Kelsen “legge” Jørgensen sul controverso rapporto tra logica e diritto

Share Embed


Descripción

Draft – versione pubblicata su: R. D’Alessandro – I. Pozzoni (curr.), Prospettive storiografiche di teoria sociale, Limina Mentis, Villasanta, 2015, pp. 129 - 142 Kelsen “legge” Jørgensen sul controverso rapporto tra logica e diritto (Alessandro Pizzo) Hans Kelsen, ovvero un irrazionalista alle prese con le proposizioni normative Secondo Losano l’itinerario speculativo di Hans Kelsen sarebbe intimamente contraddittorio dal momento che da un iniziale logicismo approda ad un finale irrazionalismo in materia normativa1. In linea generale, ritengo di poter concordare con tale giudizio ma, nello stesso tempo, devo ammettere di trovare che sulle ragioni di tale evoluzione, sorprendente sotto molti aspetti, non ci sia molto da aggiungere dato che, a mio onesto avviso, si tratta dell’esito inevitabile di una premessa metodologica precisa consistente nella distinzione netta tra Sein e Sollen, o, per meglio dire, tra la conoscenza e la valutazione, o, il che è del tutto equivalente, tra la scienza e il diritto2. Dal momento che si tratta di una distinzione molto inflazionata, e che risente di un’arcaicità che la situa cronologicamente a cavallo dei secoli XIX e XX, e siccome Kelsen vi crede ciecamente, appare arduo anche solo immaginare uno sbocco differente, o, anche solo, un irrazionalismo normativo più mitigato. In altri termini, penso si possa dire che posto in essere il presente salto logico, o iato o dicotomia, tra la sfera dell’essere e la sfera del dover essere, tra la prima e la seconda, quale fondamento razionale si può (sperare di) trovare nelle valutazioni normative? E, segnatamente, per le specifiche proposizioni che le realizzano? Kelsen, fedele sino alla fine a questo iato, a questa distinzione, a tale netta polarità, anche agli estremi limiti della fede ideologica, «critica tutti i tentativi di ricondurre il dover essere all’essere»3, mettendo così capo ad una concezione della norma ove v’è solamente la volontà, vale a dire un atto della volontà in tutto irriducibile alla ricostruzione teorica. In quanto tale, tale atto volontario è supino rispetto all’irrazionalismo, il quale, in buona sostanza, taglia le gambe a qualsiasi conoscenza della volontà normativa perché le norme hanno luogo, sono effettive, impongono corsi d’azione, e sono “allergiche” alle determinazioni del pensiero logico, punto e basta! Ritengo che Losano, al riguardo, sia alquanto esplicito dal momento che scrive «Concependo le norme come atti della volontà ed escludendo l’applicazione della logica ad esse, Kelsen ha reso ancora più profonda la separazione tra il mondo dell’essere e quello del dover essere e, quindi, ha reso ancora più coerente il suo sistema teorico-giuridico fondato su questa separazione»4, un’ulteriore depurazione radicale, prevista nella sua teoria “pura” del diritto, che, però, è appena il caso di farlo notare, avviene «a caro prezzo»5. D’altro canto, è pur vero che Kelsen attinge a piene mani a un corpus ben definito di discussioni intorno alla razionalità di morale e diritto, e, segnatamente, della possibile o meno applicazione della logica, di per sé vero-funzionale, agli enunciati morali e giuridici6. Pertanto, dal momento che il Nostro si rifà alla topica suddetta, interessata alla sensatezza delle proposizioni normative, segnatamente quelle che pongano in essere una valutazione dei fatti del mondo, credo sia interessante esaminare la lettura che Kelsen dà del noto tentativo jørgensiano di approntare una sistemazione al possibile trattamento formale da dare agli imperativi. In questa sede, pertanto, intendo fornire un resoconto, anche se parziale, di quest’ultima al fine di condurre una breve riflessione intorno al senso della vexata quaestio meglio nota come logica del diritto. Jørgen Jørgensen, ovvero un neopositivista alle prese con le proposizioni normative Nel 1938 il danese Jørgensen pubblica il saggio dal titolo Imperatives and Logic7 con il quale può dirsi abbia inizio il tentativo di prendere in considerazione sub specie logica gli enunciati normativi, il tutto all’interno di una ben precisa e delimitata matrice teorica di marca neopositivista8. 1

Cfr. M. G. LOSANO, La dottrina pura del diritto dal logicismo all’irrazionalismo, Introduzione, a: H. KELSEN, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, p. XXXIII. 2 Cfr. D. ANTISERI, La conoscenza filosofica, in D. ANTISERI – G. REALE, Quale ragione?, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 137: «La scienza sa; l’etica valuta. L’etica non sa; la scienza non valuta. I fatti non sono valori. Le norme non si riducono a fatti». 3 Cfr. M. G. LOSANO, op. cit., p. XLIX. 4 Ivi, p. XXXII. 5 Ibidem. 6 Cfr. A. N. PRIOR, Logic and the Basis of Ethics, University Clarendon Press, Oxford, 1949, pp. 36 – 7: «Ethics, and also Politics […] are ‘distinguished form all positive sciences by having as their special and primary object to determine what ought to be, and not to ascertain what is, has been, or will be». 7 Cfr. J. JØRGENSEN, Imperatives and Logic, “Erkenntnis”, 7, 1937 – 8, pp. 288 – 296.

Draft – versione pubblicata su: R. D’Alessandro – I. Pozzoni (curr.), Prospettive storiografiche di teoria sociale, Limina Mentis, Villasanta, 2015, pp. 129 - 142 Com’è noto, infatti, la discussione al riguardo ha impregnato anche la posteriore filosofia analitica, la quale nasce appunto come evoluzione del neopositivismo, indirizzando in una precisa maniera, piuttosto che in altre, l’analisi del linguaggio normativo, e, segnatamente, la possibile considerazione in merito alla razionalità di etica e diritto9. Al punto che è stata anche cucita addosso allo Jørgensen la responsabilità, o il merito, a seconda dei rispettivi punti di vista, di aver formulato per la prima volta una topica precisa e rilevante, il cosiddetto dilemma di Jørgensen10, la quale, pur prendendo le mosse dal riconoscimento della divisione tra «fatti» e «valori», vale a dire tra l’essere e il dover essere, e pur desiderando in qualche modo superarla, finisce paradossalmente con il rendere ancora più profondo il solco, ancor più netto il distacco, ancora più duraturo il salto tra i primi e i secondi, tra la conoscenza e la valutazione, tra l’essere e il doveressere. Tuttavia, a mio avviso, la figura di Jørgensen, così come il suo contributo, ai fini di un possibile sviluppo di una logica adeguata alle proposizioni normative appare imprescindibile se non altro perché sintetizza, davvero in maniera compiuta, le difficoltà chiamate in causa da un’estensione, certo auspicabile ma teoricamente assai problematica, della logica alle enunciazioni non descrittive di stati di cose. In ogni caso, però, a mio sommesso parere, bisogna precisare almeno due cose, in buona sostanza semplici ma generalmente equivocate, vale a dire che: 1) Jørgensen non ha mai formulato la topica nota come dilemma di Jørgensen dal momento che non si è limitato alla sterile contemplazione di una differenza non mediabile tra proposizioni descrittive di stati di cose e proposizioni prescrittive di stati di cose 11 ; e, 2) le posteriori interpretazioni del lavoro del logico danese possono venir considerate delle altrettante possibili versioni del puzzle da lui riscontrato12, e che verteva, piuttosto, sulla constatazione in forza della quale, da un lato, a rigore non sarebbe possibile un’applicazione della logica alle proposizioni imperative, via la loro adiaforità ai valori vero funzionali, e, nello stesso tempo, sono possibili diversi contro – esempi a questa impossibilità teorica, derivanti dalla considerazione che, all’esatto contrario, sono fattive delle inferenze che ammettono proposizioni imperative al posto delle premesse o della conclusione e queste ultime appaiono del tutto razionali13. Dunque, da un lato Jørgensen affronta il problema dei rapporti tra logica e morale (e diritto), ma, dall’altro lato, Kelsen legge il danese e lo intende a modo suo. Vedremo come, intanto, però, concediamoci del tempo per prendere in considerazione l’intervento di Jørgensen nella materia presente. Come Jørgensen risolve il problema dell’applicabilità della logica agli enunciati del diritto Secondo Prior, autorevole esponente, a mio onesto modo di vedere, di una precisa maniera neopostivista di vedere il rapporto tra la sfera dell’essere e la sfera del dover essere, «it is impossible to deduce an ethical proposition from any entirely non – ethical premises or set of premises»14. In altri termini, infatti, «ethical 8

Cfr. A. PIZZO, Il puzzle di Jørgensen: enigma vs. dilemma, “Diritto&diritti”, ISSN: 1127 – 8579, 19 Marzo 2014, contenuto on – line: http://www.diritto.it/docs/36067-il-puzzle-di-j-rgensen-enigma-vs-dilemma. 9 Cfr. Cfr. B. CELANO, Per un’analisi del discorso dichiarativo, “Teoria”, 1, 1990, p. 166: «è noto che lo sviluppo della filosofia analitica successivo alla sua fase strettamente neopositivistica ha portato all’ampliamento di significanza del discorso, riconoscendo la sensatezza di diverse forme di enunciazione non dichiarativa. L’analisi del discorso prescrittivo costituisce, insieme alla logica deontica, il risultato principale di questo allargamento del campo di indagine». 10 Cfr. A. PIZZO, Il puzzle di Jørgensen, in I. POZZONI (cur.), Schegge di filosofia moderna XI, DeComporre. Gaeta, 2014, p. 7: «mentre Jørgensen abbozza la sua logica degli imperativi […] la letteratura ha individuato nel suo articolo la prima formulazione di una topica ben precisa, sin da allora chiamata con l’espressione seguente: dilemma di Jørgensen». 11 Cfr. G. H. VON WRIGHT, Deontic Logic: A Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 27: «in the late 1930s and early 1940s there was a certain amount of discussion whether a logic of norms or of imperatives is at all possible in view of the fact that imperatives – and presumably norms too – lack truth-value. In the debate two Danes took a prominent part. One was Jørgen Jørgensen, after whom the name “Jørgensen’s Dilemma” was coined. The other was Alf Ross, inventor of the famous paradox. Both the dilemma and the paradox are still active topics of current debate». 12 Cfr. A. PIZZO, Recensione, a: A. MARTURANO, Il “Dilemma di Jørgensen”, Aracne, Roma, 2012, “ReF/Recensioni filosofiche”, ISSN: 1826 – 4654, contenuto disponibile on – line: http://www.recensionifilosofiche.info/2014/06/marturano-antonio-il-dilemma-di-jrgensen.html. 13 Cfr. J. JØRGENSEN, op. cit., p. 290: «according to a generally accepted definition of logical inference only sentences which are capable of being true or false can function as premises or conclusions in an inference; nevertheless it seems evident that a conclusion in the imperative mood may be drawn from two premises one of which or both of which are in the imperative mood». 14 Cfr. A. N. PRIOR, Logic ... op. cit., p. 24.

Draft – versione pubblicata su: R. D’Alessandro – I. Pozzoni (curr.), Prospettive storiografiche di teoria sociale, Limina Mentis, Villasanta, 2015, pp. 129 - 142 conclusions require ethical premises»15 perché «in our own times the perception that information about our obligations cannot be logically derived from premises in which our obligations are not mentioned has become a commonplace»16. Jørgensen propone di scomporre gli enunciati normativi in due elementi, un «imperative factor»17 e un «indicative factor»18. Con il primo s’intende cosa viene comandato o desiderato, vale a dire lo specifico contenuto del comando o della volontà. Con il secondo elemento, invece, la descrizione di cosa venga comandato o desiderato, vale a dire la specifica forma grammaticale in virtù della quale si ottengono comandi o desideri. Penso possa dirsi che Jørgensen riduca, in buona sostanza, la dimensione normativa alla forma grammaticale dell’enunciazione dalla quale, infine, derivano tanto il modo imperativo quanto il modo descrittivo delle enunciazioni linguistiche. In effetti, la formulazione linguistica adoperata da Jørgensen potrebbe, credo, risultare fuorviante dato che parla di factors. Tuttavia, è pur vero, a mio onesto avviso, che la funzione enunciativa svolta da questi ultimi sia del tutto analoga ai canonici modi enunciativi, vale a dire ai diversi modi in cui si concreta la modalità enunciativa. Pertanto, allora, credo sia corretto asserire che mentre il fattore indicativo esprime la funzione enunciativa descrittiva, il fattore imperativo esprime la funzione normativa. Il che significa, detto altrimenti, che ciascun fattore è spia di una ben precisa funzione enunciativa del linguaggio. E pazienza che Jørgensen non adoperi espressamente questo linguaggio. Da queste considerazioni, però, si evince come il Nostro sembri suggerire che il modo enunciativo sia secondario rispetto alla varianza grammaticale del singolo enunciato. Questo perché, sempre secondo il logico danese, ciascun enunciato normativo ha un parallelo indicativo il quale, a differenza del precedente, «is capable of being true or false»19. Questa possibilità di descrizione indicativa dell’enunciato normativo è, a mio modo di vedere, la geniale trovata di Jørgensen, il grimaldello che consente di sciogliere le difficoltà in campo, l’improvviso ed imprevisto ponte che consente di avvicinare e di far dialogare la sfera dell’essere e la sfera del dover-essere. Mettendo in questa sede tra parentesi le difficoltà che questo escamotage presenta, è bene spendere ancora del tempo al riguardo. Continuando a seguire Jørgensen nel suo tentativo di «to initiate a discussion on the logical character of imperatives»20, penso si possa svolgere il seguente ragionamento: se a ciascun enunciato al modo imperativo corrisponde uno, ed un solo, enunciato al modo descrittivo, diviene possibile superare la divisione tra i fatti e i valori, riducendo qualsiasi enunciato normativo ad un corrispettivo enunciato che lo descriva. Detto altrimenti, la presenza di un parallelo indicativo per ciascun enunciato normativo consente di evitare le difficoltà dell’orizzonte non mediabile tra Sein e Sollen poiché trattasi di difficoltà inconsistenti. Infatti, tale parallelo è, sotto ogni punto di vista, un enunciato indicativo, e, proprio in quanto tale, suscettibile di assumere i classicissimi valori vero funzionali di vero e di falso. Il fulcro dell’operazione è, detto altrimenti, la capacità, propria degli enunciati descrittivi, di descrivere «the contents of the command or wish»21. Questi ultimi siccome descrivono stati di cose sono nativamente suscettibili di trattamento formale da parte dell’usuale logica vero-funzionale, la stessa che, al contrario, «do not apply to the imperative sentences»22. In questo modo, pertanto, il problema dei rapporti tra i «fatti» e i «valori» non è più «of a logical but rather of a psycological nature»23. Per Jørgensen, dunque, il fattore imperativo è subordinato al fattore indicativo, «the imperative factor being an expression of the willing or wishing of the action or the state of affairs which is described by the indicative factor»24, vale a dire dal «derived indicative sentence»25. Tutto risolto dunque? Nient’affatto! La logica delineata da Jørgensen, infatti, non si applica direttamente alle proposizioni normative, ma solo indirettamente. Essa trova applicazione a normalissime proposizioni

15

Ibidem. Ivi, p. 36. 17 Cfr. J. JØRGENSEN, op. cit., p. 291. 18 Ibidem. 19 Supra. 20 Ivi, p. 288. 21 Ivi, p. 291. 22 Ivi, p. 292. 23 Ivi, p. 293. 24 Ibidem. 25 Supra. 16

Draft – versione pubblicata su: R. D’Alessandro – I. Pozzoni (curr.), Prospettive storiografiche di teoria sociale, Limina Mentis, Villasanta, 2015, pp. 129 - 142 descriventi. Se così stanno le cose, allora, come non concordare con Ross per il quale questo modo di procedere è una pseudo – logica?26 D’altra parte, a mio sommesso parere, non può non ammettersi che si tratta di un modo di procedere del tutto fallace perché riduce la dimensione normativa a quella non normativa, la dimensione deontica a quella adeontica, la dimensione valutativa a quella descrittiva, il dover essere all’essere, il Sollen al Sein. Non ci s’inganni, però, perché quest’ultimo giudizio non può diminuire di nulla il valore stesso dell’analisi compiuta da Jørgensen, e, segnatamente, della constatazione del puzzle da lui colto nel confronto tra inferenze con proposizioni descrittive e inferenze con proposizioni normative. Come Kelsen intende l’analisi jørgensiana A questo punto, e finalmente, possiamo procedere ad analizzare la lettura che Kelsen compie del suddetto tentativo jørgensiano. Sicuramente le norme sono costituite da proposizioni normative, vale a dire da enunciazioni che prescrivono a qualcuno di fare qualcosa. Questa, in estrema sintesi, la morfologia principale delle norme. Nella sua opera postuma Allgemeine Theorie der Normen, Kelsen consegna il punto situazionale più evoluto, ma incompiuto a causa della prematura scomparsa nel 1973, della sua teoria complessiva intorno al tema della norma, tanto caro a filosofi e giuristi. E in essa il Nostro fissa una volta per tutte il significato che le attribuisce: significa che qualcosa deve essere o deve accadere. Essa viene espressa linguisticamente mediante un imperativo o una proposizione normativa […] L’atto il cui senso è qualcosa che viene ordinato, prescritto, è un atto di volontà. Ciò che viene ordinato, prescritto, è anzitutto un determinato comportamento umano. Chi comanda, prescrive qualcosa, vuole che qualcosa debba accadere. Il dover essere, la norma, è il senso di un volere, di un atto di volontà e […] è il senso di un atto diretto al comportamento altrui, e cioè di un atto secondo cui un altro soggetto (o altri soggetti deve (o debbono) comportarsi in un certo modo27

Isoliamo, allora, quelli che, a mio avviso, sono i nuclei concettuali utili alla considerazione presente e che altrimenti resterebbero intrappolati nella densa prosa kelseniana. In primo luogo, una norma è il significato di una proposizione normativa la quale è un atto della volontà. Vale a dire che la norma è il contenuto di un atto della volontà. In secondo luogo, la volontà dei comandi, delle prescrizioni, delle obbligazioni è una sorgente abilitata a ciò, vale a dire una fonte legittima di comando, di obbligo, di prescrizione. In terzo luogo, la norma, dunque, è il significato espresso da un volere, vale a dire da un atto di volontà da parte di una sorgente legislativa o normativa. In quarto, ed ultimo, luogo, la norma regola il comportamento di terzi, vale a dire che la potestà normativa desidera, e, quindi, ordina, che altre persone si comportino in una certa maniera. Come può scorgersi, dunque, Kelsen appare molto più arretrato di Jørgensen nel concepire la natura propria delle enunciazioni normative. Tuttavia, nello stesso tempo, non può non riconoscersi come quest’ultima sia la versione più ortodossa nel non cognitivismo etico di inizio Novecento. Ora la derivazione del senso specifico delle norme dalla volontà di una sorgente normativa irrigidisce, probabilmente in maniera definitiva, la problematica dei rapporti tra essere e dover essere, tra Sein e Sollen, tra is e ought. Ciò perché confina in un luogo indisponibile per l’analisi filosofica la sorgente ultima della forza normativa di determinate proposizioni. Fedele a questa impostazione, Kelsen prende in esame il tentativo jørgensiano di superamento del puzzle nel capitolo LI28. Penso che tale “lettura” kelseniana sia quantomeno interessante, soprattutto se ne ricaviamo un preciso rilievo critico mosso nei confronti di Jørgensen. Infatti, Kelsen scrive che «egli rappresenta già il fattore imperativo come fattore indicativo»29. Si tratta, in effetti, di una lettura molto prossima alla tonalità che abbiamo avuto modo di discutere in precedenza, al difetto circolare sul quale abbiamo indugiato poco prima, al punto critico che in precedenza abbiamo discusso. Mi sento di poter concordare, appunto, con Kelsen quando esprime la critica presente dal momento che Jørgensen riduce, in buona sostanza, il fattore imperativo a quello indicativo. Ed è soltanto in virtù di questa fallace riduzione che può, peraltro 26

Cfr. A. ROSS, Imperativi e logica, in A. ROSS, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 74 – 96. 27 Cfr. H. KELSEN, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, p. 4. 28 Ivi, p. 324 e sgg. 29 Ivi, p. 325.

Draft – versione pubblicata su: R. D’Alessandro – I. Pozzoni (curr.), Prospettive storiografiche di teoria sociale, Limina Mentis, Villasanta, 2015, pp. 129 - 142 agevolmente a quel punto, estendere il campo di applicazione della logica vero-funzionale alle proposizioni imperative, un’estensione sempre indiretta per il tramite del fattore indicativo, chiamato anche parallelo indicativo. Se non posso certo ritrovarmi in tutta la speculazione kelseniana in materia giuridica, non posso non concordare con lui su questo specifico aspetto, su questa precisa critica, sul presente aspetto della sua lettura nei confronti del saggio di Jørgensen. D’altro canto, osserva ancora Kelsen, il fattore imperativo «è l’asserzione, secondo cui qualcosa viene comandato, desiderato, cioè un’asserzione sull’atto di imperio» 30 . Dunque, mi par di capire, il giurista rimprovera all’epistemologo la troppo facile semplificazione del quadro problematico, l’evidente fallacia di aver arbitrariamente ridotto il fattore imperativo al fattore indicativo, l’eccessivo ottimismo con il quale Jørgensen intravede il superamento dell’ostacolo al trattamento formale da parte della logica vero-funzionale. Infatti, aggiunge che «Il fattore imperativo però può essere soltanto il modus imperativo, cioè il modus del dover essere»31, e non il mood di un parallelo enunciato al modo indicativo. In altri termini, ricorrendo alla differente modalità d’enunciazione nel caso di una proposizione normativa e nel caso di una proposizione descrittiva, in maniera molto pertinente a mio avviso, il giurista critica Jørgensen e conferma l’unica possibilità consentita al riguardo, vale a dire che i due fattori pertengano alla loro dimensione propria. Detto altrimenti, è sicuramente corretto asserire che Jørgensen ha equivocato tra forma dell’enunciazione, ossia lo specifico modus enunciativo, e contenuto dell’enunciazione, ossia la medesima sequenza linguistica che figura tanto nell’enunciazione imperativa quanto nell’enunciazione indicativa. E qui, purtroppo, termina la mia consonanza teorica con il giurista austriaco. Subito dopo, infatti, Kelsen aggiunge che ciò «che viene prescritto, cioè ordinato con un ordine, comandato con una norma, è un substrato modalmente indifferente che si manifesta nell’ordine e nella norma nel modus del dover essere, cioè nel modus imperativo, non già in un modus indicativo diverso da questo, cioè come asserzione che può essere vera o falsa»32. Con il suo classico lessico, probabilmente, Kelsen intendeva ribadire quanto detto in precedenza. Ma, precisato proprio ciò, ecco che le possibili analogie scorte da Jørgensen si dissolvono in quanto l’apparente continuità linguistica tra il contenuto di una norma e la sua forma enunciativa sembra non tener conto del differente modus enunciativo. In sostanza, mi par di capire, Kelsen intende “correggere” Jørgensen perché non basta enunciare in maniera descrittiva il contenuto di una norma per riprodurre quest’ultima, ovvero per enunciare un atto linguistico avente la medesima funzione di una norma. Detto altrimenti, v’è dell’altro che rende una norma una norma, un surplus che non è riducibile alla forma di espressione linguistica di un’asserzione. Isolare da quest’ultima due fattori, uno indicativo e l’altro imperativo, non consente di apprezzare, da un punto di vista logico, la profonda quanto irriducibile differenza enunciativa che corre tra una proposizione indicativa, sebbene descrittiva del contenuto di una norma, e una proposizione imperativa, sebbene affine sotto la dimensione meramente rhetica dell’enunciazione. La “lettura” kelseniana di Jørgensen, pertanto, offre spunti ulteriori per meglio criticare la proposta jørgenseniana. Il contenuto della norma, sebbene espressa in lingua naturale, è un substrato indifferente allo specifico modus enunciativo. Ciò significa che quanto viene prescritto, comandato, ordinato o desiderato è indifferente che occorra in una proposizione normativa o in una proposizione indicativa perché quel che rende normativa una proposizione è il modo enunciativo, non il suo contenuto. Pertanto, il substrato modalmente indifferente non rende una sequenza linguistica né una proposizione normativa, vale a dire una norma, né una proposizione indicativa, vale a dire una descrizione (di qualcosa). Per di più, Kelsen rincara la dose annotando ulteriormente che l’assunzione in forza della quale «l’imperativo contenga un fattore indicativo è una conseguenza dell’opinione, generalmente accettata, che il dover essere è «diretto» ad un essere, quindi che al dover essere debba essere immanente un essere. Ciò è tuttavia una descrizione scorretta del rapporto tra il dover essere e l’essere ad esso corrispondente»33. Così non è. Ne consegue, pertanto, che l’assunzione di Jørgensen sia illusoria, e, per di più, funzionale al progetto di superamento della dicotomia tra proposizioni normative e proposizioni indicative, cioè quel tentativo, costruito ad hoc a dire il vero, di ricavare surrettiziamente delle proposizioni descrittive a partire da proposizioni imperative di partenza. Infatti, il fatto che vi sia una proposizione imperativa non implica in alcuna maniera l’esistenza di un essere o fatto o evento corrispondente. Detto altrimenti, l’esistenza di un dover essere non implica affatto l’esistenza di un essere corrispondente, o, per dirlo in altro modo, un 30

Ibidem. Supra. 32 Ibidem. 33 Ivi, p. 326. 31

Draft – versione pubblicata su: R. D’Alessandro – I. Pozzoni (curr.), Prospettive storiografiche di teoria sociale, Limina Mentis, Villasanta, 2015, pp. 129 - 142 parallelo indicativo. In questa critica di Kelsen alla prospettiva jørgensiana si vede all’opera la distinzione neopositivista tra Sollen e Sein in forza della quale non è attuale una diretta corrispondenza tra enunciazione imperativa ed enunciazione indicativa, una corrispondenza, pertanto, solamente ipotetica ma mai disponibile all’esperienza storica o alla percezione diretta. Piuttosto, Kelsen suggerisce che tutte le considerazioni che Jørgensen svolge intorno al tema presente, ossia al rapporto tra proposizioni normative e proposizioni indicative, «sono asserzioni sopra l’ordine, sopra la norma»34, vale a dire sono asserzioni descrittive di proposizioni normative. Di conseguenza, allora, non consentono un progresso teorico rispetto alla problematicità di una logica applicata alle norme della morale e del diritto, alla stessa maniera di come non abilitino affatto a “sognare” un netto superamento dello iato tra essere e dover essere. Infatti, tali asserzioni, nonostante che siano vicine alle proposizioni che descrivono, «sono proposizioni completamente differenti» 35 e «non sono contenute» 36 nelle proposizioni stesse che descrivono. Questo perché, sembra concludere Kelsen, «ordine e asserzione sono due significati completamente diversi; l’uno è il senso di un atto di volontà, l’altro il senso di un atto di pensiero»37. Tra Jørgensen e Kelsen, quale logica è quella del diritto? Gran parte degli autori, filosofi e logici in modo particolare, hanno accolto il primo corno del cd. dilemma di Jørgensen38, «negando conseguentemente la possibilità di una logica delle norme»39. Questo, però, è, a sua volta, problematico dal momento che «implica una concezione irrazionale delle norme»40. Questo è, a mio onesto modo di vedere, esattamente il caso di Kelsen che approda ad una posizione radicalmente quanto integralmente irrazionalista in tema di norme dal momento che secondo lui può affermarsi «che la norma «dice» che qualcosa deve essere o deve accadere nella misura in cui non si è indotti da ciò a confondere la norma con un’asserzione. La norma non è infatti un’asserzione e […] deve essere nettamente distinta da un’asserzione, in particolare anche dall’asserzione sopra una norma. Infatti l’asserzione è il senso di un atto di pensiero mentre la norma […] è il senso di un atto di volontà rivolto intenzionalmente ad un certo comportamento umano»41. Ora, rispetto all’analisi jørgensiana e alla posteriore lettura datane da Kelsen, cosa può dirsi in aggiunta? A dispetto degli esiti a dir poco sconfortanti in tema di logica del diritto, Kelsen è comunque una figura da tenere in debito conto. La ragione di ciò è, in fondo, del tutto semplice se poniamo mente alle parole di Bulygin Hans Kelsen fa caso a sé: malgrado la sua formazione filosofica non analitica, credo sia appropriato includerlo tra i filosofi analitici del diritto (quanto meno, come analitico avant lettre), non solo per la grande influenza da lui esercitata sui teorici analitici del diritto, ma soprattutto per il suo modo di fare filosofia del diritto. Quasi tutti i filosofi analitici del diritto europei e latino – americani sogliono occuparsi estesamente dell’opera di Kelsen, non foss’altro che per sottolineare i punti di disaccordo. In un certo modo, la posizione di Kelsen nella filosofia del diritto può essere paragonata a quella di Frege nella filosofia generale. Generalmente parlando, Frege non era un filosofo analitico, ma la sua influenza sui filosofi analitici difficilmente può essere sopravvalutata42

In modo particolare, sembra proprio che Kelsen sia un luogo imprescindibile della filosofia del diritto contemporanea perché si situa esattamente nel luogo di confine tra il formalismo neopositivistico e il formalismo postpositivistico, recando con sé l’indubbio merito, al pari dei suoi innegabili limiti o difetti,

34

Ivi, p. 328. Ibidem. 36 Supra. 37 Ibidem. 38 Cfr. A. PIZZO, Il puzzle … op. cit., p. 8: «è possibile una logica delle norme, a patto che la logica non sia vero funzionale». 39 Cfr. C. DALLA POZZA, Una logica pragmatica per la concezione «espressiva» delle norme, in A. A. MARTINO (ed.), Logica delle norme, Seu, Pisa, 1997, p. 3. 40 Cfr. H. KELSEN, op. cit., p. 328. 41 Cfr. H. KELSEN, op. cit., p. 52. 42 Cfr. E. BULYGIN, Filosofia analitica, logica, e diritto, in P. COMANDUCCI – R. GUASTINI, Struttura e dinamica dei sistemi giuridici, Giappichelli, Torino, 1996, p. 10. 35

Draft – versione pubblicata su: R. D’Alessandro – I. Pozzoni (curr.), Prospettive storiografiche di teoria sociale, Limina Mentis, Villasanta, 2015, pp. 129 - 142 come ad esempio il vago kantismo di riferimento, di aver dimostrato come «la tesi puramente normativistica sia non meno insostenibile di quella puramente sociologica o realistica»43. In conclusione, dunque, penso si possa dire che Kelsen abbia fornito la più raffinata sintesi del metodo formalistico di analisi del diritto, proprio del neopositivismo, e che, comunque, lo sviluppo posteriore della logica del diritto abbia trovato in altri autori luoghi, certamente più specifici o “capaci”, la propria sede consona ad una sviluppo compiuto44. E d’altra parte in questa sede ci siamo limitati solamente a prendere in considerazione la lettura, un po’ ideologica a volerla dire tutta, condotta da Kelsen sul canovaccio offerto dal saggio Imperatives and Logic di Jørgensen. Ovviamente, chi legge può acconsentire, avversare o, addirittura, restare indifferente. Tutto sta nell’avere a cuore, o meno, il collegamento, quale che sia, tra l’essere e il dover essere e nel rinnovare la domanda di partenza: quale logica è quella del diritto?

43 44

Cfr. G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto 3. Ottocento e Novecento, Laterza, Roma – Bari, 2006, pp. 284 – 285. Ivi, p. 343 e sg.

Lihat lebih banyak...

Comentarios

Copyright © 2017 DATOSPDF Inc.