Il pensiero dominante

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FRANZISKA MEIER

Il pensiero dominante

Vorrei cominciare con una breve citazione tratta dalla raccolta Pensieri che Leopardi scrisse fra il 1831 e il 1835: «V’è qualche secolo che, per tacere del resto, nelle arti e discipline presume di rifar tutto, perché nulla sa fare».1 È una definizione che si applica a meraviglia alla nostra epoca postmoderna. A essa, infatti, si rimprovera il compiacersi di riscrivere e di ricombinare i testi letterari trasmessi dalla tradizione invece di inventare e creare. Leopardi, parlando di «qualche secolo», aveva certamente in mente il suo, il decimonono. La breve definizione del pensiero IX riassume tutto il disprezzo che egli ebbe – e non smise di manifestarlo – per la sua epoca e, in particolare, per gran parte della produzione letteraria contemporanea. Già nella dedica del 1820 al conte Leonardo Trissino che precede la canzone Ad Angelo Mai si lamentava che «la facoltà dell’immaginare e del ritrovare è spenta in Italia [...] è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza».2 Nel corso della sua vita crebbe sempre di più questo sgomento contro il suo tempo che, prescindendo dal progresso tecnologico e dall’inventività nel rendere ogni cosa utile e profittevole, gli sembrava irrimediabilmente immerso nella sterilità culturale e nella corruzione morale. La definizione quindi non è che un’altra prova della sua coscienza di decadenza che separa l’epoca moderna dall’antica.3 Nell’ambito specifico delle arti, il pensiero indica che in «qualche secolo» gli autori non possono fare a meno di ripercorrere le stesse strade, di rifare i testi già scritti, cioè sono ridotti a un’imitazione per così dire vuota oppure non autentica. E va da sé che nemmeno Leopardi stesso, figlio del secolo decimonono, poteva sottrarsene. Leopardi aveva alle spalle una lunga e ricca tradizione letteraria. Dall’infanzia in poi, infatti, gli servì da modello e da stimolo; solo a momenti, e per un periodo ben determinato, la scartò al fine di sondare i propri affetti, fra l’altro, durante le settimane del suo primo amore.4 Eppure, a partire dalla fine degli anni venti e dopo il rifiorire delle sue attività poetiche nella primavera del 1828, la tradizione letteraria sembra essersi gra175

dualmente tramutata in un peso con cui Leopardi doveva fare i conti. Apparentemente allora essa cominciò a mettere a rischio la sua identità od originalità d’autore.5 Questo cambiamento si riscontra nei Pensieri, in cui si radicalizza l’idea dell’assuefazione, che pervadeva le annotazioni dello Zibaldone nel 1821 e 1822, fino a cadere nell’ossessione di essere condannati a rifare e a imitarsi, o di essere ridotti a dire perché la longevità dei padri impedisce ai giovani la via del fare.6 E, a mio parere, è rilevabile nel canto XXVI, Il pensiero dominante, che Leopardi stese fra il 1831 e il 1835, cioè nello stesso periodo, e su cui verterà la mia Lectura. Questi due testi, infatti, nascono da un nuovo rapporto con la tradizione, con l’eredità culturale. Il canto in particolare testimonia un nuovo tentativo di formare una voce propria e di affermare l’autorità del poeta. Il dilemma del rifare non concerne soltanto lo scrivere, ma ovviamente anche la lettura e l’interpretazione del canto. Di fronte alla vasta produzione della critica leopardiana, il tentativo di proporre un’altra lectura sembra destinato a fallire parzialmente, fin dall’inizio. L’interprete si trova di fronte alle osservazioni già fatte, per esempio, da ricerche biografiche più o meno fedeli al modello saintebeuviano di «l’homme et l’oeuvre». Esse vedono nel canto Il pensiero dominante l’espressione riuscita del momento d’euforia e di felicità suscitato dall’incontro con Fanny Targioni Tozzetti a Firenze, probabilmente nel luglio 1830.7 L’interprete deve poi confrontarsi con gli studi che ampliano le tesi di Walter Binni che, negli anni trenta e quaranta, mise in prospettiva una nuova poetica specifica dell’ultima fase. Nel 1947, l’anno in cui uscì La nuova poetica leopardiana, Binni aveva la fortuna di poter mettere in questione l’opinione allora egemone secondo la quale il valore del poeta stava nella sua produzione idillica – che Benedetto Croce, nel 1922, aveva identificato con la poesia – e quindi meno nella lirica filosofica a partire dal Pensiero dominante in poi. Croce l’aveva considerata come non-poesia o come un mero documento della Weltanschauung.8 L’interpretazione binniana de Il pensiero dominante diede il via a un ripensamento che riguardava tutta l’opera leopardiana; essa faceva luce su di un nuovo stile di fermezza e d’impegno eroico, in grado di sopportare la vita senza illusioni, su di un Leopardi più aperto, più sicuro di se stesso e più radicato nella realtà.9 E, così facendo, contribuì ad affievolire, se non a spazzare via, i cliché tenaci della «vita strozzata», dello «spettatore alla finestra» o di un «patologico pessimismo incapace di posizioni storicamente importanti e storicamente profonde». In seguito alle ricognizioni innovatrici del Binni,10 la 176

critica posteriore individua i tratti nuovi e tipici dell’ultimo Leopardi – un compito tutt’altro che facile visto che nella sua opera tanto le idee quanto i motivi ritornano uguali, sebbene spostati e riordinati a seconda delle crisi sopravvenute. In sintesi, anche la critica è alle prese col dilemma, poi largamente diffuso, di dover rifare ciò che è già stato fatto e, per l’opera leopardiana in modo specifico, di evidenziare la maniera in cui Leopardi riuscì a rinnovare la tradizione (e con essa una parte di quanto lui stesso pensava prima) riscrivendola. Ed è proprio da qui – cioè dalle strategie che il poeta adoperò nei confronti della tradizione – che la mia lectura vorrebbe partire. Il dilemma si evidenzia fin dalla seconda strofa del canto. Lì, l’io lirico evoca l’incontro straordinario con il «pensiero» e rende conto di quant’esso è conosciuto e rappresentato: Di tua natura arcana Chi non favella? il suo poter fra noi Chi non sentí? Pur sempre Che in dir gli effetti suoi Le umane lingue il sentir propio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona. (vv. 7-12)

Sono qui esposte due domande retoriche in cui si accenna alla loquacità e all’ubiquità dei discorsi sull’amore, e alla lunga tradizione di poesia amorosa. Il poeta espone una cosa a prima vista evidente che, in effetti, non lo era nella poesia leopardiana poiché il tema d’amore tardò a entrarci. Nel 1825 per esempio, in occasione dell’edizione delle Canzoni, Leopardi caratterizzò orgogliosamente le dieci poesie come «stravaganze» perché altrettanto distanti dalla tematica amorosa e dalla moda dominante dello stile petrarchesco. Le sue canzoni non rispettavano lo schema formale stabilito dal Petrarca. Nel 1825 l’autore affermò quindi l’originalità della sua poesia accennando al suo tenore prevalentemente patriottico. Non era esclusa dalle «stravaganze» neppure la canzone conclusiva della prima raccolta, Alla sua Donna: essa, infatti, non si rivolgeva a una donna reale ma a una «donna che non si trova», cioè a un fantasma paragonabile alle idee platoniche. Dalla produzione pisano-recanatese in poi, la tematica amorosa, invece, cominciò a invadere il poetare leopardiano fino a costituire un nucleo, un filo rosso nella raccolta a cui Leopardi avrebbe dato il titolo Canti.11 Dopo l’incontro con Fanny nel 1830, nascono cinque canti tutti dedicati all’amore che si suole chiamare il «ciclo di Aspasia». Accanto al Pensiero dominante, mi riferisco a 177

Consalvo, Amore e Morte, A se stesso e, in ultimo, ad Aspasia. Dato che, nel ciclo, Il pensiero dominante annuncia il tema – sia da un punto di vista cronologico sia da quello dell’ordinamento della raccolta – mi pare ancora più significativo il fatto che Leopardi, in esso, introduca la tradizione letteraria quasi come una presenza ingombrante. Tale critica alla tradizione, inoltre, prosegue nelle espressioni stesse in cui Leopardi si rifà a versi di Dante e di Petrarca e che la critica leopardiana rilevò fin dall’Ottocento. Basta qui nominare i verbi «favellare» e «ragionare» che rendono il conversare coll’Amore in Dante o Petrarca. Mi pare altrettanto importante sottolineare che nella stessa strofa Leopardi aggiunge «par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona». L’io lirico, sì, è condannato a sentire e dire ciò che si è già sentito e già detto, tuttavia non si dimentica di rilevare che ascoltando i ragionamenti d’Amore ne ricava, o pensa di ricavarne, qualcosa di nuovo. Se la novità del testo è diminuita dal verbo «par»,12 essa viene ribadita dalla posizione del verso conclusivo della seconda strofa. E da lì viene naturale chiedere se e, in caso positivo, in quale maniera, Leopardi faccia emergere la novità del suo poetare amoroso. Nella seconda strofa, l’io lirico, parlando del «pensiero», usa la seconda e la terza persona singolare. Nella prima domanda menziona la «natura arcana» che si suole attribuire al pensiero. Rivolgendosi ad un «tu», l’io lirico istituisce un’intimità fra sé e il pensiero che li allontana dal mondo che «favella». Nella domanda successiva cambia dal «tuo» al «suo» e parla in nome di un «noi» che sente il potere dell’amore e in cui l’io lirico si trova assorbito. Esce qui dall’intimità col pensiero, per identificarsi col genere umano e, di conseguenza, tratta il pensiero come oggetto del discorso. Si rifà a un sapere consensuale, per non dire a un truism in cui la sua esperienza personale viene generalizzata. In altre parole: per ciò che riguarda i discorsi sulla natura del pensiero, l’io si distacca tuffandosi nell’intimità con esso mentre si associa al mondo dal momento in cui parla del suo potere e del bisogno di esprimere «il sentir proprio». (v. 11) Appena Leopardi si dedica agli effetti del pensiero, fra cui il bisogno di dire le emozioni ritenute singolari o nuove, non esita ad inserirsi nel discorso comune che, in effetti, è descritto come una mera trascrizione del ragionare del pensiero. A mio avviso, le formule tipicamente dantesche e petrarchesche nella seconda strofa fanno intravedere il modo in cui Leopardi si colloca rispetto alla tradizione. Benché le «umane lingue» alludano a un plurilinguismo che, tuttavia, non comporta una pluralità sul piano del significato, 178

le riprese evidenziano che il canto si riferisce alla tradizione lirica italiana alle cui origini stanno Dante e Petrarca. Leopardi inserisce le citazioni dove l’io si riferisce al parlare altrui, cioè a quel sapere consensuale cui Dante e Petrarca seppero dar forma poetica definitiva. Egli le espone quindi in maniera esplicita e distaccata. Al contempo le adopera con uno scopo preciso. Sono esse che suggeriscono al lettore di identificare il «pensiero dominante» coll’amore:13 l’autore non lo fa da nessuna parte.14 Leopardi quindi sembra voler separare il pensiero dominante dal solito discorso d’amore, dalla fissazione tradizionale sul sentire; vuole conservarsi un margine di libertà in cui il suo «sentir propio» potrà svilupparsi. In altre parole: all’inizio del canto Leopardi si appropria della tradizione lirica pur distaccandosene e mantenendo una sua particolarità. È ovvio che Leopardi applica in questo canto un metodo contrario a quello impiegato nel Diario del primo amore abbozzato nei giorni a cavallo fra il 1817 e il 1818. Lì il giovane Leopardi aveva notoriamente scartato tutte le letture, il parlare altrui, per poter riconoscere e palpare i propri affetti, ciò che gli era specifico. A quanto pare non si trattò solo di una decisione “scientifica”, ma anche di un bisogno emozionale. Non sopportava di sentire altre descrizioni, perché ciò gli «fa stomaco».15 Non fece eccezione nemmeno Petrarca nelle cui poesie – già lette – era sicuro di trovare sentimenti analoghi. Rientra in questa strategia il fatto che egli smise di scrivere versi e si concentrò sulla prosa e questo, probabilmente, poiché la tradizione era troppo presente nella forma poetica.16 Sfruttò la libertà che la prosa gli procurava per approfondire e valutare l’alternarsi e il dileguarsi delle emozioni. Negli anni Trenta, però, questo metodo assai ingenuo, per non dire naïf, non gli andava più. Ci volevano altre vie per istituire la singolarità del suo parlare in mezzo alla tradizione,17 e bisognava trovarle ora nell’ambito della poesia. Oltre al già menzionato modo di servirsi delle citazioni per suggerire l’identificazione del «pensiero» coll’amore, la prima strofa offre l’esempio di un’altra strategia di rifarsi ai moduli pur difendendo la voce propria. L’evocazione del pensiero si basa su aggettivi che sono, sì, ben distanti, come «dolcissimo» e «possente» oppure «terribile» e «caro», e che, sì, riprendono la topica della poesia amorosa, ma, all’inverso dello stile petrarchesco, non formano un ossimoro. In effetti, Leopardi evitò l’ossimoro nei Canti. Intese piuttosto congiungere tutti gli aspetti noti per rendere la bizzarria, l’incongruenza di una tirannide cara alla vittima, di un dominatore che è anche «consorte», e di un’esperienza di dolcezza 179

che non quadra con i «lugubri miei giorni». Torna quindi la particolarità già rilevata: quanto l’io oscilla fra l’intimità singolarizzante col pensiero e l’associazione col mondo, tanto la descrizione del pensiero si contraddistingue per un uso distaccato della tradizione che tiene aperto uno spiraglio alla libertà del poeta. La critica leopardiana tende a prendere la prima strofa come linea guida per capire l’impostazione del canto e per dividere le quattordici strofe di lunghezza assai varia. L’analisi di Luigi Blasucci, che distingue tre parti, può qui servire d’esempio. La prima parte, che finisce colla terza strofa, loda la potenza del pensiero chiamato «dominator». La seconda, che va dalla quarta all’undicesima strofa, continua l’elogio, ma lo capovolge: cioè muove una severa critica all’indirizzo della vita terrena priva del pensiero. La terza e ultima parte – di nuovo tre strofe – riprende la lode mettendo l’accento sulla dolcezza del pensiero, già presente nella prima strofa. Blasucci dunque legge il canto innanzitutto come una specie d’inno all’amore – contrariamente a Leopardi che non usò il termine che in rapporto a Alla sua Donna. Secondo Blasucci, il canto Il pensiero dominante non è dedicato ad una donna concreta, ma nasce dal contatto colla realtà ed è una «riflessione sulla natura dell’amore come forza interiormente vivificante».18 E in ciò egli concorda con la maggior parte della critica precedente e successiva, che riconosce nel canto una poesia sulla natura dell’amore, sull’amore per una donna, più o meno concreta. Nemmeno la critica tedesca, che mette in primo piano la dimensione poetologica della scrittura leopardiana,19 diverge da questa interpretazione. Per Christof Weiand, per esempio, che intuisce nel canto una decostruzione dello stilnovismo, l’enigma della canzone si risolve con l’identificazione del pensiero dominante o alla donna Fanny o all’allegoria della poesia.20 La mia lettura prende le mosse dalla seconda strofa. Siccome la «natura arcana» del pensiero si connette soprattutto col favellare degli altri, mentre il dire gli effetti del suo potere concerne ogni singolo e lo individualizza, mi pare improbabile che Leopardi voglia speculare sulla natura. Penso che egli imbocchi un’altra via. A differenza di ciò che appare in Alla sua Donna, Leopardi non intende più descrivere un fantasma o un ideale platonico. Contrariamente al canto successivo, egli non vuole ancora mostrare quanto sia stretta la connessione fra amore e morte e, diversamente da Aspasia, non si rivolge ancora a una donna dipinta nella sua corporalità concreta. Anzi, come A se stesso, Il pensiero dominante 180

ambisce a rendere conto degli effetti che l’amore ha sull’uomo e, così facendo, analizzare lo sviluppo di una passione senza approfondire il «travaglio» espresso in Il primo amore. Pertanto suppongo che Leopardi sposti l’attenzione dall’oggetto, la natura del pensiero, al soggetto in cui si palpano, per dir così, gli effetti, che sono talmente invasivi da provocare persino una metamorfosi. La mia proposta è di considerare le prime due strofe come esposizione del tema e, meglio, della problematica, visto che la descrizione del pensiero comporta una riflessione sul come trasmetterlo. Le dodici strofe successive precisano, invece, gli effetti che il «sentir propio» sprona l’io lirico a dire. Esse si suddividono in tre parti. Dalla terza alla nona strofa prevale il dialogo intimo col pensiero: viene descritto l’arrivo del pensiero nella psiche dell’io (che, di nuovo, solo grazie a citazioni petrarchesche si decifra come il momento dell’innamoramento) e ciò che ne segue. Nella nona e decima strofa l’io lirico esce dal dialogo intimo per intraprendere una riflessione più generale sul valore del pensiero nel contesto della vita. Nelle ultime quattro strofe riprende il dialogo col pensiero, dietro al quale gradualmente fa emergere un volto femminile che l’io finisce per fissare in modo ossessivo. In sintesi: il canto mette in scena un processo che il pensiero fa scattare all’interno dell’io senza che l’impegno filosofico – ribadito anche nella scelta della nozione di «pensiero» – per questo venga meno. Il mio sospetto è che la decisione di non ridurre la descrizione alla solita tematica amorosa, ma di legarla ad una riflessione antropologica, costituisca il modo che permette a Leopardi di appropriarsi della tradizione poetica pur mantenendo le distanze. E questo modo, credo, deriva da una nuova lettura di Madame de Staël che, già nel 1821, nel momento della sua conversione dalla poesia alla filosofia, gli aveva mostrato una via per fare accogliere la poesia in seno alla filosofia. Com’è noto, il giovane Leopardi ammise sinceramente quest’impatto e confessò inoltre una sua affinità maggiore col ragionamento dell’autrice francese.21 Che Leopardi, alla fine degli anni venti, abbia di nuovo cercato ispirazione presso Madame de Staël, è attendibile per vari motivi. Innanzitutto, perché, fra il 1828 e il 1830, sua sorella Paolina tradusse il trattato staëliano De l’influence des passions sur le bonheur des individus et des nations del 1796 e Leopardi ne era certamente al corrente.22 In più pare verosimile che alla fine degli anni Venti egli abbia spostato la sua attenzione dal romanzo Corinne, che l’aveva affascinato nell’età giovanile, al trattato sulle 181

passioni, perché esso riusciva meglio ad accontentare le sue nuove preoccupazioni e interessi. Madame de Staël, lì, mise a nudo il meccanismo, lo svolgersi delle passioni, collegando le ricognizioni trovate grazie all’analisi dei propri sentimenti con un ragionamento generico di tipo antropologico. Leopardi doveva essere colpito sia dalla confessione dell’autrice che dice di aver selezionato gli esempi fra le sue esperienze non solo perché le parevano pertinenti, ma perché rendevano l’analisi autentica, vera agli occhi dei lettori (appassionati), sia dal suo scopo dichiarato di trovare mezzi per alleggerire l’infelicità in cui ogni passione inevitabilmente sboccava. Leopardi senza dubbio rilevava con interesse che, fra questi mezzi, spiccava la filosofia in quanto modo di sottrarsi alla presa della realtà e delle emozioni sconvolgenti per raggiungere una posizione elevata. Forse lo incuriosiva il fatto che nella conclusione l’autrice stessa ammetta il fallimento di questo metodo nel caso suo. L’affinità leopardiana comprende anche il mezzo della pietà che Madame de Staël suggerisce per distrarre l’appassionato dall’infelicità, dall’isolamento egoista, e per liberarlo dalla fissazione su ciò che fu oppure sarà. Infine, l’opera staëliana gli riconfermava la possibilità di coniugare il soggettivo coll’oggettivo. E Leopardi ne aveva bisogno poiché, fra i primi riconoscimenti che la sua poesia ottenne, si trovava anche il rimprovero di compiacersi troppo nella sua soggettività dolorosa che, secondo alcuni suoi critici, non si doveva generalizzare. Weiand ha già evidenziato che il canto Il pensiero dominante prende l’avvio da una discussione del mito stilnovistico dell’Amore all’insegna dell’illuminismo, del tramonto del cristianesimo e della modernità: «Arbeit am Amor-Mythos […] unter den Bedingungen der aufgeklärten Moderne».23 Mi pare che si possa andare oltre. Weiand mette a fuoco il lavoro di convertire i topoi in un linguaggio psicologico e quindi in un processo interiore. Dagli accenni discontinui al Petrarca diffusi nell’opera di Leopardi,24 emerge tuttavia che il poeta ottocentesco non pensò a una mera rappresentazione dell’amore in chiave psicologica e neppure ad una critica deconstruttivista nei confronti del mito. Basta ricordare un passo tratto dallo Zibaldone del 1820 in cui Leopardi intravide la «gran diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore» nel fatto che egli sapeva commuovere i lettori: «egli versa il cuore, e gli altri l’anatomizzano (anche i più eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano».25 È quindi poco plausibile che Leopardi abbia inteso «anatomizzare» la passione vissuta da Petrarca.26 Anzi, egli era alla ricerca di una soluzione che su182

perasse la tradizione, adattandola alla condizione moderna e alla sua Weltanschauung. L’ipotesi convince ancora meno nell’ambito di una raccolta basata sul canto che Leopardi definì come «espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo».27 Non c’è dubbio che Leopardi non era più in grado di versare semplicemente il suo cuore. Sperimentò altre vie, di cui una mi pare documentata nell’articolo Le rime di Francesco Petrarca del 1828. Lì egli abbozzò l’idea di scrivere la «storia dell’amore» che si nasconde nel Canzoniere: non è stata fin qui da nessuno intesa né conosciuta come pare a me che ella si possa intendere e conoscere, adoperando a questo effetto non altra scienza che quella delle passioni e dei costumi degli uomini e delle donne. E tale storia, così scritta come io vorrei, stimo che sarebbe non meno piacevole a leggere e più utile che un romanzo.28

Per quanto se ne possa dedurre, Leopardi volle raccontare una storia, un caso specifico in cui intese smascherare il meccanismo delle passioni. Sondando un caso particolare e consacrato dalla tradizione amorosa, volle contribuire alla scienza delle passioni, all’antropologia che, ai suoi occhi, figurava fra le scoperte positive della modernità. Anche qui spunta l’impatto che l’impostazione staëliana dell’analisi antropologica ebbe su di lui. Nel 1828 Leopardi comunque pensava ad una trattazione in prosa che non vide mai la luce; ma col passar degli anni e dopo vari ripensamenti l’idea potrebbe essersi sviluppata fino all’ideazione della canzone libera Il pensiero dominante, in cui all’espressione degli «effetti» si sovrappone l’analisi delle passioni ispirata al trattato staëliano.29 E questo influsso si può tracciare fin dalla seconda strofa. Sullo sfondo del libro francese, per esempio, l’accenno all’impressione di sentire un ragionamento nuovo da parte del pensiero si rivela un’applicazione dell’osservazione staëliana secondo la quale ogni appassionato si ritiene singolare e quindi al di sopra dei limiti imposti dal destino umano.30 L’appassionato rifiuta gli exempla estratti dalla storia, il sapere, pensando che non si confacciano al caso suo. Sulla falsariga del trattato, Leopardi inserisce allora il verbo «pare» per rendere il lettore sensibile alla parte che l’immaginazione ha nella percezione della realtà. Il suo proposito non è di smascherarla, ma di disegnare un oscillare sottile fra l’impatto emozionale dell’immaginazione e la sua riflessione distaccata. E in ciò diverge dal modello francese. Guardiamo ora in maniera più dettagliata come vengono descritti gli effetti del pensiero lungo le dodici strofe, sia in rapporto con la tradizio183

ne lirica, sia con il metodo antropologico staëliano. La terza e quarta strofa trattano dell’irruzione del pensiero che fa piazza pulita nella mente dell’io lirico. Mentre la terza strofa mette l’accento sulla mente intesa come luogo in cui il pensiero prende sede, la quarta verte piuttosto sulla metamorfosi che conduce a un atteggiamento nuovo nei confronti delle «opere terrene» (v. 22). Dopo aver soggiogato il soggetto – ridotto a osservare ciò che in lui avviene –, lo stesso pensiero lo eleva sopra l’ambiente consueto. Leopardi quindi ribadisce meno l’ambivalenza tradizionale fra dolore e gioia che una situazione paradossale in cui l’elemento che opprime il soggetto è al contempo la ragione della sua elevazione. Dalla strofa cinque alla strofa otto Leopardi si concentra sulla dinamica provocata dall’insediamento del pensiero. Egli descrive l’io che si trova intercalato fra il mondo del pensiero e quello della vita terrena. Applicando la sua osservazione del giugno 1821 che «l’idea del bello è sempre comparativa e quindi relativa»,31 Leopardi descrive la nuova situazione mettendola in contrasto con altre. Dapprima contrappone due spazi, fra cui l’io fa la spola: dai «nudi sassi dello scabro Appennino» desidera tornare al «lieto giardino» in cui si ristora; poi traspone i due mondi in un’opposizione temporale. A causa dell’intimità col pensiero, egli non riesce più a capire come abbia sopportato la vita anteriore. Nella settima strofa precisa che la metamorfosi si ripercuote sul suo rapporto con la morte e col fato del genere umano. Non condivide più il terrore largamente diffuso, non si sente neppure attratto dalla morte come via d’uscita dalla noia dell’esistenza. Anzi, si trova in posizione di spettatore quasi rilassato davanti all’esito della vita umana e al di sopra d’ogni eventuale coinvolgimento emozionale: … con un sorriso Le sue minacce a contemplar m’affiso. (vv. 51-52)

La distanza che grazie al pensiero può prendere nei confronti del mondo terreno non lo libera dal destino umano, ma lo mette in una posizione elevata e quasi intoccabile. A prima vista la descrizione assomiglia agli effetti dell’atteggiamento filosofico caldeggiato da Madame de Staël.32 Al tempo stesso è simile a quella fase in cui il soggetto, affetto da poco dalla passione, ne ricava una forza tale da fargli disprezzare gli ostacoli e i pericoli. Sotto questa luce, l’atteggiamento distaccato risulterebbe l’effetto di un inganno teso dall’immaginazione. L’entusiasmo comunque che a questo punto lo anima – e anche questo ragionamento torna in Leopardi – è 184

pure la condizione celebrata senza riserve che fa nascere le ambizioni maggiori e adottare le virtù più alte. E, agli occhi di Madame de Staël e di Leopardi, è esso che rende gli appassionati superiori alla gente mediocre che non vuole mai lasciare lo stato in cui si trova. Nell’ottava strofa, infine, la dinamica che comporta un’ulteriore intensificazione della sensibilità già esistente raggiunge il pieno. Il pensiero non modifica l’essere dell’io, bensì rafforza le sue convinzioni e sentimenti. Sorprendentemente, la prima parte del ragionamento sugli effetti sfocia nella dichiarazione giubilante, posta in prima posizione del verso: «Maggior mi sento» (v. 65). Mentre all’inizio l’io si era ritirato nell’intimità col pensiero godendosi le gioie, la metamorfosi lo metterà in grado di combattere il «vario volgo»: «degno tuo disprezzator» (v. 68). L’insediamento del pensiero finisce con fare assumere all’io la figura di un titano, ben concreto e terribile, che calpesta i nemici. Nell’arco delle prime sei strofe il soggetto si trasforma da spettatore passivo, anche se emotivamente toccato, in una specie d’attore superbo che si sente gradualmente ingrandire fino al punto di divenire lui stesso un dominatore tirannico, uguale a una divinità punitiva. Se non ci fosse l’immagine esagerata del gigante calpestante, il lettore, a causa dell’uso dell’indicativo presente, sarebbe tentato di sospettare che gli avvenimenti interiori siano sul punto di sfociare in un’azione reale. Il contrasto fra i due mondi, in ogni caso, si inasprisce fino a formare un antagonismo chiaramente gerarchizzato. Il mondo altrui viene quasi annientato da quello del pensiero da cui nascono i «bei pensieri» e tutto ciò che esalta l’esistenza. Contrariamente a quanto in uso nella tradizione dantesca e petrarchesca, Leopardi non traspone l’amore da un registro mondano a uno religioso,33 ma identifica il pensiero amoroso con uno stile di vita guidato dalle virtù più alte. Detto fra parentesi, in Leopardi come in Madame de Staël34 le virtù hanno la stessa origine del pensiero d’amore, perché derivano dall’immaginazione o, in termini staëliani, da una chimera. Il che non le scredita minimamente. L’immaginazione è lo strumento più adatto a sottrarre l’individuo dalla miseria del fato umano, dalla cretineria dell’epoca moderna ossessionata dall’idea dell’utilità. Nella nona e decima strofa Leopardi cambia registro. Sebbene nel primo verso della nona continui il dialogo col «tu», subito scivola in una descrizione oggettiva del pensiero che ormai chiama «un affetto» (v. 76). Per la prima volta egli lo situa esplicitamente nell’ordine dei sentimenti, preferendo al termine «passione» quello di «affetto» alla cui analisi la 185

poesia leopardiana rimane dedicata nonostante la sollecitudine degli amici liberali che incoraggiavano il poeta a impegnarsi per il progresso nei suoi canti.35 In queste due strofe, l’io lirico, come all’inizio, si riferisce a un sapere consensuale a cui allega un suo apprezzamento. Di nuovo tale apprezzamento è introdotto da tre domande retoriche. Non ci possono essere dubbi sulla prevalenza e l’importanza di quest’affetto rispetto agli altri. Non c’è da stupirsi se anche in quest’occasione il pensiero esce vincitore dalla competizione, in modo tale da degradare i rivali a mere «voglie». Stupisce però la scelta degli affetti che il poeta manda in campo contro il suo campione. Avarizia, superbia, odio, disdegno, Studio d’onor, di regno, Che è altro che voglie Al paragon di lui? Solo un affetto Vive tra noi: quest’uno Prepotente signore, Dieder l’eterne leggi all’uman core. (v. 69-79)

Leopardi non menziona che passioni basse, alle quali allinea l’ambizione a prima vista più dignitosa di farsi una reputazione nel mondo grazie allo «studio d’onor, di regno» (v. 74). Probabilmente considerava anche quest’occupazione un mero apprendistato ad appagare i vizi nominati. Contrariamente a Madame de Staël, Leopardi porta la gerarchia delle passioni agli estremi. Anche qui è ovvio che non gli importi smascherare il meccanismo che le dirige. A una gamma di passioni negative, egli oppone un affetto solo nel cui strascico vengono altri «bei pensieri». Al poeta interessa solo di esaltarlo – il che viene ribadito dalla ripetizione di «affetto» alla rima (vv. 71, 76). Alle tre domande retoriche, l’io lirico aggiunge in modo perentorio e universale – sorprende che in questa strofa non occorra il verbo «pare» – la dichiarazione che la predominanza di quest’affetto fu voluta e decretata dalle «eterne leggi», cioè, da una versione secolarizzata degli Dei. Contrariamente alla tradizione, in cui l’Amore s’insedia in un cuore specifico ed eletto, Leopardi qui sembra stabilire una condizione che riguarda tutti i mortali.36 La decima strofa ricomincia a sondare l’impatto dell’affetto allargando la prospettiva. Considerando il suo ruolo nell’ambito della vita, l’io è convinto che solo l’affetto sappia conferire un valore e discolpare il fato umano. Di nuovo insiste sulla centralità dell’affetto in modo generico. Senza abdicare al gesto universalizzante, l’io finisce tuttavia emettendo 186

una riserva secondo cui l’impressione che «la vita della morte è più gentile» (v. 87) non regge sempre, né per tutti. Dopo aver denunciato il «vario volgo» come disprezzatore del pensiero, l’io lo esclude dall’umanità in nome della quale finora parlava la «gente stolta» poiché non possiede un «cor non vile» (v. 86). L’incanto quindi non è accessibile alla maggioranza. È già stato rilevato che Leopardi si rifà a una categoria della lirica stilnovistica, ma anche qui la modifica. Com’è noto, l’amore secondo Guinizelli e Dante fu segno e prova della gentilezza del cuore in cui avevano preteso di far risiedere la vera nobiltà. Leopardi, invece, non ambisce a sostituire la nobiltà ereditaria con una fondata sul merito. Egli non applica più l’aggettivo «gentile» all’anima, ma alla visione della vita che ne deriva e la fa preferire alla morte. Stupisce che si trattenga dallo smascherare questa visione piacevole della vita come una mera apparenza o un gioco d’ottica. Simile all’esaltazione anteriore dell’io che stava sul punto di estromettere ciò che sentiva in se stesso, Leopardi conclude la dichiarazione generica con un rovesciamento in cui ciò che appare è preso come una cosa che è. Le quattro ultime strofe mettono a fuoco nuovamente quanto succede nell’io lirico. Egli riprende il filo del suo conversare con il pensiero a cui, d’ora in poi, attribuisce l’aggettivo «dolce». Dopo aver usato un registro a volte patetico e aspro, Leopardi slitta verso uno stile più ameno e dolce. Quanto alla scelta delle immagini e dei motivi, le quattro strofe si presentano come una ripresa che, tuttavia, vuole andare oltre. L’undicesima strofa, per esempio, torna a parlare del trapasso che l’irruzione del pensiero causò e riprende l’idea del valore che esso dà alla vita. Le immagini spaziali e temporali impiegate prima, qui si intrecciano. L’io si dice pronto a rifare la strada spiacevole solo per raggiungere di nuovo la felicità. Il piacere gli sembra così prezioso che non esiterebbe a ritornare ai «nostri mali» (v. 93). Il passo sorprende perché Leopardi cancella la solita impostazione temporale secondo la quale o si va da un passato a un nuovo presente simile a un rito di passaggio o ci si promette un futuro migliore e raggiante.37 Qui invece il desiderio di esaltare la felicità raggiunta spinge l’io a livellare, di fatto, l’esperienza di sé – descritta nel pensiero LXXXII che già Binni affermò essere chiave di lettura al canto.38 Da un momento propizio alla maturazione l’esperienza degenera in una fase transitoria che inoltre si ripete ciclicamente. Certo, l’io spera che di continuo «le nostre pene» si convertano in «un tanto bene» come lo esprime la rima baciata. Ma, spinto dal gesto d’emulazione, l’io istitui187

sce un ciclo che a lungo andare logora l’importanza dell’esperienza di sé. In aggiunta, il bene è di nuovo accompagnato dal verbo «pare» e quindi messo in dubbio. Nella dodicesima strofa le strategie d’emulazione proseguono. Anche qui l’io passivo si rovescia in un io attivo. Grazie al pensiero, l’io si sente innalzato «per incanto» al paradiso. E pur non venendo meno il suo «errare», il mondo gli si presenta sotto un’altra luce tale da porre in oblio il fato umano. L’attività quindi si limita ancora ad eseguire l’impulso dato dal pensiero. Poi l’io indossa le vesti di un commentatore che tuttavia non parla più in nome dei mortali, ma lo fa per se stesso, rivolgendosi al pensiero.39 Non traduce più le esperienze fatte, o piuttosto sentite in termini generici, ma cerca di valutare il rapporto fra il pensiero e il vero. Questa volta il rapporto sembra risultare tutto a svantaggio del pensiero, che è qualificato di «sogno e palese error» (v. 111). Giustamente la critica – seguendo il Binni – individua qui un atteggiamento eroico da parte di un Leopardi ormai disingannato e deciso a sopportare la sua visione pessimista della natura e del fato umano senza più evadere nell’infanzia o in epoche più lontane. Appoggiandosi alla filosofia leopardiana, la critica elude purtroppo il fatto che nel contesto del canto la valutazione deve stupire alquanto e significa, se non una rottura, almeno un cambiamento notevole. Prima di tutto, il ragionamento raggiunge un livello molto più alto e astratto; ora affronta le condizioni stesse del mondo e dell’esistenza umana, similmente a quanto accade nella Storia del genere umano che apre le Operette morali. Poi, la forza del pensiero, che ora viene chiamato il bello, non termina più in una vittoria strepitosa, bensì in una resistenza duratura (e perciò, infatti, altrettanto impressionante) alla pressione incalzante della verità, ritenuta un nemico invincibile. Da quando il vero e il bello non sono più identici, si combattono. Ma benchè non possa vincere, il pensiero è considerato potente per il fatto di riuscire a giustapporsi e a sovrapporsi al vero. Infine, l’opposizione al vero associa il pensiero all’inganno, al «palese error». L’entusiasmo intorno alla predominanza del pensiero quindi non viene meno, ma l’io filosofo della dodicesima strofa indubbiamente la relativizza inoculandone una connotazione leggermente negativa. Egli fa intravedere la necessità di un equilibro sottilmente bilanciato fra il bello e il vero, fra l’accettare l’inganno e l’essere all’altezza del fato umano. Un equilibrio che potrebbe lanciare anche una sfida al poeta stesso. Siccome Leopardi in questo passo preferisce impiegare il termine «bel188

lo», invece di «pensiero», questo si arricchisce di una dimensione estetica. Così facendo, Leopardi ripresenta il nesso petrarchesco fra l’amare e il poetare, ma lo imposta diversamente, poiché il bello non può più fare da tramite al vero, al divino – non è qui pertinente descrivere la problematica di Petrarca –, ma risiede in un mondo che si oppone in quanto inganno alla verità del fato umano e in quanto bellezza inutile e illusoria all’epoca moderna trascinata dal credo del progresso e dell’utilità. Sebbene non sia da porre in forse che Leopardi stimasse il mondo riunito sotto l’insegna del bello, l’implicita associazione all’inganno doveva inquietarlo. Anzi questa è una delle sfide che gli toccava risolvere nei Canti e che senz’altro sottende Il pensiero dominante. La dodicesima strofa, infatti, propone il problema di come si possa adoperare il bello, cioè gli strumenti poetici, senza abdicare alla esigenza di trasmettere un messaggio filosofico e senza cadere nel sentimentalismo.40 Per capire il modo in cui Leopardi affronta questa problematica conviene distinguere l’io filosofico dall’io spettatore che si gode la signoria del pensiero oppure si compiace di generalizzare i suoi avvenimenti interiori. Ed è tenendo presente questa divergenza che, a mio avviso, si delinea in modo più chiaro una particolarità delle ultime due strofe. Di solito esse vengono lette come momento di pienezza felice e di massima espansione emozionale. La mia ipotesi è che siano concepite per rappresentare il rovescio dell’altezza e del distacco appena raggiunto. Nella conclusione ci troviamo di fronte all’evolversi del pensiero in modo sempre più radicale e dinamico all’interno dell’io. Quest’ultimo viene trascinato dagli effetti del pensiero fino ad abbandonarcisi completamente. Egli finisce col cadere nell’auto-inganno poiché si cala sempre di più nella propria interiorità. Riprende l’accenno filosofico alla durevolezza del pensiero, ma lo applica a se stesso. Dice di trovarne conferma nella sua esperienza soggettiva, nel senso che il pensiero rimarrà il suo signore fino alla morte (v. 121). In questo modo, l’io rimpicciolisce il riferimento alla condizione umana e lo fraintende come verità pertinente al singolo. Sebbene il colloquio col pensiero dolcissimo venga ripreso nelle ultime due strofe, il pensiero, di fatto, sparisce dietro l’evocazione di una persona femminile che non tarda a rimpiazzarlo e a imporsi come nuova destinataria. Sorprende inoltre che l’io descriva il dialogo di carattere fin qui piuttosto filosofico come conversazione esclusivamente dedicata a «colei». Il dialogo, a posteriori, sta per rivelarsi un procedimento faute de mieux. In altre parole: nella conclusione Leopardi fa precipitare l’a189

nalisi impegnativa dell’impatto del pensiero sulla vita e sul soggetto in un’evocazione entusiasta di un’intimità ben precisata41, benché per la maggior parte immaginaria. L’io lirico smette di osservare ciò che succede nella sua anima per parlare soltanto della causa reale, della fonte da cui ricava la felicità, del suo sguardo fisso su «colei». Il rimpiazzamento del pensiero come destinatario, che nel verso finale viene trattato persino come un mero Ersatz del volto femminile, è accompagnato da una sostituzione altrettanto significativa che riguarda la situazione emozionale dell’io: […] Quanto più torno A riveder colei Della qual teco ragionando io vivo, Cresce quel gran diletto, Cresce quel gran delirio, ond’io respiro. (v. 125-129)

Al posto del diletto che ha finora contraddistinto la presenza del pensiero s’insedia il delirio. L’identica struttura sintattica ribadisce la sostituzione, le cui implicazioni sembrano sfuggire all’attenzione dell’io appassionato. Ovviamente lo sforzo di rivedere «colei», di rincorrere la sua immagine fa scattare una dinamica che non tarda a sconvolgere l’io. Egli stesso si allontana dal solito colloquio col pensiero per fissare l’«Angelica beltade!». Detto in termini staëliani: mettendo di propria volontà il volto femminile al posto del pensiero, l’io si rende dipendente da un elemento esteriore42 che il pensiero, fra l’altro, gli aveva già rivelato come proiezione della sua immaginazione.43 Non è certamente un caso che nelle due strofe finali pullulino le metafore stilnovistiche, di conio dantesco, a proposito della donna e della sua relazione col divino. Secondo Christof Weiand, le citazioni servono a criticare la lirica stilnovistica poiché essa ingannava il lettore e mascherava il vero, cioè l’ineluttabilità della morte.44 Una critica del genere implica che Leopardi non ha fatto caso alla diversità storica fra l’epoca moderna e il Due-Trecento in cui la fede cristiana regnava indiscussa e in cui l’uomo trovava il suo posto nel macrocosmo creato da Dio. Il che è poco plausibile, poiché Leopardi, com’è noto, considerava l’amore come un prodotto della civilizzazione45 e situava Dante e Petrarca tra gli antichi poeti.46 Secondo me, il pullulare delle citazioni testimonia il movimento d’abbandono e di perdita di orientamento che Leopardi vuole far presente. Mentre all’inizio l’io era in grado di separare la sua voce da quella 190

del sapere comune e sapeva giocare con i registri stilistici, nella fase finale l’io si aggrappa freneticamente alla lode consacrata dalla tradizione. Perde quindi la sua singolarità e l’indipendenza anche per quanto riguarda l’espressione dei suoi sentimenti più intensi. L’apice dell’evolversi passionale si rivela come il culmine dell’adesione alla lirica italiana. Si tratta comunque di un’adesione messa in mostra come momento di delirio. Nei versi che esaltano la bellezza della donna, salta agli occhi che l’io delirante mescola i termini del bello e del vero il cui intrecciarsi era stato appena definito dall’io filosofico. Più egli si fissa sull’immagine femminile, più è dimentico della necessità di separare il vero dal bello. L’io riprende il procedimento già impiegato nell’ambito degli affetti, ma in questo caso risulta chiaro che è del tutto arbitrario porre la sua donna al di sopra di «ogni più bel volto». Insieme al verbo «pare» l’espressione «più bel volto» smaschera l’auto-inganno di cui l’io è vittima. Il discorso si rivela una proiezione in cui la realtà viene svalorizzata al punto da essere ridotta a una copia vuota: a una «finta imago». Definendo infine la sua donna come la «sola vera beltà», egli fa convergere i termini del vero e del bello che l’io filosofico aveva cura di tenere separati, e attribuisce al vero, in quanto aggettivo, il compito di ribadire la beltà, cioè un’apparenza ingannatrice. Tuttavia, il sacrificio o la perdita dell’io nell’adorazione della donnaoggetto e rispettivamente nella lingua poetica di stampo dantesco e petrarchesco non deve fare dimenticare che le ultime strofe apportano un massimo di dolcezza, e cioè di poesia, alla canzone libera de Il pensiero dominante. Soprattutto nella penultima strofa il numero dei versi rimati è notevolmente cresciuto. E la rima baciata che conclude prosegue nella strofe seguente.47 Per cui le strofe, che dal punto di vista dell’io filosofico vanno lette come delirio o auto-inganno, nel contesto del canto si rivelano come un contrappeso dolce alle parti aspre del componimento, come un adempimento lirico, un momento di pienezza che avvicina la conclusione al naufragare de L’infinito. Sulla forma della canzone libera del Pensiero dominante i pareri degli studiosi divergono. Alcuni, come Blasucci,48 le attribuiscono un’impostazione regolare e armoniosa, altri, come Weiand,49 individuano una struttura ricca d’irregolarità. Per quanto sia difficile distinguere regolarità o armonia nell’irregolarità in una canzone libera, la divergenza d’opinione mi pare rivelatrice. Sappiamo che Leopardi non si stancò mai di rendere più stretto il rapporto fra contenuto e forma: la divergenza in191

duce quindi a sospettare che la forma si basi sulla ricerca di equilibrio degli aspetti opposti del pensiero. In altre parole: le impressioni contrarie espresse dai lettori potrebbero essere provocate dalla stessa strategia già studiata, che consiste nell’affermare la propria originalità nei confronti della tradizione lirica e nel soddisfare le proprie esigenze quanto al tenore filosofico o, meglio, disingannato della poesia moderna senza pertanto tradire la sua essenza, cioè la melodia. A mio avviso, tutto il canto si costruisce su questo contrappunto. Da un lato Leopardi descrive tutta la gamma degli aspetti che l’impatto del pensiero causa nel soggetto, e che vanno dal titanismo in rapporto al mondo terreno alla dipendenza da un volto femminile: anzi, da un’immagine del volto; dall’altro egli affianca all’io lirico, che si compiace di vivere il pensiero fino all’eccesso, un io filosofico che mantiene le distanze. Alla descrizione dell’affetto vissuto, Leopardi sovrappone di tanto in tanto una messa in prospettiva distaccata da parte di questo io filosofico, che emerge in tutta chiarezza soltanto a una seconda lettura del canto. Egli penetra nel discorso dell’io che vive inserendoci il verbo «pare», che non cessa di mettere in dubbio tanto l’entusiasmo e l’estasi quanto il ragionamento stesso. L’inserimento, fra l’altro, assomiglia all’uso del «forse» che Leopardi commentò in Petrarca;50 con questa differenza, però: che il poeta ottocentesco non intendeva approfondire il vago, lasciando libero spazio all’immaginazione, ma destare il lettore e avvertirlo dell’ambiguità. L’io filosofico, poi, fa capolino nell’aggettivo «lugubre» (v. 5) che disturba la lode del pensiero nella prima strofa. Implicitamente esso accenna al movimento ciclico che fa seguire alla conclusione estatica la precipitazione nella depressione che Leopardi rende presente all’inizio. Per quanto riguarda la forma, essa rispecchia due livelli testuali, l’uno riferito all’io che vive e l’altro all’io filosofico. Leopardi espone i momenti moderati di descrizione e d’analisi nelle strofe che hanno in media otto versi, mentre riserva le strofe più lunghe, anzi smisurate, ai punti estremi della passione. La strofa che per prima interrompe l’alternarsi di strofe di lunghezza media, è l’ottava, nei cui sedici versi il titanismo dell’io viene sviluppato. Non mi sembra casuale peraltro che lo stesso numero di versi si trovi nel canto posteriore A se stesso, che piange il rovescio del titanismo. La misura di otto versi poi viene superata solo dalle strofe dodici e tredici, i cui temi sono rispettivamente il massimo distacco filosofico e il massimo abbandono dell’io appassionato. Inoltre, Leo192

pardi, come si è già visto, cerca di tenere in bilico momenti aspri e dolci. In accordo con la sua strategia di staccarsi dalla tradizione lirica, egli fa convergere i due registri che Petrarca, per esempio, teneva distinti riservando il dolce ai sospiri in vita di Laura.51 Sul piano formale torna quindi l’intenzione di voler raccogliere nel canto tutti gli aspetti del pensiero d’amore e considerarlo su tutte le prospettive. Al tempo stesso, l’alternanza di momenti dolci ed aspri aiuta Leopardi ad accontentare il suo bisogno irrefrenabile di «bello» e «dolce» senza pertanto correre il rischio di abusare dell’incanto poetico, e cioè di venire meno all’ideale di verità. Leopardi aggira, evitandolo, lo spettro orribile di una «poesia non poesia»52 costituendo un intreccio raffinato fra poesia/inganno e filosofia/verità, costruendo il canto sul contrappunto. Grazie a questo intreccio sottile e prolungato il canto Il pensiero dominante si presenta non come momento di felicità autobiografica, ma come un momento poetico particolarmente riuscito a partire dal quale i canti seguenti elaborano componenti isolate che mettono prevalentemente a fuoco il disinganno e la desolazione. Questo canto, però, porta già tutto in sé.

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G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988, p.

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ID., Poesie e prose, II. Poesie, a cura di M.A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Mondadori, Milano 1987, vol. I, p. 160. 3 I Pensieri tuttavia prendono le distanze da una celebrazione ingenua del passato. La decadenza non concerne solo l’epoca moderna. Leopardi schernisce addirittura l’atteggiamento nostalgico che porta i vecchi a preferire il periodo della loro gioventù al presente. Questa nostalgia, secondo Leopardi, è causata dal processo biologico; col venir meno delle forze vitali, la gioventù prende l’aspetto di un tempo molto migliore. Vedasi il pensiero XXXIX, in ID., Poesie e prose, II. Prose, pp. 305-308. 4 Vedasi fra l’altro il Diario del primo amore, in ID., Poesie e prose, II. Prose, pp. 1171-1184. 5 Una fase intermedia è costituita dallo Zibaldone, pp. 4372-4373 del 10 settembre 1828: «Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. […] Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è più poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla» (ID., Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1997, 3 voll.). 6 Vedasi il pensiero II che parla della figura del padre che provoca «un sentimento di soggezione e di dependenza, e di non essere libero signore di se medesimo, anzi di non essere, per dir così, una persona intera, ma una parte e un membro solamente, e di appartenere il suo nome ad altrui più che a se» (p. 286) e il pensiero LXXXI, in cui descrive l’impressione frequente con gli scrittori di aver a che fare con l’imitazione degli altri e di loro stessi, pp. 328 ss. 7 In modo esemplare rimando a P. WILLIAMS, Leopardi’s Aspasia Poems: «L’inganno estremo», in The Italian Lyric Tradition. Essays in honour of F.J. Jones, G. Bedani, R. Catani and M. Slowikowska, University of Wales Press, Cardiff 1993, pp. 55-71; M. RINALDI, Il grande amore di

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Giacomo Leopardi: Fanny Targioni Tozzetti, in “Anima-pensiero”, V (1969), pp. 35-48. 8 Vedasi W. BINNI, La nuova poetica leopardiana, Sansoni, Firenze 1962, nuova ed., pp. 6-8. 9 Secondo Binni l’allontanamento definitivo da Recanati, i primi riconoscimenti che coglie con la sua opera, soprattutto di prosa, insieme a una nuova «esperienza di sé» descritta nel pensiero LXXXII (pp. 329 ss.), che approfondì l’autocoscienza del Leopardi, contribuirono a far nascere un nuovo Leopardi. 10 Vedasi anche M. MARTI, Leopardi nella critica del Novecento, ristampato in ID., Amore di Leopardi, La Finestra, Trento 2003, pp. 174-222. 11 Quanto alle ragioni che stanno alla base della raccolta dei Canti, vedasi C. GENETELLI, Scheda per il libro dei «Canti» di Giacomo Leopardi, in Die Architektur der Wolken. Zyklisierung in der europäischen Lyrik des 19. Jahrhunderts, hrsg. von R. Fieguth e A. Martini, Peter Lang Verlag, Bern 2005, pp. 105-119. 12 Isolando il verso si potrebbe pensare a un uso “dantesco” di «pare»; ma le altre occorenze del verbo nel canto, testimoniano il senso moderno. Da ciò deduco che anche qui Leopardi intende una cosa non certa. 13 Oltre alle citazioni la rima in -ore (signore, core, vv. 78,79) evidenzia il legame. Ringrazio Edoardo Fumagalli dell’osservazione. 14 W. BINNI, La nuova poetica leopardiana, p. 41: «Tanto più che è chiara la suggestione presente al Leopardi, del verso dantesco: Amor che nella mente mi ragiona sì che l’avvicinamento di “ei” e “ragiona” veniva a rivelare senza nominarlo la natura del “pensiero” che direttamente non viene mai chiamato “amore”, come in certe liturgie paurose di evocare il nome di Dio». 15 G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, p. 1177. 16 La poesia più antica della raccolta dei Canti proviene da questa prima fase. Prescindendo dai frammenti XXXVIII e XXXIX, Il primo amore è l’unica poesia in cui Leopardi adopera le terzine dantesche. 17 Per ciò che riguarda le strategie diversificate d’intertestualità rimando a titolo esemplare a C. GENETELLI, Agonismi leopardiani. Per una rinnovata esegesi di “All’Italia”, in “Studi e problemi di critica testuale”, 72 (2006), pp. 71-96. 18 L. BLASUCCI, L’amore, l’infinito: Lettura del “Pensiero dominante”, in “Testo. Studi di Teoria e Storia della Letteratura e della Critica”, XX (1999), pp. 37-47: 41. 19 In modo esemplare si può seguire nella lettura prevalentemente poetologica di L’infinito e A se stesso da parte di W. WEHLE, Leopardis Unendlichkeiten. Zur Pathogenese einer poesia non poesia. “L’infinito” / “A se stesso”, Gunter Narr Verlag, Tübingen 2000. 20 Vedasi C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion. Anmerkungen zur Kanzone “Il pensiero dominante”, in “Germanisch-Romanische Monatsschrift”, L (2000), pp. 171-181: 181. 21 A proposito della ricezione staëliana nell’opera del Leopardi è informativo il capitolo di Pamela Williams su Madame de Staël, Passions and Morality, in L. PRESS, P. WILLIAMS, Women and feminine Images in Giacomo Leopardi, 1798-1837. Bicentenary Essays, The Edwin Mellen Press, Lewiston 1999, pp. 203-246. Vedasi anche G. CARSANIGA, Giacomo Leopardi. The unheeded voice, Edinburgh University Press, Edinburgh 1977, p. 29: «The study of her works showed Leopardi that there was no real incompatibility between imagination and emotions on the one hand, and the “contrary faculties” of reason, philosophy and mathematical abstraction on the other». Comunque la maggior parte delle ricerche si concentrano sulla prima fase leopardiana. M. FUBINI, Mme de Staël e Leopardi, ristampato in ID., Romanticismo italiano, Laterza, Bari 1953, pp. 61-76. M.A. RIGONI, Leopardi, Schelling, Madame de Staël e la scienza romantica della natura, in “Lettere italiane”, LIII (2001), pp. 247-245. 22 Varrebbe la pena mettere a confronto la traduzione della sorella e i canti leopardiani, ma ci è mancato il tempo. 23 C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion…, p. 175. 24 Molto informato e utile quanto alla ricezione del Petrarca e alla ricerca in proposito è M. BROSE, Mixing Memory and Desire: Leopardi Reading Petrarch, in “Annali d’Italianistica”, XXII (2004), pp. 307-320; inoltre H. HEINKE, Zu Leopardis Petrarcaverständnis, in Giacomo Leopardi. Rezeption – Interpretation – Perspektiven, ed. H.-L. Scheel e M. Lentzen, Stauffenburg Verlag, Tübingen 1992, pp. 101-108. 25 G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 113. 26 In ciò Leopardi si distingue da Petrarca, di cui dice nella dedica al conte Leonardo Trissino del 1820: «Diceva il Petrarca: ed io sono un di quei che ’l pianger giova. Io non posso dir questo, perché il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de’ tempi e volere della fortuna»

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(G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, p. 160). 27 ID., Zibaldone, pp. 4476-77 (29 e 30 marzo 1829). Vedasi a proposito anche C. GENETELLI, Scheda per il libro dei “Canti”…, p. 117. 28 Tratto da Le rime di Francesco Petrarca, in G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, p. 989. 29 A mio parere, il metodo staëliano sottende tutto il ciclo di Aspasia che si legge come un evolversi del pensiero fino a giungere al suo esito inevitabilmente infelice. Potrebbe quindi darsi che Leopardi avesse inteso di aggiungere al già esistente «elemento di unificazione tematica dell’intero libro, l’itinerario di un io» (C. GENETELLI, Scheda per il libro dei “Canti”..., p. 114) un’analisi antropologico-filosofica e la messa in scena di una passione d’amore. In altre parole: che avesse allargato la «storia di un’anima» per poter posizionare i suoi Canti nei confronti della corrente più importante della tradizione lirica italiana in un modo conforme all’epoca moderna. 30 MADAME DE STAËL, De l’influence des passions sur le bonheur des individus et des nations, Édition Payot & Rivages, Paris 2000, p. 49. 31 G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 1194. 32 MADAME DE STAËL, De l’influence des passions…, pp. 206-214. 33 Mi riferisco a formulazioni di valore topico come «gioia celeste», «pellegrino» o «lieto giardino». 34 MADAME DE STAËL, De l’influence des passions…, pp. 51-53. 35 Mi riferisco fra l’altro ai versi di Palinodia al Marchese Gino Capponi: «Il proprio petto / esplorar che ti val? Materia al canto / non cercar dentro te. Canta i bisogni / del secol nostro, e la matura speme» (vv. 235-238). 36 Nella critica è già stato rilevato il legame della canzone con la prima operetta morale Storia del genere umano, in G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, pp. 5-19. Anche lì Leopardi isola gli eletti da una maggioranza, p. 19: «Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia». Tanto Leopardi quanto Madame de Staël oscillano fra la loro tendenza classicista di parlare in nome dell’umanità e la loro esigenza di dividere l’umanità in una maggioranza mediocre e un’élite. 37 Significativa al riguardo è la penultima operetta morale Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, pp. 208-211. 38 Vedasi il capitolo Il Leopardi dell’“esperienza di sé”, in W. BINNI, La nuova poetica leopardiana, pp. 11-22. 39 Egli si manifesta nell’inserto «credo» (v. 107). 40 La problematica si riscontra nei Pensieri, in particolare nel pensiero XXIX, p. 301: «Nessuna professione è si sterile come quella delle lettere. Pure tanto è al mondo il valore dell’impostura, che con l’aiuto di essa anche le lettere diventano fruttifere. L’impostura è anima, per dir così, della vita sociale, ed arte senza cui veramente nessun’arte e nessuna facoltà, considerandola in quanto agli effetti suoi negli animi umani, è perfetta. […] L’impostura vale e fa effetto anche senza il vero; ma il vero senza lei non può nulla. Né ciò nasce, credo io, da mala inclinazione della nostra specie, ma perché essendo il vero sempre troppo povero e difettivo, è necessaria all’uomo in ciascuna cosa, per dilettarlo o per muoverlo, parte d’illusione e di prestigio, e promettere assai più e meglio che non si può dare. La natura medesima è impostora verso l’uomo, né gli rende la vita amabile o sopportabile, se non per mezzo principalmente d’immaginazione e d’inganno». 41 La controversìa a proposito del carattere che prese l’amore per Fanny qui non ha importanza. Si veda G. CARSANIGA, Giacomo Leopardi…, p. 103, che contesta la tesi della verginità del poeta, e si riferisce al Ranieri che considerava il ciclo di Aspasia come «poesie erotiche». 42 Simile a Madame de Staël che sul modello stoico pose come meta l’indipendenza dell’individuo tanto dal mondo esteriore che dall’immaginazione, il Leopardi degli anni trenta, in particolare nei Pensieri, consiglia di mantenere «la propria dignità intera, rendendo non più che il debito a ciascheduno» (Pensiero XLIX, p. 313). 43 Significativa mi pare anche la ricorrenza del sostantivo «imago» nell’ultima strofa, che prima serve a screditare le altre donne e poi si riferisce alla donna stessa. 44 C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion…, p. 178: «Je nach Lesart ist vero aspetto rhematisch als Wahrheit aufzufassen: Wahrheit ist, daß der Tod beide, Amor und das Redesubjekt, auslöschen wird; daran ändern auch anmutige – lies: stilnovistische – Täuschungen nichts.

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Thematisch in der Bedeutung “wahres Aussehen” ergibt sich: das wahre Aussehen verdeckten bislang anmutige Täuschungen». 45 G. LEOPARDI, Zibaldone, pp. 1312-1313. 46 In modo esemplare rimando alla Prefazione alla Crestomazia italiana de’ poeti, in G. LEOPARDI, Poesie e prose, II. Prose, pp. 1009-1010. 47 Già rilevato da L. BLASUCCI, L’amore, l’infinito..., p. 38. 48 Ibidem: «Questi dati statistici ci suggeriscono già una tendenza, cioè, a una regolarità di misure e di schemi. […] Il tutto, ma in particolare la prima parte del componimento col suo sostanziale isostrofismo, sembra suggerire proprio l’idea di una canzone regolare. […] Teniamo fermo questo risultato: vedremo com’esso apparirà tutt‘altro che casuale quando avremo osservato da vicino l’impianto tematico della lirica». 49 C. WEIAND, Leopardis Stilnovismus-Dekonstruktion..., pp. 175-176: «Die erkenntniskritische Unruhe läßt sich sogar metrisch nachweisen: die ersten fünf Strophen sind formal Sestinen und Oktaven. In dieser Phase blickt das Dichter-Ich zurück. Mit dem Eintritt in die Gegenwart […] zerspringt dieser letzte Rest fester Bauform: sieben, neun, elf, siebzehn, neunzehn Verse bilden nunmehr Strophen. Das indiziert Zerstückelung und zugleich das Anschwellen diskursiver Energie». 50 Rimando a M. BROSE, Mixing Memory and Desire..., che cita tutto il commento leopardiano a proposito di «forse», p. 309. 51 Mi riferisco al sonetto CCXCIII in cui si legge: «Morta colei che mi facea parlare/ et che si stava de’ pensier’ miei in cima,/ non posso, et non ò più si dolce lima, / rime aspre et fosche far soavi et chiare». 52 La formula si trova fra le ultime annotazioni dello Zibaldone, p. 4497: «Dello stesso secolo è mancare di poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l’utile, il linguaggio del popolo; bandirne l’eleganza; privarlo della maggior parte del bello, ch’è la sua essenza; o, contro la propria natura di essa, subordinare il bello (e quindi il sublime, il grande […]) al vero, o al così detto vero. È naturale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o meno poetica ch’ei può; anzi una poesia non poesia».

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