Inferno 21. Un ascensore per l\'inferno

August 6, 2017 | Autor: Natascia Tonelli | Categoría: Dante Studies, Dante, Dante Alighieri, Filologia dantesca, Inferno
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LECTURA DANTIS BONONIENSIS a cura di Emilio Pasquini e Carlo Galli

Volume IV

Bononia University Press

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Bononia University Press Via Farini 37 – 40124 Bologna tel. (+39) 051 232 882 fax (+39) 051 221 019 www.buponline.com email: [email protected] © 2014 Bononia University Press I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. In copertina: Pellegrino Tibaldi, Accecamento di Polifemo, 1552, Bologna, Palazzo Poggi, Sala Ulisse (foto di Massimo Matera) ISBN: 978-88-7395-974-8 Impaginazione: Sara Celia Stampa: Global Print Prima edizione: dicembre 2014

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SOMMARIO

Inferno XXI Un ascensore per l’inferno Natascia Tonelli Inferno XXII Luciano Formisano Inferno XXIII Il canto degli ipocriti, Bologna nell’aldilà, la visione come meccanismo narrativo Mirko Tavoni

5

23

47

Inferno XXIV Francesco Spera

79

Inferno XXV Marcello Ciccuto

93

Inferno XXVI Tiziano Zanato

109

Inferno XXVII Marco Santagata

143

Inferno XXVIII Tiziano Zanato

157

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INFERNO XXI UN ASCENSORE PER L’INFERNO Natascia Tonelli

È una sorta di nuovo inizio, quello che prende avvio col canto XXI, inizio a partire dal quale il genere dell’opera, la commedia, esplica, ora a tutto campo, la densità e ricchezza semantica della sua stessa definizione; non per niente è appunto qui nominata la comedìa per la seconda volta, e ultima, a poca distanza dalla prima (Inf. XVI, 128: «e per le note / di questa comedìa…»), ma con ben altra, intenzionale pregnanza; e come tale, nel genere che rappresenta, è individuata ad apertura di canto: Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura venimmo…

(Inf. XXI, 1-3)

Quasi lo si potesse specificare, questo nuovo genere della comedìa, per quello di cui non si cura, non si vuole o non si deve occupare, o, per statuto, non importa che si occupi; per sottrazione d’ambiti di interesse o di pertinenza. E col ventunesimo si dà quasi l’inizio di un nuovo viaggio, che si continuerà e completerà col successivo canto a costituire un dittico ben coerente, nel quale Dante sarà accompagnato da guide affatto infide: le uniche di tutto il poema, fra le tante, che appunto deviano e mettono a repentaglio il percorso di Dante, indirizzandolo verso un luogo che addirittura non esiste, non c’è; ed è il canto che dà il via alle grandi similitudini («Quale nell’arzanà de’ Veneziani…» vv. 7-18); è il canto dell’oltranza linguistica combinata con l’oltranza gestuale e comportamentale dei «neri cherubini», oltraggiosa, in una climax che porta fino alla trombetta finale; canto di diavoli neri nodosi e spigolosi («L’omero suo, ch’era aguto e superbo…» v. 34) e di tutto quell’apparato

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che siamo soliti individuare come immaginario gotico dell’Oltretomba, con tanto di uncini, raffi, zanne e denti che digrignano; canto che è stato detto di interludio farsesco o, con interpretazione di segno opposto, di rispecchiamento del dramma personale di Dante: vi si condanna infatti la pena della baratteria, e sarebbe così risibile agli occhi dell’autore, e inane, l’accusa di cui fu fatto oggetto, che il dramma autobiografico verrebbe virato al comico, comico inteso come categoria retorica e, da Dante, impiegato come sua propria cifra interpretativa della motivazione alla condanna subita, condanna che ne aveva determinato, formalmente, l’espulsione da Firenze; canto tutto lucchese, di sarcasmo (dove «ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo» v. 41) e di disprezzo («del no per li denar vi si fa ita» v. 42); canto che, al limite, non necessiterebbe di commento, per alcuni; canto di interpretazione globale, complessiva e di collocazione ardua, se non impossibile da ridurre ad unum per tanti.1 Dei molti e assai vari nodi problematici, ne affronterò solo alcuni, per punti, aspirando tuttavia ad un loro giustapporsi non troppo schematico, alla ricostruzione di un quadro interpretativo coerente. Trascurerò dunque molti aspetti, anche fra i più invitanti: quale con maggiore dispiacere, giacché mi pare che criticamente non siano stati ancora adeguatamente considerati, come ad esempio gli elementi psicologici e le reazioni fisiologiche particolarmente in rilievo nel canto; quale invece con una certa leggerezza, giacché altri – nella bibliografia sterminata che si è dedicata alla farsa dei diavoli – se ne è occupato con competenza somma e acribia risolutiva: penso, fra le altre cose, alla lettura delle grandi comparazioni, in particolare la veneziana e la caproniana («Così vid’io già temer li fanti / ch’uscivan patteggiati di Caprona, / veggendo sé fra nemici cotanti» vv. 94-96), fondate su recente personale esperienza di luoghi e comportamenti, lettura che, ad opera di Roncaglia, ne ribalta la valutazione digressiva e autonoma e tutto sommato “superflua” data da Croce; o a tutta la tramatura stilistica di grande sapienza per la quale, ancora insieme a Roncaglia, è certo da ricordare Battistini e la sua lettura.

1  Mi limito a citare solo alcuni, i più presenti in queste pagine, fra i moltissimi degli interventi specifici sul canto: Aurelio Roncaglia, Lectura Dantis: Inferno XXI, «Yearbook of Italian Studies», I, 1971, pp. 3-28; Andrea Battistini, L’arte d’inabissarsi o la retorica della “tenace pece” (Inferno, XXI), «L’Alighieri», XXXVIII, 1997, n.s. 9, pp. 73-92; Michelangelo Picone, Giulleria e poesia nella Commedia: una lettura intertestuale di Inferno XXI-XXII, in «Letture classensi», XVIII, 1989, pp. 11-30; Michelangelo Picone, Canto XXI, in Lectura Dantis Turicensis. Inferno, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, Firenze: Cesati, 2000, pp. 291-304; Riccardo Bacchelli, Da Dite e Malebolge; la tragedia delle porte chiuse e la farsa dei ponti rotti [1954], in Id., Saggi critici, Milano: Mondadori, 1962, pp. 845-878; Alberto Chiari, Il primo canto dei barattieri, «Letture dantesche», 1939, pp. 3-39; Guido Favati, Il “Jeu” di Dante, «Cultura neolatina», XXV, 1965, pp. 34-52; Davide Conrieri, Lettura del canto XXI dell’“Inferno”, «GSLI», CLVIII, 1981, pp. 1-43; Leo Spitzer, Gli elementi farseschi nei canti XXI-XXII dell’Inferno, in Studi italiani, a cura di Claudio Scarpati, Milano: Vita e Pensiero, 1976, pp. 185-190; Antonino Pagliaro, La rapsodia dei diavoli, in Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, Messina-Firenze: D’Anna, 1967, pp. 311-324.

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1. Comedìa vs tragedìa L’opposizione che connota i generi tragico e comico nel De vulgari eloquentia (II iv 5-6) è nota: Per tragediam superiorem stilum inducimus, per comediam inferiorem […] Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem oportet ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur.

Il secondo libro del De Vulgari dunque ne distingue ambiti di contenuto e poi e soprattutto appropriate scelte lessicali, prima di passare alla parte di vero e proprio trattato metrico destinato alle canzoni come alla forma d’elezione individuata, nel volgare illustre, per cantare argomenti elevati, sublimi e dunque tragici. Nella Commedia i due termini tragedìa e comedìa si trovano talmente vicini da imporre alla considerazione e alla valutazione questa prossimità certo non casuale. Nel canto XX è lo stesso Virgilio che evoca, a proposito dell’augure Euripilo, l’Eneide, «l’alta sua tragedìa» che «in alcun loco» (vv. 112-13) lo canta: ed è l’unica occorrenza del termine, che assume spicco ulteriore in virtù di colui, l’autore, che lo pronuncia.2 Di lì a poco, alla distanza di diciotto versi, dalla fine di questo all’inizio del canto successivo, ecco che Dante, Dante autore, ci parla del suo essere autore e delle sue scelte contenutistiche autoriali, e nomina la sua propria opera: «Così di ponte in ponte, altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura, / venimmo». Lo fa nella Commedia per la seconda e ultima volta, e in modo assai più pregnante dal punto di vista metapoetico di quanto non avesse fatto la prima, a una distanza peraltro minima dal canto XVI (v. 128), dove la usava come testo su cui giurare (e dunque testo sacro, suo sommo tesoro): «e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro…». Il confronto è nettamente impostato, imposto fra l’alta tragedìa che in alcun loco, cioè fra le altre cose, si occupa di Euripilo, ponendosi in relazione diretta dunque col sacrificio di Ifigenia e la guerra e la materia troiana, e che di conseguenza rivendica la continuità con la più sublime tragedia greca dell’epos omerico; e la comedìa che non cura, non pretende o non si interessa di riferire le cose di cui i due grandi poeti fra loro stanno privatamente e intimamente parlando, mia tragedìa per Virgilio, e mia comedìa per Dante: unicuique suum. Ma cosa dare, in questa spartizione, cosa attribuire alla Commedia, quale la sua specificità, se Dante ci dice solo che non si interessa di riportare qualcosa il cui contenuto rimane misterioso? D’altra parte, secondo l’Epistola a Cangrande, «et est comedia genus quoddam poetice narrationis, ab omnibus aliis differens». In cosa consista questa differenza a mio parere è in questo canto che Dante, col richiamo a cosa sia la tragedia, e dunque per opposizione alla tragedia, ma non solo, in qualche modo comincia a significare.3 2  Torneranno abbinati i due àmbiti contrapposti sul finire dell’opera in Par. XXX, 22-24: «da questo passo vinto mi concedo / più che già mai da punto di suo tema / soprato fosse comico o tragedo». 3  Il riserbo intorno al dialogo fra i due poeti viene variamente interpretato: in particolare Roncaglia,

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Come dicevo sopra, ci sono aspetti del canto splendidamente rilevati e messi in luce dai lettori, in particolare, direi, quelli relativi alla sua caratterizzazione stilistica così marcata e agli effetti fonici e fonosimbolici pervasivi. I quali tutti, senza bisogno di giungere allo scurrile della scena finale, convergono ad un segno, designandoci di fatto il campo che siamo usi definire del “comico”, in particolare dal punto di vista più specificamente retorico e dunque sotto il profilo delle scelte linguistiche e formali.4 Siamo di fronte a una “puntigliosa iperstrutturazione” formale tutta volta all’esaltazione di quegli aspetti che possono vantare di fregiarsi dell’etichetta di “rime aspre e chiocce” come i più puri rappresentanti. Li hanno messi molto bene in evidenza ancora Roncaglia e Battistini, ad esempio: e non serve qui elencarli e ribadirli. Ne ricordo tuttavia rapidamente con Roncaglia alcune caratteristiche: Le […] scelte lessicali […] mirano a ottenere un’espressività graffiante, cercando parole che sposino nettezza incisiva d’immagini a ricchezza di suoni aspri: runcigli, arruncigliarmi, schermi, raffi, groppone, accocchi, sciorina, sannuto: vocaboli non “pexa” ma “yrsuta” o “silvestria propter austeritatem” (secondo le dottrine retoriche raccolte in DVE II vii 4), ricchi di “litterae acriores” (Quintiliano, I viii 3), specialmente consonanti geminate o complicate, talora con combinazioni ribattute come in un Lectura Dantis: Inferno XXI, cit., sottolinea lo spazio appartato e intimo che Dante difende col tacerne, Dante autore superiore e distaccato da quanto lo circondi, che «proietta oltre la pagina, di là dal piano della rappresentazione, una profondità d’assorta e aristocratica vita interiore, che innalza la pagina stessa sul proprio contenuto narrativo e descrittivo» (p. 5). 4  Avverto che lascio qui da parte tutta la questione, a lungo dibattuta per questo canto e per il successivo, di cosa sprigioni la comicità in e per Dante, di quale sia il suo atteggiamento nei confronti di questa; e tralascerò finanche quello, non dirò meno astratto, ma più immanente, di come questo suo atteggiamento si colleghi alla pena specifica della baratteria che doveva vederlo particolarmente coinvolto, limitandomi a ricordare la posizione di chi parli di una sorta di “orgogliosa rimozione”, visto che «difficilmente si potrà credere che non sia consapevolmente deliberata l’astinenza da qualsiasi riferimento a un’esperienza tanto più bruciante nelle sue durature conseguenze»; e di chi invece veda questa distanziazione comica e farsesca come significativa del disprezzo e del ridicolo in cui Dante teneva – e in questo modo guida e consiglia i suoi lettori a tenere – nei confronti di una accusa che, appunto, anche il solo pensare riferita a lui farebbe ridere (vedi, ad esempio, Favati, Picone e il commento a Dante, Inferno, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano: Mondadori, 1991). Non di questo “comico” intendo parlare, non di una “teoria del comico” né dei rapporti fra questa eventuale teoria e quel che Dante ci voglia trasmettere della sua propria considerazione in merito alla pena dei barattieri, che al parere di tanti in questi luoghi “ridicolizzerebbe” in quanto implicitamente connessa alla sua persona. Mi fa piacere però ricordare un esperto dell’umorismo quale fu Luigi Pirandello, forte sostenitore non solo della connotazione politica nero-lucchese del canto, ma proprio della amara irrisione che qui Dante farebbe della sua accusa: «Come non pensare che questo non sia la grottesca parodia dello squillo di tromba del banditore che andò a citarlo a nome del podestà? – Dio vuol questo, ch’egli passi tra i barattieri, corra il rischio d’essere uncinato come un barattiere anche lui. È da ridere ch’egli debba aver paura. Ed ecco il senso del comico, è dato da questa paura, e l’indole e la ragione del riso è tanto piú triste in fondo, quanto piú sguajato, piú plebeo si rappresenta quel comico; e la turpitudine, la sguajataggine, la volgarità si riferiscono a chi la condanna bandí; Dante per forza, a far piú grottesca questa rappresentazione, deve aver paura» (La commedia dei diavoli e la tragedia di Dante [1935], in Letture dantesche, a cura di G. Getto, Firenze, 1962, pp. 395-414).

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balletto grottesco (unti, undi, unti, undi, unti in cinque versi consecutivi: 71-75). Altrettanto può dirsi dei nomi propri attribuiti ai diavoli […] sempre con un’avvertibilissima ricerca d’effetti fonosimbolici codificati come tali: per esempio (Cagnazzo, Draghignazzo) con quelle “z … duplicibus” che il De Vulgari Eloquentia esclude nel modo più esplicito dalla pettinata urbanità, e che qui invece ricevono particolare rilievo dalla posizione in rima.5

Inoltre, tutto subisce un crescendo, per giungere al «finale di canto pieno di allusioni corporali, dai “denti” (v. 131) alle “ciglia” (v. 132), dalla “lingua” di un mimo plebeo (v. 137) e di nuovo ai “denti” (v. 138)»6 al “cul” dell’ultimo verso. La parlata dei diavoli, peraltro (ed è stato opportunamente notato come in questo canto in modo affatto peculiare non siano mai i dannati a parlare, ma il ruolo in genere a loro riservato è qui rivestito dai demoni cui è dato il più ampio spazio) è connotata quando da vernacolo fiorentino (e ciò è andato a supporto di coloro che intendono vedere in questi demoni i concittadini che hanno inflitto a Dante una ingiusta pena7), quando da vernacolo lucchese, il che tornerebbe a favore di coloro che accentuano la provenienza cittadina dei punitori coincidente con quella dei peccatori. In ogni caso, siano questi diavoli connotati municipalmente vuoi dalla città del Fiore vuoi dalla città del Santo Volto, quel che importa sottolineare è appunto da parte di Dante il ricorso ad una municipalità linguistica accentuata che viene a esacerbare l’espressionismo fonosimbolico generalizzato: e fin a partire da quell’introcque che chiude il canto precedente («Sì mi parlava, ed andavamo introcque») e che si contrappone nettamente a quell’altro parlando di cui la comedìa non si cura e che non riferirà, in un caso in cui il «così…. altro parlando» iniziale di canto costituisce una forte ripresa capfinida («Sì mi parlava») a rimarcare la continuità. Perché, chiaramente, il contenuto specifico di quel parlare appartiene di diritto ad un altro genere, ad un altro stile. La comedìa, invece, potrà dirci anche e proprio di quell’introcque.8 E per farlo, Roncaglia, Lectura Dantis: Inferno XXI, cit., p. 25. Così Battistini, L’arte d’inabissarsi o la retorica della “tenace pece” (Inferno, XXI), cit., p. 91, ma anche su questi aspetti già si era acutamente soffermato Edoardo Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze: Olschki, 1961, in particolare pp. 97-124. 7  Favati, nelle pagine finali del suo saggio, tende a rilevare le connotazioni di fiorentinità dei diavoli, a partire dall’introcque del canto precedente: a sostegno della sua interpretazione generale del canto 21 come del Jeu de Dante. In questa commedia farsesca è Dante il protagonista: egli, che ha combattuto per la città a Caprona e Campaldino (canto 21 e apertura del canto 22), di fatto si troverebbe accusato di baratteria fra diavoli suoi concittadini che appunto parlano fiorentino. 8  A partire dal riconoscimento dell’importanza di Orazio e della sua poesia satirica, e del fatto che Dante opera un’«assunzione della poesia satirica entro la poesia comica, impostata da Orazio nella IV satira» Mirko Tavoni (Il titolo della Commedia di Dante, «Nuova rivista di letteratura italiana», I, 1, 1998, pp. 9-34) interpreta in modo assai convincente il significato e il nuovo genere del poema dantesco, interpretazione che prevede l’estensione e la “compenetrazione” dello stile tragico adatto ai valori antichi nello stile comico, unica cifra di lettura della “modernità” della realtà dantesca. Sulla definizione di comedìa sono da vedersi comunque ancora utilmente almeno Antonio Enzo Quaglio, voce Commedia, in Enciclopedia dantesca, Roma: Istituto della Enciclopedia italiana, vol. II; Pier Vincenzo Mengaldo, voce Stili, dottrina degli, in Enciclopedia dantesca, cit., vol. V; Giorgio Agamben, Comedìa. 5  6 

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ed è questo che conta, sciorinerà tutti i vocaboli, i mezzi, le oltranze che il De vulgari eloquentia mette esplicitamente al bando. A cominciare appunto da qui: introcque, secondo DVE I xiii 1-2, fra il «delirio da ubriachi» dei volgari municipali della Toscana, è il primo degli esempi da “depompare”, ed è proprio del fiorentino; altre connotazioni di fiorentinità dei diavoli sono messe in evidenza da Favati; ancora la tipologia di “grassarra” stigmatizzata come lucchese sempre in quel luogo del DVE («Fo voto a Dio ke in grassarra eie lo comuno de Lucca») soggiacerà alla sonorizzazione dantesca dei vari Draghignazzo e Cagnazzo, se, ad esempio, «il soprannome Cagnasso (che è la grafia pisano-lucchese di Cagnazzo)» è stato ritrovato in vari documenti dell’Archivio di Stato di Lucca.9 E così è per i vari raddoppiamenti consonantici di s, z e liquide, per le parole yrsute selezionate per il canto; per le parole reburra che ancora, esemplificate tutte con corpo, sono messe al bando dal DVE (II vii 4): vengono dunque qui, esplicitamente in contrapposizione alla tragedìa e sotto l’esplicita etichetta della comedìa, sciorinate tutte le oltranze linguistiche, ribadisco, esplicitamente condannate dal De vulgari. Con quell’introcque che nel DVE è il primo dei lessemi additati al ludibrio e che di fatto riunisce nel suo campo di volgare plebeo e municipale – decisamente definito “turpiloquio” dal Dante linguista – tutto quanto verrà di seguito. A mio avviso il richiamo e il rinvio al trattato del volgare illustre non poteva essere più esplicito e marcato: e a quel trattato si rimanda, con le indicazioni relative alla struttura sonora delle parole, proprio là dove si discute di tragico e di comico: insomma, che si tratti della composizione fonica delle parole, che si tratti della loro provenienza municipale e della loro connotazione o del loro connotare un dialetto o un’ascendenza piuttosto che un’altra, Dante usa tutto quello che non pertiene a quanto selezionato dal DVE. Ma chi si era contrapposto all’«ottusità del turpiloquio toscano» nel De vulgari eloquentia? Esplicitamente nominati sono, subito a seguire, «Guido, Lapo e un altro» (cioè Dante stesso), «tutti di Firenze, e Cino Pistoiese»: cioè a dire il canone ristretto dello Stilnovo. È un cortocircuito che si instaura a cavallo dei due canti (e si sviluppa in questo nostro dei barattieri) con il De vulgari eloquentia e quello che rappresenta: è certo che anche dal punto di vista tematico la commedia – qui dei diavoli – si contrappone alla tragedia virgiliana; tipologia di poema ad altra tipologia di poema; ma l’evocazione del DVE e la discussione là affrontata su quali i temi e quali le forme del volgare illustre convocano al confronto quel che in quella sede era individuato come volgare illustre e come genere tragico: di fatto le canzoni e la lingua dello Stilnovo. È su questa opposizione che il De vulgari eloquentia si articola e cresce: da un lato le canzoni atte a veicolare il tragico e il sublime dei magnalia, per le quali canzoni è La svolta comica di Dante e la concezione della colpa, «Paragone», CCCXLVI, 29, 1978, pp. 3-27; per “commedia” in contrapposizione a “tragedia” si veda Henry A Kelly, Ideas and Forms of Tragedy from Aristotle to the Middle Ages, Cambridge: Cambridge University Press, 1993 e Alberto Casadei, Dante oltre la Commedia, Bologna: il Mulino, 2013, pp. 186-195. 9  Lo ricorda Giorgio Varanini (Dante e Lucca, in Dante e le città dell’esilio, Atti del Convegno internazionale di studi, Ravenna (11-13 settembre 1987), a cura di Guido Di Pino, Ravenna: Longo, 1989, pp. 91-114, p. 99), da ricerche effettuate da Francesco Paolo Luiso, L’anziano di santa Zita, in Miscellanea lucchese di studi storici e letterari in memoria di Salvatore Bongi, Lucca: Tip. Artigianelli, 1931, pp. 61-91.

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escluso tutto quel che di sopra e sin qui s’è detto, dall’altro il comico col suo volgare, quando mediocre, quando umile. Le restrizioni e le scelte operate nel trattato sono volte proprio a questo: secondo la citazione ad apertura di questo paragrafo, «Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem oportet ligare». Il tragico cui si oppone il nostro canto, che per contrasto viene a definire quello di cui la comedìa si cura, non sarà tanto o non solo il tragico classico e nella lingua della grammatica dell’alta tragedìa; bensì quel tragico in volgare che per Dante già è, nella realtà concreta della storia rappresentata dalle realizzazioni sue e dei suoi sodali d’ambito stilnovistico o peristilnovistico, e nella teoria condensata nel De vulgari eloquentia, necessariamente veicolato dalle canzoni. 2. Virgilio: duce che erra? Non c’è dubbio che in questo canto gli atteggiamenti, la percezione e persino le volontà di Dante e Virgilio conoscano una certa divaricazione e divergenza: è una situazione narrativa in cui in Dante si insinua una, in questi termini inedita, ma ben motivata, crisi di fiducia nei confronti del suo maestro e guida. Malacoda, grazie alla sua abilità oratoria, su cui tornerò, alla sua capacità di mescolare e dosare elementi di verità nel suo ingannevole discorso (per esempio la data della morte di Cristo che ha procurato il terremoto rovinoso per le infrastrutture infernali), al suo far leva in particolare sulle conoscenze che Virgilio già ha o presume di avere, conquista in tutto l’ascolto di Virgilio, portandolo ad affidarsi ad una scorta siffatta da sconvolgere al contrario il tremebondo Dante. È la temibile decuria declinata tutta dall’accorto dux demoniorum per nomi e conseguenti funzioni (che per Dante «nomina sunt consequentia rerum», nel bene e anche nel male): «Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo. Cercate ’ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l’altro scheggio che tutto intero va sovra le tane».

(Inf. XXI, 118-126)

L’altro scheggio tutto intero, come noto, non lo si potrà trovare, che non esiste: l’imboscata ordita da Malacoda, sigillata dal conclusivo cenno d’intesa fra Barbariccia e i suoi, è, per quanto attiene la disponibilità a cadervi di Virgilio, perfettamente riuscita. Dante, se pur timidamente, introduce nel suo rivolgersi al maestro qualche elemento di dubbio sulle sue scelte:

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«Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?», diss’io, «deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio. Se tu se’ sì accorto come suoli, non vedi tu ch’e’ digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?»

(Inf. XXI, 127-132)

A cosa si deve questa defaillance del maestro? E perché questa temporanea, istintiva e “sana” assenza di fiducia del discepolo? Riccardo Bacchelli sottolinea con peculiare intensità questi aspetti, e li illustra alla luce di categorie morali, religiose e culturali: paganità vs cristianità, disperazione nella Grazia da parte di Dante, errore e sconfitta in Virgilio; errore del raziocinio per Virgilio, errore e peccato per Dante. Mi sembra anche che la spiegazione che Bacchelli fornisce dell’errore di Virgilio sia affatto convincente: l’esperienza maturata da Dite in poi, l’aver domato tanti mostri infernali, l’esser divenuto arrendevole persino il frodolento Gerione lo fa confidare in una sorta di indifferenza dell’inferno nei confronti di loro pellegrini: «La conoscenza antica e l’esperienza nuova lo confermano e lo chiudono nell’ignoranza antica, e lo inducono in un nuovo e capitale inganno: che l’inferno accetti la discesa di Dante».10 Ma se questo dà spiegazione, non però giustifica: è da sottolineare ulteriormente, a mio avviso, da parte di Virgilio l’atteggiamento di eccessiva confidenza in sé stesso e nelle sue proprie umane capacità intellettive di interpretare, e l’idea fin di prevedere quel che gli sta intorno e che di lì a poco avverrà: «non temer tu, ch’i’ ho le cose conte, / e altra volta fui a tal baratta» (vv. 62-63). La presunzione e la sicumera di Virgilio verranno punite. Sono esse a farlo cadere nel tranello di Malacoda; la convinzione di sapere, giusta quel che ha sperimentato, quel che gli accadrà: “non ti preoccupare che io so come vanno le cose: già ho avuto quest’esperienza”. Virgilio palesemente ritiene, e si sbaglia, di saperne una più del diavolo. A cosa si riferisce Virgilio? A quale episodio? Due le alternative possibili: la prima, che alluda allo scontro coi diavoli davanti alle porte di Dite; la seconda, che ritengo più credibile, all’episodio già evocato nel canto nono, e quindi comunque nei paraggi di quella segreta fallimentare discussione coi diavoli, di una sua precedente visita infernale su convocazione forzosa della sua anima da parte della maga Eritone: «Ver è ch’altra fiata qua giù fui / congiurato da quella Eritòn cruda / che richiamava l’ombre a’ corpi sui» (vv. 22-24). Propendo per questa seconda ipotesi, giacché anche in quell’occasione Virgilio rassicurava Dante in prossimità di un suo scacco, evocando un precedente viaggio all’inferno che gli conferiva una capacità di orientarvisi specifica; e con un’analoga, anzi sovrapponibile formulazione (altra fiata… fui : un’altra volta fui). Ma ciò implica il richiamare qui una sua qualche compromissione con le arti e con l’ambito che quella figura evoca, quello divinatorio e negromantico della Mi riferisco alla bella lettura continuata dei canti dei diavoli Da Dite e Malebolge, cit.; la citazione alle pp. 864-865. 10 

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maga tessala; e di conseguenza quel suo accreditare nel nono canto, attraverso la sua stessa voce e testimonianza, il non essere del tutto alieno dalla leggenda medievale che lo voleva mago fra i maghi11: cioè, lui personaggio della Commedia, di fatto denunciare l’attendibilità che Dante stesso, autore della Commedia, poteva attribuire a quella leggenda. La fiducia di Dante in Virgilio nel canto che precede il nostro era stata, al contrario che nel ventunesimo, esplicitamente e fermamente ribadita: E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti mi son certi e prendon sì mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti.

(Inf. XX, 100-102)

Non credo possa ritenersi un caso che si trattasse proprio del canto degli indovini, dove si narra, con estrema distensione versale e partecipazione di Virgilio, della leggenda di fondazione della sua città di Mantova. Non lo riguarderà anche personalmente questo canto, per una sorta di condivisone, se non di colpa, quantomeno di fama e accusa, con gli indovini e i maghi? Là vi è infatti punito chi «volle veder troppo davante» (Anfiarao, v. 38), chi fece sue “arti” come Manto (v. 86), contrapponendole alla “divin’arte” che invece nel canto 21 bolle la pece, strumento di giusta punizione. Anche Virgilio, esattamente come gli indovini appena lasciati, vuole «veder troppo davante», perché, come dice lui stesso, ha le «cose conte»: è già stato lì, e soprattutto vi è stato in quanto convocato dalla maga Eritone, e dunque a lei collegato. Per questo viene punito con l’umiliazione della orgogliosa ed errata considerazione della sua propria capacità di preveggenza del futuro. La presunzione in sé stesso è tale, e nella sua dimestichezza con diavolo maghi e indovini, che in questo eccesso di fiducia nella sua scienza ed esperienza Virgilio si trova, per guidare Dante nel «cammin silvestro», addirittura a chiedere la via al demonio. La malizia del diavolo, il male morale che distilla col suo accorto sermone, è proprio nel solleticare tale autocompiacimento per una supposta superiorità intellettuale e capacità intuitiva degli eventi; nel riuscire a tentare Virgilio a credere più in sé stesso che ad affidarsi all’intervento della Grazia: una sorta di vischiosità dell’errore – che forse gli fu proprio in vita – attraverso la cui punizione infernale è appena transitato e che Malacoda, da par suo, sa riaccendere e blandamente rinnovare. Se Virgilio aveva fama di mago, e Dante era accusato d’esser barattiere, mi sembra degno di nota e di sottolineatura che maghi e barattieri siano condannati in due canti contigui.12 Da ricordare ancora il classico Virgilio nel medioevo di Domenico Comparetti, 1872. La durezza di Virgilio nei confronti dei puniti con la distorsione della figura umana pare inoltre assimilabile al disprezzo evidenziato dal silenzio da parte di Dante relativo ai barattieri della quinta bolgia. 11  12 

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3. Nomi dei diavoli: Malacoda È un mondo “malo” che Dante ci rappresenta e la cui qualità insistentemente ribadisce, se nel canto XXI abbiamo la più alta concentrazione di radici in mal- su cui vengono coniati i nomi propri, con l’occorrenza incipitaria di Malebolge («restammo per veder l’altra fessura / di Malebolge», vv. 4-5), con la famiglia dei Malebranche introdotta qui per la prima volta fra la genia degli esseri infernali (v. 37), i cui componenti godono il privilegio unico d’esser presentati poi anche per nome; e il cui prototipo esemplare è Malacoda, o semplicemente fratello maggiore e capobranco, il portavoce e il più puro rappresentante della stirpe, e deputato a rappresentarla, visto che a lui è affidato l’orgoglio del nome nella riproposizione della radice cognominale, unico di loro e dunque primo inter pares, che potremmo ascrivere ad un’eventuale araldica diabolica come “Malacoda de’ Malebranche” (alla Castruccio Castracani, per intenderci, senza andar troppo lontano nel tempo e nello spazio da questo canto di Lucca prima guelfa bianca e amica, poi nera e nemica, poi ghibellina conquistata dal capitano di ventura), Malacoda ricorre ben due volte col suo nome, nome che distilla veleno nel sermone che abbindola lo stesso Virgilio. Non solo “in cauda venenum”, come acutamente suggeriva Bacchelli nella già ricordata lettura di questo e dei canti prossimali. Il male pervade dalle branche alla coda, ma ancora e più alla bocca «quel demonio che tenea sermone»: soprattutto “in ore venenum”. Malacoda è «quel demonio che tenea sermone», è colui che parla e ingannevolmente argomenta: questa la sua funzione e questa la sua caratterizzazione. Tant’è che sul finire del canto ventitreesimo Virgilio, quando mestamente, «a testa china», in virtù delle nuove indicazioni orografiche del frate gaudente si arrenderà a riconoscere d’esser stato ingannato, evoca Malacoda, sì con una perifrasi generica che lo accomuna a tutti i suoi sodali accaffatori Malebranche («colui che i peccator di qua uncina», Inf. XXIII, 141), ma più per il suo vizio ingannatore specifico: Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: «Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina».

(Inf. XXIII, 139-141)

Non c’è bisogno della scienza dell’Alma mater studiorum, come ancora ricorda Catalano allo scornato Virgilio (e lo fa sottolineando con lui l’inutilità, in materia di religione, di tutta la sua sapienza), per sapere che il diavolo ha, e notoriamente, parecchi vizi: non ultimo d’esser «bugiardo e padre di menzogna». Abilità, quel vizio, che è, dalla parte degli antagonisti, virtù: virtù della parola suadente e ingannatrice, per i diavoli tutti, i quali unanimemente ancorché implicitamente la riconoscono giusto a Malacoda con l’acclamarlo loro portavoce a parlamentare con Virgilio: «Tutti gridaron: “Vada Malacoda!”». Ma il segnale di individuazione univoca di quel diavolo tentatore nelle parole di Virgilio è riservato all’essenza intima e profonda della sua natura, che infine Virgilio coglie e ci consegna, contenuta e concentrata tutta

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nella radice stessa del suo nome proprio: “Mal contava” : Malacoda. A ricordare che il male lo connota, ne è l’essenza, e ne pervade le artificiate parole che fanno cadere il maestro di parole Virgilio nella laccia. La retorica non è un’arte neutra. Ancor prima che in “loica” il diavolo ne è maestro. E in area comedìa l’autore della tragedìa deve ricalibrare i suoi strumenti, anche interpretativi, per non esser vittima proprio di quelle arti in cui eccelle e che qui sono rifunzionalizzate, spostate, adattate ad un codice – che è tutto un ambiente culturale e linguistico – diverso e per certi aspetti opposto. Un’area comica per certo vengono a popolare questi personaggi, quel «genus… ab omnibus aliis differens», anche per quel che riguarda la tradizione dei loro nomi, connotati non solo dal loro peso e colore fonico. Di Farfarello e di Alichino mi pare siano stati ben ricostruiti i tortuosi e geograficamente e culturalmente vari percorsi che li portano prima a questa tappa dantesca poi ad animare la commedia dell’arte e moderna e fin la storia del romanzo occidentale.13 Altri, la maggioranza dei nomi, sono esemplati su matrici lucchesi; a significare che la pegola spessa è il materiale proprio e pertinente a quella città, i puniti e i punitori ne condividono la provenienza. Di Malebranche, Graffiacane, Cagnazzo…, e della loro coniazione parlante, o legata a reali nomi e soprannomi, è appunto significativo che negli archivi lucchesi il Luiso ne abbia individuato l’origine: trovo un Sinagio Malabranca in una carta del 1172, un Malebranca fratello di Malegallia del 1183, un Guidotto Malabranca, console della nuova Curia di Giustizia del 1255. E trovo pure, in carte lucchesi, ripetutamente, il soprannome di Cagnasso – Coluccio «vocatus Cangnasso», Andrea «dicto Cangnasso» del 1304, Boncristiano «dictus Cangnasso» del 1308 –; e il cognome Graffiacane – Ciomoro «condam vitalis Graffiacanis de Luca» del 1299 –; e in una carta del 1151 uno Scamiglione,

ai quali aggiunge in nota i soprannomi lucchesi Malacalza (1304), Malafronte (1266), Malamuta (1302), Malatalla (1304).14 Ma per restare al nostro Malacoda: la coniazione del suo nome niente ha di nuovo rispetto a quelli di Malebolge e Malebranche, come abbiamo visto, anzi, li rinnova e ripropone e in qualche modo condensa nella sua persona, proliferando poi per geminazione nel mal piglio di Draghignazzo del canto XXII, v. 75, o nelle male gatte fra le quali era venuto il sorco del medesimo canto (v. 58); anch’esso, come Cagnazzo, secondo Torraca,15 trova un corrispettivo storico nel Pietro di Malacoda morto nel 1309. Se poi questo nome dovesse condurci verso elementi di realtà, una realtà even13  Si vedano Alberto Zamboni, Alichino, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova: Editoriale Programma, 1993, pp. 2433-2442, Maria Giovanna Arcamone, Nomi medievali di santi e demoni, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo occidentale, Spoleto: Centro italiano di studi dell’alto medioevo, vol. II, 1989, pp. 759-781, Ead., Cognomi italiani da nomi di animali, «Rivista italiana di onomastica», I, 1995, pp. 12-22. 14  Nel citato L’anziano di santa Zita, pp. 73-74. 15  Vedi il suo commento, Milano-Roma-Napoli, 1915, ai vv. 118-123.

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tualmente anche politica, ci spingerebbe semmai ancora verso quell’ambito “nero” il cui massimo esponente, a quest’altezza – altezza della data della fabula – non ancora dominus di Dante, e che in seguito, oltre a suo amato ospite, sarà il probabile mallevadore della sua entrata in Lucca, cioè verso il «vapor di Val di Magra», il nero marchese Moroello Malaspina, espugnatore della bianca Pistoia. Malaspina: quasi una variante sinonimica, se la coda del diavolo punge quale una spina, come secondo la descrizione di Malacoda fatta da Benvenuto da Imola: «Iste erat dux daemoniorum et principalis, cui bene competit nomen, quia iste habet caudam scorpionis, quae est cauda Gerionis, quia pungit in fine et occulte».16 La natura di nome composto della famiglia Malaspina, poi da Dante celebrata nell’VIII del Purgatorio, era ben avvertita, visto che, come sappiamo, si distingueva sulla base del ramo fiorito o secco di quella spina, e se Cino, in tenzone con Dante che gli risponde per nome del Marchese, in anni molto vicini o di poco successivi, credo io, al nostro canto, poteva leggiadramente e cortesemente scherzarci sopra: «punto m’ha il cor, Marchese, mala spina». Malacoda, il personaggio Malacoda e quel che rappresenta, ha però senz’altro un precedente in ambito poematico, allegorico e comico: il suo stesso, insomma, sin qui evocato per mera segnalazione di analoga creazione linguistica su base funzionale in personaggi allegorici:17 è il “Male bouche” del Roman de la Rose; il mettimale per eccellenza, la cui peculiarità è la frode correlata alla maldicenza. L’abilità di usare la lingua a scopi truffaldini, diffamatori e ingannatori lo lega indissolubilmente al nostro Malacoda che in qualche modo, nella sua funzione, lo contiene (Malacoda è anche Malabocca), lo ripropone in sé variandone il nome e adottandone affatto l’ufficio con l’uso peccaminoso e deviato della parola. La vertude più sovrana che possa aver la criatura umana, si è della sua lingua rifrenare. Sovr’ogn’altra persona a noi sì pare ch’esto peccato in voi fiorisce e grana; se no’l lasciate, egli è cosa certana che nello ’nferno vi conviene andare:

questo dice di lui Costretta Astinenza nella versione nostrana del personaggio (Fiore, 16  Benvenuti de Rambaldis de Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, a cura di James Philip Lacaita, Firenze: Barbera, 1887, ai vv. 79-84. 17  Il Vanossi in verità, convinto assertore della paternità dantesca del Fiore, nel segnalare una serie di contatti fra i canti di Malebolge e i poemetti, si spinge a proporre di leggere nella figura di Malacoda il personaggio di Malabocca, perché ribadirebbe «ulteriormente i legami col poemetto della giovinezza»; «sia il generico Malebranche (Inf. XXI 37), che lo specifico Malacoda (Inf. XXI 76 e 79) sono infatti coniati sul modello di Malabocca, con l’aggettivo malo e un sostantivo femminile, che indica una parte – rappresentativa – del corpo» (Luigi Vanossi, Dante e il “Roman de la Rose”. Saggio sul “Fiore”, Firenze: Olschki, 1979, p. 327). Dopo di lui Contini parlerà di «Male Bouche (progenitore anche fonosimbolico dei danteschi Malebolge, Malebranche – quasi tutti quadrisillabici –, Malacoda)» (in Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, a cura di Gianfranco Contini, Milano: Mondadori, 1986, p. 39).

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CXXXIII, vv. 2-8). Il gioco etimologico che poi lo connoterà nella sua riproposizione in volgare di sì, inoltre, mi sembra anche in questo caso bene illustrare quali abissi di raffinatezza retorica e semantica, e di misura nelle figure di parola, dividano l’opera di Dante dal Fiore. Fiore che io credo adotti, per riscrivere la Rose in sonetti volgari, e si ispiri, con mezzi ben più semplici e a volte banalizzanti, inflazionati dall’eccedere nel riuso, al grande bacino di soluzioni versali, sintattiche e lessicali che l’altro grande poema allegorico nella sua lingua d’arrivo, la Commedia, gli rappresenta e fornisce: in seno avea rasoio tagliente, … di che quel Mala-Bocca maldicente fu poi strangolato, che tal gola avea de dir male d’ogne gente

(si tratta del sonetto CXXX, dove si parla di Falsembiante partito per la sua missione assassina in compagnia di Costretta Astinenza). Insomma, nonostante questo possa considerarsi, per contatti precisi, per inventio e per messinscena generale, il canto nei toni e nei modi forse più prossimo al poemetto anonimo, quel male che vi serpeggia, infido, sottile, subdolo al punto da far incorrere Virgilio nell’errore e Dante nella tentazione della sfiducia e conseguente disperazione, da rischiare di incrinare i rapporti fra i due protagonisti compagni di viaggio, lungi dal rappresentare il semplice escamotage onomastico per diavoli che non farebbero paura a nessuno, come è stato detto, che sarebbero in verità e al contrario “bonari”, «coi quali si discute e si tratta, propri della novellistica e della farsa», al di là di tutte le pesanti conseguenze morali e teologiche, configura un’idea di “comico” tutt’affatto diversa, implica l’impossibilità del confronto fra entità, mondi, diciamo pure grandezze, quella del Fiore e quella della Commedia, non comparabili. 4. Storia e geografia, autobiografismo e finzione: questioni di date «Luogo è in Inferno detto Malebolge»: ma, di questo luogo d’inferno, la quinta bolgia pare conoscere uno statuto a sé stante. C’è una via privilegiata, un accesso immediato, un trampolino che consente il tuffo dal suolo lucchese alle bollenti pane della quinta bolgia. Un diavol nero si occupa di scaricarvi i lucchesi non appena defunti persino senza la mediazione di Minosse, situazione unica in tutta la Commedia. Per usufruire di tale scorciatoia pare condizione sufficiente quella d’esser stati impegnati nell’amministrazione della città di Lucca, anzi, l’ascensore per l’inferno è riservato ai cittadini lucchesi tutti, «se ogn’uom v’è barattier»: sarà per questo che il giudizio di Minosse risulta affatto superfluo: Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero! e quanto mi parea ne l’atto acerbo,

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con l’ali aperte e sovra i piè leggero! L’omero suo, ch’era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l’anche, e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo. Del nostro ponte disse: «O Malebranche, ecco un de li anzïan di Santa Zita! Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche a quella terra, che n’è ben fornita: ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita».

(Inf. XXI, 31-42)

Forse non era sempre stata questa la concezione che Dante aveva avuto della città del Santo Volto, in particolare quando i suoi guelfi, assimilabili ai Bianchi fiorentini, un tempo al potere, erano intervenuti perché direttamente convocati in aiuto dei Bianchi di Firenze; né lo sarà per sempre né per molto, vista la riabilitazione che di Lucca saprà garantirgli una non so che “Gentucca”: ma le fasi contrapposte dell’Inferno di Alessio Interminelli, e poi e soprattutto dei barattieri, e del Purgatorio di Bonagiunta, il quale gli farà piacere la sua città, «come ch’uom la riprenda» (e il verso pare davvero palinodico proprio di questo Dante infernale che vi accusava ogn’uom di corruzione) vanno collocate e ancorate agli eventi storici, ai passaggi politici generali e agli adeguamenti politici personali: che posson voler dire anche adattamenti dell’ideologia dantesca alle nuove e diverse condizioni personali e trame di rapporti.18 Il canto 21 certamente ci rappresenta una Lucca nera e irrimediabilmente corrotta, contrassegnata ripetutamente dalla fosca e nera colorazione, sia sua propria, sia della bolgia che di fatto la rispecchia, essendo popolata in modo preminente da suoi cittadini.19 Neri i diavoli, nero il Santo Volto, e cioè il crocefisso ligneo bizantino conservato nella città e che vi si adorava (ma che è per certo anche l’immagine impressa sulla moneta lucchese, e in un canto in cui sono puniti i corrotti dal denaro, i corrispondenti laici dei simoniaci, come bene ha proposto Pasquini, non credo si possa tralasciare questa indicazione), e neri i peccatori convolti nella pece; nera la pece, nera l’atmosfera e l’aria, così oscura che Dante, per quanto scruti, stenta a vedere. Difficile fare chiarezza in questa tipologia di peccato, fra corrotti che mestano nel torbido… Nel 1300, la data della Commedia, anche Lucca si era fatta città partita, e i suoi guelfi si scontrano e dividono. Prevarrà, come in Firenze, la fazione nera, e fin dall’inizio del 1300: quella che Bonturo Dati, emblematico, antonomastico qui del pecA Umberto Carpi si deve la solida dimostrazione della necessità, per la Commedia, di una lettura di verso in verso ancorata all’evoluzione dell’ideologia di Dante anche in quanto strettamente interconnessa al di lui percorso biografico e geografico. Dimostrazione che ha fatto scuola in particolare grazie a La nobiltà di Dante, Firenze: Polistampa, 2004, e L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio, Milano: Franco Angeli, 2013. 19  Afferma in modo convinto questo aspetto ancora Pirandello nel saggio sopra citato, passim. 18 

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cato di baratteria, guiderà con un governo popolare e demagogico dal 1308 fino al 1314, allorché Uguccione della Faggiola, con Castruccio Castracani, ne sbaraglieranno la violenta tirannia costringendolo all’esilio, e rendendo la città per un paio d’anni roccaforte ghibellina. Ma non si deve perdere la nozione che il peccato qui punito è lo stesso di cui Dante viene accusato e che lo tiene esule, ed il suo essere interconnesso, nella sua privata sorte, agli avvicendamenti politici della sua città: non può non toccarlo il discorso sulla baratteria, che è baratteria per la quale lui fu cacciato dai Neri fiorentini, e qui è baratteria-condanna per i lucchesi neri;20 tuttavia non se ne colgono in nessun modo dirette implicazioni autobiografiche: le quali poi surrettiziamente (o inconsciamente) emergono nelle comparazioni che poggiano sulla sua recente (Venezia) o meno recente (Caprona) esperienza di vita, ma non relativamente al peccato. La distanziazione personale da questa colpa, la decisione, a priori (che altro non può essere), che non vi compaia una “partecipazione” personale, si appoggia a quell’iperstrutturazione formale e retorica del canto di cui prima ho accennato,“puntigliosa iperstrutturazione” dietro la quale Dante autore si cela, della quale è catafratto, nella quale «potremmo scorgere la traccia, come in negativo, di quello stimolo personale», tanto che, secondo Roncaglia, «forse in nessun altro punto della Commedia la divaricazione fra Dante poeta [che sublima nell’arte e nell’artificio il rancore e il coinvolgimento] e Dante personaggio è così grande».21 Inoltre, guardando al canto successivo col quale il nostro compone un inscindibile dittico, e alla lettura che ne ha dato Domenico De Robertis, risulterà evidente come, nel suo complesso, con il conclusivo trionfo della buffa di Ciampòlo ai danni dei diavoli e con «l’azzuffamento di due ministri del luogo fra di loro, […], l’identità tra luogo di pena e luogo del peccato […], la baratteria (ossia l’interferenza del privato nel pubblico, e la caduta del senso dello stato) è il male fondamentale. La designazione della quinta bolgia a questa funzione requisitoria è, nel più ampio senso, politica. E Dante sta, anticipatamente, ritorcendo l’accusa non con controaccusare questo o quello, ma indicando nella baratteria l’immagine stessa della divisione civile».22 Ma vediamo, molto semplicemente, di allineare alcune date, senza alcuna pretesa di proporre ulteriori ipotesi di relazioni fra date fittizie e date della scrittura dei canti, correlandole eventualmente e in modo schematico agli eventi storici e personali della vita e dell’esilio di Dante, col solo scopo di evidenziare la complessità delle interrelazioni: 1300, 1 gennaio, i Neri sono a Lucca; 1300, Settimana Santa, data fittizia della Sottolinea l’abitudine ad usare l’accusa di “baratteria” per condanne di tipo politico Saverio Bellomo nel suo commento all’Inferno, Torino: Einaudi, 2013, p. 346, accusa che perciò risulterebbe affatto generica, tanto più agli occhi di Dante, e, in quanto tale, non avvertita come particolarmente sensibile o personalmente bruciante dall’autore del poema, che, nello specifico, porrebbe «il sé stesso uomo e scrittore al di sopra e al di fuori della vicenda». In questo senso Bellomo tende a scartare collegamenti con la realtà politica e onomastica della città del Serchio. 21  Roncaglia, Lectura Dantis: Inferno XXI, cit., p. 24. 22  Domenico De Robertis, In viaggio coi demòni (canto XXII dell’Inferno), «Studi Danteschi», LIII, 1981, pp. 1-29, p. 27. 20 

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Commedia. Il rivolgimento in città è dunque appena compiuto alla data in cui Dante colloca la sua storia. È ben comprensibile che vi sia da parte di Dante questa evidenziazione in nero, che a mio parere non può non alludere alla fazione che aveva appena ribaltato le sorti politiche della città, fazione a lui odiosa se in quello stesso periodo condannava lui, Dante, per quella stessa colpa per la quale qui attuffa nella pece i Neri lucchesi. Infatti, sia Bonturo (vivo sì – e sopravviverà allo stesso Dante –, vivo, fino al 1324, ma, quasi come Branca Doria, convocato in vita a far parte di diritto dei lessi dolenti), sia l’anzian di Santa Zita, senatore e magistrato, sono rappresentanti di spicco di quel partito. E sono proprio i Neri che lo avevano condannato all’esilio – i loro omologhi nella città sorella – ad esser qui condannati per quella pena che a lui stesso, se l’accusa fosse stata calzante, sarebbe prima o poi stata inflitta. Continuiamo con le date: dal 1308 è Bonturo a governare la città: certo sarebbe assai cogente la sua evocazione se la scrittura del canto fosse successiva, di poco successiva a questo momento. Nel 1309 viene promulgato l’editto che scaccia gli esuli fiorentini. In quegli anni però, Dante, in rapporto strettissimo col Marchese Malaspina, nero vapor di Val di Magra, probabilmente soggiorna a Lucca, epperò prima del 1309: dopo la Lunigiana e dopo il Casentino. Questa la tesi più accreditata. A quando, allora, la condanna di Lucca e soprattutto la condanna di Bonturo, unico ad avere un nome fra i dannati? E a quando la riabilitazione purgatoriale della città? Così netta al punto da conferire a Bonagiunta, il poeta che in DVE (ancora il De vulgari eloquentia!) era stigmatizzato e irriso, un ruolo tanto significativo nella cantica che segue: cosa succede nella grande storia, e in quella privata di Dante, e soprattutto quando, fra Inferno XXI e Purgatorio XXIV, canto in cui è, più che in ogni altra palinodia, palese la volontà di riabilitare la città del Serchio? I problemi di date si infittiscono: si infittiscono per l’assenza di informazioni certe sugli spostamenti di Dante, e su questa assenza di notizie positive è ben azzardato creare ipotesi di cronologia delle varie fasi della Commedia. Basti qui averne sottolineato i mutamenti di prospettiva poetica che hanno sullo sfondo concreti, drammaticamente concreti eventi reali.23 Ma un’altra interessante questione di date è proposta dal canto XXI: date non reali, questa volta, ma legate all’ambientazione cronologica fittizia della Commedia, Lo richiama assai efficacemente Francesco Paolo Luiso (Dante e Lucca, in Dante. La vita, le opere. Le grandi città dantesche. Dante e l’Europa, Milano: Treves, 1921, pp. 162-190) ripercorrendo gli eventi lucchesi in relazione alle varie fasi dell’apprezzamento o della condanna della città da parte di Dante: il quale «prima del 1300, e come guelfo e come fiorentino, dovea mirare a Lucca, alla fedele e potente assertrice dell’idea guelfa, con animo ben altrimenti disposto». Lucca alla quale «volle che il suo cuore fosse portato» dopo la morte in Sardegna avvenuta nel 1296 il nobile amico di Dante giudice Nin gentile, «anima di quella guerra che Lucca sostenne dal 1288 al 1293 contro Pisa». Fra l’altro l’evocazione della battaglia più significativa che portò di nuovo nelle mani lucchesi, grazie alla guida di Nino Visconti, il castello di Caprona, si trova proprio in questo canto. Una sorta di contrappasso ulteriore per cui i dannati della città, ora traditrice e fatta nera, sfilano fra i diavoli esattamente come, allorché Lucca si trovava in prima fila a dirigere la Taglia guelfa e aveva vinto sui ghibellini pisani, i nemici fanti avevano sfilato timorosi e scornati davanti ai vincitori. 23 

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alla sua data. Nel discorso di Malacoda, come noto, è contenuto uno dei luoghi più chiari, per quanto elaborati, attraverso i quali individuare la collocazione fintamente storica del viaggio dantesco: Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’otta, mille dugento con sessanta sei anni compié che qui la via fu rotta.

(Inf. XXI, 112-114)

1266 anni e 19 ore dalla morte di Cristo: tutto questo viene a dirci, secondo la cronologia invalsa, che ci troviamo, nella quinta bolgia, alle sette del mattino del sabato santo, se Cristo, come da Vangelo di Luca, lo si consideri morto sul mezzogiorno del venerdì santo. Ci troveremmo dunque al sabato 9 aprile del 1300? A questo punto interviene a coonestare la datazione dantesca la figura del dannato anonimo portato sul groppone dal diavol nero ad apertura di canto. Chi è l’anziano di Santa Zita che conferma, appunto grazie all’accesso immediato allo scivolo da Lucca alla pece, la data del viaggio di Dante? Si tratta di una delle “trovate” più riuscite di Dante: data comunicata da Malacoda, personaggio del racconto, ed evento “reale” che irrompe nella fabula a garantire la veridicità delle sue parole; peraltro, non dimentichiamolo, parole del demonio, e di un demonio particolarmente menzognero e ingannatore. Secondo la lettura di Guido da Pisa, si tratta della “registrazione” della morte di Martin Bottaio: Ad quorum omnium [degli Anziani di Santa Zita] notitiam est sciendum quod anno Domini Mccc°, die scilicet xxvi Martii, in civitate Lucana mortuus est quidam popularis maximus antianus, qui vocabatur Martinus Bottarius, quia vegetes faciebat; cuius animam fingit autor, exemplariter de barattatoribus poetando, in istam bulgiam a quodam demone fuisse proiectam. Et hoc nil aliud sonat nisi quod intentiones illorum qui deputati sunt ad rem publicam gubernandam, dum ad barattariam intendunt, de alto culmine tanti regiminis ad yma labuntur.24

Se Guido da Pisa è fededegno come concordemente riconosciuto, all’individuazione in Martino Bottaio dell’anziano lucchese dovremo anche necessariamente abbinare la data che in modo inequivocabile il commento ci tramanda: 26 marzo.25 Se il senatore bottaio di Lucca è passato ad altra, non certo a miglior, vita in quella data, e se 24  Guido da Pisa, Expositiones et glose. Declaratio super Comediam Dantis, a cura di Michele Rinaldi, Roma: Salerno, 2013, tomi 2, I, p. 657. 25  Non mi risultano ritrovamenti d’archivio che inficerebbero la datazione della morte del Bottaio proposta da Guido da Pisa, riportandola inoltre a un affatto sospetto 9 di aprile. Tale notizia, indotta, credo, da cattiva lettura del saggio di Luiso, L’anziano di santa Zita, cit., in quanto riferita nella voce Anzian di Santa Zita dell’Enciclopedia dantesca di Pietro Mazzamuto, si è pervasivamente diffusa motivando spesso la preferenza di studiosi e commentatori, per la collocazione del viaggio dantesco, della settimana santa storica del 1300, quella del 7-13 aprile.

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Lectura Dantis Bononiensis

Dante ha voluto che quella precisa data storica fosse nota, al punto di operare appositamente, per renderla nota, una marcata infrazione delle leggi infernali del giudizio divino, a mio avviso non può essere che pour cause. E dunque sarà stato il 25 di marzo, giorno patristicamente, tradizionalmente e popolarmente individuato come quello storico della passione e morte di Cristo, nonché giorno capodanno secondo lo stile fiorentino ab incarnatione, e dunque giorno dell’incarnazione di Cristo,26 che Dante ha voluto univocamente indicare come data d’inizio del suo viaggio.27 Al punto da velocizzare e rendere immediata la caduta nell’Oltretomba del senatore lucchese costruttore di botti, da inventarsi per lui un ascensore per l’inferno.

26  Si veda peraltro Giovanni Rizzacasa d’Orsogna, Dante e l’almanacco di Profazio giudeo, Palermo: Stabilimento Tipografico Virzì, 1909, pp. 19-20, «secondo la più costante ed autorevole credenza dei Padri e Dottori della Chiesa, il mondo fu creato il 25 marzo, nell’equinozio di primavera; il 25 marzo Cristo s’incarnò; il 25 marzo Cristo morì», e Id., La data della visione dantesca, Sciacca: Guadagna, 1906. 27  È tornato da ultimo sulla questione Giuseppe Indizio (Pietro Alighieri autore del “Comentum” e fonte minore per la vita di Dante, «Studi Danteschi», LXXIII, 2008, pp. 187-250, in particolare pp. 226-230, poi ripreso in Problemi di biografia dantesca, Ravenna: Longo, 2014, pp. 383-90) valutando comparativamente le testimonianze degli antichi commentatori e concludendo a favore del 25 marzo, data che è univocamente presente ante fine Trecento.

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