Istanze eterodosse nell\'arte del Primo Cinquecento

June 29, 2017 | Autor: Gianmarco Tuzzolino | Categoría: Mannerism, Pontormo
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Descripción

Gian Marco Tuzzolino Ottavia Niccoli 12-10-2015

Istanze eterodosse nell’arte della prima metà del Cinquecento Spiritualità filoriformata e contesto culturale nell’opera del Pontormo e del Lotto Questa breve trattazione sarà incentrata sulla penetrazione di istanze di rinnovamento spirituale, quando non dichiaratamente filoriformate, nel linguaggio figurativo di un certo numero di artisti italiani del primo Cinquecento, differenti per valore artistico, estrazione culturale e teatro d’azione (fermo restando che i due poli tematici resteranno Lorenzo Lotto e Iacopo da Pontormo). Nel porre le necessarie premesse metodologiche sarà d’uopo puntualizzare come l’affermare perentoriamente la validità di una “fruizione eterodossa”, come di recente è stato più volte fatto, a scapito di una “volontà artistica eterodossa” –per quanto quest’ultima sia per ovvie ragioni meno perspicua agli occhi dello storico- non sia che una semplicistica operazione di impoverimento della realtà storica. Certamente dunque ogni immagine, in quanto veicolo di messaggio, sarà “ destinata a rinfrangersi, scomporsi e riaggregarsi all’infinito nella fruizione dei suoi fruitori”1 – e dunque sempre aperta ad un’esegesi in fumo heresiae-, ma allo stesso modo sarà altrettanto vero che “ogni testo letterario o figurativo presuppone un autore che abbia affidato a esso un suo messaggio, non di rado tra limiti e vincoli molteplici”2 e che nella quasi totalità dei casi il codice in cui il messaggio/testo è decifrabile correttamente sia quello di un fortemente connotato orizzonte di senso la cui chiave ermeneutica originale è detenuta da una più o meno ristretta cerchia culturale, sola a detenere la cifra necessaria a decodificare il messaggio. Da qui la seconda fondamentale premessa di metodo: il seguente studio non vuole dotarsi di finalità estetico-stilistiche o storico-artistiche, estranee alla sua natura, ma offrire, attraverso l’utilizzo del dato artistico come documento storico-culturale, uno spaccato su quei circoli di diffusione di istanze evangelico-spirituali in cui i principali protagonisti della nostra trattazione hanno a diversi livelli consciamente operato.

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Pag. VIII-IX, Premessa M. Firpo “Artisti, gioiellieri ed eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma” ibidem

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IL MESTIERE DEL DIPINGERE E L’OFFIZIO DELLA RELIGIONE Ad autorizzare la legittimità della questione sono sufficienti, ad un primo e superficiale computo delle casistiche, tre casi di tre differenti artisti, il cui valore esemplificativo si dà proprio nella radicale differenza di levatura: -Da un lato il caso isolato ma estremamente significativo di Michelangelo, la cui somma autorità e raffinata cultura ne fanno un caso al contempo di problematizzazione intellettuale della spiritualità quanto di “immunità intellettuale” ante litteram (noto è che, per la sua statura artistica e il rispetto universale che andava suscitando specialmente a Roma, la natura poco ortodossa dell’arte michelangiolesca facesse lui riscontrare rampogne di stampo moralistico piuttosto che vere e proprie condanne di eresia); aprire un excursus, per quanto di carattere cursorio, sulla natura della religiosità del Buonarroti, sui suoi elementi giovanili neoplatonici e sul rapporto in fase avanzata col circolo di Vittoria Colonna e la cosiddetta Ecclesia Viterbiensis , non pertiene a questi spazii e si rinvia dunque alla sconfinata bibliografia sull’argomento: sufficiente alle nostre intenzioni sarà porre attenzione ad un autografo michelangiolesco, la cosiddetta “Pietà per Vittoria Colonna” (allegato 1), in cui, oltre al palese patetismo del Cristo morto che torreggia centrale nell’economia dell’opera, sul braccio verticale della croce è inciso un verso dantesco (“non vi si pensa quanto sangue costa”, Pd XXIX), in origine riferentesi al valore del sangue umano sacrificato per la diffusione del messaggio evangelico e del martirio per apostolato, qui risemantizzato e facente ovvio riferimento alla dottrina valdesiana, cara al circolo del Pole, del “Beneficio di Cristo”, orientamento teologico secondo cui la salvezza è stata ottenuta dal genere umano per la Grazia del sacrificio divino (risaltano all’occhio le non poche affinità con le dottrine del “sola fide” luterano e con la predestinazione calvinista). -Dall’altro le figure, naturalmente minime se rapportate con l’universalità di Michelangelo, dell’oscuro Riccardo Perucolo da Conegliano, pittore la cui plateale adesione al protestantesimo diede seguito ad un altrettanto plateale rogo pubblico3, o del leggermente più celebre Alvise Donà, la cui simpatia agli orientamenti filoriformati fu sapientemente occultata da scelte figurative moderate, sebbene essa non mancò di esprimersi attraverso la scelta oculata di dettagli secondarii non subito palesi all’occhio: si pensi ad una “Crocifissione” del 1549 in cui, tramite l’affiancamento agli stendardi romani recanti la sigla “Senatus Populusque Romanus” del vessillo imperiale dell’aquila bicipite della casata d’Asburgo, si rende esplicita la rievocazione della battaglia di Muhlberg del 1547 in cui Carlo V infligge una pesantissima sconfitta alle truppe protestanti. Ma quale beneficio è possibile trarre dall’accostamento di documenti di natura e valore così eterogenei tra loro? La risposta in questo caso non latita. Il valore documentario di queste tre considerazioni è di per sé sufficiente a illustrare realtà ben più profonde: dal caso di Michelangelo prendiamo contezza dell’infiltrazione di istanze innovatrici anche nei ceti più colti e interni della Chiesa Romana (basti pensare all’affinità della Ecclesia Viterbiensis con l’opera di Juan de Valdes, mosso dalla volontà di porsi sì come rinnovatore della spiritualità, ma rinnovatore in sinu Ecclesiae, conscio del fatto che disconoscere l’autorità pontificia e porsi conseguentemente extra Ecclesiam significhi porsi anche extra gratiam); dal pressochè sconosciuto Perucolo da Conegliano possiamo trarre quella che è stata la modalità più rischiosa e, sulla lunga distanza, senza dubbio perdente di opposizione all’establishment, quella del confronto diretto; infine dal caso di Alvise Donà 3

Sul quale vedasi, pur essendo un testo dotato di un’eccessiva tegumentazione letteraria talora storicamente fuorviante, L. Puppi “Un trono di fuoco. Arte e martirio di un pittore eretico del Cinquecento”

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apprendiamo la tendenza “vincitrice”, ovvero il veicolo di contenuti filoriformati attraverso forme che non destino l’attenzione dei censori o, peggio, degli inquisitori, tendenza che chiameremo, sulla scia della precedente tradizione accademica, “nicodemismo figurativo”. E’ opportuno adesso passare a casi di più complicata individuazione, i cui contesti di appartenenza aprono adito a più complesse considerazioni sull’orientamento dei contesti culturali che hanno portato alla loro espressione, quali appunto la temperie culturale fiorentina negli anni di Cosimo I attraverso l’opera del Pontormo e quella veneziana, incentrata tra il 1530 e il 1550 circa, attraverso quella del Lotto. I due casi che vengono proposti possono essere ritenuti di natura opposta: da un lato abbiamo difatti, da parte di un artista che si mantenne sempre nell’alveo dell’ortodossia (o su cui almeno non disponiamo di prove documentarie che ne testimonino l’afferenza a bacini eterodossi), la più compiuta espressione di una realtà altra rispetto a quella propugnata dall’ortodossia romana- a livello religioso- e raffaellesca - a livello stilistico- ; dall’altra invece la più volte provata affiliazione a circoli riformati di un artista la cui devozione è sempre stata, almeno sulla carta, genuina e tale da dar fama al Lotto per il suo zelo nell’“offizio della religione”4 (senza dimenticare che l’artista terminò la propria vita in qualità di oblato presso la Santa Casa di Loreto). Avendo testimonianza tanto delle fonti quanto degli impulsi di natura politica pontormeschi il capitolo fiorentino apparirà quanto meno più completo di quello veneziano, il cui cardine sarà focalizzato sulla realtà di diffusione degli orientamenti riformati e anticlericali dell’ambiente, piuttosto che sull’opera del pittore, considerato ancora troppo “poco compromesso” con evidenze fondanti come invece si dà il caso sia il Pontormo: mentre dunque per quest’ultimo si analizzerà diffusamente il perduto ciclo di affreschi della Sagrestia in San Lorenzo a Firenze, per quel che concerne il Lotto verranno trattate realtà minori della sua opera, le uniche a poter oggigiorno consentire per il pittore un inquadramento tale da risultare coerente con i circoli filoriformati da lui frequentati. Come ultima nota, si informa che l’orientamento critico e i dati storici forniti sono rintracciabili nelle opere di Massimo Firpo “Artisti, gioiellieri ed eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma”, “Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I” e “Storia di immagini, immagini di storia”. LORENZO LOTTO TRA LUTERO E PRODROMI DELLA CONTRORIFORMA Come già anticipato, il caso lottesco offre questioni ancora attualmente irrisolvibili per la critica. Lo studio lui dedicato da Firpo non riesce, ai nostri occhi, a dotarsi di quell’incontrovertibilità che, per quanto irraggiungibile in questi campi, ammanta gli occhi della comunità accademica permettendole di avvicinarsi alla cosiddetta “realtà storica”, la cui effettiva conoscibilità è un mito della critica. Ma se da un lato a venire meno è la plausibilità dell’interdipendenza tra scelte pittoriche e assidua frequentazione da parte del Lotto di circoli così vistosamente connotati, dall’altro va senza ombra di dubbio riconosciuto a Firpo l’aver illuminato un aspetto della storia culturale veneziana quanto meno trascurato: tratteremo dunque unicamente delle opere lottesche la cui filiazione

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“O Lotto, come la bontà buono e come la virtù vertuoso. […] lo essere superato nel mestiere del dipingere non s’acosta punto al non vedersi aguagliare nell’offizio della religione” così in una lettera Pietro Aretino canzona il Lotto riportandogli i successi del Tiziano alla corte imperiale di Augusta.

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filoriformata sia incontrovertibilmente accettata e dei rapporti intessuti dall’artista con questi circoli di diffusione di istanze luterane. Con certezza possiamo affermare che al suo ritorno a Venezia nel 1525 Lotto ebbe assidui contatti con un cenacolo filoluterano presso san Zanipolo, visse in casa del nipote Mario d’Arman –più volte interrogato dal Santo Offizio-, frequentò il Sansovino, il Serlio e Giulio Camillo, (anch’essi oggigiorno indagati di plausibili contatti di orientamento luterano o almeno filoriformato) e trasse proventi dalla collaborazione con la stamperia giuntina. Risultato di questa collaborazione fu nel 1532 il frontespizio dell’edizione giuntina del volgarizzamento biblico (ed in quanto tale religiosamente connotato sulla tradizione inaugurata da Erasmo prima e da Lutero poi) di Antonio Brucioli: il frontespizio (allegato 2), racchiuso in una cornice di stampo nordico e richiamante le Bibbie protestanti, era suddiviso in nove scomparti (raffiguranti la “Creazione di Eva”, il “Peccato originale”, la “Cacciata dal paradiso terrestre”, “Mosè davanti al faraone”, “Attraversamento del Mar Rosso”, “Mosè che riceve la legge”, “Natività”, “Resurrezione” e “Predicazione di san Paolo presso l’Areopago”) e si presentava dunque come un sintetico compendio di storia sacra –riformata- , scandita dalla classica tripartizione ante legem, sub lege e sub gratia, la cui decifrazione era affidata al riconoscimento dei potenziali significati di quelle immagini, ravvisabili nella struttura logica della narrazione (caduta, Mosè e l’antico patto, Cristo e la libertà evangelica) e dall’assenza di Pietro al fianco di Paolo. Dall’analisi del “Libro di spese” lottesco, effettivamente un registro contabile, è possibile ottenere dati molto significativi: l’artista realizzò, verso il 1540, per degli amici in cui era in debito una coppia di quadretti, raffiguranti Lutero e la di lui consorte Katharina von Bora; negli stessi anni è testimoniato un acquisto e una successiva rilegatura (che va ovviamente a rinforzare il valore personale dell’acquisto) di una copia del “Beneficio di Cristo”; queste informazioni, coadiuvate dalla frequentazione negli anni trevigiani (1542-1545) di Giovanni del Savon, orafo filoluterano che lo mise in contatto coi veneziani Bartolomeo Carpan –convinto sostenitore di Lutero e tra le amicizie più durevoli del Lotto, soggetto del celebre “Triplice ritratto di orafo”- e Lauro Orso (anch’egli orafo e diffusore a Messina di libelli filoriformati sottobanco), sembrano contribuire al definitivo avvallamento di un Lotto in frequente contatto con questo circolo di orafi filoluterani. Da non tralasciare inoltre l’appartenenza a questa cerchia di Alessandro Caravia, poeta vernacolare, la cui produzione, da “La Verra” a “Il Naspo bizaro” infino a “Il Sogno”, reca caratteri di sempre più tangibile estrazione erasmiana, pianamente ascrivibili ai toni di polemica anti-clericale facenti capo alla tradizione inaugurata dall’onnipresente Erasmo con la sua “Laus Stultitiae”. Abbiamo dunque, seppur schematicamente, ricreato le condizioni tali da identificare in Lottopersonaggio un fautore di rinnovamento spirituale, o addirittura un fervente e anticlericale luterano. La questione che ci interessa è tuttavia altra, intrinsecamente legata alla natura comunicativa del medium figurativo, ovvero quella del Lotto-artista. Non occorre dimenticarsi d’altronde che proprio dove il linguaggio figurativo lottesco sembra maggiormente prestarsi ad un’interpretazione filoluterana, come nel “Cristo crocifisso con gli strumenti della Passione” conservato nella collezione Berenson di Villa I Tatti, questa tesi mostra il fianco: ad apparire come evidentemente connotate dal punto di vista del rinnovamento spirituale sono quelle immagini che una buona metà della critica suole interpretare come fondamentale prodromo della sensibilità controriformata (ponendo dunque il Lotto come antesignano del Barocci e dei Carracci) – opinione

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che può apparire preferibile anche dall’analisi delle varie versioni del “Girolamo penitente”, delle tarsie del coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo e della “Madonna del rosario” di Cingoli-, soprattutto considerata la senile oblazione presso la Santa Casa di Loreto pochi anni prima della morte. Posto che un individuo possa attraversare differenti fasi nella propria esistenza, e che un inquieto sentimento del sacro possa dar adito a forme di espressione tra loro contradditorie, non è questo il luogo per fare degli psicologismi: la questione lottesca rimane dunque aperta, a metà strada fra adesione/ripulsa della riforma e un singolare caso di nicodemismo figurativo. IL CICLO DI AFFRESCHI DI PONTORMO IN SAN LORENZO Prima di iniziare a trattare questa singolare resa figurativa di un catechismo eterodosso è necessario contestualizzare tanto le condizioni in cui essa ci si presenta oggi quanto quelle che resero possibile la sua produzione nella seconda parte della prima metà del sedicesimo secolo. La particolarità di questo studio pontormesco risalta proprio in funzione del supporto di cui il fruitore necessita per godere al giorno d’oggi di questo ciclo figurativo, anche se in maniera frammentaria: esso difatti è andato via via mutilato a seguito dei varii interventi architettonici in S.Lorenzo per poi essere definitivamente perso in seguito ai massicci interventi di ristrutturazione del 1738-1742 voluti da Anna Maria Luisa de’Medici. Il programma figurativo originale degli affreschi (nel 1545 Pontormo ottiene l’incarico, che lascerà incompiuto alla sua morte nel 1556; l’opera sarà terminata dall’allievo Bronzino e scoperta due anni dopo, nel 1558) ci è dunque sconosciuto, e la più autorevole ricostruzione fino alla contemporaneità è quella effettuata da Charles de Tolnay ancora nel Primo Novecento (“Les fresques de Pontormo”). Tale ricostruzione, al vaglio delle più recenti interpretazioni, ha rivelato però il peso degli anni, necessitando dunque di una revisione. Riproponiamo allora l’accurata analisi che Firpo allega nel suo studio sugli affreschi laurenziani, coadiuvando la ricerca di Tolnay a quella della storica dell’arte Janet Cox- Rearick – cui va il merito di aver posto rigore scientifico agli autografi del Pontormo - , avvalendosi di due testimonianze storico-figurative (allegati 3 e 4) e delle descrizioni e critiche del ciclo dei contemporanei o immediati successori con metodo comparativo. I due Allegati rendono ragione della configurazione della chiesa e dell’orientamento delle varie parti del cicli. Si tratta la prima di un quadro di Agostino Ciampelli raffigurante le esequie del Buonarroti nel 1564, tenutesi appunto in S.Lorenzo (dal taglio delle composizione e dalla presenza delle fasce nere del lutto è forse deducibile una volontà già nell’immediata posterità di occultare la prova pontormesca, mentre la seconda di una ricostruzione della chiesa al momento dei funerali in pompa massima di Filippo II nel 1598: da quest’ultima, per quanto la parte di nostro interesse risulti stilizzata, si evince con facilità l’orientamento della facciata centrale del ciclo (dunque Cristo giudice in posizione centrale, la coltura delle mela da parte di Eva a sinistra e la cacciata dei progenitori a destra). La ricostruzione più efficace del ciclo nella sua completezza è tuttavia da ascrivere alla comparazione di una serie di giudizii critici, spazianti dalle celebre pagine della stroncatura artistica del Vasari delle “Vite” a quella moralistica del Borghini nel “Riposo” fino a compendii primosecenteschi di mirabilia cittadini di lontana origine medievale. Si dà qui dunque la ricostruzione completa dei tredici soggetti del ciclo:

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1- VASARI A sommo del mezzo della facciata sopra le finestre fece nel mezzo in alto Cristo nella sua maestà, il quale circondato da molti angeli tutti nudi fa resuscitare que’ morti per giudicare. BORGHINI / BOCCHI / CIRRI Dipinse nel centro sopra alle finestre Cristo in gloria che ordina la resurrezione dei morti. 2- VASARI Fece nella parte di sopra in più istorie la creazione di Adamo et Eva, …Sotto i piedi ha Dio padre che crea Adamo ed Eva. BORGHINI Si vede in alto Adamo et Eva, di mano del Ponturmo. BOCCHI / CIRRI Sotto l’eterno Padre che crea Adamo ed Eva. 3- VASARI Il loro mangiare del pomo vietato. BORGHINI / BOCCHI Et il mangiare del pomo vietato, di colorito bellissimo. CIRRI Nella parete superiore a destra diverse storie di Adamo ed Eva. 4- VASARI E l’essere scacciati di paradiso. BORGHINI Et poscia quando sono cacciati dal paradiso. BOCCHI / CIRRI / 5- VASARI Il zappare la terra. BORGHINI Et quando col sudore del volto zappando deono procacciarsi la vita. BOCCHI / CIRRI / 6- VASARI / BORGHINI / BOCCHI Bellissima è la figura di Abraam quando sacrifica il figliuolo, et l’attitudine di Isaac molto è lodata, dove gli artefici quando commendano il disegno di queste due figure non si possono saziare. CIRRI E il sacrifizio di Abramo. 7- VASARI Il sacrifizio d’Abel, la morte di Caino. BORGHINI / BOCCHI Si mostra la fierezza di Cain quando uccide il fratello, di bellissimo artifizio; et Abel che da tanto furore si vuole fuggire esser non puote più singolarmente ne più raro. CIRRI A sinistra la morte di Caino. 8- VASARI La benedizione del seme di Noè, e quando egli disegna la pianta e le misure dell’arca. BORGHINI / BOCCHI / CIRRI La storia di noè. 9- VASARI Oltre ciò in uno dei canti… sono i quattro evangelisti nudi con libri in mano. BORGHINI / BOCCHI / CIRRI E negli angoli i quattro evagelisti.

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10- VASARI In una poi delle facciate di sotto, ciascuna delle quali è braccia quindici per ogni verso, fece la inondazione del Diluvio, nella quale sono una massa di corpi morti e affogati, e Noè che parla con Dio. BORGHINI Noè uscito fuori dalla barca dopo il Diluvio che fa il patto con il grande Iddio, come si vede per l’arco celeste… L’arca… sopra il monte e Noè co’suoi figlioli e nipoti che riverentemente parlano a Dio, e poi a basso… i corpi morti, che appariscono in varii gesti, secondo che rimaser nel mancar dell’acqua… Dov’è l’altare dove egli fece il sacrificio e dove sono i tanti animali che erano usciti dall’arca, i quali potevano arricchire l’historia e dar vaghezza alla pittura? E perché ha fatto Noè nudo come se uscisse dall’acqua, pocco dissimile da quelli che ancor dentro vi sono? E domando che fanno quegli huomini ancor vivi che cercano di scampare dall’acque sopra i avalli, e quegli altri che vanno notando per salvarsi? BOCCHI Di costà poi si vede il Diluvio. E’ grande la moltitudine de’ corpi morti che sono dipinti; ma si veggono in cima del monte alcuni campati dall’acque, effigiati con molta industria, et in compagnia di Noè con bellissime attitudini et con grande disegno: assai fanno fede quanto bene la virtù di sua arte intendesse questo raro artefice. Gli angeli che son per l’aria sono effigiati con artefizio sopra ogni stima raro. CIRRI Nelle facciate inferiori il Diluvio universale, Noè che parla con Dio. 11- VASARI Nell’altra faccia è dipinta la Resurrezione universale de’morti che ha da essere nell’ultimo e novissimo giorno, con tanta e varia confusione, ch’ella non sarà maggiore da dovero per aventura né così viva, per così dire, come l’ha dipinta el Puntormo. BORGHINI Ha fatto un gran monte di corpacci, sporca cosa a veder, dove alcunimostrano di risuscitare, altri sono risuscitati et altri morti in dishoneste attitudini si giacciano; e di sopraha fatto alcuni bambocci con gesti molto sforzati che suonano trombe, e credo che egli voglia che si conoscano come agnoli. BOCCHI Nella parte destra adunque è dipinto il Giudizio universale. Si mostrano in varie e bizzarre attitudini da basso molti che risuscitano, et per disegno, colorito e rilievo è maravigliosa ciascuna figura. Ha figurato in aria molti angeli di colorito dolce et mobido et con movenza di persona molto fiera e bizzarra, et i pittori che bene intendono ci riconoscono grande artifizio et perciò sommamente l’ammirano. CIRRI E il Giudizio finale. 12- VASARI Dirimpetto all’altare, fra le finestre, cioè nella faccia del mezzo, da ogni banda è una fila d’ignudi che, presi per mano et aggrappatisi su per le gambe e busti l’uno dell’altro, si fanno scala per salire in paradiso, uscendo di terra, dove sono molti morti che gl’accompagnano; e fanno fine da ogni banda due morti vestiti, eccetto le gambe e le braccia, con le quali tengono due torce accese. BORGHINI / BOCCHI / CIRRI Di fronte all’altare figurò diversi nudi che salgono l’uno sulle spalle degli altro per dare la scalata al paradiso. 13- VASARI Avendo alla sua morte lasciata Iacopo Puntormo imperfetta la cappella di San Lorenzo, et avendo ordinato il signor duca che il Bronzino la finisse, egli vi finì dalla parte del Diluvio molti ignudi che mancavano a basso e diede perfezzione a quella parte; e dall’altra, dove a piè della Resurrezione de’morti mancavano, nello spazio d’un braccio circa per altezza nel largo di tutta la facciata, molte figure: le fece tutte bellissime e della maniera che si 7

veggiono. Ed a basso tra le finestre, in uno spazio che vi restava non dipinto, finì un san Lorenzo ignudo sopra una grata, con certi putti intorno. Nella quale tutt’opera fece conoscere che aveva con molto miglior giudizio condotte in quel luogole cose sue che non aveva fatto il Puntormo suo maestro le sue pitture di quell’opera. Il ritratto del qual Puntormo fece di sua mano il Bronzino in un canto della detta cappella a man ritta del san Lorenzo. BORGHINI Havendo alla sua morte el Puntormo lasciata imperfetta la cappella di San Lorenzo, la finì il Bronzino: e dalla parte del Diluvio a basso vi fece molti ignudi che vi mancavano e dall’altra parte ancora dipinse molte figure; et a basso tra le finestre, dove era rimasto uno spatio non dipinto, fece un san Lorenzo ignudo sopra la graticola con alcuni fanciulli intorno, et a man dritta del san Lorenzo il ritratto del Puntormo, nelle quai figure mostrò d’havere avanzato il maestro. BOCCHI Molte figure che sono da basso in ciascuna di queste due storie sono di mano di Agnolo Bronzino, et di vero lodate da tutti e con ragiome¸et il san Lorenzo ignudo sopra la graticola con alcuni puttini sono altresì di sua mano; appresso ci ha il ritratto del Puntormo fatto di estrema vivezza. CIRRI Gli affreschi rimasero interrotti per la morte del pittore e vennero terminati dal Bronzino che vi aggiunse il martirio di san Lorenzo. Allo sforzo mentale di raffigurazione si affianca una storia critica assolutamente infelice, che vide il ciclo pontormesco già svalutato nell’immediata posterità. La natura delle stroncature, principe quella vasariana, è stilistica ed iconografica, ma ad un maggiore vaglio delle fonti è possibile intravedere una sottesa motivazione politica. La condanna delle autorità religiose, nell’incipiente clima controriformista, non poteva mancare, in special modo tenendo conto delle pesanti critiche che già il Gilio rivolgeva a Michelangelo per il suo Giudizio nel “Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie”; Borghini, nel “Riposo”, fa difatti seguire alla condanna i medesimi rimproveri che saranno presenti nel “Discorso sovra le immagini sacre e profane” del cardinal Paleotti, testo fondante l’approccio di tutta l’età postridentina alla pittura sacra. Su un piano essenzialmente stilistico, il vigore della linea e le sue contorsioni michelangiolesche non poterono che suscitare lo sdegno del gusto raffaellesco che la Seconda Maniera fiorentina veicolava; considerando tuttavia che autore di una stroncatura di questo genere è il Vasari, e che proprio quest’ultimo aveva trovato aspre critiche alla prima edizione delle “Vite” per il suo esibito michelangiolismo, urgono considerazioni di differente natura. Prendiamo qui spunto da una riflessione presente in “La bella Maniera” di A. Pinelli, la cui natura è necessariamente ipotetica, riguardante la stroncatura degli affreschi del Pontormo e la rapida ascesa sociale del Vasari stesso: i due pittori, per quanto una generazione li separasse, avevano entrambi concluso l’apprendistato presso Andrea del Sarto, con esiti differenti -Pontormo era allora all’apice della sua carriera e il Vasari nient’altro che un giovane aiutante di bottega- ; il primo faceva allora parte di una cerchia ristretta di artisti particolarmente ben vista agli occhi del duca, tra cui il Tribolo, il Tasso, il Bandinelli, più tardi il Cellini, tramite la mediazione del maggiordomo ducale Pierfrancesco Riccio, uomo di fiducia di Cosimo I e ormai più che uso alle stanze del potere. Nel momento in cui il personaggio vide svanire la propria considerazione presso la corte, Vasari sfruttò il vuoto di potere creatosi per sostituirsi al Riccio come figura centrale delle maestranze prima ducali e poi granducali; così facendo trovò anche il modo di attuare il ricambio generazionale che si completerà poi con l’avvento al 8

potere di Francesco I, figlio di Cosimo, condannando così gli artisti della “vecchia guardia” a ritirarsi, trasferirsi o semplicemente vedere ridimensionata la propria committenza, in special modo quella pubblica. Riusciamo così a mettere in luce questioni di carattere non secondario lasciate sottese dalla storia, quali appunto l’opposizione generazionale tra gli esponenti della Prima Maniera dell’entourage del Riccio (Pontormo come simbolo culturale da criticare in funzione modernista, Jacone come nemico personale vasariano, protagonista anche di un aneddoto nelle “Vite”) e i rutilanti nuovi artisti secondomanieristi aventi come figure guida il Vasari stesso e il Salviati (tesi Pinelli), argomentazione da conciliare con gli orientamenti che vedono nella scelta del Vasari di mantenersi sulla critica stilistica un oculato bypass per tacere del bagaglio contenutistico eterodosso (tesi Firpo). Volendo scandagliare con maggiore zelo le fonti dell’epoca, otteniamo che tra i testi a nostra disposizione nessuno riuscì, o volle riuscire, a decifrare correttamente la complessa iconografia del ciclo laurenziano: prova questa e della codificazione dei contenuti voluta dall’artista –tanto come difesa da occhi indiscreti quanto come indice di dottrina- e della mancanza da parte della totalità degli spettatori di questa cifra risolutiva, sempre che non si voglia affermare con veemenza una reticenza delle fonti atta a salvaguardare la diffusione del vero contenuto del ciclo (vedasi tesi Firpo). Diversi studiosi hanno nel corso degli anni provato a rintracciare un plausibile testo alla base dell’iconografia del ciclo, e più volte è stato di conseguenza riesumato il nome di Juan de Valdes, di certo ispiratore di una spiritualità affine a quella espressa nell’opera. Dopo quasi un secolo di studii si è infine pervenuti a quello che, con ogni precauzione storica, sembra essere la sicura e certa fonte per l’ispirazione pontormesca: si tratta non di un testo articolato, bensì di un succinto catechismo di ispirazione per l’appunto valdesiana intitolato “Qual maniera si devrebbe tenere a informare insino dalla fanciullezza i figliuoli de’ christiani alle cose della religione”. Mettiamo dunque al vaglio i contenuti eterodossi immediatamente accessibili contenuti nel ciclo: totale assenza di santi, della Madonna, subordinazione di Dio padre al Cristo benedicente coi segni della Passione, totale assenza di dannati, di punizione e di inferni, così come di realtà celesti, tripartizione della storia sacra ante legem sub lege sub gratia. Il messaggio più eversivo contenuto su quelle mura era senza dubbio l’enucleazione del sonno delle anime (nell’interpretazione corrente, le due pareti laterali –Diluvio e Resurrezione- sarebbero parte di un’unica scenografia concettuale, il Giudizio; le anime dei beati ritornano in vita mentre i dannati dormono un sonno eterno), dottrina ereticale che voleva che le anime dannate perissero col corpo al sopraggiungere della morte fisica, mentre quelle beate morissero momentaneamente per poi essere risuscitate (tnetopsichismo); nel caso del ciclo laurenziano, è più probabile sia implicata la versione moderata di questa dottrina, più affine al sentire riformato, che voleva invece che le anime fossero mantenute addormentate nel grembo divino fino al loro risveglio per il Giudizio (psicopannichismo). V’era a Firenze in quegli anni una sola copia manoscritta di quest’opera e dell’opera di riferimento valdesiana, il “Beneficio di Cristo”, entrambe in possesso del già nominato Pierfrancesco Riccio maggiordomo ducale. Si apre dunque innanzi alla nostra trattazione un sentiero che conduce infino alle più alte sfere del potere, un potere –territorialmente confinante al Papato- che commissiona, come principale opera pubblica del ventennio, la raffigurazione più completa di contenuti eterodossi (ma in sinu Ecclesiae, come da tradizione valdesiana) all’interno del sacello di San Lorenzo, ovvero nel cuore stesso della dinastia medicea. Eppure ben sappiamo che i Medici tennero

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sempre in odio la spiritualità demagogica di stampo savonaroliano e operarono affinchè il potere religioso non costituisse mai più una minaccia come in passato: se si avvalsero di questo strumento politico, perché ormai solo in questo modo possiamo parlare del ciclo pontormesco, era perché la forza cui era necessario opporsi era il Papato stesso (e simbolico sarebbe stata anche l’opposizione tra il Cristo giudice della Sisitina e il Cristo giudice e benedicente di San Lorenzo). Possiamo osservare quindi adesso come questa commissione cosimiana si inserisse efficacemente nel gioco politico che vide Cosimo I travestirsi da innovatore spirituale (la scelta di porsi sotto l’egida del Valdes comportava nei ceti colti un’identificazione non con Lutero ma col circolo di Spirituali del Pole) per contrastare le mire espansionistiche di Paolo III Farnese, interessato ad assicurare alla propria discendenza un patrimonio territoriale ingente, a scapito degli interessi medicei (e non a caso la situazione rischiò più volte di degenerare). A completare il disegno venne la cessata ostilità tra Medici e Papato (con la morte di Paolo III), che culminò con Pio V nel 1569 con l’incoronazione granducale di Cosimo: si assistè allora ad un coup de theatre, ben noto a dire il vero agli scacchieri politici, in cui la dinastia medicea dapprima si stagliò contro il Papato come principale ostacolo per poi porglisi accanto in qualità di fedele alleato. Appare naturale come un tale rovesciamento delle parti in causa debba aver prodotto in un primo momento un sentimento di pruriginoso fastidio nei confronti degli affreschi, col tempo sfociato poi in aperta condanna fino ad un pressochè totale silenzio, cui seguì unicamente la definitiva scialbatura. BIBLIOGRAFIA M. Firpo “Storie di immagini, immagini di storia. Studi di iconografia cinquecentesca”, Edizioni di storia e letteratura, 2010 M. Firpo “Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma”, Laterza, 2001 M. Firpo “Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I”, Einaudi, 1997 A. Pinelli “La bella maniera: artisti del Cinquecento tra Regola e Licenza”, Einaudi, 1993

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