La difesa del latino nel Cinquecento.

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Descripción

3 Studi italianistici

La collana «Studi italianistici» nasce con lo scopo di offrire una sede editoriale idonea ai migliori contributi dei giovani studiosi che si sono formati presso il Dottorato in Studi italianistici dell’Università di Pisa. L’idea che la anima non è però solo quella, pratica, di superare le difficoltà che ogni ricercatore, soprattutto se giovane, incontra quando intende condividere i risultati della sua ricerca con la comunità degli studiosi e con tutti i lettori potenzialmente interessati. Un progetto più ambizioso muove questa iniziativa, e cioè quello di sottoporre all’attenzione e al giudizio del lettore i frutti scelti e più recenti nell’ambito di un’attività di ricerca che il dottorato, nelle sue diverse ramificazioni (letterarie, storico-linguistiche, filologiche, comparative), porta avanti ormai da oltre un ventennnio. I libri raccolti nella collana, nella loro diversificata specificità (dalla letteratura al cinema e al teatro, dall’edizione critica dei testi alla storia della lingua italiana, dall’ottica specificamente italiana agli studi comparatistici), entrano infatti in contatto e talvolta in dialogo fra loro – come si addice ai prodotti di una stessa tradizione di studi – e portano una voce nuova e spesso innovativa nei diversi settori di ricerca. Come frutti scelti di un’attività improntata ai più rigorosi criteri scientifici i volumi rielaborano e perfezionano i lavori di ricerca conclusi come tesi dottorali, ma non rinunciano a raggiungere un pubblico più ampio di quello costituito dai soli specialisti delle materie di cui trattano; lo spirito che anima la collana si basa infatti sulla convinzione che tanto più seri e specialistici siano gli studi, tanto più abbiano la forza di arricchire gli altri àmbiti del sapere, dai prossimi ai più remoti, e di fornire strumenti e conoscenze utili agli insegnanti, agli appassionati delle materie così come ai lettori anche solo curiosi. Ogni volume proposto dalla Scuola è stato valutato, oltre che da una commissione interna, da docenti e studiosi che operano in università straniere: Simone Albonico (Università di Losanna), Elissa Weaver (University of Chicago), Matteo Residori (Paris Sorbonne) garantiscono della dignità scientifica dei lavori pubblicati e ne assicurano la validità anche in àmbito sovranazionale. Maria Cristina Cabani

Federica Gara

La difesa del latino nel Cinquecento Edizione critica commentata del «De linguae latinae usu et praestantia» di Uberto Foglietta (1574)

A mio padre e mia madre

Collana: Studi italianistici Direttore: Maria Cristina Cabani (Università di Pisa) Comitato scientifico: Simone Albonico (Università di Losanna), Roberta Cella (Università di Pisa), Matteo Residori (Paris Sorbonne), Elissa Weaver (University of Chicago), Sergio Zatti (Università di Pisa)

In copertina

I edizione 2014 © 2014 - Felici Editore Srl via Carducci 60 - 56010 Ghezzano (PI) tel. 050 878159 - fax 050 8755897 www.felicieditore.it ISBN: 978-88-6019-647-7 Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAII, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale sopracitato potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dall’editore.

Indice

Parte prima La difesa del latino nel Cinquecento Introduzione 1. Latino e italiano a confronto 1.1 La premessa teorica alla comparazione

9 19 21

1.1.1 I criteri di comparazione

21

1.1.2 Le parti del discorso e la teoria della proposizione

45

1.2 Il confronto in base alla varietas

58

1.2.1 Il nome e il verbo

58

1.2.2 L’avverbio e la congiunzione

69

1.3 La orationis laus maxima

71

2. La proposta di diglossia e la questione del pubblico

75

3. Il latino: lingua viva e nazionale italiana

89

3.1 La superiore vitalità della scriptio latina

91

3.2 Il latino: Regia Italorum lingua

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3.3 L’italiano: latina lingua corrupta

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4. La creatività del latino nel Cinquecento: possibilità e criteri di ampliamento lessicale

115

5. Lo studio del latino

139

Parte seconda Edizione critica commentata del «De linguae latinae usu et praestantia» di Uberto Foglietta (1574) Tavole dei contenuti del testo Nota al testo Dedicatoria Libro primo Libro secondo Libro terzo Nota biografica Riferimenti bibliografici Indice dei termini grammaticali

153 159 163 171 223 269 323 325 339

parte prima

La difesa del latino nel Cinquecento

Introduzione

In questo lavoro è proposta una sintesi interpretativa del dibattito cinquecentesco fra i sostenitori dell’uso del latino e i fautori della valorizzazione del volgare in ogni tipo di scritto1, analizzando la questione soprattutto dall’ottica dei latinisti, mettendo cioè in luce le argomentazioni della loro difesa e cercando di spiegare anche le motivazioni ideologiche della loro dotta militanza. La ricostruzione del dibattito nelle sue linee tematiche portanti si fonda sullo studio di un corpus di testi2 che comprende i più significativi interventi nella disputa pubblicati in Italia dagli anni venti ai settanta del XVI secolo.

1 Profili sintetici del dibattito si leggono in B. Migliorini, La questione della lingua, in AA.VV. Questioni e correnti di storia letteraria, III, Milano, Marzorati, 1949, pp. 6-9; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1988, pp. 297-300; M. Vitale, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1978, pp. 39-40 e 47-50; G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 74-78; trattazioni che ne mettono in luce la notevole importanza si leggono in P.O. Kristeller, The Origin and Development of the Language of Italian Prose, «Word», 2 (1956), pp. 50-65; P.O. Kristeller, Latein und Vulgarsprache im Italien des 14. und 15. Jarhhunderts, «Deutsches Dante Jahrbuch», LIX (1984), pp. 7-35; H.W. Klein, Latein und Volgare in Italien. Ein Beitrag zur Geschichte der italienischen National sprache, Munchen, Max Hueber Verlag, 1957, pp. 47-100. L’interesse della questione per la storia della lingua italiana è sottolineato in V. Cian, Contro il volgare, in Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze, Tip. E. Ariani, 1911, p. 294: «[…] questo conflitto, quando lo si consideri dal suo giusto aspetto storico, apparisce […] ben più serio ed alto che non fossero le irose e pettegole competizioni regionali sul battesimo da dare alla lingua nuova». Ma questa segnalazione per decenni non ha trovato studiosi che la considerassero e, in effetti, lo scontro tra volgaristi e latinisti nel Cinquecento è ancora in larga parte da indagare; contrasti analoghi tra i sostenitori delle lingue nazionali e del latino non mancano negli altri paesi europei, come segnalato in L. Olschki, Der Kampf gegen Latein in Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen Literatur. Zweiter Band, Leipzig/Firenze/ Roma/Geneve, Leo S. Olschki, 1922. 2 Il corpus comprende le Prose di Pietro Bembo (P. Bembo, Prose della volgar lingua, in Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1960), le orazioni De latinae linguae usu retinendo di Romolo Amaseo (R. Amaseo, De latinae linguae usu retinendo scholae I et II, in Orationum

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La difesa del latino nel Cinquecento

La discussione coinvolge per un cinquantennio non pochi e importanti intellettuali della penisola: a sostegno del volgare troviamo sia opere fondamentali nella questione della lingua nel Cinquecento, le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo e l’Ercolano di Benedetto Varchi, sia contributi rimasti più in ombra e che solo in anni recenti sono stati oggetto di studio, il trattato Per difesa della volgar lingua di Girolamo Muzio e la Lettera in difesa de la lingua volgare di Alessandro Citolini; meno studiati e conosciuti sono invece i testi in difesa del latino presi in esame e proprio a questi è nel presente lavoro dedicata maggiore attenzione. La loro analisi è stata condotta attraverso la lente del dialogo De Linguae Latinae usu et praestantia di Uberto Foglietta3, il più tardo e il più ricco di argomentazioni del corpus, che offre la possibilità di indagare aspetti non solo delle teorie linguistiche dell’epoca, ma anche della politica culturale di vari stati italiani, in particolare dello Stato della Chiesa negli anni della Controriforma. Del De Linguae Latinae usu et praestantia si presenta un’edizione critica, perché proprio dallo studio di questo testo è nata l’idea di delineare una visione di insieme dell’intero dibattito, suggerita dall’architettura del dialogo, in cui le ragioni dei fautori e degli avversari del latino, che si erano via via contrapposte

volumen I, Bologna, 1580, pp. 101-146), il Cesano di Claudio Tolomei (C. Tolomei, Il Cesano de la lingua toscana, a cura di O. Castellani Pollidori, Firenze, Olschki, 1974), il Castellano di Giangiorgio Trissino (G. Trissino, Il Castellano, in Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma, Salerno, 1986), il Dialogo delle lingue di Sperone Speroni (S. Speroni, Dialogo delle lingue, a cura di A. Sorella, Pescara, Libreria dell’Università Editrice, 1999), il trattato Per difesa della volgar lingua di Girolamo Muzio (G. Muzio, Per difesa della volgar lingua, in Battaglie per difesa dell’italica lingua, Venezia, 1582, cc. 155-216), la De imitatione commentatio di Celio Calcagnini (C. Calcagnini, De imitatione commentatio ad Joannem Baptistam Cynthium Giraldum, in Opera aliquot, Basilea, 1544, pp. 269-276), L’Apologia in latinae linguae scriptorum calumniatores di Francesco Florido Sabino (F. Florido Sabino Apologia in Marci Actij Plauti aliorumque latinae linguae poetarum calunniatores, Lione, 1537), la Lettera in difesa de la lingua volgare di Alessandro Citolini (A. Citolini, La Lettera di Alessandro Citolini in difesa de la lingua volgare, Venezia, 1551), L’Hercolano di Benedetto Varchi (B. Varchi, L’Hercolano, 2 voll., a cura di A. Sorella, Pescara, Libreria dell’Università editrice, 1995), l’orazione De latinae linguae usu retinendo di Carlo Sigonio (C. Sigonio, De latinae linguae usu retinendo oratio, in Opera Omnia, vol. VI, pp. 521-528, Milano, 1737), il De Linguae Latinae usu et praestantia di Uberto Foglietta (U. Foglietta, De linguae latinae usu et praestantia, Roma, De Angelis, 1574). 3 Cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, cit., p. 328: «Una discussione assai ampia e interessante per ricchezza d’argomentazioni e concretezza di esempi è quella contenuta nel dialogo latino di Uberto Foglietta genovese (De linguae Latinae usu et praestantia libri tres, Roma, 1574): il secondo libro è tutto dedicato a rispondere al problema se il latino sia adatto a esprimere i concetti moderni, e fino a che punto si possa ampliare a tale scopo il vocabolario classico».

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Introduzione

nello sviluppo della polemica e risultano ben note all’autore, sono sistematizzate e presentate in un’opera dalla chiara organizzazione strutturale, in cui la scansione in libri risponde a una ben definita articolazione concettuale della questione dibattuta. Il lavoro di annotazione del trattato, che ha richiesto un’attenta analisi dei testi del corpus, mi ha permesso di individuare i temi di maggior rilievo che percorrono la questione, la cui ricostruzione sarà quindi articolata seguendo la rete concettuale che essi disegnano e che contribuisce a far luce sulla questione del latino nell’Occidente moderno. Come sottolinea Françoise Waquet nel suo libro Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), dettagliata storia culturale del latino nell’epoca moderna, si tratta di una questione che va ben oltre i confini puramente linguistici e «appartiene a un ordine di cose più complesso, cristallizzatosi intorno allo statuto che gli uomini del tempo riconobbero alla lingua di Roma»4. Per non pochi secoli nell’Europa moderna, come dimostra Waquet, la cultura è stata segnata da una presenza talmente egemonica del latino, che si spiega tenendo conto del fatto che «gli uomini del tempo non considerarono il latino solo come una lingua da scrivere e parlare ma anche come uno strumento destinato ad altri usi, come un segno investito di sensi diversi»5. La ricostruzione proposta si inserisce quindi in una prospettiva più ampia rispetto alla sola dimensione linguistico-letteraria e ruota attorno all’idea che «il sogno dell’umanesimo»6 proietta la sua luce, o meglio la sua ombra, su tutto il XVI secolo, innervandosi di istanze politiche nuove, profondamente diverse da quelle che avevano animato gli uomini da cui fu concepito nel secolo precedente. Se ancora nella seconda metà del Cinquecento si propone con convinzione l’ideale di tutta una civiltà dominata dal latino, non solo in quanto unica lingua ritenuta degna del sapere scritto, ma anche come lingua parlata in ambito giu-

4 F. Waquet, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Milano, Feltrinelli, 2003, p. 9 (traduzione di Alessandro Serra). 5 F. Waquet, Latino…, cit., p. 10. La trasformazione della lingua latina in uno «strumento destinato ad altri usi», soprattutto dalla seconda metà del Cinquecento, sarà mostrata in particolare nel cap. 2 (La proposta di diglossia e la questione del pubblico) e nel 5 (Lo studio del latino). 6 L’espressione si riferisce a Il sogno dell’umanesimo, titolo del noto saggio di Francisco Rico, che sintetizza efficacemente la meta comune dei numerosi e tra loro diversissimi padri fondatori del movimento affermando che «solo in Italia poteva forgiarsi, addirittura prima del Trecento, l’ideale costitutivo dell’umanesimo: quel sogno grandioso di tutto l’insieme di una civiltà ricostruita sulle ‘latine littere’» (F. Rico, Il sogno dell’umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Torino, Einaudi, 1998, p. 10).

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La difesa del latino nel Cinquecento

ridico ed economico, questo avviene e si comprende tenendo conto del quadro politico dell’Europa della Riforma e della Controriforma e del ruolo della Chiesa Cattolica al suo interno. I temi individuati orientano la ricerca in direzione sia linguistica sia storicoculturale e sono presentati mettendo in primo piano la visione degli uomini di cultura che credono fortemente nella potenza del ‘segno’ latino e che, come vedremo esemplarmente nel caso del Foglietta, fondano le loro argomentazioni sulla grande lezione di Lorenzo Valla7. La trattazione del Foglietta riporta le ragioni dei volgaristi con notevole chiarezza espositiva e riesce a presentarle mettendone in luce i punti di forza per confutarli poi con altrettanta lucidità, fatto che ci permette dunque di considerare il dialogo una sorta di sistematizzazione efficace e ampia del dibattito cinquecentesco sullo scontro tra il latino e il volgare8, in cui vari aspetti della polemica sono ordinati in un crescendo di forza argomentativa per stabilire «an latine hoc tempore scribendum sit»9, riservando l’ultimo dei tre libri del dialogo alla questione considerata più importante «de linguae latinae eximia dignitate atque praestantia»10. Nella dedicatoria il Foglietta dichiara l’obiettivo della sua opera: contrastare coloro che perseguitano la lingua latina negando, oltre che l’opportunità, anche la possibilità di adottarla nella scrittura nei tempi moderni11. L’organizzazione strutturale del dialogo è poi esplicitata nel primo libro in cui l’autore presenta il piano complessivo della trattazione. A esporre le argomentazioni a favore del

7 Riconosciuto da Rico come uno dei più rappresentativi fondatori dell’ideale umanistico, cfr. ivi, p. 5: «La più vibrante esortazione a far diventare realtà questo sogno, a concretizzare la visione di un nuovo mondo ricostruito sulla parola antica, si trova nei prologhi delle Elegantie (1440 circa) di Lorenzo Valla». 8 Riduttiva appare la visione che propone Migliorini sulle argomentazioni del dibattito latino/ volgare, che viene inoltre considerato un problema sorpassato da quello della norma e dal nome da dare alla nuova lingua. Cfr. B. Migliorini, La questione della lingua, cit., p. 6: «La discussione tra ‘latinisti’ e ‘volgaristi’ verte soprattutto intorno a tre o quattro argomenti […] che nelle varie dispute si presentano intrecciati e talvolta confusi». 9 Cfr. I, 5. 10 Cfr. II, 66: «Sed satis ac nimium fortasse hoc in loco commorati sumus tempusque est ut ad ultimum argumentum de linguae latinae eximia dignitate atque praestantia, quod est omnium maximum et gravissimum, tractandum accedamus»; si tratta della quinta ratio esposta da Curzio Gonzaga, che nel dialogo sostiene la causa del volgare, e anche da lui considerata prima in dignità (cfr. I, 36: «Restat ratio quam extremo loco reservavi, cum dignitate sit prima»). 11 Cfr. ded. 6.

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Introduzione

volgare è Curzio Gonzaga12, chiamato dal latinista Antonio Sauli13, portavoce dell’autore, a un confronto sull’uso del latino. Il Sauli si trova dunque a dover difendere il latino rispondendo a singole, ben delineate rationes sostenute dalla controparte volgarista, un blocco argomentativo concentrato che comunica al lettore in poche pagine14 i fondamenti delle tesi dei volgaristi: l’uso della popularis italica lingua15 in ogni genere di scritto è sostenuto dal Gonzaga con cinque rationes, che il Sauli confuta distesamente a una a una. 12 Su Curzio Gonzaga (Mantova, 1530 - Borgoforte, 1599) cfr. DBI, pp. 706-708. Appartenente a un ramo minore dei Gonzaga fu avviato dal padre alla carriera ecclesiastica, ma alla morte di questi, nel 1549, si dedicò al mestiere delle armi non trascurando la vita letteraria (ai primi anni Cinquanta sono databili due suoi sonetti). Grazie alla protezione del cardinale Ercole Gonzaga fu poi impiegato dal duca di Mantova in delicate missioni diplomatiche, anche presso Carlo V, e nel 1559 rappresentò Mantova alla pace di Cateau-Cambresis. Seguì poi il cardinale a Roma durante il conclave nel 1559 e lì si trattenne a lungo, anche quando il cardinale lasciò la città per recarsi a Trento come legato del papa nel 1561. In questo stesso anno il cardinale Carlo Borromeo lo invitò a far parte della Accademia delle Notti Vaticane, alle cui sedute il Gonzaga partecipò spesso e dove recitò un’orazione in lode della lingua volgare (Roma, Bibl. Casanatese, Ms. 4280) per opporsi alla decisione degli accademici di tenere i loro discorsi in latino. La sua opera letteraria principale è il poema cavalleresco Il Fidamante (Mantova, 1582), ma compose anche delle Rime (Vicenza, 1585) e una commedia Gli inganni (Venezia, 1592). Nel dialogo il Gonzaga si oppone alla tesi latinista sostenuta dal Sauli e sin dalla prima battuta afferma la necessità di un uso onnicomprensivo dell’italiano, idea che sostiene in una orazione letta al termine del convivio, stimolo per l’avvio della discussione successiva. 13 Su Antonio Sauli (Genova, 1541 - Trento, 1623), appartenente a una delle più importanti famiglie nobili genovesi, cfr. Dizionario biografico di illustri genovesi; L’archivio della famiglia Sauli di Genova, Inventario a cura di M. Bologna, 2001. Entrò presto nella curia pontificia, dove ottenne l’incarico di nunzio apostolico in Portogallo e Spagna. Arcivescovo di Genova dal 1586 al 1591, ottenne il cardinalato da Sisto V nel 1587. In curia ebbe notevole autorità e fu strenuo difensore degli interessi della sua città. Morì decano del Sacro Collegio il 24 agosto 1623. Sulla storia della famiglia Sauli cfr. M. Bologna, L’archivio…, cit., pp. 11-37. 14 Cfr. I, 29-38. 15 Cfr. I, 28: «Videtur mihi hoc tempore populari italica lingua scribendum esse et a latina prorsus abstinendum». Il Foglietta, riportando la reazione dei presenti all’opinione del Gonzaga («cfr. I, 11 «nonnulli etiam sententiam magnopere approbarent, cum dicerent omnia sermone hoc, quo populariter utimur, sive illum italicum, sive hetruscum appellare libet, aetate nostra litteris esse mandanda, usumque latinae linguae iam obsoletae atque adeo extinctae plane omittendum»), mostra scarso interesse a precisare il nome con cui chiamare la nuova lingua: per lui è solo il sermo popularis (sull’uso dei termini sermo/lingua nel corso del dialogo cfr. cap. 3). La questione del nome con cui chiamare il volgare risulta poco importante per chi ne sostiene l’inadeguatezza allo scritto. Lo stesso disinteresse è in R. Amaseo, De latinae linguae…, cit., p. 104: «[…] ab ista vernacula, aulica ne dicam, an hetrusca? Utroque enim iam nomine celebratur»; qui l’alternativa del nome è posta tra aulica e hetrusca, cioè le due soluzioni che si contrapponevano con maggior

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La difesa del latino nel Cinquecento

La prima si appella all’autorità di tutti i popoli passati, che sempre hanno usato scrivendo la medesima lingua in cui parlavano16, e pone i due disputanti a confronto su alcune questioni (l’utilità di una diglossia, il problema dei rapporti genetici tra latino e volgare) legate alla contrapposizione di fondo che li separa, una visione naturalistica del linguaggio contro una umanistica17; la seconda è centrata sulla finalità di chi scrive, cioè raggiungere il più vasto pubblico possibile, che per il volgarista è quello in grado di leggere l’italiano18, problema che solleva la questione, dalla chiara connotazione socio-politica, della funzione dell’intellettuale nella società. La terza consiste nella convinzione che il lungo studio del latino sia dannoso, sottraendo tempo e forze a studi ritenuti più utili19; la quarta denuncia l’impossibilità di assegnare un nome latino a tutte le cose che non esistevano nell’antichità se non creando un intollerabile ibrido linguistico20; la quinta verte sulla bellezza della lingua italiana, considerata superiore a ogni altra in dolcezza21.

spicco alla fine degli anni Venti (lingua cortigiana o toscana, che rispecchiano la visione del Castiglione e del Bembo), con la polarizzazione nei due termini di una più complessa questione nominalistica e precedentemente anche normativa. La disputa sul nome su cui dibattono i volgaristi attorno al 1530 vede infatti in campo quattro termini: vulgare, italiana, cortigiana, fiorentina (cfr. C. Tolomei, Cesano, cit., I, 3). L’intera questione viene liquidata dall’Amaseo contrapponendo i due termini senza valutare che dietro ad essi si era discusso, nei primi due decenni del secolo, un problema normativo (proposta del Castiglione/proposta bembiana) e senza rilevare che il problema del nome era in realtà più articolato. Nel nostro testo l’alternativa è posta tra sermo italicus/hetruscus riflettendo il problema nei termini in cui si era sviluppato nei decenni centrali del secolo. Anche in questo caso nei due termini si polarizza una questione che ne coinvolge tre: la disputa è infatti, entro la parte volgarista, attorno a una denominazione italica, toscana, fiorentina (cfr. B. Varchi, L’Hercolano, cit., p. 926). 16 Cfr. I, 29-31. 17 Per una sorte particolare della nostra lingua l’unico volgarista che ha una concezione umanistica della lingua e della cultura è Pietro Bembo, proprio colui che ha sancito l’uso letterario del volgare nella penisola. Ma non bisogna dimenticare la natura della proposta bembiana, cui si farà cenno considerando il giudizio espresso dal Foglietta sul Bembo, che riguarda sia la sua pratica scrittoria (I, 46 e n. 26; I, 74 e n. 46), sia i criteri secondo cui promuove la scrittura letteraria in volgare (cfr. I, 39-40 e n. 21). 18 Cfr. I, 32. 19 Cfr. I, 33-34. 20 Cfr. I, 35. 21 Cfr. I, 36.

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Introduzione

La risposta alle prime tre rationes, che mostrano solo come non sia opportuno scrivere in latino, è contenuta nel primo libro22. Ma la «quaestio gravissima […] ingentibusque contentionibus et disputationibus agitata an latine hoc tempore scribendum sit»23 resta aperta anche dopo le risposte del Sauli ai primi tre punti, che «genere laeviores sunt habendi atque eiusmodi, ut solutam optionem relinquant qua quisque lingua sibi scribendum statuat»24. Alla confutazione delle ultime due rationes, dotate di maggior forza argomentativa, sono riservati un intero libro ciascuna, il secondo e il terzo, vere e proprie trattazioni monotematiche, determinanti per risolvere la questione: non si tratta più solo di opportunità di scrivere in latino, ma di contrastare l’idea che sia impossibile farlo per le sue carenze lessicali e di opporsi alla convinzione che sia doveroso adottare l’italiano per la sua maggiore bellezza. Da ultimo troviamo quindi il confronto linguistico fra il latino e l’italiano, volto a dimostrare la superiorità della lingua antica, ancora viva in tanti ambiti e soprattutto nella coscienza linguistica dell’autore, su quella moderna. Per l’innovativo criterio comparativo adottato il dialogo del Foglietta occupa sotto questo profilo una posizione di spicco tra i testi del corpus, dimostrando non solo la vitalità del concetto di elegantia, alla base della ricerca filologica del Valla, ma anche la volontà di farne il fondamento di un vero e proprio confronto tipologico di interessante valore linguistico25. La rilevanza accordata dall’autore a questo aspetto della disputa motiva l’ordine con cui i temi sono in questo lavoro proposti: in primo luogo dunque la teoria linguistica, il cui perno è l’idea di una superiore capacità comunicativa del latino rispetto all’italiano, dovuta a una sua più articolata struttura morfematica, che anima l’analisi comparativa delle due lingue attraverso le parti del discorso, preceduta quindi da

22 Parte meno innovativa del dialogo, ma comunque interessante perché permette di approfondire e ordinare le idee che i discordi partecipanti al dibattito avevano più confusamente esposto al primo divampare della polemica, nel terzo decennio del secolo. 23 Cfr. I, 5. 24 Cfr. I, 76. 25 In riferimento a questo aspetto dell’opera, si può rivedere l’affermazione del Migliorini: «In pochi casi si viene a discutere di pregi che non concernono strettamente la lingua letteraria ma la lingua in sé, considerata glottologicamente: come quando il Tolomei e il Borghini affermano che è un vantaggio dell’italiano in confronto con il latino l’esistenza dell’articolo». La comparazione del Foglietta è in effetti proprio di carattere ‘glottologico’: è l’unico confronto tipologico esistente tra le due lingue condotto secondo un parametro esplicitato dall’autore stesso, fatto che conferisce al discorso una coerenza di argomentazione lontana dalla frammentarietà di altri tentativi analoghi.

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La difesa del latino nel Cinquecento

una premessa teorica sulle parti del discorso stesse e sul concetto di proposizione (cap. 1 «Latino e italiano a confronto»). In secondo luogo è esposta quella che possiamo definire l’ideologia linguistica, fondata sulla convinzione tutta umanistica della priorità dello scritto sul parlato, cui si collega la constatazione di una ininterrotta e soprattutto ancora fertile vitalità del latino, da cui discende la legittimità, benché regolata, di creare nuove parole latine così da poter disporre di un duttile e sempre più ricco strumento di comunicazione dotta sovranazionale. Il primo aspetto affrontato di questa ideologia linguistica è la proposta di diglossia dei latinisti, ossia la prospettiva, sostenuta con ferma convinzione, di una netta separazione funzionale delle due lingue (il latino in ogni tipo di scritto dotto e nel parlato in alcuni ambiti socialmente rilevanti, l’italiano per il parlato colloquiale) e la diversa concezione del pubblico e del ruolo dello scrittore nella società che a essa si collega (cap. 2 «La proposta di diglossia e la questione del pubblico»). È una proposta dalla forte connotazione ideologica, che invita a indagare il retroterra sociale e politico degli intellettuali coinvolti nella discussione, evidenziando come dietro ad una disputa di carattere apparentemente solo linguistico si celi una ben più ampia e significativa visione di politica culturale. Sostenere l’uso del latino in ogni tipo di scritto dotto obbligava ad affrontare innanzitutto il problema del latino lingua viva o morta e, dimostrata la sua ininterrotta vitalità, si apriva il problema dei limiti e dei modi di realizzazione della sua creatività in ambito lessicale: emergono così i temi della vitalità del latino (cap. 3 «Il latino: lingua viva e nazionale italiana») e delle neoformazioni lessicali latine (cap. 4 «La creatività del latino nel Cinquecento: possibilità e criteri di ampliamento lessicale») in epoca moderna, una questione vitale per chi intendeva scrivere in latino, che continua a essere nel XVI secolo, e anche ben oltre, lingua di storici, filosofi, scienziati e come tale è chiamata a esprimere concetti e oggetti sconosciuti agli antichi; sull’opportunità e i modi di farlo si confrontano varie posizioni. Se si doveva scrivere in latino, si doveva disporre di parole nuove per nominare cose sconosciute agli antichi; se si volevano introdurre nuove parole per nuove cose, occorreva riconoscere al latino lo status di lingua viva e aperta all’innovazione e stabilire in quali casi e come introdurle, come integrarle al latino in uso, senza snaturarlo e diremmo quasi, umanisticamente parlando, corromperlo. Si trattava inoltre di dimostrare come il latino fosse adatto non solo per scrivere storia contemporanea (e sono soprattutto opere di storiografia quelle cui si dedicano nella seconda metà del Cinquecento latinisti come Sigonio e Foglietta), ma anche per 16

Introduzione

trattare argomenti filosofici e di scienza, che richiedevano termini astratti di cui, rilevavano i volgaristi, il latino era stato nell’antichità ed era tuttora carente. I difensori dell’uso del latino dovevano quindi in primo luogo confutare le argomentazioni di chi riteneva il latino una lingua morta, estinta nell’uso parlato e quindi non più passibile di arricchimento lessicale; in secondo luogo dovevano indicare come operare per ampliare il lessico di una lingua, in effetti, ormai non più sottoposta all’evoluzione naturale e diremmo involontaria, da loro però chiamata ancora con convinzione a esprimere cose e concetti ignoti agli antichi o comunque non attestati negli scritti degli auctores modello della loro lingua. È infine affrontato il problema dell’insegnamento del latino, su cui le voci dei latinisti e dei fautori del volgare sono notevolmente discordi; la questione consente di mettere in luce la rete di rapporti che nel secondo Cinquecento si delinea tra i sostenitori del latino, fautori di un suo rigoroso apprendimento, mirato a una salda competenza attiva, e gli intellettuali cattolici operanti nell’ambito della nascente Compagnia di Gesù e nelle istituzioni della Chiesa post-tridentina controriformistica (cap. 5 «Lo studio del latino»).

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