica separati (stalle, fondaci ecc.).30 Un po’ dappertutto si cerca di riorganizzare gli ambienti così ricomposti intorno a un cortile centrale incorniciato da logge all’antica e nobilitato come fulcro distributivo dell’intero complesso residenziale («sinus» della casa, lo definiva Leon Battista Alberti); 31 ovunque si tende a demarcare l’ingresso principale (in genere connesso direttamente al cortile d’onore, e magari segnalato da stilemi tratti dal repertorio trionfale) distinguendolo dalla pluralità degli accessi di servizio di vecchia tradizione; 32 e ancora si cerca di sancire formalmente il nuovo ordinamento gerarchico degli spazi di corte, consacrando l’importanza della facciata principale, interamente ridisegnata o comunque enfatizzata, oltre che dal portale d’ingresso, da logge, balconi o altri emblemi di distinzione (stemmi di famiglia, clipei, panche, monumenti dinastici...).33 cardinale, il palazzo del mercante nel Rinascimento, Roma 1988, pp. 3-32. Quanto al palazzo dei Varano a Camerino, cfr. Paino, The Camerino Palace, cit., pp. 349-357; S. Corradini, Il palazzo di Giulio Cesare Varano e l’architetto Baccio Pontelli, «Studi Maceratesi», V (1969), pp. 186-220; e F. Benelli, Il palazzo ducale di Camerino, in Il Quattrocento a Camerino, a cura di A. De Marchi e M. Giannatiempo Lopez, Milano 2002, pp. 273-274. 30. Era una tendenza, questa, che spesso portava a disporre di fronte alle «case reali e signorili», come non mancava di far notare Francesco di Giorgio, una «magna et spaziosa piazza dove l’entrate delle pubriche strade si riferischi», o per lo meno degli spazi di rispetto tali da consentire un certo isolamento delle ‘regge’ dagli edifici circostanti (F. di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, a cura di C. Maltese, Milano 1967, I, p. 70). 31. Alberti, L’architettura [De re aedificatoria], cit., p. 417; in proposito, cfr. Fiore, Leon Battista Alberti, cit., pp. 99-100; e G. Clarke, Roman House - Renaissance Palaces. Inventing Antiquity in Fifteenth-Century Italy, Cambridge 2003, pp. 255-272. 32. Vedi ivi, pp. 240-252; e, per un esempio specifico, W. Prinz, Simboli ed immagini di pa-

ce e di guerra nei portali del Rinascimento: la Porta della guerra nel Palazzo di Federico di Montefeltro, in Federico di Montefeltro, a cura di G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini e P. Floriani, Roma 1986, II, pp. 65-72. 33. Sulla nuova importanza acquisita dalla facciata nell’architettura civile del Rinascimento, cfr. D. Friedman, Palaces and Street in Late Medieval and Renaissance Italy, in Urban Landscapes: International Perspectives, a cura di J.W.R. Whitehand e P.J. Larkham, London 1992, pp. 69-113; Id., Il palazzo e la città: facciate fiorentine tra XIV e XV secolo, in Il palazzo dal Rinascimento ad oggi, a cura di S. Valtieri, Roma 1989, pp. 101-111; C. Burroughs, The Italian Renaissance Palace Façade. Structures of Authority, Surfaces of Sense, Cambridge 2002; e Clarke, Roman House, cit., pp. 179-227. Più specificamente, sulle panche come emblema di potere, cfr. Y. Elet, Seats of Power. The Outdoor Benches of Early Modern Florence, «The Journal of the Society of Architectural Historians», LXI (2002), 4, pp. 444-469; e, sull’uso di decorare le facciate dei palazzi con busti di imperatori, F. Caglioti, Fifteenth-Century Reliefs of Ancient Emperors and Empresses in Florence: Production and Collecting, in Collecting Sculpture in Early Modern Europe, a cura di N. Penny e E.D. Schmidt, New Haven 2008, pp. 67-109; e Id., Desiderio da Settignano: Profiles

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L’orientamento complessivo sembra dunque abbastanza coerente, e del tutto in linea con le propensioni toscane; ciò nondimeno, questa apparente univocità va temperata in base ad alcune considerazioni d’ordine generale. In primo luogo bisogna sottolineare che, pur con tutto il prestigio che gli architetti fiorentini seppero guadagnarsi nel corso del secolo, il richiamo all’Auctoritas dei Classici non dovette mai passare ‘necessariamente’ dalle rive dell’Arno: i cicli decorativi e lo stesso impianto architettonico della Reggia carrarese o di palazzo Trinci, solo per citare due esempi fra i molti possibili, mostrano come l’Antico offrisse da tempo ai Signori della Penisola un vasto repertorio di immagini, simboli e forme autorevoli, in grado di nobilitare e legittimare con la propria vetusta magniloquenza qualsiasi potere che decidesse di farsene scudo.34 Ancora intorno alla metà del Quattrocento la varietà dei possibili canali d’accesso alla cultura antica è ben illustrata da quel «primo fiore del Rinascimento in terra padana» che fu il cosiddetto arco del cavallo a Ferrara (1443-1451): ossia la base del monumento equestre a Nicolò III d’Este, che non sembra proprio dovuta a una breve incursione in città di Leon Battista Alberti (come a suo tempo aveva ipotizzato Adolfo Venturi), bensì ai diuturni studi degli umanisti locali, Guarino da Verona in testa, a caccia di autonome fonti di ispirazione attinte non tanto a Roma, quanto direttamente a Costantinopoli.35 Non meno diffusa e anch’essa assai più antica dei lavori michelozziani al palazzo mediceo è l’inclinazione ad accorpare i fondi e gli edifici sparsi di proprietà signorile in un’insula topograficamente coerente: se ne sono potute seguire le tracce già nel corso del XIV secolo nella Lucca dei Guinigi o nella Foligno dei Trinci, per esempio, per quanto non manchino gli indizi del prender corpo di analoghe strategie pure a Pesaro, a Urbino, a Ferrara, a Carpi, a Mantova... (ma la casistica si arricchirebbe molto ampliando il campo d’osservazione anche a città non signorili, interessate però da dinamiche sostanzialmente affini, come Genova o Roma).36 E che dire della tendenza a enfatizzare la centralità del corof Heroes and Heroines of the Ancient World, in Desiderio da Settignano, Sculptor of Renaissance Florence, a cura di M. Bormand, B. Paolozzi Strozzi e N. Penny, Milano 2007, pp. 87-101.

in Il palazzo Trinci di Foligno, cit., pp. 217228), lo si ritrova per esempio sin dalla prima metà del Trecento a Mantova e a Verona (cfr. Varanini, La propaganda, p. 333).

34. In effetti, la presenza di soggetti antichi nei grandi cicli decorativi che ornavano gli ambienti di rappresentanza delle domus signorili tardomedievali sembra un dato ampiamente ricorrente: oltre che a Padova e a Foligno (su cui cfr. rispettivamente M.M. Donato, Gli eroi romani tra storia ed «exemplum»: i primi cicli umanistici di Uomini Famosi, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, II, I generi e i temi ritrovati, a cura di S. Settis, Torino 1985, pp. 103-124; e L. Sensi, Aurea quondam Roma,

35. Cfr. Folin, La committenza estense, cit., pp. 260-277. 36. Su Lucca, cfr. C. Altavista, Lucca e Paolo Guinigi (1400-1430): la costruzione di una corte rinascimentale. Città, architettura, arte, Pisa 2005, pp. 30-39; sui Trinci a Foligno, cfr. L. Lametti, Il palazzo: dalle preesistenze all’Unità d’Italia, in Il palazzo Trinci di Foligno, cit., pp. 51-104; e Franchetti Pardo, Palazzo Trinci, cit. Sulle dimore dei Malatesta a Pesaro, poi in parte unificate nel palazzo ducale sforze-

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tile d’onore come snodo fondamentale dei percorsi d’accesso agli ambienti interni del palazzo? Certo, è un aspetto lucidamente teorizzato da Leon Battista Alberti in un passo molto noto e citato del De re aedificatoria; ma in realtà si tratta di un impianto distributivo che troviamo già perfettamente maturo nel palazzo di Avignone, che sappiamo essere stato uno dei grandi modelli ispiratori dei committenti tardomedievali.37 L’impressione, insomma, è che il caso fiorentino non costituisca tanto il motore immobile del processo che stiamo qui evocando, quanto una delle sue tante declinazioni: una declinazione senza dubbio particolarmente consapevole ed esplicita, ma non necessariamente quella predominante, almeno per buona parte del secolo, né certo la più precoce. D’altro canto, va detto che il peso delle preesistenze e dei condizionamenti locali (disponibilità di materiali, tradizioni costruttive, peculiarità topografiche ecc.) comportava la necessità di una profonda rielaborazione autoctona dei modelli che pure iniziavano a circolare. Non a caso, pare che i Signori italiani non siano mai riusciti a dare un assetto davvero geometrico alle proprie dimore (salvo forse i Bentivoglio a Bologna, ma sul loro palazzo disponiamo solo di documenti indiretti, o assai tardi, e questo dovrebbe invitare alla prudenza),38 limitandosi nei casi più fortunati a occupare uno o più isolati già esistenti di cui venivano al massimo rettificati i fronti viari. In effetti, per gli architetti e i committenti del Quattrocento la domus romana vagheggiata sulla scorta delle fonti antiche e dei moderni tentativi di restituzione sembra essere stata un punto di riferimento di carattere soprattutto teorico-regolativo, non realizzabile concretamente se non a prezzo di forti adattamenti alla complicata realtà urbana tardomedievale: ed effettivamente adottato soprattutto a livello di dettagli, per frammenti (la loggia, il portale, l’atrio, il partito decorativo, il cortile ecc.), tramite aggiustamenti progressivi spesso dilatati su un lungo arco di tempo e senza mai fare tabula rasa delle vestigia dei secoli precedenti.39 sco, cfr. Eiche, Architetture sforzesche, cit., pp. 274, 282; e Frenquellucci, Il palazzo ducale, cit. Quanto all’accenno a Roma e a Genova, cfr. rispettivamente H. Broise, J.-C. Maire Vigueur, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’arte italiana, III/5, Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 114-145; E. Grendi, Profilo storico degli Alberghi genovesi, «Mélanges de l’École Française de Rome», LXXXVII (1975), 1, pp. 241-302; E. Poleggi, P. Cevini, Genova, Roma-Bari 1981, pp. 68-76. 37. Cfr. Alberti, L’architettura [De re aedificatoria], cit., p. 417; quanto alla distribuzione degli ambienti nel palazzo di Avignone, cfr. G.M. Radke, Form and Function in Thirteenth-Century Papal Palaces, in Architecture et vie sociale à la Renaissance, a cura di J. Guillau-

me, Paris 1994, pp. 11-24; B. Schimmelpfennig, Ad maiorem pape gloriam. La fonction des pièces dans le palais des papes d’Avignon, ivi, pp. 25-46; e più generalmente D. Vingtain, Avignon. Le Palais des Papes, St. Léger Vauban 1998 (trad. it. Avignone. Il Palazzo dei Papi, Milano 1999). 38. Cfr. W.E. Wallace, The Bentivoglio Palace Lost and Reconstructed, «Sixteenth Century Journal», X (1979), 3, pp. 97-114; Valtieri, Il palazzo Bentivoglio a Bologna, cit.; e più recentemente C. James, The Palazzo Bentivoglio in 1487, «Mitteilungen des Kunsthistoriscen Institutes in Florenz», XLI (1997), pp. 188-196; e R.J. Tuttle, Bologna, in Storia dell’architettura italiana, Il Quattrocento, cit., pp. 266-268. 39. Sulla fortuna rinascimentale della domus romana, cfr. Clarke, Roman House, cit.

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Assolutamente emblematico, da questo punto di vista, sembra il caso del palazzo di Federico da Montefeltro a Urbino (1464-fine anni Settanta), rispetto a cui Arnaldo Bruschi ha recentemente sostenuto l’impossibilità di discernere un progetto unitario e coerente, dato il gran numero di architetti, volontà, idee non sempre coerenti che vi si incontrarono, dando forma a un complesso congenitamente composito ed eterogeneo: qui, come altrove, l’importanza dei merli come principale elemento unificante dei diversi corpi di fabbrica in cui si articolava il palazzo la dice lunga sui limiti dell’impresa di normalizzazione condotta da Federico, e d’altro canto sulla sua radicata volontà di non rinnegare mai del tutto il lessico di retaggio medievale.40 Non è l’unico segnale della perdurante varietà delle fonti di ispirazione a cui per tutto il secolo continuarono ad attingere i Signori e i loro architetti: un altro indizio di grande pregnanza è la presenza, al piano terra di molte delle nuove dimore signorili costruite nel Quattrocento, di schiere di botteghe, inquadrate o meno da logge, che non si peritavano di denunciare la propria destinazione ‘bassamente’ commerciale; e questo non soltanto lungo i prospetti secondari del palazzo, ma anche in bella vista sulla facciata principale (così a Ferrara, a Pesaro, a Faenza...).41 Era una soluzione che trovava scarsissimi appigli nelle fonti classiche, e che viceversa – se non esplicitamente riprovata dai trattatisti contemporanei – veniva però da loro in genere associata alle abitazioni delle classi inferiori («tenuiorum aedificationes», diceva Leon Battista Alberti) e in ogni caso ritenuta del tutto inadatta alla dimora di un sovrano.42 Ciò nondimeno, le botteghe avrebbero continuato a fare bella mostra di sé sui quattro fianchi delle nuove regge quattrocentesche, ostentate come segno identitario 40. Cfr. A. Bruschi, Luciano di Laurana. Chi era costui? Laurana, fra Carnevale, Alberti a Urbino: un tentativo di revisione, «Annali di Architettura», XX (2008), pp. 37-81 (p. 60 sui merli in funzione unificante); sul palazzo, cfr. anche F.P. Fiore, Urbino: i Montefeltro e i Della Rovere, in Corti italiane del Rinascimento. Le arti e la politica nella prima età moderna, a cura di M. Folin, Milano, in corso di pubblicazione, con la bibliografia ivi citata. Profili merlati come quello del Palazzo di Urbino costituiscono un motivo assolutamente ricorrente dell’architettura signorile italiana del XV secolo: li ritroviamo a Bologna come a Mantova, a Roma come a Ferrara, a Gubbio come a Pesaro e generalmente nella maggior parte dei casi su cui disponiamo informazioni. 41. Per Ferrara, cfr. Folin, La committenza estense, cit., pp. 282-283, 293-294, 300-301; per Pesaro, Eiche, Architetture sforzesche, cit., pp. 280-281; per Faenza, E. Godoli, Faenza dall’XI al XVI secolo, in Faenza: la città e l’archi-

tettura, a cura di F. Bertoni, Faenza 1993, pp. 79-84. 42. Cfr. Alberti, L’architettura [De re aedificatoria], cit., pp. 435-437 (sostanzialmente concorde Filarete: cfr. Antonio Averlino detto il Filarete, Trattato di architettura, a cura di A.M. Finoli e L. Grassi, Milano 1972, I, pp. 323-330). Un labile accenno alla possibilità di mettere botteghe a piano terra (ossia «stabula, tabernae» nei «vestibuli» delle case di coloro «qui fructibus rusticis serviunt») si trova in Vitruvio, De architectura, 6, 5, 1 (a cura di P. Gros, Torino 1997, II, p. 844). Sull’estraneità del palazzo con botteghe alla tradizione edilizia fiorentina (ma non a quella romana), cfr. A. Belluzzi, Residenze di mercanti fiorentini nel Cinquecento, in Il mercante patrizio. Palazzi e botteghe nell’Europa del Rinascimento, a cura di D. Calabi, Milano 2008, pp. 117-130; e C. Conforti, Palazzi con botteghe nella Roma moderna, ivi, pp. 131-138.

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forte in quanto radicato nella tradizione politico-economica cittadina, oltre che come una imprescindibile fonte di reddito per le casse signorili: a tal punto che a Imola, per esempio, Girolamo Riario poté edificare un intero palazzo sulla piazza principale della città deputandolo prevalentemente a sede di botteghe, magazzini e offici pubblici.43

Dimore di campagna A osservare il panorama offerto dai palazzi dinastici costruiti o rinnovati nel corso del Quattrocento, dunque, non sembra di avere a che fare tanto con un processo lineare di irradiamento progressivo dell’influenza fiorentina nel resto della Penisola, quanto con una dialettica sempre aperta fra alcuni canoni classicisti da un lato (di cui è vero che a partire da una certa data i Medici si proposero come interpreti privilegiati), e dall’altro con una serie di consuetudini locali orgogliose dei propri motivi di distinzione, anzi spesso tese, in un contesto profondamente emulativo quale quello italiano, ad accentuarne i tratti più riconoscibili. È sostanzialmente lo stesso orizzonte che si presenta a prendere in considerazione un terzo genere di dimore degne, se non tipiche, di sovrani abituati a itinerare continuamente nei propri domini, come erano soliti fare un po’ tutti i Signori italiani del Rinascimento: ossia quei palazzi di campagna che per certi versi potrebbero essere assimilati a delle ‘ville’ (per usare un termine che sarebbe divenuto d’uso corrente più tardi, ma che già allora rinviava a una realtà diffusa e perfettamente riconoscibile), pur distinguendosi per il loro carattere di residenza ‘ufficiale’, di rappresentanza, deputata specificamente all’esibizione delle virtù regali del Principe. Dai fondamentali studi di Ackerman in poi, un ruolo di spicco nell’evoluzione delle residenze rurali delle élites nobiliari italiane ed europee è stato attribuito per un verso alle prime ville medicee – Trebbio, Careggi, Fiesole... per culminare nella straordinaria operazione di Poggio a Caiano –, per altro verso alle grandi imprese romane di commissione pontificia e cardinalizia, a partire dal Belvedere di Sisto IV (1487).44 Anche in questo caso, tuttavia, dagli studi più recenti emerge un quadro assai più articolato e risalente, in cui le imprese fiorentine e romane si profilano come un episodio certo fondamentale, ma che non avrebbe mai soffocato del tutto la forte vivacità delle tradizioni ‘regionali’, in 43. Zaggia, Una piazza per la città del principe, cit., pp. 98-128. 44. Cfr. J.S. Ackerman, The Villa. Form and Ideology of Country Houses, Princeton 1990 (trad. it La villa. Forma e ideologia, Torino 1992, pp. 82-120); C.L. Frommel, La nuova

villa a Firenze e a Roma, in Andrea Palladio e la villa veneta da Petrarca a Carlo Scarpa, a cura di M. Beltramini e H. Burns, Venezia 2005, pp. 12-29; D.R. Coffin, The Villa in the Life of Renaissance Rome, Princeton 1979.

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grado di mettere in cantiere operazioni ambiziose e quanto mai consapevoli sin dalla prima metà del XIV secolo. Poco sappiamo della villa costruita a Massa Pisana da Castruccio Castracani nel terzo decennio del Trecento (per quanto l’incoronazione imperiale dipinta su una delle pareti del salone d’onore lasci pochi dubbi sull’investimento ideologico di cui l’edificio doveva essere espressione); 45 certo è che già negli anni Venti del secolo seguente Paolo Guinigi costruì nel suburbio orientale di Lucca un «palagio con uno bellissimo giardino» (Sercambi), in cui gli capitava di fare «sua dimoragione» alcuni periodi dell’anno facendo gran sfoggio di magnificenza.46 Nello stesso torno di tempo, operazioni analoghe sono attestate in Veneto,47 nel Mantovano (a Borgoforte, Gonzaga, Goito, Marmirolo, Marcaria, in seguito a Revere),48 nel Milanese.49 Sembra che la prima villa all’antica, concepita programmaticamente come un tentativo di riesumare le magnificenti costruzioni descritte da Plinio e Vitruvio, sia stata quella costruita a Belriguardo nel Ferrarese da Leonello d’Este a partire dal 1435 (vicenda che ruota ancora una volta intorno al circolo umanistico di Guarino da Verona), per quanto in realtà già Nicolò III d’Este, padre di Leonello, avesse l’abitudine sin dalla fine del secolo precedente di passare buona parte dell’anno itinerando fra le sue residenze di campagna.50 È vero, a un certo momento in questo contesto si inserirà con grande efficacia quella che è stata definita la diplomazia cultrale dei Medici – Cosimo il Vecchio prima, soprattutto Lorenzo il Magnifico poi –, e molte delle maggiori imprese della seconda metà del Quattrocento appaiono riconducibili ad architetti che ruotavano intorno alla cerchia medicea, o che comunque con questa avevano rapporti abbastanza stretti, dal Filarete a Milano a Luca Fancelli a Mantova.51 Ben noto è il caso della missione napoletana di Giuliano da Maiano, invia45. Sulla villa di Castruccio Castracani, cfr. Green, Castruccio Castracani, cit., pp. 184185; e Id., Il problema dell’Augusta e della villa di Castruccio Castracani a Massa Pisana, in Atti del convegno su Castruccio Castracani e il suo tempo, [luogo e date del convegno + curatori degli atti] Lucca 1986, I, pp. 353-377. 46. Altavista, Lucca e Paolo Guinigi, cit., pp. 136-156. 47. G.M. Varanini, Cittadini e «ville» nella campagna veneta tre-quattrocentesca, in Andrea Palladio e la villa veneta, cit., pp. 39-54. 48. Cfr. M.R. Palvarini, C. Perogalli, Castelli dei Gonzaga, Milano 1983, pp. 54, 56; in particolare, sul successivo rinnovamento di Goito e Cavriana, cfr. anche G. Rodella, Giovanni da Padova. Un ingegnere gonzaghesco nell’età dell’Umanesimo, Milano 1988; quanto al caso

di Revere, cfr. P. Carpeggiani, Il palazzo gonzaghesco di Revere, Mantova 1974. 49. L. Giordano, «Ditissima tellus». Ville quattrocentesche tra Po e Ticino, in La cascina come struttura sociale e economica nelle campagne della bassa lombarda, «Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», n.s., XL (1988), pp. 218-219. 50. M. Folin, Le residenze di corte e il sistema delle ‘delizie’ fra tardo medioevo e prima età moderna, in Delizie estensi. Architetture di villa nel Rinascimento italiano ed europeo, a cura di F. Ceccarelli e M. Folin, Firenze, in corso di stampa. Su Belriguardo, cfr. M.T. Sambin de Norcen, I miti di Belriguardo, in Nuovi antichi. Committenti, cantieri, architetti 1400-1600, a cura di R. Schofield, Milano 2004, pp. 17-65. 51. C. Elam, Art and Diplomacy in Renaissance

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to nel 1487 da Firenze alla corte di Ferdinando d’Aragona con due «modelli per disegno di uno palazo», destinati rispettivamente alle ville di Poggioreale e della Duchesca; e l’anno seguente anche Giuliano da Sangallo l’avrebbe seguito con una grande «pianta d’uno modelo d’uno palazo ch’el magnificho Lorenzo de’ Medici mandò a re Fernando».52 Spesso erano gli stessi Signori a rivolgersi a Firenze per avere suggerimenti e modelli da cui trarre ispirazione: nel 1492, per esempio, Ludovico il Moro faceva venire a Vigevano sempre Giuliano da Sangallo con un gigantesco modello di Poggio a Caiano; mentre in quegli stessi anni a Ferrara Ercole I d’Este ricorse a Filippo Strozzi per averei informazioni e «desegni» in merito al magnifico palazzo che il banchiere fiorentino aveva appena iniziato a costruire, ma di cui già si favoleggiava in tutta Italia.53 E non molto prima Francesco Gonzaga aveva domandato a Leonardo una pianta e le misure della villa toscana di Angelo Tovaglia, in modo da poter riprodurre in una delle sue ville un salone con volta a botte quale quella all’epoca solo progettata per Poggio a Caiano.54 Ancora una volta, però, bisogna stare attenti a non generalizzare: apparentemente la visita di Giuliano da Sangallo a Ludovico il Moro non ebbe particolari conseguenze, se a Vigevano il duca continuò a risiedere nella rocca avita e se una delle sue principali operazioni nelle campagne circostanti – la «fattoria modello» della Sforzesca – costituisce un’impresa del tutto originale rispetto a qualsiasi iniziativa fiorentina del tempo.55 Del resto anche Ercole I d’Este, con tutto il suo entusiasmo per palazzo Strozzi, non si sarebbe peritato di promuovere un linguaggio architettonico profondamente radicato nella tradizione autoctona ferrarese, e programmaticamente estraneo ai canoni che si andavano diffondenFlorence, «Journal of the Royal Society of Art», CXXXVI (1988), pp. 813-825; e più in generale F.W. Kent, Lorenzo de’ Medici and the Art of Magnificence, Baltimore-London 2004. Su Fancelli a Mantova, cfr. C. Vasic Vatovec, Luca Fancelli architetto. Epistolario gonzaghesco, Firenze 1979; per il parallelo con Filarete, P. Carpeggiani, Congruenze e parallelismi nell’architettura lombarda della seconda metà del Quattrocento: il Filarete e Luca Fancelli, «Arte Lombarda», XXXIX (1973), pp. 53-61. 52. In proposito, si veda la relativa scheda di C. Brothers in Andrea Palladio e la villa veneta, cit., pp. 232-235; sull’attività di Giuliano da Maiano a Napoli, cfr. G. Hersey, Alfonso II, Benedetto e Giuliano da Maiano e la porta reale, «Napoli Nobilissima», IV (1964), pp. 77-92; G. Hersey, Alfonso II and the Artistic Renewal of Naples 1485-1495, New Haven-London 1969, pp. 51-81; A. Beyer, Napoli, in Storia dell’Architettura Italiana. Il Quattrocento, cit.,

pp. 352-357. Più specificamente, sulla Duchesca e la villa di Poggioreale, cfr. S. Maffei, La villa di Poggioreale e la Duchesca di Alfonso II d’Aragona in una descrizione di Paolo Giovio. Moduli dell’elogio e tradizione antica, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia», IV (1996), 1-2, pp. 161-182. 53. F.W. Kent, ‘Più superba de quella de Lorenzo’: Courtly and Family Interest in the Building of Filippo Strozzi’s Palace, «Renaissance Quarterly», 30 (1977), p. 311-323. 54. B.V. Brown, Leonardo and the Tale of three Villas: Poggio a Caiano, the Villa Tovaglia in Florence and Poggio Reale in Mantua, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento, a cura di G. Garfagnini, Firenze 1983, III, pp. 1053-1062. 55. Giordano, «Ditissima tellus», cit., pp. 268269.

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do altrove nella Penisola, per quanto capace di stimolare operazioni affini anche in aree vicine e non direttamente soggette al suo controllo come Bologna (dove alla fine del secolo la ‘delizia urbana’ della Viola si ispirava apertamente ai giardini allestiti qualche anno prima da Eleonora d’Aragona a Ferrara).56

La distribuzione degli spazi interni Molti e variegati, dunque, i modelli che continuarono a circolare nel nostro paese per tutto il Quattrocento. Tuttavia, alcune costanti sembrano delinearsi comunque, a partire dalla propensione a uniformare i prospetti perimetrali nell’intento di rendere più organici e coerenti gli eterogenei complessi edilizi ereditati dal tardo medioevo. All’esterno, dunque, la tendenza era alla chiusura della reggia, o in ogni caso a una sua più netta delimitazione in una mole compatta; mentre all’interno ci troviamo di fronte a una corrente complementare, se non contraria: ossia la volontà di aprire e articolare gli ambienti di corte, dotandoli di cortili e giardini, logge aperte sul verde e scaloni di ampio respiro, in una generale dilatazione degli spazi e disseminazione delle funzioni che prima erano compresse nei medesimi locali. È un fenomeno assolutamente ricorrente: che si abbia a che fare con vecchie rocche riattate, ‘ville’ rurali o palazzi di città costruiti ex novo, dappertutto si riscontra il medesimo proposito di dare un assetto più disciplinato agli spazi interni della corte, riorganizzandoli in modo da tenere ben distinte e separate le varie attività che vi si svolgevano – e in qualche misura le diverse categorie di persone che se ne occupavano –, ridistribuendole negli edifici secondo un ordine essenzialmente gerarchico. Così, un po’ ovunque ci troviamo di fronte al tentativo di dividere gli ambienti di rappresentanza, deputati a funzioni fondamentalmente pubbliche, dai quartieri ‘privati’ (o «segreti», come allora si diceva), riservati all’uso domestico del Signore e spesso dislocati nelle aree meno accessibili dei complessi di corte.57 Nella maggior parte dei casi i primi furono oggetto di radicali interventi di rinnovamento nel corso del secolo, facendo ampio ricorso al repertorio classico, dispiegato con particolare magniloquenza soprattutto nel cortile d’onore e nella «sala magna» – ultima declinazione della vecchia «aula regia» di carolingia memoria, deputata alle udienze solenni e alle cerimonie di autocelebrazione del potere.58 Quanto ai quartieri ‘privati’, essi presero generalmente ad arricchirsi di 56. Cfr. ivi, pp. 210-211; e G. Sabadino degli Arienti, Descrizione del Giardino della Viola in Bologna, a cura di B. Basile, in Bentivolorum Magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, Roma 1984, pp. 274-284. 57. Cfr. P. Thornton, The Italian Renaissance

Interior 1400-1600, London 1991 (trad. it. Interni del Rinascimento italiano, Milano 1992), pp. 294-300. 58. Cfr. L. Giordano, La sala grande tra tardo Medioevo e primo Rinascimento, in Imperatori e Dei. Roma e il gusto per l’antico nel Palazzo dei

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una serie di locali di contorno (biblioteche, studioli, bagni, giardini segreti, camere per l’ascolto di musica...) che venivano ad avere un ruolo sempre più nevralgico nella vita di corte, sia sul piano architettonico che su quello del cerimoniale.59 Molti di questi ambienti nel XV secolo non erano del tutto inediti, e se ne possono trovare tracce sparse già nelle fonti medievali: quel che era nuovo era l’investimento ideologico di matrice umanistica di cui essi venivano ora fatti oggetto, e che trovava generalmente espressione in apparati decorativi allestiti con spese e sfarzo inusitati nei secoli precedenti.60 Questo processo ne trascinava con sé un altro, strettamente interconnesso al primo: con il dilatarsi degli spazi di corte in un’articolata costellazione di ambienti (coperti o meno che fossero) tendenzialmente riordinati in base alle rispettive funzioni, all’interno delle nuove regge si veniva a organizzare anche una serie di percorsi privilegiati, strutturati secondo alcuni schemi distributivi abbastanza ricorrenti. Dall’ingresso principale si accedeva al cortile, intorno a cui molto spesso avevano sede i principali offici di governo del regime signorile a partire dalla cancelleria; dal cortile si accedeva inoltre allo scalone, il quale conduceva più o meno direttamente alle sale d’apparato al primo piano (salone d’onore, salotti, anticamere ecc.); di qui, poi, attraverso una successione di ambienti di dimensioni sempre più ridotte, si passava ai quartieri privati del sovrano: camera da letto con relative guardiacamere, oltre appunto a una serie di «camerini» ‘segreti’ (studiolo, bagno ecc.), spesso, ove possibile, affacciati sul verde di un giardino. Viceversa, i locali di servizio – cucine, caneve, stalle, stanze per la servitù... – sarebbero stati progressivamente emarginati in zone del palazzo rigorosamente separate e sottratte alla vista del sovrano e dei suoi visitatori più illustri. Pio a Carpi, a cura di M. Rossi, Carpi 2006, pp. 27-38. 59. In realtà, si ha l’impressione che nel corso del Quattrocento tutti questi spazi siano diventati una presenza qualificante nei palazzi signorili, se non un vero e proprio attributo distintivo dell’idea di reggia: tuttavia, la bibliografia non ha riservato loro pari attenzione, e si sente la mancanza di studi sistematici di carattere comparativo. In particolare, sugli studioli, cfr. W. Liebenwein, Studiolo. Die Entstehung eines Raumtyps und seine Entwicklung bis um 1600, Berlin 1977 (trad. it. Studiolo. Storia e tipologia di uno spazio culturale, Modena 1988); C.H. Clough, Art as Power in the Decoration of the Study of an Italian Renaissance Prince: The Case of Federico Da Montefeltro, «Artibus et Historiae», XVI (1995), 31, pp. 19-50; e O. Raggio, The Liberal Arts Studiolo from the Ducal Palace at Gubbio, «The Metro-

politan Museum of Art Bulletin», n.s., LIII (1996), 4, pp. 3-35; sui bagni, cfr. Thornton, The Italian Renaissance Interior, cit., pp. 315319; sui giardini, Filarete, Trattato di architettura, cit., pp. 450-456, 602-607; Martini, Trattati di architettura, cit., I, pp. 70-72, 245246, 348 e II, pp. 107-109; e G. Pontano, De splendore (1498), in F. Tateo, I trattati delle virtù sociali, Roma 1965, pp. 236-237, 277; sull’importanza della cappella musicale del sovrano nelle corti del Rinascimento, cfr. F. Piperno, Le corti italiane e la musica, in Corti italiane del Rinascimento, cit. (e, per un esempio di ‘camerino musicale’, A. Sarchi, The «studiolo» of Alberto Pio da Carpi, in Drawing Relationships in Northern Renaissance. Art Patronage and Theories of Invention, a cura di G. Periti, Aldershot 2004, pp. 129-151). 60. Cfr. P. Thornton, The Italian Renaissance Interior, cit.

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Vediamo in questo modo nascere il concetto di appartamento, o meglio di appartamenti, al plurale: destinati rispettivamente al Signore, alla sua consorte, alle corti ‘particolari’ dei relativi parenti, e spesso sdoppiati su due piani, destinando le stanze più fredde del piano terra alla stagione estiva, e quelle riscaldate del primo piano ai mesi invernali.61 Secondo Peter Thornton questo impianto distributivo, già descritto da Leon Battista Alberti e poi da Francesco di Giorgio nei loro trattati, fece la sua prima matura comparsa negli anni Sessanta del Quattrocento, in alcuni edifici destinati ben presto a diventare un punto di riferimento emulato un po’ in tutta Italia: il palazzo di Paolo II Barbo a Roma, quello di Enea Silvio Piccolomini a Pienza, quello di Federico da Montefeltro a Urbino...62 Tuttavia, i prodromi di questo processo possono essere fatti risalire più indietro nel tempo, e non coinvolgono unicamente la Penisola. Diamo una rapida occhiata dall’altra parte delle Alpi: pur scontando una forte carenza di studi di carattere comparativo, si ha la netta impressione che in ogni paese europeo fossero all’opera dinamiche assolutamente analoghe a quelle appena evocate per l’area italiana.63 In effetti, per quanto sia in Francia che in Inghilterra si possano rinvenire le tracce di un’incipiente volontà di separare gli ambienti di rappresentanza dagli spazi ‘segreti’ riservati alla persona del sovrano già dagli inizi del Trecento (e in certi casi già prima), è però certo che sia stato soprattutto nel corso del secolo seguente che questa esigenza abbia preso a essere sancita nel modo più palpabile anche sul piano architettonico.64 Simon Thurley, in particolare, ha potuto sostenere che uno dei tratti distintivi delle strategie edilizie dei Lancaster, come poi degli York e dei Tudor, sia stato proprio il tentativo di tutelare la privacy del sovrano (e la sua intangibile superiorità, possiamo aggiungere) tramite la costruzione di una serie di filtri e barriere intesi a separare fisicamente la figura del re dalla massa dei cortigiani e dei visitatori quotidiani. Così, per esempio, nel castello di Sheen (1414-1445 ca.) fu introdotta una soluzione di grande pregnanza: ossia un vero e proprio fossato che aveva la funzione di dividere gli alloggi privati del re e della regina dal resto della corte, accessibile più liberamente, così da ostentare in forma sempre più esplicita l’abisso umano e politico che separava il monarca dai suoi sudditi.65 Né questo orientamento avrebbe conosciuto inversioni di tendenza nel secolo successivo. Sono dinamiche affini a quelle che possiamo incontrare in Francia più o 61. D. Howard, Seasonal Apartments in Renaissance Italy, «Artibus et Historiae», XXII (2001), 43, pp. 127-135. 62. Thornton, The Italian Renaissance Interior, cit., pp. 300-313. Per l’accenno a Leon Battista Alberti e a Francesco di Giorgio, cfr. rispettivamente Alberti, L’architettura [De re aedificatoria], cit., I, pp. 399-439; e Martini,

Trattati di architettura, cit., I, pp. 70-116. 63. Per qualche termine di paragone, si vedano i saggi riuniti in Architecture et vie sociale, cit. 64. Cfr. ad esempio Thurley, The Royal Palaces, cit., p. 8. 65. Ivi, pp. 9-10.

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meno nello stesso periodo: se un’organizzazione in appartamenti esisteva già nel palazzo trecentesco dei papi di Avignone, fu solo a partire dai primi del Quattrocento che Carlo V il Savio avrebbe promosso un’opera di rinnovamento sistematico degli alloggi regali imperniata su principi non dissimili da quelli adottati dall’altra parte della Manica: così gli appartamenti reali allestiti a Parigi nel Louvre e nel Palais de la Cité presero ad articolarsi in una chambre de parement (quartieri deputati a luogo d’udienza ed esercizio pubblico delle prerogative sovrane) e in una chambre de retrait (ambienti privati, il cui accesso era riservato ai familiari e ai compagni più stretti del re e della consorte), generalmente collegata alla torre in cui si trovavano la biblioteca, lo studiolo, la camera del tesoro e il guardaroba.66 Senza arrivare a comprimere gli spazi de parement, che continuarono ad avere un ruolo di primo piano nei rituali della Corona, nel corso del XV secolo furono però soprattutto i quartieri de retrait – con i loro annessi e connessi destinati a funzioni principalmente ricreative (giardini, jeu de paume, ménagerie ecc.) – a svilupparsi ed espandersi acquisendo una visibilità e un’importanza sempre maggiori sia sul piano architettonico, sia su quello del cerimoniale.67 E sotto molti aspetti le grandi imprese costruttive avviate da Francesco I al Louvre e nei suoi chateaux sparsi per il Paese non avrebbero fatto che portare alle estreme conseguenze queste tendenze già pienamente ravvisabili sin dal secolo precedente.68

Conclusioni Al termine di questa veloce rassegna, può valere la pena di voltarsi brevemente indietro per misurare l’entità del cammino percorso. Molto frastagliato, lo si è ripetuto più volte, il panorama italiano, animato com’era da fenomeni e processi non sempre coerenti fra loro: la persistenza di vecchie tipologie medievali quali la rocca e d’altro canto il diffondersi di modelli inediti come la residenza regia di campagna; l’affermazione del linguaggio all’antica come idioma signorile per eccellenza e viceversa il suo continuo e vario ibridarsi a contatto con l’inesausta vivacità delle tradizioni vernacolari; la tendenza a enfatizzare le valenze trionfali dell’architettura delle regge ma al contempo la volontà di non na66. Cfr. M. Whiteley, Le Louvre de Charles V: disposition d’une résidence royale, «Revue de l’art», XCVII (1992), pp. 60-71 ; Ead., L’aménagement intérieur des résidences royales et princières en France à la fin du XIV e siècle et au début du XV e siècle, in Vincennes aux origines de l’État moderne, Actes du colloque scientifique de Vincennes, 8-10 giugno 1994, a cura di J. Chapelot e É. Lalou, Paris 1996, pp. 299320; Ead., Royal and Ducal Palaces in France in

the Fourteenth and Fifteenth Centuries. Interior, Ceremony and Function, in Architecture et vie sociale, cit., pp. 47-63 ; e Bove, Les palais royaux, cit., pp. 59-61. Quanto agli appartamenti pontifici nel palazzo di Avignone, vedi supra, nota 37. 67. Bove, Les palais royaux, cit., p. 73. 68. Cfr. M. Chatenet, La cour de France au siècle. Vie sociale et architecture, Paris 2002.

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scondere le attività meno nobili (commercio, stoccaggio ecc.) che tradizionalmente si svolgevano al loro interno; e ancora la progressiva chiusura dei prospetti perimetrali dei palazzi e per contro la tendenza degli ambienti interni ad aprirsi verso l’esterno, affacciandosi sui dintorni o sul verde dei giardini che erano ormai divenuti parte integrante e irrinunciabile dello spazio di corte... Non pare possibile ricondurre tutti questi fattori a un unico modello esplicativo valido sempre e comunque, né sembra che il tema della rinascita dell’Antico possa essere assunto di per sé come l’unico filo conduttore di cambiamenti tanto complessi e stratificati. Piuttosto, si può rilevare il ruolo cruciale svolto in questo scenario da due istanze a cui si è già accennato: l’ambizione di distinguere nettamente, se non separare del tutto, la mole della reggia dal suo contesto urbano, esaltandone la radicale alterità rispetto agli edifici circostanti; e la volontà di ridistribuire le diverse funzioni che avevano sede nei palazzi signorili in base a una logica gerarchica che consentisse di dare un assetto più ordinato agli ambienti di corte, riservando una parte proporzionalmente sempre più cospicua di questi ultimi alla sfera ‘privata’ del sovrano (in modo del tutto funzionale, naturalmente, alla costruzione della sua immagine ‘pubblica’). Erano esigenze ampiamente diffuse in tutta la Penisola, e certo avallate dai precetti dell’architettura antica reinterpretati dai trattatisti contemporanei; ma le loro radici sembrano affondare in dinamiche sociali e politiche ben più profonde, legate essenzialmente ai nuovi costumi successòri delle famiglie signorili da un lato, al processo di consolidamento dei poteri dinastici sulla società cittadina dall’altro.69 Con la calata di Carlo VIII nel 1494, e poi nel corso dei successivi trent’anni di guerra, questo processo si sarebbe bruscamente interrotto: i sovrani italiani non avrebbero per ciò smesso di fantasticare la costruzione di regge grandiose in cui vedere incarnati i loro progetti di governo (si pensi al palazzo di Lorenzo de’ Medici in Via Laura, a quello di Leone X in piazza Navona o al Vaticano di Giulio II); ma gli eserciti francesi e spagnoli avrebbero spazzato via molte di queste ambizioni, e all’indomani della pace di Bologna i principi della Penisola si sarebbero scoperti sminuiti al rango di satelliti delle potenze d’Oltralpe. Il testimone era ormai passato di mano; anche se le rocche e i palazzi costruiti nel nostro paese nella seconda metà del Quattrocento avrebbero continuato per secoli a fornire alle teste coronate di tutta Europa un inestimabile patrimonio di forme, linguaggi ed esperienze a cui attingere per esibire la propria magnificenza.

69. Sull’intimo legame fra lo sviluppo tipologico dei palazzi rinascimentali e l’evoluzione coeva delle strutture familiari (seppur in un contesto non signorile), cfr. già R.A. Gold-

thwaite, The Florentine Palace as Domestic Architecture, «American Historical Review», LXXVII (1972), pp. 977-1012.

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