Inconscio

July 6, 2017 | Autor: Fabrizio Palombi | Categoría: Psychoanalysis, Philosophy, Phenomenology, Jacques Derrida
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Quodlibet Studio Filosofia e psicoanalisi

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Filosofia della psicoanalisi Un’introduzione in ventuno passi

A cura di Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti

Quodlibet

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Prima edizione: giugno 2012 © 2012 Quodlibet Srl Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Spa presso lo stabilimento di l.e.g.o. Spa - Lavis (tn) ISBN 978-88-7462-472-0 La collana «Filosofia e psicoanalisi» è diretta da Felice Cimatti e Silvia Vizzardelli. Comitato scientifico: Pietro Bria, Manuela Fraire, Alberto Luchetti, Francesco Saverio Trincia, Paolo Virno. Volume pubblicato con il contributo dei Fondi Miur del Dipartimento di Filosofia, Università della Calabria.

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Inconscio Fabrizio Palombi

I processi psichici inconsci sono di per sé «atemporali». Ciò significa […] che […] non presentano un ordine temporale, che il tempo non li modifica […], che la rappresentazione del tempo non può essere loro applicata. Sigmund Freud L’intemporalità dell’inconscio è […] determinata soltanto dalla sua contrapposizione a un concetto corrente del tempo, […] tradizionale […] della metafisica, […] della coscienza. Jacques Derrida

Il termine «inconscio» è costituito dalla giustapposizione del prefisso, negativo e privativo, «in» e dall’aggettivo «conscio» che indica una consapevolezza piena. I dizionari della lingua italiana lo definiscono come mancanza di controllo consapevole mentre quelli filosofici lo spiegano riferendosi ai «contenuti psichici non presenti alla coscienza dell’individuo». Il valore dell’inconscio per la filosofia può essere colto riflettendo sul senso di questa negazione, di questa non presenza, la cui interpretazione radicale mette in crisi alcuni cardini della tradizione metafisica e in particolare dei suoi fondamenti ontologici. Qual è il senso di questo «non»? Per coglierlo la sola logica non basta e per questo dovremo rivolgerci ad alcune opere fondamentali della tradizione filosofica dedicate all’indagine sul tempo. In particolare questa voce si avvale della lettura filosofica dell’inconscio freudiano proposta da Jacques Derrida in alcune pagine tratte da Freud e la scena della scrittura, Della grammatologia e Ousia e grammé. Sono testi scritti tra il 1966 e il 1968 in un perio-

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do cruciale per la filosofia e la psicoanalisi durante il quale vengono pubblicati gli Scritti di Jacques Lacan (1966), si tiene a Baltimora un celebre convegno dedicato allo strutturalismo al quale partecipano entrambi gli studiosi francesi, e il panorama culturale è animato da movimenti di critica radicale che non risparmiano le teorie freudiane. La psicoanalisi è un importante strumento per la pratica decostruttiva derridiana ma anche occasione d’incomprensione e polemica con alcuni psicoanalisti, in particolare Lacan, come traspare anche nei testi di nostro interesse. Tralasceremo questi problemi, connessi alle molteplici accezioni dell’inconscio (Civita 2011 e Palombi 2011), per focalizzare il nostro interesse esclusivamente sull’interpretazione temporale di quello freudiano, proposta da Derrida, e sulle sue conseguenze ontologiche. Semplificheremo e ridurremo il discorso derridiano a scopo didattico per argomentare la seguente definizione: l’inconscio è un passato assoluto. Cosa significa che un contenuto psichico non è cosciente? La tradizione fenomenologica, costante punto di riferimento della riflessione derridiana, risponde a questa domanda dicendo che esso è estraneo al campo attuale della coscienza ovvero che appartiene a una zona d’ombra percettiva: per esempio, non ci interessa oppure è al di fuori del nostro campo visivo. In parole più semplici potremmo dire che è fuori dalla nostra attenzione e dalla nostra percezione in un determinato intervallo di tempo. Infatti, questo contenuto non è destinato a rimanere tale per sempre perché un movimento del nostro corpo oppure un cambiamento della nostra intenzione può ricondurlo alla coscienza. Proviamo a considerare una semplice esperienza: mentre scriviamo le prime righe di questa voce non siamo coscienti del percorso che ieri ci ha condotto alla biblioteca ma, sviluppando l’argomentazione, i ricordi si riattivano in una successione che ripresenta alla memoria le chiavi della moto, il pianerottolo di casa, il garage e il veloce dipanarsi delle strade di Roma sino a Piazza Campitelli. Questa situazione, comune nella vita quotidiana, mostra la stretta connessione esistente tra la coscienza e la temporalità perché un contenuto psichico inconscio potrebbe, almeno di principio, essere stato cosciente nel passato oppure poterlo diventare nel futuro. Infatti, l’inconscio, pur essendo inconosci-

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bile direttamente, non è ineffabile perché possiamo parlarne «dopo» che le sue manifestazioni lo hanno parzialmente «trasformato […] in qualcosa di conscio» (Freud 1915, p. 49). Questa è un’«ambiguità» che Freud ritiene di sciogliere distinguendo tra atti che sono «latenti», ovvero «provvisoriamente inconsci», da altri, sottoposti al processo della rimozione e della censura, che non possono essere recuperati integralmente dalla coscienza e si manifestano solo frammentariamente nei lapsus, nei sintomi e nei sogni (Freud 1915, p. 55). Si potrebbe dire, riferendosi alla prima topica freudiana, che i primi appartengano al subconscio e solo i secondi all’inconscio vero e proprio (Palombi 2011). Tuttavia esiste un’ambiguità filosofica ben più compromettente di quella che preoccupa Freud. Si tratta di un’inerzia culturale che induce a pensare la «non-presenza» e l’inconscio psicoanalitico sempre a partire dalla presenza e dalla coscienza ovvero come loro forme secondarie e derivate. Dobbiamo stare in guardia dalla compromissione metafisica della psicoanalisi che impone di usare «i concetti freudiani […] fra virgolette» (Derrida 1966, p. 256). Tale precauzione vale soprattutto quando, nel corso dell’indagine sull’inconscio, si deve analizzare il fondamentale legame tra il primato della coscienza e della presenza e quello temporale del presente in forza del quale «il passato e il futuro sono sempre determinati come presenti passati o […] futuri» (Derrida 1968, p. 64). Queste parole evocano una questione capitale della riflessione filosofica che trova uno dei suoi luoghi paradigmatici nel libro undicesimo de Le confessioni. In questa parte del suo testo Agostino s’impegna in una celeberrima analisi volta a comprendere la temporalità che riassumiamo succintamente a scopo espositivo. Il tempo si articola in passato, presente e futuro: il primo non è più, il terzo non è ancora mentre il secondo sembra dissolversi nell’evanescenza dell’istante. Tuttavia, noi possiamo rianimare il passato con la memoria, adombrare il futuro con l’attesa e trattenere il presente con l’attenzione perché tutti e tre esistono nell’anima umana. La struttura della temporalità viene così riarticolata in «presente del passato», «presente del presente» e «presente del futuro» affermando con grande chiarezza quello che, con linguaggio contemporaneo, chiamiamo il primato della presenza. Infatti, Agostino sostiene che solo il pre-

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sente dell’attenzione è in grado strutturare la temporalità e d’impedire il suo dissolversi nel non essere. Prima di procedere dobbiamo evidenziare un importante slittamento semantico per non perdere il filo del nostro ragionamento: l’analisi agostiniana della temporalità si sviluppa nella “coscienza”, intesa come forma di dialogo interiore, mentre la filosofia moderna trasforma l’accezione di questo termine in «consapevolezza soggettiva». Infatti, proprio la negazione di questo secondo significato della «coscienza» costituiva il nostro punto di partenza quando ci interrogavamo sul senso della parola «inconscio». Questa breve analisi ci permette di vedere la tendenziosità di quella domanda iniziale che mentre s’interroga sul significato di ciò che non è cosciente occulta il «movimento stesso della […] presentazione» (Derrida 1968, p. 64, corsivo dell’autore) ovvero del diventare presente. Neppure le sofisticate analisi fenomenologiche (Husserl 18931917) sono in grado di superare questo limite perché pensano l’inconscio come un orlo del campo coscienziale oppure come una sua piega che può essere opportunamente spiegata e stirata nell’evidenza della coscienza. L’inconscio, sottoposto a questo movimento trasformativo, resta prigioniero di quella tradizione metafisica che Derrida vuole smontare, decostruire e analizzare per provare a inaugurare nuove forme d’esperienza filosofica. Anche la struttura grammaticale della nostra domanda sull’inconscio (che è, cos’è l’inconscio) supporta il «privilegio […] del presente» che, secondo Derrida, costituisce la cifra caratteristica di tutta la riflessione metafisica da Parmenide sino a Husserl. Sono primati e privilegi che hanno ipotecato nel corso della storia la comprensione del «senso dell’essere» (Derrida 1968, pp. 64, 71) e che nel Novecento hanno offuscato l’interpretazione filosofica dell’inconscio psicoanalitico. Il tempo è un fondamentale anello di congiunzione tra l’inconscio freudiano e una delle più venerande branche della metafisica costituita dall’ontologia. Il nostro percorso ci ha condotto a uno snodo fondamentale della filosofia della psicoanalisi dove Derrida ritiene necessaria «un’interrogazione esplicita sul senso della presenza in generale» e propone un «paragone tra la via» heideggeriana e quella freudiana (Derrida 1966, p. 256). Non sembri superfluo ricordare che Heidegger sintetizza un grandio-

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so programma di ricerca filosofico nel titolo della sua opera capitale: Essere e tempo (1927). Semplificando brutalmente potremmo ridurre il nucleo della riflessione heideggeriana alla scoperta che la parola «essere» non è un sostantivo, che indica una cosa, ma un verbo che esprime un’azione, una trasformazione e che viene coniugato secondo tempi. Una considerazione apparentemente banale eppure sorprendentemente rivoluzionaria per la tradizione filosofica occidentale che, a partire dal mondo greco, ha pensato l’essere sul modello della cosa e dell’oggetto. Infatti, sia il realismo, sia l’idealismo, hanno attributo all’essere il «senso cosale» di un oggetto o di un’idea che sta innanzi a noi, rispettivamente nella disponibilità dei sensi o della ragione (Marini 1982, p. XLVIII). Di conseguenza l’essere ha assunto la «forma di ciò che rimane e persiste, vicino e disponibile, esposto di fronte allo sguardo o dato sottomano» (Derrida 1968, p. 62). La ricerca heideggeriana in Essere e tempo disvela questa origine temporale dell’ontologia che la riflessione filosofica ha obliato, dimenticato, occultato sino a contrapporre il divenire temporale all’atemporalità dell’essere (Heidegger 1927, pp. 34-35). Se poniamo a confronto questa tesi heideggeriana con quella freudiana, esposta nel nostro esergo, incominciamo a comprendere il senso del paragone tra le vie tracciate dai due pensatori che Derrida propone. Per questo «bisognerebbe leggere Freud nel modo in cui Heidegger ha letto Kant: come l’iopenso, l’inconscio è intemporale solo rispetto a un certo concetto volgare del tempo» (Derrida 1966, p. 277). Così possiamo rileggere la presunta atemporalità dell’inconscio freudiano come la sua incompatibilità con una organizzazione lineare e uniforme del tempo che appartiene sia alla tradizione metafisica sia a quella scientifica. Forzando il senso del testo freudiano, alla luce dei nostri interessi filosofici, potremmo intendere l’inapplicabilità della «rappresentazione del tempo» (Freud 1920, p. 214, corsivo nostro) ai fenomeni inconsci come un’impossibilità di ricondurli alla presenza e alla presentazione. Heidegger ha evidenziato la «funzione ontologica della temporalità» e con la sua insistenza sulla possibilità, l’anticipazione e la trascendenza ha attribuito particolare valore a quella articolazione del tempo costituita dal futuro affermando una sorta di

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«primato dell’avvenire» (Marini 1982, pp. XLIX, LXXVI). Derrida segue l’esempio heideggeriano e opera una decostruzione del primato del presente sostenuta da una originale rilettura del testo freudiano ma in senso, per così dire, inverso, rovesciato, proponendo d’interpretare in termini temporali l’inconscio freudiano come «passato assoluto»(Derrida 1967a, pp. 74-75). Arriviamo così alla tesi centrale e alla definizione sintetica della nostra voce: l’inconscio è un passato che non è, non è mai stato e non potrà mai essere presentificato (Derrida 1967, pp. 74, 79). L’inconscio freudiano deve essere pensato in relazione a un passato […] che nessuna riattivazione […] potrebbe pienamente padroneggiare e risvegliare alla presenza […], che non si può […] comprendere nella forma della presenza modificata, come un presente-passato (Derrida 1967, p. 74). Il passato assoluto non è qualcosa che si aggiunge semplicemente alla tradizionale interpretazione della temporalità perché, per comprendere l’inconscio freudiano, non è sufficiente «complicare la struttura del tempo» conservando il suo carattere omogeneo, lineare e successivo come propone la fenomenologia (Derrida 1967, p. 75). Derrida pensa a «un effetto di ritardo» incompatibile per la coscienza, a «un’esperienza» generata da un evento «che non l’avrebbe preceduta immediatamente ma che le sarebbe largamente “anteriore”». Stiamo parlando di una discontinuità, di una torsione della struttura della temporalità che metta in cortocircuito, non mediato, un vissuto del presente con un evento di un passato remoto facendoli diventare, per adoperare un’espressione forse impropria ma efficace, contemporanei. Lo stesso Derrida ha difficoltà nell’esprimere questo concetto la cui accezione paradossale è da attribuirsi alla zavorra dell’interpretazione tradizionale della temporalità che appesantisce il linguaggio. Tuttavia, Derrida trova un termine adatto per battezzare questa esperienza paradossale: «è l’effetto a ritardo (nachträglich) di cui parla Freud» (Derrida 1967, p. 75). Si tratta di termine tedesco presente già nei primi scritti di Freud (1895, p. 258), di valore aggettivale o avverbiale, che viene normalmente reso in italiano con «successivo», «successivamente», «in ritardo», «posteriore» e «supplementare». Si tratta di uno dei termini fondamentali del lessico freudiano che è stato ampiamente dibattuto dal

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movimento psicoanalitico, sul quale Lacan ha attirato l’attenzione proponendo la celebre traduzione francese di après-coup (Palombi 2009, pp. 43-48). Derrida, conosce questa tradizione esegetica, ma preferisce tornare al testo freudiano per decomporre il termine ed evidenziare che la sua prima parte (Nachträg) in tedesco significa «appendice», «codicillo» e «post-scriptum». Queste accezioni redazionali hanno la funzione di valorizzare alcuni celebri metafore freudiane che paragonano l’inconscio a un testo e riproporre le tesi riguardanti la centralità della scrittura per la tradizione metafisica. In questo modo si può descrivere l’inconscio come un testo decifrabile solo a posteriori, a partire dal post-scriptum che lo modifica retroattivamente, nel suo complesso e in ognuno dei termini che lo costituiscono (Derrida 1966, p. 274). La definizione dell’inconscio come passato assoluto, come testo da leggersi retrospettivamente, è maggiormente comprensibile alla luce del trauma psichico che la psicoanalisi non deve pensare come a un fatto da ricostruire con metodi investigativi a partire dagli indizi costituiti dai sintomi. Il trauma non è un evento che sia stato presente in un determinato momento della storia del paziente e che l’analista possa fargli ricordare nel corso della terapia. Al contrario il trauma può essere interpretato come un clamoroso equivoco della vita infantile capace di produrre un corto circuito con qualche altro evento della sua vita successiva. L’esempio più noto ed efficace in proposito è costituito dal caso clinico dell’uomo dei lupi (Freud 1914). Si tratta di una terapia analitica lunga e complessa iniziata da Freud e proseguita da suoi allievi e seguaci la cui eziologia può essere drasticamente ricondotta alla seguente scena primaria: il paziente ha assistito in età infantile a un rapporto sessuale a tergo tra i genitori, more ferarum, scambiando un momento assolutamente ordinario della vita sessuale di adulti consenzienti in un atto di violenza (Freud 1914, pp. 515, 518, 521). Questa è la scena che ricompare nel sogno angoscioso dei lupi appollaiati sull’albero che guardano, attraverso una finestra, il paziente. Freud in proposito è molto chiaro: le scene della prima infanzia che ci vengono fornite da un’analisi […] non sono la riproduzione di avvenimenti reali […] sono invece formazioni fantastiche, nate da stimoli occorsi in età adulta (Freud 1914, p. 525).

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Il dialogo con il testo freudiano diventa ancora più stringente quando Derrida rielabora in senso temporale la natura fantasmatica del trauma infantile sostenendo che «la percezione della scena primitiva – non importa se vera o fantomatica – viene vissuta nella sua significazione con effetto ritardato» (Derrida 1966, p. 277). Questo evento produrrà dei cortocircuiti in specifici momenti della vita successiva del paziente prima dei quali, potremmo dire, interpolando il testo di Derrida, il trauma «non è che un richiamo di nota» poiché «il passaggio alla coscienza non è […] una trascrizione che duplica la scrittura inconscia, esso si produce in modo originale e, nella sua stessa secondarietà è originario e irriducibile» (Derrida 1966, p. 274). La lettura derridiana fa piazza pulita di tutti gli equivoci che si sono stratificati in una secolare diatriba sulla scientificità del metodo psicoanalitico e sulla veridicità dei traumi psichici. Qualsiasi vicenda infantile che si sedimenti nell’inconscio, innocua o tragica agli occhi di un adulto, non è mai stata presente e qualora evocata dall’analisi essa acquista da subito la forma di un passato che è sempre stato tale. In questo senso anche il nostro interpretare la scena primaria come equivoco è in qualche modo scorretto e ambiguo perché potrebbe richiamare indirettamente un senso univoco e assoluto che non ci riguarda. Infatti, «tutto comincia con la riproduzione […] di un senso che non è mai stato presente, il cui presente significato è sempre ricostituito a posteriori […]: la scrittura psichica non si presta ad una traduzione» (Derrida 1966, pp. 273-275). Il passato assoluto permette di rileggere la definizione d’inconscio come il non cosciente proposta dai lemmi dei dizionari, di soddisfare l’esigenza di radicalizzare la negazione della coscienza, dalle quali avevamo preso le mosse. Interpolando il testo derridiano pensiamo il passato assoluto come «pensiero dell’impossibilità» (Derrida 1968, p. 68). Il non cosciente diventa un’impossibilità «temporale», quella di «un pensiero che […] non deve […] essere vero né presente» (Derrida 1968 p. 69, corsivi dell’autore).

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Riferimenti bibliografici Agostino Le confessioni, Marietti, Genova, 1975. Civita, A. 2011 L’inconscio, Carocci, Roma. Derrida, J. 1966 Freud e la scena della scrittura in Derrida, La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1971; 1967 Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969; 1968 Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zeit in Derrida, Margini della filosofia (1972), Einaudi, Torino 1997. Freud, S. 1895 1914 1915 1920

Progetto di una psicologia in OSF, vol. 2; Dalla storia di una nevrosi infantile (caso clinico dell’uomo dei lupi) in OSF, vol. 7; Metapsicologia in OSF, vol. 8; Al di là del principio di piacere in OSF, vol. 9.

Heidegger, M. 1927 Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976. Husserl, E. 1893-1917 Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1992. Lacan, J. 1966

Scritti, Einaudi, Torino 1974, 2 voll.

Marini, A. 1982 Introduzione storico-sistematica in Marini (a cura di), Martin Heidegger. Il senso dell’essere e la «svolta», La Nuova Italia, Firenze. Palombi, F. 2009 Jacques Lacan, Carocci, Roma; 2011 Accezioni dell’inconscio, «Gruppi», n. 2.

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