Il Mondo in Europa. Namier e il \"Medio oriente europeo\", 1815-1948

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a r g o m e n t i 

Il mondo in Europa Namier e il «Medio oriente europeo», 1815-1948 Andrea Graziosi

Queste pagine non sono una ricostruzione dell’opera di Namier bensì un dialogo con essa. Una prima sezione, che guarda alla sua vita nella storia europea del XIX e XX secolo attraverso le categorie da lui create per interpretarla, è seguita da una discussione di queste ultime. Tratto poi il significato assegnato da Namier al 1848, che egli considerava il «semenzaio» di quella storia, in un’interpretazione che va, nel titolo di un saggio importante, From Vienna to Versailles, e arriva in realtà alla Potsdam del 1945. Proverò infine a riassumere i vizi di quella che resta una delle visioni più originali della storia europea contemporanea. La storia europea e Namier

Sir Lewis Namier (Ludwik Bernsztajn vel Niemirowski, 1888-1960) non godette di simpatia. Parlando di lui è stato per esempio scritto che «pochi storici sono stati più intelligenti, e hanno lavorato tanto e tanto ossessivamente, ma ancor meno hanno prodotto così poco di durevole e così tanto di qualità ineguale». Anche se non posso giudicare gli studi sul Settecento ai quali dovette la sua fama, il giudizio mi sembra, più che ingeneroso, sbagliato. Molti dei suoi saggi sul XIX-XX secolo – frammenti grandiosi di un libro mai scritto – sono infatti di una bellezza fulminante e il tempo sta rendendo loro giustizia.   Gia Caglioti, Vanni d’Alessio, Antonio Ferrara, Guido Franzinetti e Niccolò Pianciola, che ringrazio, hanno criticato e arricchito questo saggio.    In L.B. Namier, Conflicts: Studies in Contemporary History, London, MacMillan, 1942, pp. 1-19.    L. Colley, citata nell’Introduzione di J. Joll a L.B. Namier, 1848: The Revolution of the Intellectuals, Oxford, Oxford University Press, 1992, p. VII. E.H. Carr, più generoso, fu però incapace di penetrare la ricchezza della interpretazione namierana (Lewis Namier, in Id., From Napoleon to Stalin, London, MacMillan, 1980, pp. 184-191). Più positivo fu invece il giudizio di F. Venturi, Un grande storico: Sir Lewis Namier, «Il Ponte», 1957, 7, pp. 1046-1055.    Su di essi cfr. T. Tagliaferri, Individui ed entità collettive: sir Lewis Namier tra approccio tipologico e comprensione storica, in D. Conte e E. Mazzarella (a cura di), Il concetto di tipo tra Ottocento e Novecento, «Quaderni dell’Archivio di storia della cultura», 2001, 1, pp. 297-332.    Cfr. L.B. Namier, Skyscrapers, and Other Essays, London, Ayer Publishing, 1931; Id., In the Margins of History, London, Ayer Publishing, 1939; Id., Conflicts, cit.; Id., Avenues of History, London, MacMillan, 1952; Id., Personalities and Powers, London, Hamish Hamilton, 1955; e Id., Vanished Supremacies, London, Ha

Contemporanea / a. X, n. 2, aprile 2007

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Perché allora quel giudizio? Esso aveva a che fare con quel che potremmo chiamare il «conservatorismo» (le virgolette sono obbligatorie) di Namier e il suo disprezzo per gli intellettuali «progressisti», in cui vedeva gli agenti dell’odio nazionale, una posizione che non lo rendeva popolare in certi ambienti dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Ma questa non me ne sembra la ragione più interessante. Namier, piuttosto, era troppo diverso, troppo avanti e aveva una visione troppo ampia, ancorché viziata, per essere compreso da storiografie che erano, e sono, nazionali o ripropongono schemi in cui una storia dell’Europa ridotta a quella, mutilata, della sua parte occidentale e fortemente mitizzata e/o ideologizzata è contrapposta a una storia del «resto del mondo», o più frequentemente dell’«Oriente», sottoposta alle stesse operazioni. Alla luce di quei saggi egli va invece inserito nella pleiade dei grandissimi interpreti della storia europea degli ultimi secoli «nel suo complesso», con Elie Halévy, Otto Hintze, Hans Kohn e Ludwig von Mises. Il parallelo con quest’ultimo, che si muoveva però a un livello teorico più elevato, è per vari motivi il più appropriato. Come Namier infatti Mises veniva dalla Galizia, dove i confitti nazionali e sociali tra contadini ucraini e signori e cittadini polacchi innanzitutto, ma anche tra invasori russi e tedeschi, hanno più volte determinato momenti di altissima tensione che hanno finito col travolgere quella comunità ebraica da cui entrambi provenivano. Proprio studiandone le campagne in una grande opera di storia agraria, il secondo aveva cominciato a cogliere alcune peculiarità essenziali della storia europea – dal ruolo cruciale dei territori plurilingui al legame in essi tra questione agraria e questione nazionale, dalla rapida e spontanea degenerazione del liberalismo e del nazionalismo liberale delle loro élite al nazionalsocialismo altrettanto spontaneo delle loro masse – che avrebbe poi fissato in un fondamentale libro del 1919. Namier proveniva da un’agiata famiglia di ebrei assimilati. Il nonno paterno, Jacob Bernsztajn, «era un rivoluzionario di tipo ottocentesco, un romantico patriota polacco, un banchiere di qualche successo a Varsavia e il discendente di molti studiosi di

mish Hamilton, 1958. R. Szporluk ne ha fatto un uso intelligente in The Making of Modern Ukraine: The Western Dimension, «Harvard Ukrainian Studies», 2001, 1/2, pp. 57-90. Cfr. anche G. Franzinetti, Il problema del nazionalismo nella storiografia dell’Europa orientale, «Rivista storica italiana», 1991, 3, pp. 812-46; A. Ng, Nationalism and Political Liberty. Redlich, Namier and the Crisis of Empire, Oxford, Oxford University Press, 2004, e T. Tagliaferri, Nazionalità territoriale e nazionalità linguistica nel pensiero storico di Lewis Namier, «Archivio di storia della cultura», XII, 1999, pp. 119-148.    L. Mises, Stato, nazione ed economia, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Id., Die Entwicklung des gutsherrlich-bäuerlichen Verhältnisses in Galizien, 1772-1848, Wien & Leipzig, Franz Deuticke, 1902, l’unico lavoro di Mises citato da Namier.    Cfr. per esempio il già citato saggio di R. Szporluk, The Making of Modern Ucraine, cit., e T. Snyder, Reconstruction of Nations: Poland, Ukraine, Lithuania and Belorus, 1569-1999, New Haven, Yale University Press, 2003. Ebreo galiziano era anche uno dei più importanti sovietologi del XX secolo, Adam Ulam, e da Leopoli veniva anche uno dei più grandi studiosi dell’economia sovietica, Eugène Zaleski, deportato nei lager nazisti in quanto patriota polacco.

valore». Sua nonna era invece un’erede diretta di Eliyahu ben-Solomon (1720-1797), il Gaon di Vilna, forse «la maggiore forza intellettuale e spirituale del pensiero rabbinico dai tempi di Maimonide». Malgrado queste origini, che pare fossero in famiglia volutamente ignorate, suo padre era un proprietario terriero «assolutamente filo-polacco». Il figlio si schierò invece coi contadini ucraini (o ruteni, come si diceva allora) contro i signori e i nazionalisti polacchi. La sua educazione, curata privatamente da Edmond Weissberg, poi famoso giornalista e intellettuale di sinistra sotto lo pseudonimo di E. Borecki, lo aveva infatti condotto a maturare precocemente alcune convinzioni e a definire un campo di interessi cui sarebbe rimasto legato per tutta la vita. Già prima del 1905 «il suo orientamento generale in politica ed economia era marxista, ma la questione principale era quella della riforma agraria – il raddrizzamento dei torti subiti dagli spossessati contadini ruteni». I latifondi polacchi, mal gestiti da agenti di proprietari assenteisti, lo facevano indignare, e proprio dall’idea, venerata in famiglia, che era giusto che un giorno i polacchi riconquistassero la loro patria, egli derivò quella che era altrettanto giusto che anche i ruteni ne avessero una, «con leggi adatte ai contadini ruteni e non esclusivamente ai loro signori polacchi». Questa convinzione era simile a quella cui era giunto poco prima un grande pensatore ucraino, Mychajlo Drahomanov (1841-1895), forse il primo a intuire i pericoli che il nazionalsocialismo spontaneo nutrito dalle condizioni dell’Europa centro-orientale faceva correre anche alla causa degli oppressi10. Essa sarebbe stata poi rafforzata negli anni Trenta dalle reazioni al destino degli ebrei tedeschi, resi Luftmensch da una legislazione antisemita che raggiungeva il suo picco in Germania, ma si estendeva a coprire una moltitudine di paesi europei. Namier, che si schierò allora con Weizmann e il sionismo, notò che quella condizione era «dovuto al fatto che come nazione non abbiamo alcuna terra ferma sotto i nostri piedi» e che l’uomo «era davvero sicuro solo nella sua comunità», derivandone il bisogno per tutti di uno stato nazionale11. Quest’ultimo non fu però mai definito da Namier in termini «etnici» e l’ideale rimase per lui quello della patria territoriale, incarnata dall’esperienza britannica e ancor più da quella statunitense. Sin dalla giovinezza, quindi, la sua attenzione si appuntò sul bisogno di stato che pervadeva l’Europa in cui stava crescendo e su un socialismo più vicino ai movimenti

  J. Namier, Lewis Namier. A Biography, London, Oxford University Press, 1971, pp. 3, 5 ss. Altrettanto filopolacco era il padre di Richard Pipes, il grande storico della Russia proveniente da esperienze simili e terre vicine. Cfr. il suo Vixi: Memoirs of a non-Belonger, New Haven, Yale University Press, 2003.    J. Namier, Lewis Namier, cit., p. 41. Cfr. anche A. Ng, A Portrait of Sir Lewis Namier as a Young Socialist, «Journal of Contemporary History», 2005, 4, pp. 621-636. 10   M. Drahomanov, La letteratura di una nazione plebea e I contadini russo-ucrainiani sotto i liberali ungheresi, «Rivista internazionale del socialismo», 1880, 1, pp. 21-6 e 29-35. Su Drahomanov cfr. I.L. Rudnytsky, Essays in Modern Ukrainian History, Edmonton, Canadian Institute of Ukrainian Studies, 1987, pp. 20398. 11   L.B. Namier, In the Margins of History, cit., p. 70. 

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contadini e alla loro idea di giustizia di quanto non lo fosse a quello urbano e industriale12. Anche in base alla sua esperienza personale in Galizia, egli comprese inoltre subito, e bene, il legame contraddittorio ma strettissimo tra contadini e movimenti nazionali, fondamentale specie tra quelle che, come vedremo, avrebbe chiamato le subject races dell’Europa centro-orientale (ma non solo tra esse, come dimostra l’esempio, analizzato dallo stesso Namier, di quei nobili polacchi che, ragionando sul fallimento della loro insurrezione del 1830-31, già nel 1845-46 avevano capito che «solo suscitando le forze rivoluzionarie sociali [vale a dire essenzialmente le campagne] avrebbero potuto avere la meglio sulla forza organizzata dei loro nemici e oppressori»). Il giovane Namier si trovò così, senza rendersene conto, prova vivente della giustezza delle teorie misesiane e incarnazione di quell’incrocio «nazionalsocialista»13 del quale sarebbe poi stato acuto critico. I primi dubbi vennero già nel 1905, quando, riflettendo sulla rivoluzione e i movimenti sociali e nazionali che la accompagnarono, Namier «cominciò a trovare contraddizioni nel programma dei socialisti dell’Europa orientale. Essi predicavano da un lato l’autodeterminazione come diritto di ogni gruppo che aspirasse alla propria liberazione. Dall’altro, però, proclamavano anche l’universalismo (l’eguaglianza) di tutti i diseredati, una grande comunità di cui si postulava l’identità di aspirazioni». Certo, egli rimase fedele all’ideale originario del Partito socialista polacco di «completa eguaglianza delle nazionalità» (che avrebbero però dovuto accettare la guida polacca) e Piłsudski, il simbolo di una «nobiltà della spada che, spinta da motivi patriottici, si tuffava nell’azione rivoluzionaria sociale», continuò a essere l’eroe di un diciassettenne che sognava una nuova Polonia am  In 1848: vivaio di storia e in Nazionalità e Libertà, Namier avrebbe poi sostenuto che i movimenti politici (ma non le rivendicazioni sindacali) delle classi inferiori urbane erano contraddistinti da un programma più incoerente e confuso di quello dei movimenti agrari (il pensiero va qui immediatamente al Lenin che negava che gli operai potessero spontaneamente elaborare programmi politici coerenti). Quei movimenti, scrisse, «sono assai più articolati nella forma e negli scopi e perciò, se estesi e risoluti, solitamente hanno successo. Il villaggio è un organismo vivente e la sua coscienza comunitaria trascende altre fedeltà. E la richiesta dei contadini di essere sgravati da obblighi o di avere la terra dei nobili e della chiesa può essere accolta o imposta da un giorno all’altro. La debolezza dei movimenti agrari consiste di solito nel fatto che essi scoppiano sporadicamente, e perciò possono essere soffocati». Ma, aggiungeva, riferendosi al 1789 e al 1917, in alcune circostanze essi «diventano potentissimi e allora i gruppi o i partiti urbani vi innestano i loro programmi», come fece, appunto, Lenin. Col senno di poi, alla fine dell’epoca di grandi sconvolgimenti innescati in Europa da modernizzazione, guerre e rivoluzioni, si può constatare che effettivamente i villaggi hanno quasi ovunque imposto e conseguito i loro programmi (che poi i contadini abbiano preferito, dopo aver conquistato la terra, e non solo, «autoliquidarsi» urbanizzandosi è altra questione), mentre il socialismo urbano si è nei casi migliori, e per fortuna, trasformato nella pur grandiosa conquista di un insieme più o meno coerente di rivendicazioni sociali, il cui conseguimento è stato facilitato da condizioni demografiche eccezionalmente favorevoli. 13   Antonello Venturi ed altri amici mi pregano di scrivere «socialista nazionale» per non far confusione col nazionalsocialismo tedesco, ma data la preminenza in tutti i casi del momento nazionale su quello sociale il primo termine mi sembra più appropriato. Anche l’antitedesco partito ceco di Beneš si chiamava in origine národne# sociální e il fatto che nelle lingue slave le voci derivate dal termine narod possano indicare tanto il popolo quanto la nazione mi sembra una confusione significativa. 12

ministrata da «socialisti di fermi convincimenti liberali». Ma Namier si convinse allora che l’impero austro-ungarico, che rimase sempre al centro della sua riflessione, era condannato perché «troppi gruppi umani vi erano stati dispersi alla rinfusa su un’enorme area per troppo tempo». Ciascuno di essi voleva vivere, pensare, parlare, cantare ecc. «nella sua amata, tradizionale e onorata maniera», e tutti avevano diritto alla loro terra14. Ma, cominciò a chiedersi Namier, come raggiungere questo obbiettivo laddove la stessa terra era considerata come propria da più gruppi? L’intuizione della contraddizione che fece da molla al meccanismo omicida della storia europea contemporanea venne quindi molto presto ma, come vedremo, essa fu sviluppata solo anni dopo, in Il Quarantotto, vivaio di storia (così è tradotto il seed-plot del titolo originario) e poi nella conferenza tenuta a Roma ai Lincei nel 1948 su Nazionalità e Libertà. Poco dopo il 1905 Namier lasciava la Galizia per andare a studiare prima a Losanna, con Pareto, e poi dal 1908 in Gran Bretagna, a Oxford. Confermando quasi visivamente la potente immagine di Halévy di una guerra che veniva in Europa da est, egli impressionò subito i suoi compagni parlando, come ha ricordato uno di essi, dell’odio per i tedeschi nell’Europa orientale e in Italia, delle ambizioni del militarismo germanico e dell’inevitabilità della guerra. Guerra?! Vivevo in un mondo che non aveva altra concezione della guerra se non quella di incresciosa avventura coloniale per militari di professione. Pensai che quel tipo stesse dicendo corbellerie15.

Quando la guerra invece scoppiò, Namier, ormai un cittadino inglese il cui socialismo, anche sotto l’influenza fabiana, stava evolvendo «verso l’aspirazione per un Welfare state sotto amministrazione Tory»16, trovò lavoro al Political Intelligence Department (Pid), fondato dopo la rivoluzione russa e aggregato al Foreign Office nell’aprile 1918. Con R.W. Seton-Watson egli ne formò il nucleo della Sezione per l’Europa centrale e orientale17, incontrandovi anche Arnold Toynbee. Sulla base dell’analisi dei conflitti tra turchi, armeni e greci in quel pezzo geograficamente non europeo dell’Europa plurilingue che era allora l’Anatolia, e forse sotto l’influenza di Namier, questi avrebbe presto elaborato i rudimenti delle categorie poi utilizzate nelle sue

  J. Namier, Namier, cit., pp. 41-2 ecc. Si trattava di verità che il Lenin del 1917 aveva ben compreso: per fare la rivoluzione occorreva dare la terra ai contadini e alle nazionalità, andando contro i precetti del marxismo. 15   J. Namier, Namier, cit., p. 83. 16   Ivi, p. 41. 17   Seton-Watson aveva da poco fondato «The New Europe». Cfr. H. e C. Seton-Watson, The Making of a New Europe. R.W. Seton-Watson and the last Years of Austria-Hungary, London, Methuen, 1981. Per i riflessi di quella esperienza in Italia cfr. «La voce dei popoli» (1918-19) di U. Zanotti Bianco, e L. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966. 14

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grandi riflessioni sulle modalità e le conseguenze degli scontri tra «civiltà» che hanno di recente conosciuto, in forma assai più rozza e schematica, tanta fortuna18. Al Pid Namier visse con passione gli eventi post bellici. La delusione per come i problemi dell’Europa centro-orientale vennero affrontati e risolti fu enorme. In primo piano vi era ai suoi occhi la grave ingiustizia fatta ai ruteni a favore dei polacchi in Galizia. Come ebbe poi a notare in From Vienna to Versailles, la «scomparsa» di Russia e Germania aveva aperto nel 1918-19 un vuoto che permise l’irrealistica risurrezione di un’almeno parziale «grande» Polonia che, come gli spiegò un diplomatico polacco, avanzava «notevoli e contraddittorie» rivendicazioni territoriali basandole «sul principio storico, corretto da quello linguistico ogni qual volta questo gioca a nostro favore» (come facevano del resto anche Sonnino e i nazionalisti italiani)19. Namier si scontrò allora col capo del nazionalismo integrale polacco, Dmowski, che lo accusò di essere un sostenitore di Trockij e, implicitamente, un ebreo20. Secondo alcune testimonianze, sembra che nel 1918 egli fosse giunto in effetti a pensare che il bolscevismo fosse un male minore dell’imperialismo polacco. Alla cosa non erano estranei da un lato la sua simpatia per la rivoluzione di febbraio, un giudizio poi almeno in parte trasferito sull’ottobre, e dall’altro, e soprattutto, la sua opinione positiva del ruolo, antitedesco e antipolacco, giocato dai russi, di cui non vedeva, o comunque sottovalutava, l’imperialismo, nell’Europa centro-orientale. I cedimenti a Dmowski da parte di Piłsudski (che era però costretto a giocare il gioco del primo, e non smise mai di odiarlo), distrussero il culto che Namier gli aveva fino ad allora tributato, mentre il suo schieramento spontaneo a fianco degli oppressi giunse fino a fargli comprendere, anche se non a giustificare, gli eccessi compiuti dagli ucraini durante la guerra polacca-ucraina per la Galizia del 1918-1919, inclusi quelli contro la tenuta della sua famiglia. Ai nazionalisti polacchi che lamentavano la barbarie ucraina, Namier rispondeva in privato sostenendo che un contadino in rivolta, e ridotto all’esasperazione non è delicato come il suo oppressore. Ma nessun numero di atrocità può privare una nazione del suo diritto all’indipendenza, né giustificare il suo essere posta sotto il tallone dei suoi peggiori nemici e persecutori,

che era quanto, sotto la guida francese, stavano facendo gli alleati dopo Versailles.

18   A.J. Toynbee, The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915-1916, London, Hodder, 1916 e Id., The Western Question in Greece and Turkey: A Study in the Contact of Civilizations, London, Constable, 1922. Cfr. anche T. Tagliaferri, Storia ecumenica. Materiali per lo studio dell’opera di Toynbee, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002. A Toynbee si rifà direttamente Huntington. 19   M. Baker, Lewis Namier and the Problem of Eastern Galicia, «Journal of Ukrainian Studies», 1995, 1-2. 20   Ibidem e J. Namier, Namier, cit., p. 136 ss.; H.W.N. Temperley (a cura di), A History of the Peace Conference of Paris, vol. 4, London, Hodder, 1921. Cfr. anche P. Latawski, The Dmowski-Namier Feud, «Polin», 1987, 2, pp. 37-49, e la sua successiva discussione con J. Giertych in «Polin», 1990, 5.

Per Namier, insomma, che proponeva la creazione di uno stato autonomo della Galizia orientale sotto l’egida della nascente Società delle Nazioni, «Cracovia [vale a dire la Polonia] non aveva più diritti di decidere del futuro della Galizia orientale di quanti ne avesse Venezia [cioè l’Italia del 1918-1919] di determinare quello del litorale jugoslavo». Per convincere il governo inglese ad agire diversamente egli arrivò ad agitare lo spauracchio di una Lituania e di una Bielorussia – «entrambe nazioni contadine» (un concetto che vale la pena di sottolineare) – sospinte dal filopolonismo alleato «in campo bolscevico»21. Più in generale, egli pensava che dopo la prima guerra mondiale, la cui opera era quindi in qualche modo incompiuta, «in sole tre regioni delle minoranze dominanti dal punto di vista sociale e culturale hanno mantenuto, o persino riguadagnato, la loro supremazia e i loro possessi»: i tedeschi in Slesia e Masuria, i polacchi, che erano addirittura riusciti a spingersi più a est del previsto, rimpiazzando grazie all’accordo coi sovietici la linea Curzon con quella concordata a Riga nel 1922, e gli italiani nell’Adriatico. «Tutti questi guadagni – avrebbe aggiunto nel secondo dopoguerra – sono stati spazzati via dalla Seconda guerra mondiale», alla cui fine «il processo che ha formato l’essenza della storia europea sin dalla rivoluzione francese [raggiunse] il suo termine» (parole che poté pronunciare proprio perché mal comprendeva il problema russo e non vedeva quello serbo)22. Nel primo dopoguerra egli era invece arrivato, su queste basi, a due conclusioni fortemente profetiche. La prima, espressa in una lettera al vice capo del Pid, riguardava la Polonia. Il problema era per lui impedire alla presente leva di politici polacchi di costruire una Polonia che renderà un’altra guerra inevitabile. E se [la Polonia] con l’aiuto dei suoi amici devoti riuscisse ad ottenere parti della Bielorussia o della Galizia orientale [l’Ucraina occidentale], quella guerra verrà e la Polonia sarà di nuovo distrutta.

Questo anche perché, come scrisse altrove, una nazione di 20 milioni, che per di più conteneva, come riportò nel novembre 1919, un irredentismo ostile pari a circa un terzo della sua popolazione, non poteva durare a lungo tra Russia e Germania, «ostile a entrambe»23. Da ciò Namier derivava la debolezza intrinseca della nuova Polonia e in generale quella di tutti gli stati «di nazionalità mista» alleati della Francia. Nel gioco diplomatico delle alleanze tra «numeri pari e dispari», basato sull’inimicizia di ciascuno verso il suo vicino, Russia e Italia (a causa della Jugoslavia) venivano inoltre, osservò poi in From Vienna to Versailles, lasciati ai tedeschi, con conseguenze

  M. Baker, Lewis Namier, cit., e J. Namier, Namier, cit., pp.139 e 144.   L. Namier, Fattori fondamentali della storia europea nel secolo XIX, in L.B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali, cit., pp. 208-9. 23   J. Namier, Namier, cit., pp.137-39, e M. Baker, Lewis Namier, cit. 21 22

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disastrose. Il ruolo della Polonia in generale, e quello dei confini polacchi a oriente (anche la sistemazione di quelli a occidente era carica di problemi terribili), erano forse qui esagerati, ma le previsioni di Namier dovevano rivelarsi sostanzialmente corrette. La seconda conclusione riguardava le regioni contese tra polacchi e ucraini. Mentre stava per essere firmato il Trattato di Versailles, Namier scriveva che «l’ultima decisione della Conferenza di pace prepara giorni terribili. I massacri in Macedonia sembreranno poca cosa rispetto a quelli che verranno in Galizia orientale», dove infatti arrivarono, terribili, nel 1943-45, anche se sono stati per decenni nascosti dall’ombra proiettata su di loro dallo scontro sovietico-tedesco24. La delusione causata dai trattati di pace e dal fiorire di nazionalismo, bolscevismo e fascismo ebbe un peso decisivo nello spingere Namier a intraprendere gli studi sul Settecento inglese che lo resero famoso. Fu infatti l’antiparlamentarismo che trionfava sul continente a provocare in Namier «un aumento dell’entusiasmo per la Madre dei Parlamenti» che lo convinse a trasformare, dopo il 1924, il già immaginato libro sulla rinascita dell’impero britannico dopo la crisi americana in un grande progetto sulla nascita e gli sviluppi del parlamentarismo inglese. Namier voleva capire perché, se era vero che «il governo parlamentare è stato provato in ogni paese del continente europeo e praticamente dappertutto ha fatto fallimento», in Gran Bretagna questo non era successo. La sua ipotesi era che ciò fosse dovuto all’essere quella inglese una crescita organica (e le «contraffazioni della creazione organica non funzionano»), che si riproponeva di ricostruire seguendone appunto la storia25. Anche la principale occupazione «professionale» del Namier storico è quindi in realtà il frutto della sua reazione a vicende contemporanee, e quelli che sono stati criticati come lavori «anti-ideologici» e aridamente strutturali hanno, come tutta la grande storia, radici in una originaria, e forte, motivazione ideale (è interessante a questo proposito il parallelo col Venturi che riprende, dopo il soggiorno in Urss e dopo il Populismo, il suo progetto su un Illuminismo che non è però più quello socialista, religioso e comunista degli anni Trenta e Quaranta, ma quello razionale e in parte riformista – epperò non per questo meno radicale – della grande opera successiva)26. Molto presto le ricerche sulle origini del parlamentarismo, che erano al tempo stesso un rifugio dalle vicende europee e un tentativo di rispondere ad esse, furono interrotte dal progressivo aggravarsi della crisi sul continente. La goccia che fece tra-

24   M. Baker, Lewis Namier, cit.; T. Snyder, Il problema ucraino: la pulizia etnica in Polonia, in M. Buttino (a cura di), In fuga, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2001, pp. 49-81; Id., Reconstruction of Nations e Id., The Causes of Ukrainian-Polish Ethnic Cleansing, 1943, «Past and Present», 2003, 179, pp. 197-234. 25   J. Namier, Namier, cit., p. 186. Il primo dei volumi del progetto uscì nel 1928. 26   Cfr. il mio Nazione, socialismo e cosmopolitismo. L’Unione sovietica nell’evoluzione di Franco Venturi, di prossima pubblicazione sugli Annali della Fondazione Feltrinelli.

boccare il vaso fu l’avvento di Hitler al potere27, che diede il via all’impegno sionista di Namier a fianco di Weizmann, un impegno illuminato, come sempre, da straordinarie intuizioni, come questa, del 1934, sui rapporti tra l’antisemitismo, le classi sociali e il comunismo, che va letta pensando alla grande ondata «antisionista» che avrebbe spazzato l’Unione sovietica dopo la guerra: Quando le classi medie del continente divennero antisemite alcuni ebrei appuntarono le loro speranze sul socialismo, definendo l’antisemitismo un fenomeno borghese, come prima l’avevano detto superstizione clericale o feudale. Ma non vi è motivo per cui non possa nascere un comunismo ultranazionalista e antisemita. Il capitalismo, col suo individualismo e la sua richiesta originaria di libertà economica, era internazionale. Il comunismo, che mira a nazionalizzare l’economia, è sostanzialmente nazionale, e il suo internazionalismo probabilmente scomparirà come quello della rivoluzione francese. E allora guai a colui che verrà considerato straniero nella comunità socialista! Diverrà quello che il déclassé è nella Russia bolscevica28.

Nel 1937 Namier decideva così di tornare alla «storia europea contemporanea», progettando di scrivere quel libro di cui stese solo quelli che ho definito frammenti grandiosi. Tra essi prenderò in considerazione due saggi d’interpretazione generale29, due «applicazioni» di questa interpretazione al 184830 e uno studio che si presenta come una via di mezzo tra l’interpretazione generale e lo studio del 184831. Entrambe le due «applicazioni» nacquero come conferenze. La prima, che ebbe grande successo, fu tenuta in occasione della sua elezione alla British Academy ed è il pezzo più compiuto del libro mai scritto. La seconda, tenuta a Roma ai Lincei, e di ispirazione «tocquevilliana», gli offrì il destro per «portare l’Italia nel [suo] lavoro sul 1848». Dopo aver notato come «Mazzini e Cavour avevano combattuto sotto la stessa bandiera dei loro contemporanei francesi, tedeschi e slavi, ma in maniera italiana, corrispondente al retroterra che gli era proprio», Namier vi affrontava con coraggio, davanti a un pubblico italiano (ma pare riuscisse a parlare per soli 15 minuti a causa delle lungaggini degli accademici che l’avevano preceduto32), il problema delle peri-

  Già nel 1931, però, la sua prima raccolta di saggi, Skyscrapers, conteneva titoli come The European situation, Germans and Russia, Trotsky, The Austrian revolution, President Masaryk, Zionism, The peasant and the state ecc. 28   L.B. Namier, In the Margins, cit., p. 76. Cfr. N. Rose, Lewis Namier and Zionism, Oxford, Clarendon Press, 1980. 29   From Vienna to Versailles, (1940), in L.B. Namier, Conflicts, cit., e L. Namier, Fattori fondamentali della storia europea nel secolo XIX, (1952), in L.B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali, cit., una riconsiderazione del primo saggio, viziata da un forte filorussismo, alla luce di guerra e dopoguerra. 30   Il saggio sul 1848 come rivoluzione degli intellettuali, del luglio 1944, e quindi scritto sotto la potente impressione del cupo e tragico crollo di quel nazionalismo tedesco le cui prime manifestazioni si proponeva di discutere, e Nazionalità e Libertà, del gennaio 1948. 31   L.B. Namier, Il Quarantotto, vivaio di storia, anch’esso del 1948. 32   J. Namier, Namier, cit., p. 275. 27

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colose ambiguità di Mazzini, al quale pure Namier riconosceva grandezza, dirittura morale e fede nella libertà, e del suo lascito. Fu quindi probabilmente a seguito di questa seconda conferenza che i lavori e le ipotesi di Namier arrivarono in Italia soprattutto come lavori e ipotesi sul 1848, una «distorsione» poi rafforzata dalla pubblicazione de La rivoluzione degli intellettuali, che fu probabilmente Venturi a far uscire da Einaudi nel 1957, una scelta eterodossa per il principe degli editori «progressisti» che si ritrovava con il libro di un «conservatore» (anche se di tipo assai strano), vicino a Churchill, dichiaratamente anticomunista e critico dell’unione tra comunismo e nazionalismo33. Nel nostro paese, dunque, il tentativo di Namier di dar conto delle linee essenziali della storia europea degli ultimi due secoli è rimasto a lungo sostanzialmente ignorato. Namier e la storia europea contemporanea

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Questa storia era per il Namier di fine anni Trenta scandita da quattro date – 17891815-1848-1919 – delle quali il 1848 era il perno e alle quali egli avrebbe poi aggiunto il 1945 e noi dovremmo aggiungere il 1989-1991. All’inizio egli appuntò il suo sguardo solo sulla sua prima parte, quel diciannovesimo secolo la cui scena, «nel tempo e nello spazio», giaceva per lui, come recitava il titolo che diede al suo saggio, «tra Vienna e Versailles»: Il secolo si aprì nel 1815 e si chiuse nel 1919, e l’Europa si estendeva dai porti della Manica alle frontiere occidentali della Russia e della Turchia. La Gran Bretagna e la Russia erano in Europa, ma non le appartenevano, e tra il 1815 e il 1914 intervennero nei conflitti europei solo quando la Turchia era coinvolta, una potenza asiatica che occupava nel Mediterraneo orientale la posizione chiave tra tre continenti.

L’esclusione da questa scena della Russia che con la spartizione della Polonia vi era entrata eccome, e quella della stessa «Turchia», data la presenza ottomana nei Balcani, erano poco convincenti. Ma il parallelo tra quelli che definiva gli stati delle «estremità» – Gran Bretagna, Spagna, Portogallo e Russia – che si erano costruiti degli imperi con popolazione bianca fuori d’Europa, era acuto, anche se scordava che quello russo aveva importanti propaggini anche in quest’ultima. Acuta era anche l’osservazione relativa ad una Spagna che «nel 1815 aveva smesso di contare negli affari europei» e ne era quindi rimasta fuori, e soprattutto quella sulla presenza, all’interno di questa Europa, di un European Middle East, «quella fascia di piccole nazioni» che nel XIX secolo erano «ancora incagliate nella monarchia asburgica, nell’impero otto-

  Guido Franzinetti, che di Venturi è stato allievo, mi ha scritto: «sono certo che Venturi sia stato l’attore decisivo nella pubblicazione, non fosse altro che per l’articolo che poi compare in “Historiens”». Altri indizi mi spingono a ritenere egli abbia ragione. 33

mano e ai confini della Russia» (un’espressione, quest’ultima, invece davvero infelice, che faceva di Baltico, Bielorussia, Ucraina, ecc. delle semplici appendici di una Russia mai definita impero). Fu guardando a questo Middle East, che faceva coincidere grosso modo con quell’impero asburgico che conosceva così bene, che Namier ricavò alcune delle sue bellissime categorie interpretative. Lo fece già in From Vienna to Versailles, da cui sono tratte se non è indicato altrimenti le citazioni seguenti. La prima è quella sulle «ombre» che popolavano queste terre di mezzo: Tutte [ma sarebbe stato meglio dire «molte»] le nazionalità incagliate avevano, in qualche momento della loro storia, formato loro stati; e tutte ne conservavano la memoria, anche se solo alcune mantenevano le basi sociali e le disposizioni intellettuali [vale a dire nobiltà, borghesia, intellettuali, città] di un’esistenza politica indipendente. I contorni di numerosi stati e imperi defunti proiettavano la loro ombra sulla mappa dell’Europa centro-orientale, tagliando le frontiere esistenti e intersecandosi tra loro: gli eredi di quelle memorie, e di quelle tradizioni, cercavano di soffiare nuova vita e nuovo contenuto nelle antiche forme. Due di questi antichi stati, Polonia e Ungheria, erano solo semi-sommersi; e anche se semi-sommersi polacchi e ungheresi continuavano a rivendicare il dominio politico su territori abitati da popolazioni loro aliene, rimaste socialmente e economicamente loro soggiogate.

In particolare, il dominion polacco, da poco distrutto politicamente nelle spartizioni, «sopravviveva nella totale supremazia sociale ed economica delle classi superiori polacche sui loro servi contadini». Namier poi aggiungeva che «il dominio della Polonia su queste regioni era stato forse la causa principale della sua caduta» (basti pensare alla crisi aperta a metà diciassettesimo secolo dalla grande rivolta ucraina), e che «le rivendicazioni polacche per il suo ripristino, fatte con appassionata insistenza» erano «il più grande ostacolo alla resurrezione della Polonia» (si scordavano così le truppe russe, austriache e tedesche, ma la cosa era profondamente vera, come avrebbero capito i migliori intellettuali polacchi in esilio nel secondo dopoguerra34). Queste ombre, proprio perché fatte di storia non dimenticata, avevano potenti riflessi sull’immagine che del continente si facevano le élite europee, e quindi sulla loro cultura. Namier notava infatti come una mappa del suo Middle East europeo (che escludeva Balcani e Europa orientale vera e propria) fatta nel 1815 e basata sulla lingua delle sue classi medie e superiori avrebbe avuto solo quattro colori. Le province baltiche, l’intera Prussia orientale, la Slesia, la Boemia e la Moravia, e le province slovene sarebbero state considerate tedesche; il litorale adriatico italiano; Lituania, Latgalia

  Cfr. per esempio quel che scrive T. Snyder sul ruolo della rivista «Kultura» nel suo Reconstruction of Nations, cit. 34

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[una parte della Lettonia], la Bielorussia e l’Ucraina occidentale, Galizia orientale inclusa, polacche; e tutta l’Ungheria [vale a dire la corona di Santo Stefano che andava dalla Croazia alla Slovacchia e alla Transilvania] magiara.

Quest’osservazione serviva a Namier per introdurre un secondo interessantissimo concetto, che è anche una nuova, potente immagine, quello delle «reti»: queste quattro nazioni, scriveva, avevano gettato nel corso del tempo sui territori vicini [...] le maglie di una rete frammista a brandelli di tessuto compatto; ogni conquista era stata accompagnata da una certa misura di colonizzazione integrale, che aveva seguito le linee di minor resistenza o di maggior vantaggio economico, e aveva lasciato frontiere frammentate e nuclei di conquistatori dispersi tra la popolazione soggiogata [come si propose di fare Hitler in pieno XX secolo].

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Le conquiste erano state quindi, sottolineava Namier, «incomplete», vale a dire produttrici di disomogeneità religiosa, linguistica e culturale, e da qui discendevano molti dei problemi di frontiera in Europa (Mises avrebbe opportunamente aggiunto che esse avevano anche lasciato una forte impronta nel ritardo dello sviluppo socioeconomico e non solo in quello dello sviluppo nazionale e statale). Il fenomeno aveva toccato anche l’Europa occidentale, ma qui le conquiste erano finite prima e «l’occidente romanizzato, e cristianizzato, era stato il primo a solidificarsi di nuovo in nazioni organizzate». A est invece le conquiste non erano mai cessate dacché, secondo Namier, era cambiato in Europa il segno di migrazioni che, dopo essere state a lungo dirette da est verso ovest, si erano poi rovesciate in direzione contraria, trovando nel Drang nach Osten tedesco – ma Namier pensava anche a polacchi, «italiani» (cioè genovesi e veneziani) e, sia pure in modo diverso, agli ebrei – il loro nuovo simbolo (restavano quindi fuori dal quadro magiari, turchi, russi e serbi, che avevano premuto sull’Europa di mezzo da sud e da est). L’origine di questa spinta verso est Namier la ricostruì dapprima così: i francesi avevano premuto sui tedeschi sul Reno, i tedeschi su slavi occidentali e lituani, polacchi e lituani sulle «ramificazioni occidentali della nazione russa» (sic), i russi su finlandesi e mongoli, gli italiani sull’Adriatico e gli svedesi sul Baltico. In Fattori fondamentali, però, complicò e completò (ma non fino in fondo), questo quadro, trovando le radici delle «conquiste incomplete» in due movimenti: la già descritta «corrente migratoria principale» da ovest a est; e una seconda corrente rappresentata dalle «incursioni asiatiche» (ungheresi e poi turche), cui i tedeschi avevano fatto fronte nel bacino del Danubio, dando origine all’impero asburgico. I russi continuavano a restare sostanzialmente fuori dalla sua visione, che arrivava però a comprendere, sia pure fuggevolmente, i greci: un inglese educato nel 1815, notava ora Namier, avrebbe detto che l’Europa orientale era tedesca, polacca, ungherese, italiana nel litorale adriatico e greca per le «popolazioni cristiane della Turchia», anche se si affrettava poi a ripetere

che «solo quattro erano le nazioni che contavano», vale a dire tedeschi, polacchi, magiari e italiani, senza greci, turchi e russi35. La più importante di queste nazioni era per lui la tedesca, che regnava su gran parte dell’Europa attraverso «le dinastie e le burocrazie tedesche di Vienna, Berlino e San Pietroburgo», la cui corte avrebbe anche per questo incoraggiato gli insediamenti tedeschi nell’impero russo, una lista cui Namier avrebbe potuto aggiungere la casa reale inglese, quegli Hannover trasformatisi in Windsor durante la prima guerra mondiale, e le dinastie minori chiamate a regnare, a partire dalla Grecia, sui nuovi stati dell’Europa orientale36. Ma torniamo alle «conquiste incomplete», la terza, e forse la più profonda, delle grandi categorie nameriane. In From Vienna to Versailles esse erano definite così: Ogni conquista era integrale in alcune province, e parziale su aree molto più estese [...]. Nel caso di conquiste parziali, le classi superiori e la popolazione urbana erano di regola le prime a essere rimpiazzate o assimilate dai conquistatori, mentre le campagne mantenevano la loro originaria nazionalità.

Quindi, con un richiamo fulminante alla storia dell’Europa occidentale, che ne sottolineava la profonda e spesso dimenticata affinità con quella della parte meno conosciuta del continente, Namier aggiungeva: «Ogni Irlanda aveva il suo Ulster, le sue città del “Pale”, la sua nobiltà anglo-irlandese e i suoi villaggi che, se sopravvissuti, avrebbero sul lungo periodo avuto la meglio sulle altre classi» generando (grazie, aggiungerei, al boom demografico delle campagne) «una inarrestabile ondata di marea di ritorno»37 che complicò enormemente, rendendo di fatto impossibile, ma questa è una mia riflessione, quella «nazionalizzazione delle masse» già così difficile in Occidente. Per la stessa ragione in queste «Irlande» il contemporaneo processo di «nazionalizzazione dello stato» si trasformò in una feroce lotta contro le élite aliene: C’era stato un tempo – scrisse Namier – in cui i protestanti irlandesi sostenevano di essere la nazione irlandese; in cui per gli svedesi la Finlandia era svedese; in cui i tedeschi parlavano

  L.B. Namier, Fattori fondamentali, in Id., La rivoluzione degli intellettuali, cit., p. 206; E.M. Kulischer, Europe on the Move. War and Population Changes, 1917-47, New York, Columbia University Press, 1948, fu tra i primi a vedere il rovesciamento da est a ovest, iniziato in realtà già prima del 1914, delle ondate migratorie, un rovesciamento cominciato in Europa ma poi estesosi al Terzo mondo. 36   L.B. Namier, Nazionalità e Libertà, in L.B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali, p. 49. La «germanità» di buona parte delle case regnanti e della nobiltà europea fa pensare all’interpretazione della rivoluzione francese avanzata da Thierry. 37   È lecito chiedersi se questo è quanto sta succedendo oggi in forme e con esiti imprevedibili nelle grandi regioni dell’ovest colonizzate dagli statunitensi nel XIX secolo e oggi riconquistate dalla marea «latina» (ma in buona parte di origine india). Di sicuro è quanto si è già in larga parte compiuto in alcuni stati dell’America andina nei confronti delle minoranze dominanti di origine europea. 35

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del das deutsche Baltikum [e i russi, si potrebbe aggiungere, pensavano che gli ucraini fossero russi] ma questo tempo era ormai finito38.

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Il concetto fu poi approfondito in Fattori fondamentali, sottolineando con forza anche maggiore l’affinità con quanto era avvenuto, e in parte ancora avveniva, in un’Europa occidentale che aveva anch’essa più Irlande, dalla Catalogna, ai Paesi baschi, all’Alsazia-Lorena (ma la lista potrebbe allungarsi e su di essa sarebbe facile litigare). Namier parlava ora delle «numerose Irlande», tutte complete di «Ulster, proprietari terrieri e città aliene, o rese tali, rispetto a campagne che conservavano la loro lingua o la loro religione, o entrambe», «sparpagliate per tutta l’Europa». Dopo aver rimandato all’impatto dell’isolata Irlanda sulla storia inglese, egli chiedeva acutamente ai suoi lettori di riflettere sull’effetto che «due dozzine di Irlande non potevano non avere sulla vita dell’Europa dell’Ottocento come confini tra nazioni in conflitto, specie mentre si continuavano a fare tentativi per completare conquiste e conversioni», tentativi poi culminati nei grandi sforzi imperiali che hanno piagato il XX secolo europeo. In Fattori fondamentali, insomma, pur senza citare Mises, Namier diventava apertamente misesiano. «Nelle regioni plurilingui – scriveva – la delimitazione [nazionale] è un problema spinoso anche quando i gruppi nazionali si limitano a fronteggiarsi. Ma in Europa la commistione, non la giustapposizione, era la regola». La sua progressiva adesione ad una sofisticata interpretazione «materialistica» delle peculiarità dell’Europa orientale era segnalata anche dal peso accresciuto che assegnava, a ragione, alla questione della terra, scomparsa dal nostro orizzonte ma che fino a pochi decenni fa ha determinato la storia europea. Sempre in Fattori fondamentali egli sottolineava come i conflitti nazionali e religiosi si saldavano ai movimenti agrari, avvelenandosi a vicenda; si combatteva allo stesso tempo per la proprietà personale e nazionale della terra, e entrambi i contendenti sentivano di stare lottando per qualcosa di più dei propri interessi personali [...]. La minoranza dominante godeva inoltre, e invariabilmente, del sostegno del suo Ulster e della sua patria, anche in democrazia39.

Il terreno era ormai pronto per introdurre una quarta categoria di tipo binario, certo non originale (pensiamo ai popoli «con storia» e «senza storia» di Hegel), ma cui Namier dette nuova vita e significato: la sua Europa si popolava infatti di master nations che non erano folli sogni di nazionalisti di vario tipo e tabù inconfessabili per i democratici, ma concretissime realtà, e subject nations, o popoli contadini. Il problema dei popoli imperiali, e quello dei popoli da essi dominati, era così messo al   L.B. Namier, From Vienna to Versailles, in Id., Conflicts, cit., p. 8. Come mi ha fatto notare Franzinetti, Namier non teneva però presente che di «Irlande», in quella vera, ve n’erano due, il nord e il sud, molto diverse tra loro dal punto di vista della composizione della popolazione come da quello della struttura economica. 39   L.B. Namier, Fattori fondamentali, in Id., La rivoluzione degli intellettuali, cit., pp. 204-05. 38

centro della storia europea, l’imperialismo cessava di essere solo quello oltremare e la storia europea cessava di essere «altra» rispetto a quella coloniale (un’innovazione, questa, e una rottura, di straordinario valore euristico), anche se, ancora una volta, l’elenco dei popoli imperiali steso da Namier, che si riduceva alle solite quattro nazioni, era deludente per parzialità, incompletezza e staticità. Ma se l’elenco non convince, le conclusioni derivate da Namier sulla posizione dei suoi componenti non erano per questo meno acute. Questi popoli, notava, avevano ricevuto in eredità dai loro parziali successi del passato «delle proprietà insicure e pericolose, che però non si voleva assolutamente perdere». Come avrebbero dimostrato, e ancora dimostrano infiniti casi (pensiamo a quel che avviene da anni in Cecenia, o a quel che fanno oggi i sunniti in un Iraq di cui non accettano di perdere il possesso), era infatti difficilissimo, osservò in From Vienna per una nazione rinunciare a territori che si era abituata a considerare propri, e ciò era tanto più vero quanto più grande era la proporzione di questi territori sul totale di quelli nazionali, e quanto più vivo quel possesso era nelle idee politiche e sociali della «nazione politica» privilegiata. Gli italiani possedevano solo una stretta striscia al di là dei loro insediamenti etnici compatti. Il polipo tedesco estendeva un tentacolo lungo la costa baltica, un altro lungo l’Oder, e un terzo giù lungo il Danubio, dominando, permeando e circondando territori non tedeschi; ma, per quanto considerevole fosse l’estensione della conquista parziale tedesca (oltre la quale si estendeva un’area ancora più vasta di colonizzazione tedesca frammentaria), essa formava solo una frazione dei possedimenti territoriali tedeschi. In Ungheria, la parte del paese segnata da enclaves magiare o coperta da una sottile crosta ungherese eccedeva in area e popolazione quella caratterizzata dall’insediamento solidamente ungherese; a est della Polonia etnica, infine, l’aristocrazia e i proprietari terrieri polacchi coprivano un territorio circa due volte più esteso di essa, e con circa il doppio della sua popolazione.

Da una simile impostazione derivava una visione originale della storia europea che trovava nello scontro tra master nations e popoli contadini, e tra progetti imperiali, la chiave di volta interpretativa per il periodo successivo al 1789, e faceva del conflitto intorno a progetti rivali di costruzione statale (nazionale, imperiale, federale ecc.) il perno delle sue vicende: L’unione (o la separazione) in stati nazionali monolingui divenne nel diciannovesimo secolo l’obbiettivo politico delle classi istruite, e spesso di quelle malamente istruite, d’Europa – dei nazionalismi europei [...]Quali stati nazionali sarebbero dovuti sorgere nell’Europa centrale e centro-orientale, e con quali frontiere? – questo è stato il principale problema territoriale del diciannovesimo secolo.

Era un problema, aggiungeva, che sembrava essere stato chiuso dopo la grande guerra ma che «si è riaperto oggi», vale a dire agli inizi della seconda guerra mondiale, quando queste parole furono scritte.

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Da questo punto di vista, «i mutamenti consecutivi» della storia europea acquistavano secondo Namier, e la cosa mi sembra innegabile, «logica e ritmo». Su queste basi egli cercò di tracciarne, partendo dal 1815, una nuova cronologia che estese man mano dal 1914 al 1919, poi al 1940 e infine al 1945. Dei limiti del punto di partenza che aveva scelto era cosciente, ma non lo abbandonò mai. In Fattori fondamentali, dopo aver ripetuto che il diciannovesimo secolo della storia europea coincideva col 1815-1919, e ribadita la sua intenzione di «esaminare i motivi che possono essere individuati nel processo, apparentemente confuso, che ridisegnò la mappa d’Europa su base linguistica», si affrettava per esempio ad ammettere che «i problemi politici del continente europeo in questo diciannovesimo secolo erano stati posti dalla rivoluzione francese»40. Essa lo aveva fatto imponendo la transizione «dalla sovranità dinastica a quella nazionale» e il «progressivo allargamento della “nazione politica”» da cui «scaturirono i movimenti costituzionali e le rivendicazioni nazionali». Il concetto è ripetuto in Nazionalità e Libertà, dove si legge che l’ascesa attiva del nazionalismo moderno e di alcune delle sue più pericolose caratteristiche risale alla rivoluzione francese: un movimento di massa centralizzatore e livellatore, dinamico e spietato, affine in natura all’orda. 208

Fu allora, aggiungeva Namier, che si affermò il nazionalismo linguistico, coi suoi effetti dirompenti, e che l’idea della «sovranità del popolo non controllata dal passato diede vita a quella di una nazionalità indipendente dall’influenza politica della storia» (sono idee, notiamo, non troppo lontane da quelle di Metternich41). Ma se questo era vero, il «semenzaio» del secolo successivo era stato, appunto, il 1789, e il 1848 rappresentava piuttosto, con la disseminazione su scala europea e il coinvolgimento dei territori plurilingui, il momento della «pianificazione» dei decenni futuri. Questa disseminazione era naturalmente dovuta «all’impatto francese in Europa nei decenni rivoluzionari e napoleonici [che] fu il principale fattore politico del montare del nazionalismo»42, così come «il lavorio del periodo napoleonico, pur incompleto, e ribaltato» fu il punto di partenza dei nuovi movimenti che culminarono nel 1848, cui «pratica politica inglese e dottrina rivoluzionaria francese fornirono le piste di decollo». Ecco perché, aggiunse in 1848: Seed-Plot of History, la rivoluzione europea, quando venne, operò nell’area influenzata, e lavorata, da Napoleone, che aveva indebolito forme e lealtà tradizionali, raggruppato territori, introdotto l’amministra  Ivi, p. 203.   C. von Metternich, Memorie, a cura di F. Perfetti, Roma, Bonacci, 1991. 42   Cfr. anche H. Kohn, Napoleon and the Age of Nationalism, in Id., Reflections on Modern History, pp. 89111, Princeton, Princeton University Press, 1963. Di Kohn sono molto interessanti anche le memorie, Living in a World Revolution: My Encounters with History, New York, Trident Press, 1964. 40 41

zione moderna e familiarizzato milioni di persone col mutamento delle condizioni politiche e sociali – e le nuove idee sono lungi dall’essere potenti come le abitudini spezzate.

Ciò malgrado, Namier continuò a far partire il suo secolo dal 1815, e in From Vienna lo divise in tre periodi di quasi pari dimensioni che associò, a conferma di dove guardava il suo occhio, ai nomi assunti in rapida successione dall’impero asburgico: impero austriaco nel 1815, Austria-Ungheria nel 1867 e Successor States nel 1919. Ma se avesse usato i nomi della «Russia» si sarebbe ritrovato con un’altra storia, che da un lato si distaccava e dall’altro proseguiva quella da lui tracciata. Il primo periodo è il 1815-1848, fondato su un accordo conservatore favorevole agli Asburgo, sostenuto da Prussia e Russia in base alla comunanza degli interessi monarchici anti-rivoluzionari. Già al suo inizio, però, avrebbe notato in Fattori fondamentali, vi era un atto rivoluzionario: quel ritiro degli Asburgo dal Belgio e dal Reno, attraverso il quale «essi rifiutarono deliberatamente la responsabilità per la difesa della Germania», affidava infatti la Wacht am Rhein alla Prussia, fino al 1789 una potenza dell’Europa orientale, ma ora dotata di nuovi territori a ovest. Ciò, aggiungeva, «predeterminò l’esclusione finale dell’Austria dalla Germania e l’inclusione finale della Germania nella Prussica». Il secondo è il 1848-1878, aperto dall’annus mirabilis in cui «emerse l’illusione delle infinite possibilità» e venne posto il problema degli stati nazionali che, nota Namier, fu prima discusso nei termini delle master nations, che proposero le loro soluzioni prima che l’estensione del boom demografico, la modernizzazione e l’urbanizzazione non cambiassero le carte in tavola. Grazie anche all’ingenuo avventurismo di Napoleone III43, nel 1870 italiani, tedeschi e ungheresi avevano realizzato l’essenza dei loro programmi nazionali, e lo stesso si poteva dire per i polacchi della Galizia. Ma nel 1848 tutti i popoli fecero piani: uno spirito creativo sembrò allora aleggiare sul caos, pronto a dar vita a mondi nuovi. È difficile trovare un problema emerso in Europa nei settant’anni successivi, o una soluzione poi sperimentata o attuata, che non fosse adombrata in quell’anno di fervore, e fallimento, politico.

E se all’inizio sembrò che la tempesta passasse, lasciando inalterate le frontiere, presto tutto cominciò a cambiare: nei trent’anni successivi i mutamenti nella carta politica europea furono enormi, prima per iniziativa della Francia (con la guerra del 1859-60), poi della Prussia e infine della Russia, con la pressione da essa esercitata sulla disgregazione ottomana.

  Benché gliene fossero fatte notare le conseguenze, vale a dire l’unificazione di due stati che avrebbero grandemente ridotto l’influenza della Francia, Napoleone III preferì seguire il suo illustre antenato e colpire l’Austria, la potenza che teneva a freno Piemonte e Prussia, garantendo quella frammentazione di cui la Francia si giovava. 43

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In Seed-Plot Namier avrebbe poi aggiunto delle riflessioni interessanti sul problema austro-tedesco: «Lo schema dell’esistenza dell’Austria – scrisse – diviene evidente nel 1848, anche se ci volle del tempo prima che fosse individuato e ne fossero tirate le conseguenze». Vi erano quattro nazionalità dominanti, le cui classi medie e superiori coprivano anche i territori delle subject races: tedeschi, italiani, ungheresi e polacchi. Essi chiedevano, rispettivamente, una Germania unita, un’Italia unita, un’Ungheria indipendente e una Polonia riunificata, includendo nelle loro richieste tutti i territori delle subject races che abitavano la monarchia.

Il loro programma implicava quindi la distruzione di quest’ultima, che lo avversava, come lo avversavano quelli tra i tedeschi d’Austria che si sentivano più austriaci che tedeschi. Anche le subject races desideravano l’unità e l’indipendenza nazionale, ma preferivano il dominio degli a-nazionali Asburgo a quello delle loro master races.

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Di qui il noto fenomeno dell’austro-slavismo, che Namier però, e mi sembra a ragione, giudicava un programma temporaneo e di ripiego. Nel 1867, alla fine della crisi, la soluzione trovata fu quella di un’alleanza della monarchia con gli austro-tedeschi, favorevoli a loro volta ad una stretta alleanza con gli altri tedeschi che servisse da sostegno al loro predominio nell’impero, gli ungheresi e i polacchi. Questo anche perché un’antica dinastia non può allearsi permanentemente con i contadini contro i signori. Nel 184849 le nazioni contadine avevano sostenuto la dinastia; nel 1867 esse furono da essa abbandonate alle loro dominant races. Nel 1866-67 i programmi tedeschi, italiani e ungheresi del 1848 erano quindi realizzati, ancorché in forma modificata, e realizzato era anche quello polacco, nei limiti in cui questo era possibile all’interno dei confini della solo monarchia asburgica.

Nei Fattori fondamentali Namier avrebbe poi aggiunto che quando nel 1867 Francesco Giuseppe scelse le tre nazionalità dominanti, egli costruì meglio di quanto credesse [...]. Ciascuna di queste tre nazioni [tedeschi, magiari e polacchi] era pronta a combattere per ogni pollice del territorio che considerava suo, mentre, insieme, i loro territori coprivano l’intera monarchia. Una tale comunanza di interessi tra la dinastia e le subject races sarebbe stata impossibile.

Si spiega anche così – ci si potrebbe domandare – la prova di vitalità data dall’impero nel 1914-1918, quando resse per cinque anni alla tempesta? Certo è che la sua fine coincise con l’affermazione delle subject races dei tedeschi e degli ungheresi cui sarebbe seguita nel 1939-45 quella degli jugoslavi e dei ruteni «delle sfere d’influenza

italiana e polacca. Ogni idea avanzata dalle nazionalità dell’impero asburgico fu così realizzata, in una forma o nell’altra, in qualche particolare congiuntura storica». In Seed-Plot Namier avrebbe notato che anche i tedeschi «provarono» nel secolo successivo ad attuare tutti i programmi del 1848: il primo di essi, quello gross-deutsch, fu imposto da Schwarzenberg nel 1850 dopo l’umiliazione dei prussiani nel trattato di Olmütz. Venne poi la volta di Bismarck e del suo klein-deutsch a guida prussiana (per Namier in effetti più un programma di greater Prussia che non vero klein-deutsch), seguito dal tentativo democratico con Weimar. Nel 1938-39, infine, Hitler, dopo aver realizzato in modo nuovo il programma gross-deutsch, si lanciò in quello pan-tedesco, spalancando le porte alla catastrofe. Ma torniamo a From Vienna, e al terzo periodo del diciannovesimo secolo tratteggiato da Namier, quel 1878-1914 contrassegnato da una «calma relativa» e dalla ricostituzione, attorno a Bismarck, del concerto europeo. Esso fu però sottoposto alla pressioni delle periodiche riaperture della «questione d’oriente», ogni volta seguite, come aveva previsto Mazzini, da quelle del problema austro-ungarico. La questione d’oriente sarebbe poi esplosa nel 1908-1911, ma sarebbe forse più giusto dire con Halévy che questo terzo periodo terminò nel 1905, che segnò anche la prima deflagrazione dei conflitti da modernizzazione e colonizzazione. Alla sua fine, con la grande guerra, venne la rinascita della Polonia che Namier, ribadendo il suo antipolonismo in parte giustificato, ma cieco di fronte al problema russo, imputava non ai suoi sforzi e alle sue vittorie, ma alla sconfitta di Germania e Russia [...]. Guidata da ricordi storici e attratta dalla riconquista di proprietà di dubbia origine, essa si lanciò [come la Grecia verrebbe da aggiungere, e certi circoli italiani] in politiche ignobili e folli avventure senza che alcuna Grande potenza si assumesse la responsabilità di guidarla con fermezza. Questo perché la posizione della Francia, che a Versailles sembrò ancora una volta presiedere sui destini d’Europa, aveva nel corso del secolo precedente subito un mutamento profondo.

Iniziava così un nuovo periodo nella storia d’Europa, aperto dalla grande guerra e cui il 1945 avrebbe posto in buona parte, ma non del tutto come arrivò a pensare Namier, termine. Alla fine degli Trenta, ancora una volta in From Vienna, questi provò a gettare lo sguardo anche su di esso, vale a dire sul XX secolo europeo. Già nel 1919, notava, «il dominio delle dinastie e dell’imperialismo delle “master nations” era morto», anche se – aggiungo io – perché esse lo capissero davvero ci volle la disastrosa sconfitta degli ultimi folli tentativi di re-imporlo, in pieno svolgimento mentre Namier scriveva e di cui egli immaginò con preveggenza il tragico e durissimo settlement. Lo poté fare perché capì che se era vero che nel 1919 tale dominio era, appunto, morto, «il principio di nazionalità era stato allora sì adottato, ma non portato alle sue logiche conclusioni». Come avrebbe poi scritto in Nazionalità e Libertà che è,

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ricordiamolo, del 1948, e cioè dell’anno in cui quel settlement era ormai già una realtà incarnata da milioni di persone in fuga, oltre che da milioni di morti, il 1919-24 aveva così fatto da ponte tra il 1848 e il 1948, quando i problemi erano giunti a soluzione (ma non in Urss e in Jugoslavia). In From Vienna, prima che quella soluzione arrivasse, Namier aveva profeticamente osservato che trasferimenti di popolazione portati avanti in maniera ragionevole [...] dovranno costituire la base delle future sistemazioni. Se l’identità nazionale dell’orda migrante [il richiamo, sprezzante, è alle teorie tedesche, e continentali, della nazionalità] deve essere ripristinata, le orde dovranno migrare un’altra volta [il corsivo è mio].

Namier giustificava così quel che poi Churchill, Roosevelt e Stalin avrebbero lasciato fare, e il terzo fatto, in modo tutt’altro che «ragionevole». I «barbari» europei, incapaci come gli avevano mostrato gli studi sul Settecento inglese di creare organicamente parlamentarismo e nazione territoriale, ebbero così quel che meritavano44. Namier che, come vedremo, non ne fu affatto contento, avrebbe aggiunto nel 1947 alle sue riflessioni sulla storia europea un’ulteriore, rassegnata, considerazione:

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Il secolo che si è chiuso è quello del predominio tedesco in Europa, e l’era che si è chiusa è quella del predominio europeo nel mondo. Il 1848 di Namier

Per Namier dunque il 1848 era al centro della storia del diciannovesimo secolo, il momento in cui il suo futuro svolgimento venne tracciato, la radice degli eventi del 1919 e del 1944-48. Come Croce prima di lui, e forse con più nettezza, egli individuava i suoi elementi costitutivi – combinatisi poi in diversa misura a seconda della situazione, vale a dire della storia, delle diverse grandi regioni europee – nelle rivoluzioni sociali, costituzionali e nazionali (anche da questo punto di vista, quindi, il 1848 diede sì il programma alla storia europea successiva, ma lo fece riprendendo l’égalité, la liberté e la fraternité del 1789). Significativamente, Namier partiva dal memorandum preparato da Palacký per i membri cechi al parlamento austriaco sulla politica da seguire nel 1848-49, dove appunto questi invitava a distinguere nella rivoluzione «gli elementi sociali, politici e nazionali» per definirne i rapporti (la loro diversa ibridazione avrebbe determinato la storia dei decenni successivi nei vari paese). Al centro del suo 1848 Namier poneva così subito il rapporto tra tedeschi e slavi nelle sue due varianti, la prussiana e l’au-

  Sulle migrazioni forzate cfr. l’ottima panoramica in due puntate di A. Ferrara, Esodi, deportazioni e stermini. La «guerra-rivoluzione europea» (1912-1939), «Contemporanea», 2006, 3 e Id., Esodi, deportazioni e stermini. La «guerra-rivoluzione europea»(1939-1953), «Contemporanea», 2006, 4. 44

striaca, cui si affrettava ad aggiungere quello tra polacchi e ruteni, dando, nelle pagine sui rapporti tra tedeschi e polacchi nel 1848 e sui loro riflessi, anche ideologici, sul Preparlamento45, la più bella dimostrazione della giustezza delle teorie esposte da Mises 25 anni prima in Stato, nazione ed economia, della cui lettura non vi è traccia negli scritti di Namier. Nel 1848 di Namier c’è dunque poco la Francia, presente solo come sfondo, e pochissimo la Gran Bretagna. Come sappiamo, l’Italia arriverà con la conferenza ai Lincei del 1948, e degli eventi dei Balcani vi è solo una labile, ancorché significativa, traccia: Villaggi vennero dati alle fiamme, e ci furono massacri di massa e atrocità di tipo ultra-moderno: gli ungheresi impiccarono i prigionieri di guerra, e i serbi li decapitarono, gli ungheresi impalarono i loro nemici, e i serbi li arrostirono vivi, gli ungheresi accecarono le spie, e i serbi tagliarono le loro lingue [mentre Kossuth ordinava misure selvagge contro i sassoni della Transilvania e pare] pianificasse lo sterminio completo dei serbi in Vojvodina46.

Soprattutto l’impero russo e quello ottomano rimasero sempre fuori dal quadro, una scelta comprensibile se ci si ferma al 1848 inteso come anno delle rivoluzioni, ma assai sbagliata se, come è giusto, si fa di esso il semenzaio della storia europea. Come abbiamo già osservato, per motivi più che comprensibili, per Namier la questione sociale era nel 1848 la questione della terra che in Seed-Plot avrebbe detto risolta in Francia, «confinata ad alcune grandi regioni» in Germania, e «acuta e generale» nell’impero asburgico. Qui, notò sulla scorta della sua esperienza in Galizia, essa prendeva forme peculiari che in Nazionalità e Libertà erano così definite: nei territori dove la nobiltà polacca e ungherese dominava contadini «alieni», «l’abisso scavato dal problema agrario era approfondito da differenze di lingua e religione» che rendevano difficilissima la formazione di una «nazionalità territoriale comune», possibile, ma non facile, solo dove nobiltà e contadini erano uniti da vincoli culturali e religiosi comuni. Dalla constatazione che quindi Polonia e Ungheria potevano reclamare «le loro frontiere storiche solo fintantoché le masse contadine non contavano politicamente» (si entrava così nel campo della questione costituzionale), Namier deduceva la conclusione che, una volta finita questa situazione (con l’inizio del processo di nazionalizzazione delle masse e di massificazione dello stato, aggiungeremmo oggi), il nazionalismo polacco e quello magiaro, che aspiravano all’eredità delle nazioni nobiliari, «erano condannati a contraddizioni e manovre senza speranza». Al cuore del 1848 vi era così per Namier un paradosso: le due nazioni giudicate

  L.B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali, cit., pp. 24, 69 ss.   Ivi, p. 111. L’assenza di questi conflitti in Italia, dove l’unico fenomeno ad essi sia pure lontanamente assimilabile è quello del brigantaggio post-unitario, è uno dei fattori che spiega la nostra difficoltà a capire quel che è successo nell’Europa centrale e orientale. 45 46

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allora i campioni di libertà e nazionalità, che potevano contare su un passato di «più piena e più libera vita politica» e quindi su «una coscienza civica e un patriottismo più forti di quelli della maggioranza delle nazioni continentali», e che lottavano contro i despoti della Santa Alleanza per ristabilire «comunità libere e indipendenti», erano però al tempo stesso – anche se pochissimi lo capivano – veri e propri «anacronismi sociali», che non potevano essere ricostruite su basi moderne nei confini desiderati a causa dell’emersione delle masse aliene su cui quelle comunità poggiavano. Questa verità, aggiungeva correttamente Namier, era del resto affiorata già nel 1845-46, quando i fermenti della nobiltà polacca in Galizia erano stati fermati dalle autorità asburgiche con lo spregiudicato ricorso ad una jacquerie che fece circa 2.000 vittime tra nobili polacchi sulla cui testa le autorità locali tedesche avevano messo un prezzo. Essa fu poi fermata tanto dal placarsi di quei fermenti quanto dai timori presto diffusisi tra i proprietari tedeschi, scioccati dagli attacchi ai latifondi dei loro «cugini» polacchi malgrado il cattivo sangue che correva tra loro. Nel 1848 la manovra fu ripetuta su larga scala, anche se in modo diverso. Già in From Vienna Namier aveva notato come gli Asburgo avessero allora «giocato le subject races contro le master nations» per arrivare poi a un condominio con queste ultime, a un impero ricostruito, come sappiamo, su base tedesco-magiaro-polacca. Nel 1944 egli approfondì la questione chiedendosi perché la questione agraria, vale a dire quella sociale, non fosse allora esplosa. La risposta stava, scrisse, nell’Atto di emancipazione approvato dal Parlamento di Vienna nel settembre 1848 e nelle politiche poi seguite dagli Asburgo vittoriosi: dopo il primo i contadini, che avevano ottenuto la libertà e parte della terra, persero ogni interesse nel Parlamento e nella rivoluzione, un interesse che non riprese quando la reazione rimangiò buona parte delle conquiste politiche rivoluzionarie. L’alleanza tra contadini e monarchia continuò infatti ancora per qualche anno, e nel febbraio 1850 il principe Windischgrätz poté vantare all’imperatore che «il più ardito comunista non ha ancora avuto il coraggio di domandare quel che Sua Maestà sta disponendo». Sempre nel 1850 i nobili polacchi accusarono Alexander Bach, il ministro degli interni di origine contadina, di essere un comunista per aver fatto abolire le corvée e autorizzato i contadini «a rimanere come proprietari sulle terre che avevano un tempo affittato da loro». Namier ci fa anche notare che nel marzo 1848 la classe dirigente «russa» aveva reagito alla minaccia di una crociata contro l’impero di tutti i paesi rivoluzionari (Francia, Germania, Austria e Ungheria) guidati dai polacchi pensando di ricorrere agli stessi strumenti: come Meyendorf aveva allora scritto a Nesselrode (i loro cognomi spiegano le virgolette che ho messe a «russa») sarà terribile, ma con l’aiuto di Dio ce la faremo, come nel 1812. La guerra però ci costerà cara e potrebbe essere necessario muovere le masse, chissà – forse anche con promesse, per strapparle alle mani del nemico.

La superiore capacità di manovra e intelligenza politica dei «reazionari» del 1848 rispetto ai rivoluzionari liberali e socialdemocratici russi che nel 1917 tergiversarono nell’affrontare la questione contadina aprendo così le porte all’azione di Lenin lascia davvero sorpresi, tanto più che almeno dal 1789 era conoscenza comune che, come ripeté un deputato polacco nel 1848, «una volta risolta la questione agraria, il contadino si trasforma in un conservatore, persino in un reazionario». La constatazione è senz’altro vera, ma solo nel campo dell’ideologia e dei comportamenti politici, visto che, come abbiamo poi imparato, se vi è libertà economica, quei contadini «conservatori» si auto-liquidano in pochissimo tempo con una rivoluzione fatta perseguendo i loro interessi attraverso emigrazione e urbanizzazione. Se insomma «il proletariato fu sconfitto a Parigi», «la monarchia asburgica comprò i suoi contadini». Quelle che Namier, non ostile alla rivoluzione sociale, riteneva le vere forze rivoluzionarie abbandonarono così il campo di una rivoluzione «finita prima di cominciare»47, campo che gli intellettuali occuparono senza trovare ostacoli (Namier forse sottovalutava qui il fatto che anche quelle nazionali, e non quelle sociali, sono «vere» rivoluzioni, ma la cosa nulla toglie all’acutezza della sua analisi). La questione divenne allora quella delle azioni e dei pensieri di questi intellettuali, su cui Namier puntò la sua attenzione, rivolgendosi prima alla Germania, nelle conferenze del 1944, e poi all’Italia in quella del 1948. Sappiamo già che il suo giudizio finale, e non a torto, fu estremamente negativo. Vediamo ora perché. In tutti i suoi saggi egli cominciava notando come all’inizio questi intellettuali riempissero la loro bocca e le aule dove si riunivano di inni alla libertà. Certo, come scrisse in Seed-Plot, in Germania nella triade Einheit, Freiheit und Macht l’accento fu posto sin dalle prime battute sul primo e sul terzo concetto. Persino alcuni repubblicani erano tali «essenzialmente» perché una repubblica poteva risolvere più facilmente il problema di che fare della «trentina di dinastie» presenti sul suolo tedesco e delle «rivendicazioni conflittuali» di Asburgo e Hohenzollern, che rappresentavano il più grande ostacolo all’unificazione (Namier notava giustamente come il programma originario del 1848 non fosse all’inizio né gross- né klein-deutsch, bensì pan-tedesco, introducendo implicitamente un parallelo con le future politiche hitleriane, basate, come abbiamo già visto, sull’uso del gross-deutsch come base per la realizzazione del sogno pan-tedesco). In generale però, come ribadirà in Nazionalità e Libertà, almeno all’inizio quegli intellettuali rivendicarono sinceramente e ingenuamente «libertà per gli individui e libertà per le nazioni», assumendo una connessione naturale e intrinseca tra le due «che si sarebbe realizzata – secondo le loro teorie – in una fratellanza pacifica di libere nazioni». Nessuno si preoccupava invece della «profonda antinomia», in condizioni date, tra quelle due libertà, di cui Namier aveva invece – forse in virtù del senno di   J. Joll, Introduzione a Namier, 1848, cit., p. x. Vale la pena di notare che, con tutto il suo anticomunismo, Namier adottava qui uno schema marxista classico. 47

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poi – piena coscienza, anche se a lungo non riuscì a spiegarsene e a spiegarne con chiarezza i motivi reali. Come ho già notato, solo in Fattori fondamentali emerge infatti una sua ferma adesione alle più convincenti teorie misesiane. Prima quella contraddizione era piuttosto spiegata facendo ricorso, sulla scorta di Acton e Tocqueville, all’antinomia tra nazionalità «territoriali» (Gran Bretagna e Svizzera, anche se sulla prima vi sarebbe molto da dire), formate organicamente dalla storia, dove la libertà «è meglio assicurata», e quelle definite come nazioni «essenzialmente linguistiche» (ma sarebbe stato meglio dire «etniche», visto che anche il nazionalismo inglese e quello statunitense riposano in fondo sulla lingua, una categoria che Namier usava quindi in maniera imprecisa). Fu appunto l’analisi della realtà in cui operavano queste nazioni che lo spinse alla fine su posizioni misesiane: visto che «solo raramente le nazioni vivono in segregazione linguistica» – scrisse – il principio linguistico di nazionalità non poteva che provarsi «distruttivo tanto della crescita costituzionale che della pace internazionale», trasformandosi «nel veicolo, e nella fonte, di passioni devastatrici». Pochi anni prima, in Nazionalità e Libertà, aveva già osservato che nel 1848 il nazionalismo linguistico, di cui non vedeva la differenza tra la variante «volontaristica» culturale, e quella «sangue e suolo», aveva trovato nel mito tedesco dell’orda barbarica «la forma più elevata di vita comunitaria» cui ispirarsi. Lo aveva tra l’altro fatto notando il ridicolo dell’auspicio espresso dal parlamento di Francoforte circa la presenza di una rappresentanza dei tedeschi residenti a Parigi, proposta poi abbandonata perché se ne riconobbe l’assurdità. 150 anni dopo sarebbe stato tuttavia possibile al parlamento italiano prendere quasi all’unanimità una decisione simile, fondata su una teoria anche più primitiva di cosa sia una nazione. E proprio al caso italiano è, come sappiamo, dedicato Nazionalità e Libertà, dove Namier ci presenta un Mazzini profeta puro e disinteressato, ma cieco, di quell’ingenuità che avrebbe trionfato nel 1848. Nel 1832, ci ricorda Namier, dopo aver definito la nazione come «l’universalità dei cittadini che parlano la stessa lingua», egli aveva infatti scritto che «l’unica idea oggi feconda e potente in Europa è l’idea della libertà nazionale: il culto del principio è cominciato». Certo, Mazzini «era un uomo di straordinaria integrità spirituale, e profondamente devoto alla causa», nonché apostolo di un «liberalismo davvero umanitario» in cui tanto la libertà, quanto l’individuo erano sacri, e dove la libertà era la condizione indispensabile alla vera moralità. Epperò, con coraggio dato che si rivolgeva a un pubblico di intellettuali italiani, molti dei quali avevano visto nella «marcia su Roma» di Mussolini la realizzazione di quella tante volte predicata e tentata da Mazzini e dai suoi seguaci48, Namier aggiungeva subito che anche in Mazzini non era diffi-

  Cfr. per esempio D. Grandi, Il mio paese, Bologna, Il Mulino, 1985.

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cile trovare i semi della degenerazione dei nazionalismi continentali. Questi germi non stavano tanto, come in Germania, nel primato assegnato alla forza, ma in quello proclamato dell’Italia, la grande nation di Mazzini e di tanti altri patrioti italiani misogalli. Mazzini – notava Namier – rivendicava per l’Italia una posizione di primazia nel mondo e le assegnava una missione eccezionale. C’erano per lui un «vuoto», un «bisogno» in Europa, nessuno dei cui popoli aveva «potere di iniziativa»: solo un’Italia «rigenerata» poteva dare cominciamento a vita e unità nuove e superiori tra di essi. Già due volte in passato, con l’impero e col papato, il mondo era stato unito da Roma. E la tradizione di quelle due epoche era testimonianza di una nuova missione: Perché non dovrebbe una nuova Roma, la Roma del popolo italiano [...] sorgere a creare una terza e ancor più vasta unità; a legare insieme e armonizzare terra e cielo, diritto e dovere; e a pronunciare, non per gli individui ma per i popoli, la grande parola Associazione...

La profezia assumeva qui toni che oggi paiono tragicomici, ma che erano comuni in un’epoca in cui, come ci ricorda Namier, Michelet poteva scrivere nel 1846 che «La patrie, ma patrie, peut seule sauver le monde», senza perdere per questo di credibilità. Ma affinché essa si realizzasse occorreva prima appunto la rigenerazione dell’Italia come nazione sovrana e indipendente di uomini liberi e eguali, possibile solo grazie a repubblica e unità «perché senza unità non v’è veramente nazione. Perché senza unità, non v’è forza [...]». Il primo passo per arrivarci era liberarsi dalla «nostra servile soggezione all’influenza francese», come se, osservava Namier, Mazzini non riuscisse nemmeno ad accorgersi di quanto il suo stesso programma, così ispirato al 1793, fosse figlio della grande nation originaria e dell’antifederalismo e del centralismo dei suoi rivoluzionari. Per Mazzini, egli aggiungeva, la Giovane Italia non era né una setta né un partito, come a volte si legge nei manuali italiani, se non in senso forse tecnico, bensì una fede e un apostolato. Sulla sua bandiera era scritto da un lato Libertà, eguaglianza, umanità e dall’altro Unità, indipendenza: Cosa chiediamo? – si domandava Mazzini nel 1832 – Noi chiediamo di esistere. Chiediamo un nome. Desideriamo rendere il nostro paese potente e rispettato, libero e felice... In altre parole, chiediamo indipendenza, unità e libertà, per noi stessi e per i nostri concittadini [...]. Tutti sono concordi nel grido Fuori lo straniero!

Notiamo che siamo qui di fronte alle origini, certo nobili e affatto volgari, di quello che è diventato poi il terribile slogan del nazionalismo «etnico» del ventesimo secolo: l’Italia agli italiani preconizzata dal Mazzini adoratore della libertà e della sacralità dell’individuo rimanda infatti alla Polonia ai polacchi, alla Turchia ai turchi, alla Serbia ai serbi o all’Ucraina agli ucraini nel cui nome tanto sangue è stato sparso. E non è un caso che molti dei passaggi del giuramento dei membri della Giovane

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Italia, citati da Namier, ci ricordino da vicino quelli poi adottati da tante organizzazioni, clandestine e non, ma sempre combattenti, del nazionalismo integrale, come quelli dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun) e della sua armata insurrezionale (Upa). In primo piano vi era la vergogna per le condizioni della patria – «Pel rossore ch’io sento in faccia ai cittadini dell’altre nazioni [...]» – un sentimento la cui potenza e trasversalità è difficile sopravvalutare. Namier citava a proposito quanto scritto da un nobile tedesco nel 1847: Una sola ragione d’insoddisfazione è universale in Germania, e ogni tedesco pensante la sente profondamente e dolorosamente. Si tratta della nullità (Nullität) della Germania di fronte agli altri stati, il sapere, quando ci si trova con cittadini di altri paesi, che io non ho diritti di cittadinanza, né paese, né bandiera nazionale [...]. [L’insoddisfazione nasce all’incrocio] tra la memoria della nostra passata grandezza, e il senso della nostra presente degradazione [...]49.

Mazzini naturalmente auspicava un futuro in cui tutte le nazioni, finalmente libere, avrebbero pacificamente convissuto. Per lui la libertà durevole poteva essere raggiunta e mantenuta in Europa soltanto da nazioni forti e compatte, equamente equilibrate in potenza, una profezia che Namier commentava con grande e sconsolata penetrazione e tristezza così: 218

Vi era qui una reale visione del futuro, ma non dei suoi pericoli, un elevato idealismo non immune però di elementi che avrebbero poi dominato i movimenti nazionalisti.

Ma se questo era persino il caso dell’Italia, eccezionale per la sua isolatezza e compatezza linguistica e culturale, e di un intellettuale devoto alla causa della libertà e dell’umanità come Mazzini, che succedeva dove il plurilinguismo era la regola, e l’amore per la libertà meno intenso? E in particolare, che successe al 1848 degli intellettuali, a partire dalla Germania?50 Namier notava come la contraddizione avesse cominciato a esplodere a Francoforte molto presto a causa del mancato invito al Preparlamento dei tedeschi di Posnania, provincia che i circoli liberali ritenevano ingiustamente strappata alla Polonia, e quindi polacca. La risentita reazione dei suoi tedeschi, seguita dall’invito a spedire una delegazione, suscitò le proteste polacche, dando il via a dibattiti in cui emerse «un aggressivo nazionalismo tedesco, improntato dall’elemento völkisch», specie – sottolinea Namier – nei discorsi di radicali e repubblicani e in quelli dei rappresentanti

49   Non sarebbe difficile trovare esempi in cui lo stesso sentimento spinse tanti giovani idealisti verso scelte opposte a quelle nazionalistiche. Penso al ruolo giocato dalla sconfitta russa del 1905 o dalle disfatte italiane del 1941-42 nel tramutare la vergogna nazionale in adesione ad un’ideologia formalmente antinazionale come il comunismo. 50   Da qui in poi le citazioni sono tratte, se non altrimenti dichiarato, da L.B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali, cit.

delle province dell’est (era forse il primo caso, o comunque il primo ben analizzato, di quella commistione tra radicalismo al centro e nazionalismo militante nelle periferie plurilingue che si sarebbe poi ripetuto tante volte nel corso dei decenni successivi, e che ha avuto l’ultima sua grande manifestazione nell’Urss del 1989-91 e soprattutto nella ex-Jugoslavia del 1989-1999)51. Alla fine di marzo, aggiungeva Namier, De Circourt, che non amava né i polacchi, né la rivoluzione, riportava da Berlino che l’emancipazione della Polonia prussiana era un dato di fatto: la sua popolazione tedesca era ormai «un mero accessorio e seguiva tremando» le indicazioni slave, mentre le truppe prussiane erano diventate una via di mezzo tra ostaggi e esercito straniero di occupazione in un paese controllato dai comitati polacchi (per uno storico dell’Urss come sono, il parallelo col Baltico dopo il 1989, ma anche l’Ucraina del 1917-19, risulta davvero impressionante, anche se naturalmente moltissime, e sostanziali, sono le differenze). Molto presto in Posnania, col favore dell’esercito prussiano, apparvero i primi Freikorps mentre tra i contadini polacchi si diffondeva la voce che «il Santo Padre ha autorizzato lo sterminio dei tedeschi e il saccheggio degli ebrei» (anche questa una reazione tipica: pensiamo per esempio ai contadini ucraini della Galizia che si proponevano invece di uccidere i signori polacchi o, in loro assenza, gli ebrei). Contemporaneamente, a Francoforte, un membro della sinistra dell’Assemblea nazionale, Wilhelm Jordan, respingeva la proposta di concedere qualche forma di autogoverno alla parte prevalentemente polacca della provincia di Posen [Wielkopolska fino al 1793 e oggi Poznan!52] chiedendo se era più giusto che mezzo milione di tedeschi vivessero sotto un governo tedesco e facessero parte di una grande confederazione tedesca, o se andavano relegati a una posizione subordinata, come sudditi stranieri di una nazione culturalmente meno sviluppata della loro (la convinzione della «superiorità culturale» tedesca fu a lungo un cliché della cultura europea, e la si ritrova per esempio ancora negli anni Venti nei peraltro acuti commenti del democratico Nitti ai trattati di pace del 1919). Secondo Jordan, infatti, «la preponderanza della razza germanica su gran parte di quelle slave, con la sola possibile eccezione di quella russa, è una realtà [...]. Il mero fatto di esistere non garantisce a un popolo il diritto all’indipendenza politica [che discende] solo dalla capacità di affermarsi come stato tra gli altri [stati]...», un’asserzione che, si può notare ripetendo quel che Metternich aveva visto con chiarezza ben

51   Penso al ruolo giocato allora dalle minoranze serbe in Vojvodina, Bosnia e Kosovo e da quello che stava sul punto di giocare una parte di quelle russe nel Baltico nel 1990-91, facile sponda di avventurieri politici a Mosca e Belgrado. I pericoli insiti nel rapporto tra speculazione sul nazionalismo al centro da parte di élite post-imperiali e minoranze ex imperiali sono stati di recente ricordati da E. Gajdar, l’ex primo ministro di El’cin, in Gibel’imperii [La perdita dell’impero], Moskva, Rosspen, 2006. 52   Almeno in questo caso fu quindi vero quanto gli ribatté un polacco riprendendo il famoso commento di Rousseau alla spartizione: «I polacchi sono stati inghiottiti, ma, per Dio, non sarà possibile digerirli».

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prima del 1848, aveva come corollario la guerra di tutti contro tutti. Jordan concludeva gridando «Libertà per tutti, ma il potere e il benessere della Patria soprattutto!», riempiendo di nuovo significato quel Deutschland über alles (1841) dove negli alles venivano ora comprese anche le idee di libertà. Ciò scatenò la reazione scandalizzata di John Stuart Mill, che fu, come vedremo, tra gli ispiratori della Realpolitik cui approdò Namier. Questi si convinse che solo la vittoria della reazione aveva salvato i democratici tedeschi dallo svelare il loro volto di oppressori, come sarebbe forse accaduto – aggiungo io – ai bolscevichi se nel 1918 avessero vinto i bianchi, cancellando con la sconfitta e la repressione le violenze che avevano già commesse (questo è stato il destino del breve governo sovietico ungherese di Béla Kun, il cui mito è stato salvato da una sconfitta che ha cancellato le tracce delle sue azioni). Quanto accadeva per la Posnania si ripeteva intanto nei Sudeti e tra i tedeschi dei Sudeti che risiedevano a Vienna, che reagirono, forse con ancora più violenza, al programma del movimento nazionale ceco. In Nazionalità e Libertà Namier notò che la tolleranza mostrata allora dagli Asburgo verso gli slavi spinse i tedeschi delle province boeme a vagheggiare la rottura con l’impero e l’unificazione delle sue regioni occidentali con la Germania, per poter così schiacciare il movimento nazionale ceco, un programma, aggiunge Namier, «apertamente sostenuto dal Parlamento di Francoforte». Quest’ultimo del resto si stava mostrando verso Trieste e il Trentino anche meno liberale che con la Posnania (dove ai due terzi di popolazione polacca fu alla fine riconosciuto il diritto a un quarto del territorio). Anche in questo caso furono i leader della sinistra a distinguersi, sostenendo, come fece Schuselka che «una grande nazione ha bisogno di spazio (Raum) per realizzare il suo destino universale (Weltberuf) e preferirei morire mille volte che, per esempio, rinunciare a Trieste solo perché vi si parla italiano», dichiarazioni che spinsero la piccola delegazione trentina a Francoforte (il Trentino aveva in parte votato, malgrado la contrarietà dei patrioti italiani) a ritirarsi scandalizzata. Anticipando il classico saggio di Rozdolski del 196453, ma ripetendo quel che avevano già notato prima di lui Mises e Drahomanov, Namier aggiungeva che in materia di questione nazionale gli intellettuali socialisti si erano allora comportati, se possibile, ancora peggio. A colpirlo nei dibattiti parlamentari e nella pubblicistica politica del 1848 era soprattutto l’insensibilità per i diritti delle masse di diversa nazionalità, «comprensibile in intellettuali delle classi medie», ma «ridicola quando ostentata da uomini che si professavano socialisti e predicavano la guerra di classe» (notiamo che Namier pensava qui non solo ai socialisti tedeschi, ma anche a quelli francesi che nel 1848 cantavano Vive la Pologne pensando ai suoi confini del 1772, benché i contadini   Cfr. ora R. Rosdolsky, Engels and the «Nonhistoric» Peoples: The National Question in the Revolution of 1848, a cura di J.-P. Himka, Glasgow, Critique Books, 1986. 53

ucraini avessero già dato prova del loro odio verso i signori polacchi. Alla lista sarebbe facilissimo aggiungere nuovi casi, come quello dei rivoluzionari russi, ebrei e polacchi di Kiev, nel 1917 ferocemente ostili alle richieste dei contadini ucraini)54. Nell’agosto 1848 persino Marx e Engels pensavano a una nuova Polonia espansa il più possibile verso est e nel Baltico a spese della «Russia» perché così, come scrisse Engels nel 1852, quella stessa Polonia sarebbe stata «più trattabile e ragionevole a occidente» coi tedeschi (egli anticipava così quel che realizzò Stalin, ma in direzione opposta, dopo il 1945, quando la Polonia venne «spostata» di circa 150 chilometri verso occidente). Ancora nel 1866 Engels, che sapeva benissimo dell’esistenza di ucraini e bielorussi, favoriva una grande Polonia non sulla base del principio di nazionalità, che avrebbe riguardato anche ucraini e bielorussi, ma del diritto delle «grandi nazioni europee [tra le quali, come ogni europeo colto e progressista, inseriva la Polonia] ad una vita nazionale separata e indipendente». Lo stesso Engels, che avrebbe però poi cambiato in parte idea studiando la questione irlandese, denunciava allora ogni «rivendicazione ad una tale vita» da parte «dei numerosi, piccoli relitti di popoli» e denunciava il «principio di nazionalità», osannato da Napoleone III, come «un’invenzione russa architettata per distruggere la Polonia». Qualche decennio dopo sarebbero stati i nazionalisti russi a definire il nazionalismo ucraino un’invenzione tedesca o polacca per distruggere la Russia. Per l’intanto però erano proprio i russi a soffiare, in senso antipolacco, sull’attività dei ruteni (gli ucraini della Galizia), ripetendo l’errore – dal punto di vista dei loro interessi di medio-lungo periodo – che stavano commettendo in quegli stessi anni in campo scientifico gli statistici tedeschi, grandi sostenitori del criterio della lingua come marker principale della nazionalità per strappare l’Alsazia e la Lorena ai francesi senza riflettere sulle conseguenze che ciò avrebbe avuto sui loro infinitamente più grandi possedimenti a est, dove il tedesco era la lingua di relativamente piccole élite e isole di insediamento contadino disperse in un mare slavo55. Ma torniamo a Namier, che concludeva acutamente il suo commento alle posizioni di Engels notando come questi «sembrava aver percepito la comunanza di interessi esistente, a proposito delle loro relazioni con le “subject races”, tra tedeschi, ungheresi, polacchi e turchi [i russi sono, al solito, assenti], ma anche aver dimenticato, o deliberatamente ignorato, il fatto che il dominio di questi Herrenvölker era basato sulla

  Giocava qui, direi, anche l’ignoranza della situazione di paesi lontani, assimilata acriticamente a quella di casa propria. La stessa radice ha di recente prodotto gravi errori analitici e politici in Iraq, trattato come un paese unitario malgrado si sapesse che era un insieme di territori plurilingui dominati da una minoranza. 55   J. Cadiot, Les réflexions de la communauté internationale statistique: la nationalité entre entité géographique et population démographique, parte I della sua tesi di dottorato, Id., La constitution des catégories nationales dans l’Empire russe et dans l’Union soviétique, 1897-1939, Paris, Ecole des Hautes Etudes, 2001; A. Desrosières, La politique des grands nombres. Histoire de la raison statistique, Paris, La Découverte, 2000. 54

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superiorità sociale» in quella larga parte d’Europa dove la piramide sociale spesso coincideva con quella linquistica e con quella religiosa56. Il suo giudizio sugli intellettuali del 1848, e soprattutto su quelli radicali, era quindi negativo non solo sul piano della coerenza, ma anche dal punto di vista della capacità analitica, e questo giudizio si estendeva all’intero annus mirabilis e ai suoi sviluppi, la cui colpa addossava appunto a loro e alle loro contraddittorie e ipocrite teorie: gli acidi nazionalismi basati sulla lingua e pieni di parole vuote sono stati prevalentemente il prodotto di intellettuali urbani di ceto medio [responsabili per Namier della crescita del tumore nazionalista che aveva precipitato il continente, a partire dal 1848] nella Grande Guerra Europea di ogni nazione contro il suo vicino [una guerra che, ricordiamolo, Namier stava giudicando in base alla terribile realtà del 1944].

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Avvicinandosi al giudizio di Metternich, che ne aveva visto le radici nel 1789, Namier arrivò a sostenenere che il vecchio ordine era più stabile di quello basato sulla sovranità popolare. Lo fece perché inorridito dalle conseguenze dell’affermazione di quella sovranità nei territori che Mises aveva definito plurilingui, dove l’ibridazione tra rivoluzione nazionale, rivoluzione sociale, democrazia e socialismo produceva frutti avvelenati. Ma, come quella di Metternich, la sua era in buona parte un’illusione ottica: ai loro inizi, prima di stabilizzarsi, le monarchie tradizionali erano state lacerate da conflitti altrettanto violenti di quelli che hanno attanagliato le nuove nazioni prima del completamento della loro «purificazione etnica», e comunque l’affermazione della sovranità popolare era un processo inevitabile, che non ci poteva quindi limitare a condannare, chiedendo il ritorno a un passato retto sull’accettazione dell’ingiustizia e perciò solo ingannevolmente stabile. Siamo qui di fronte alle radici di quell’inimicizia, quasi spontanea, tra Namier e gli intelettuali, e gli storici, «progressisti» nel secondo dopoguerra che non potevano vedere di buon occhio chi non nascondeva la sua preferenza per i magnati moderati e localistici rispetto agli eroi dei parlamenti e delle barricate, e la sua pur contraddittoria soddisfazione per il fallimento del 1848 e la vittoria di un ancien régime che aveva comunque garantito un altro po’ di ordine e di pace in una situazione esplosiva57. Ma nel giudizio di Namier il 1848 e i suoi intellettuali erano non solo tra i responsabili della successiva, e devastatrice, grande guerra europea. In essi, e non tra gli Junker prussiani, egli trovava addirittura alcune delle radici del nazismo: Se Hitler e i suoi associati non avessero ottusamente accettato la leggenda intessuta col

  Ho affrontato questi temi in Three Pyramids: The Fragility and Degradation of Liberalism, and Democracy in a Plurilingual Environment: Central and Eastern Europe, 1848-1948, relazione al convegno East meets West: Liberalisms between Structures and Substance, Praga, Charles University, aprile 2005. 57   Qui Namier si avvicinava a Kedourie, e in parte anche a Gellner. 56

tempo dai liberali, tedeschi e stranieri, intorno al 1848, essi si sarebbero stupiti nel trovare quanto di loro gradimento vi fosse nei deutsche Männer und Freunde dell’Assemblea di Francoforte.

Significativamente egli citava a sostegno delle sue affermazioni Alexander Herzen, forse il più intelligente tra gli osservatori contemporanei di quell’anno straordinario, secondo il quale la prima parola libera pronunciata dopo secoli di silenzio dai rappresentanti di una Germania che cercava la sua emancipazione, fu diretta contro le nazionalità deboli e oppresse58.

Fu sulla base di queste pessimistiche convinzioni che Namier citava il già ricordato Mill che nell’aprile 1849, riflettendo sui sentimenti che rendevano gli uomini indifferenti ai diritti e agli interessi «di ogni parte della specie umana, a eccezione di quella che porta il loro stesso nome e parla la loro stessa lingua», aveva concluso che si trattava di «sentimenti caratteristici dei barbari», parole da cui si poteva derivare la conclusione che quindi chi li nutriva come tale andasse trattato. Mill aveva aggiunto che era evidente che nelle parti arretrate d’Europa e persino in Germania, dove ci si sarebbe potuto aspettare di meglio, il sentimento di nazionalità è talmente più importante dell’amore per la libertà che il popolo è disposto a collaborare coi suoi tiranni per schiacciare la libertà e l’indipendenza di un popolo di altra razza e altra lingua59.

Ma se questa era la realtà, come andava affrontata? Namier diede la sua risposta più compiuta a questa domanda in Nazionalità e Libertà e in Seed-Plot, appoggiandosi su considerazioni misesiane. Se il 1848 segnava, come infatti segnò, l’apertura dell’era dei nazionalismi linguistici, in quelle che abbiamo definito le aree misesiane i conflitti diventavano inevitabili: una nazione che basa la sua unità sulla lingua non può rinunciare facilmente a gruppi di connazionali mescolati a quelli della nazione vicina; e tanto una minoranza straniera entro lo stato, quanto una terra irredenta intensamente agognata distorceranno probabilmente sia la vita di una nazione che la crescita delle sue libertà civili.

Anche Mill, ricordava Namier, aveva e a ragione concluso, che

  In L.B Namier, La rivoluzione degli intellettuali, cit., p. 162. A.I. Herzen (1812-1870), uno dei più importanti rivoluzionari russi dell’Ottocento, ha lasciato in Dall’altra sponda, a cura di P. Pera, Milano, Adelphi, 1993, una delle migliori cronache del 1848-49, e in Id., Il passato e i pensieri, a cura di L. Waistein, 2 voll., Torino, Einaudi-Gallimard, 1992, una delle più belle memorie dell’Ottocento europeo. Tra i suoi estimatori vi sono stati Franco Venturi e Isaiah Berlin. 59   Cfr. a questo proposito L. Settembrini che in Ricordanze della mia vita e Scritti autobiografici, Milano, Feltrinelli, 1961 spiega il fallimento del 1848 a Napoli anche col conflitto tra napoletani e siciliani. 58

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la coincidenza dei confini dei governi con quelli delle nazionalità è in generale una condizione necessaria a libere istituzioni.

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Ma se questo è vero sorgeva il crudele problema che i profeti e gli intellettuali del nazionalismo non furono nel 1848 capaci di vedere, quello «della quadratura territoriale dei cerchi composti da nazionalità intersecatesi». È soprattutto in questa prospettiva, terribile, che il 1848 fu per lui «semenzaio» di storia: esso «cristallizzò idee e progettò la forma di cose di là da venire, pianificando e determinando il corso del secolo seguente», e i suoi schemi «sono stati realizzati», ma – aggiungeva in italiano riprendendo il canto XXIX del Paradiso – «non vi si pensa quanto sangue costa», un sangue che il Namier del 1944-48, che scriveva mentre in tutta Europa piccole e grandi soluzioni finali erano seguite da esodi biblici, aveva visto scorrere a fiumi. Ecco perché, concludeva, se davvero «la libertà è più sicura in comunità omogenee (self-contained) munite di territorio nazionale», dove questa condizione non era stata raggiunta spontaneamente per miracolo o per grazia di Dio, per evitare che fosse versato altro sangue nei processi incontrollati e dirompenti tesi a raggiungerla era forse meglio che essa fosse assicurata attraverso gli scambi di popolazione necessari a quadrare quei cerchi. A causa delle vicende europee scatenate dalla prima guerra mondiale, una visione al tempo stesso più tragica, cinica e realista, si era perciò sostituita alle speranze del 1919 sulla possibilità di creare delle entità confederali basate su un concetto di nazionalità territoriale anche a est della Svizzera. Grandezza e errori

Quelle di Namier sono idee e immagini forti e penetranti. Eppure, malgrado individuasse problemi storici fondamentali, la sua visione resta parziale e quindi insoddisfacente. Ciò non solo perché lascia ai margini i problemi economici e quelli della costruzione nazionale e statale, che per esempio Mises si era invece sforzato di integrare in un modello più ricco di variabili e quindi più capace di previsione. O perché punta il suo sguardo esclusivamente sul problema della terra, certo fondamentale, ma che non esauriva la realtà di un mondo in rapida trasformazione, in cui urbanizzazione (di cui, pure, Namier colse il significato essenziale di «conquista» di città un tempo «aliene» da essa assunto in larga parte d’Europa) e sviluppo dell’industria contavano sempre più, anche nell’evoluzione dei rapporti tra master nations e subject races. Come abbiamo via via osservato, l’analisi di Namier è infatti viziata, anche nei suoi punti di maggior forza, dall’incapacità di cogliere l’intero quadro dei rapporti nazionali nei territori plurilingui, dal suo fissarsi essenzialmente sui territori dominati dai tedeschi e contesi loro da ungheresi, polacchi e italiani, sotto cui si agitavano i «popoli contadini», trascurando l’impero russo e ignorando i Balcani e il cuore di quello otto-

mano, dove però avevano luogo contese analoghe e da dove partivano spinte destinate a esercitare i loro effetti anche sulle aree al centro della sua attenzione. In altre parole, Namier ha tracciato un quadro dei rapporti nazionali (e spesso sociali) in cui molti particolari, e intere parti, sono nitidamente e correttamente resi, e da questi ha estrapolato categorie interpretative potenti quanto belle. Ma, proprio in virtù della straordinaria complicazione dei sedimenti storici da cui quei rapporti nazionali sono formati, delle aree di instabilità cui questi diversi sedimenti danno vita e dei conflitti che ne scaturiscono, lo studio di territori plurilingui richiede uno sguardo il più ampio possibile: ogni ombra, comunque originata, che ne veli questa o quella prospettiva è in grado di deformare l’intera analisi. Le reti presenti nelle «terre di mezzo» nameriane non erano per esempio solo l’espressione diretta di conquiste passate: spesso esse si erano formate a causa di trasferimenti coatti o erano il sedimento di migrazioni spontanee messe in moto dal desiderio di sfuggire a persecuzioni di varia natura. Esse potevano dunque rappresentare, come nel caso degli insediamenti serbi in Vojvodina e nella Kraijna, anche una conseguenza indiretta di conquiste e invasioni altrui, ma questa origine non impediva che col tempo esse potessero a loro volta trasformarsi in basi di partenza per nuovi tentativi di conquista, portati avanti dalle ex vittime. Inoltre, la pur cruciale distinzione operata da Namier tra nazionalità imperiali, come la tedesca, ancora nel pieno esercizio del loro ruolo e «popoli signori» semisommersi, vale a dire ancora in possesso di élite tradizionali e zone di dominio ma privi di un proprio stato indipendente, identificati nei polacchi della Galizia austriaca e negli ungheresi (almeno fino all’Ausgleich del 1867, quando questi ultimi recuperarono di fatto il loro stato), non riusciva a cogliere situazioni certo diverse, ma per molti versi affini. Tra esse vi erano, da una parte, quelle di «popoli signori» ormai minori ma di antica tradizione come i greci che, come abbiamo visto, Namier menziona di passaggio ma non fa rientrare nel quadro che disegna. Eppure, anche dopo il recupero dell’indipendenza nel 1832, e almeno fino alla sconfitta del 1922 in Turchia, essi continuarono a considerare il loro territorio come una semplice base di partenza per recuperare l’antico impero, la cui ombra sopravviveva nelle tante comunità greche sparse dalla Bulgaria alle coste orientali del Mare Egeo, così come nella chiesa ortodossa, nella quale la supremazia greca era stata presto sfidata dagli slavi già sottomessi al dominio bizantino. Dall’altra parte vi era il caso, ancora diverso, ma concettualmente assimilabile, di popoli che, pur privi di tradizioni statali o imperiali (se non di antichissima data), vennero messi proprio nel XIX secolo in condizione di costruirsi una posizione imperiale in Europa, o almeno di fare un tentativo in questo senso. É il caso soprattutto dei serbi che, sfruttando la loro primazia nella costruzione di uno stato nei Balcani, nonché la nascita delle idee «jugoslave» e la presenza di comunità serbe, eredi come

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abbiamo appena visto non di precedenti dominî, ma più spesso di passate persecuzioni, cominciarono presto ad assumere un ruolo aggressivo. Ma è anche, specie dopo la prima guerra mondiale, il caso dei rumeni. La lista dei «popoli signori», o che avanzavano pretese in questo senso, non era insomma una lista chiusa, e non vederne l’evoluzione equivaleva, ed equivale tuttora, a invalidare analisi pure partite col piede giusto. Ma c’erano problemi ancora più gravi. Sia Namier che Mises60 vedevano, e a ragione, nell’imperialismo tedesco il nemico principale, ed il più minaccioso, dei piccoli popoli delle terre di mezzo. Ma mentre Namier sembrava escludere i tedeschi di entrambi gli imperi (il prussiano e l’asburgico) dalla sua Europa centro-orientale, che vedeva da essi solamente minacciata e aggredita, Mises capì subito che di quella Europa «orientale» i tedeschi erano parte integrante. Essi lo erano per via del ruolo cruciale delle comunità tedesche in terra slava (la rete namieriana) nell’evoluzione (o meglio nell’involuzione) della politica tedesca e austriaca, nella sconfitta e nella degenerazione del liberalismo, nella continua rinascita di disegni egemonici e di tentativi di espansione a oriente, tutti elementi che pure Namier aveva analizzato con grande finezza nel suo La rivoluzione degli intellettuali. Ma quel che valeva per i tedeschi, valeva anche per russi e turchi, gli altri grandi popoli imperiali profondamente coinvolti nella vita della regione, e anche per gli italiani, sia pure in misura proporzionale alla loro minore esposizione nei territori plurilingui, frutto dell’eredità dell’impero veneziano. Ed è probabilmente proprio la sottovalutazione del ruolo e della presenza imperiale russa l’errore fondamentale, e il più grande elemento distorcente dell’analisi namieriana. I perché di questa «ignoranza» sono molti e non tutti chiari, vista l’evidenza e il peso di quella presenza. Certo, dovettero contare la già ricordata fissità asburgocentrica dello sguardo di Namier, e il suo identificare i «popoli signori» in base alla preminenza sociale da essi esercitata. Ma se quelli dei russi furono più spesso dominio, e oppressione, politici, esercitati da un popolo che, almeno nelle terre acquistate a occidente, non andò a occupare i gradini superiori della scala sociale (cosa che restò vera, ma in modo peculiare, anche durante l’esperienza sovietica, quando per esempio i russi nel Baltico, da loro pure conquistato e occupato, godevano di redditi e posizione sociale inferiori a quelli dei locali), il loro restava pur sempre un dominio, o l’instaurazione di un dominio, esterno, e quindi sentito come alieno. Namier, che stentò dapprima a credere alla veridicità del protocollo segreto Molotov-Ribbentrop, vide invece nei russi un elemento protettore dei piccoli popoli di fronte all’imperialismo tedesco, cosa senz’altro vera, ma che non impediva ai russi di

  Già nel primo dopoguerra Mises vedeva con preoccupazione la possibile degenerazione di una spinta coloniale come quella tedesca che, a differenza di quella di inglesi, francesi, olandesi, spagnoli e portoghesi, rivoltasi «solamente verso i paesi tropicali e subtropicali», si era diretta «contro i popoli europei». 60

ambire a prenderne, sia pure a loro modo, il posto. E forse, proprio studiando il 1848, si convinse che i russi, più che nuovo Herrenvolk, erano nella sua «terra di mezzo» un elemento portatore d’ordine, un ordine che, come sappiamo, egli riteneva necessario imporre a popoli che avevano a più riprese dimostrato di non meritare il parlamentarismo organico costruito dagli inglesi. Eppure gli sarebbe bastato allungare lo sguardo per vedere che ciò era tutt’altro che vero. Sul medio-lungo periodo i russi (ma sarebbe meglio dire lo stato sovietico che sulla loro forza si appoggiava) finirono infatti con l’essere il principale strumento attraverso il quale venne distrutta la vecchia piramide gerarchica delle nazionalità e delle religioni che, come abbiamo visto, coincideva il larga parte, in vaste regioni del’Europa, con quella sociale. Essi furono quindi, a loro modo, i distruttori del mondo che Namier aveva tanto osteggiato. Ma se questo poteva essere a sua volta un nuovo motivo di «simpatia» per il loro ruolo, Namier non poteva certo ignorare che essi distrussero quel mondo – naturalmente sulla scia dei tedeschi – in modo terribile, sostituendolo con un «ordine» che quelli chiamati a viverci non amarono mai61. Infine, e stupefacentemente per chi era stato così attento e sensibile ai problemi nazionali in Galizia, e alle rivendicazioni dei suoi contadini ruteni (ucraini), Namier sembra sostanzialmente sostenere l’identificazione di tutti gli slavi orientali coi «russi», aderendo alla vecchia visione romantica, ma non per questo meno imperiale, di Puškin di un mare russo in cui «naturalmente» sfociano tutti i fiumi slavi. In Fattori fondamentali, per esempio, parlò di una «Russia» che nel 1795, vale a dire al momento della terza partizione polacca, tracciò bene il suo confine occidentale (che coincideva grosso modo con quella che sarà poi la linea Curzon, vale a dire con il confine che Namier riteneva corretto nel 1919) perché ragionava in termini religiosi, gli unici che contavano per i contadini in una regione dove, secondo lui, «in generale religione e nazionalità coincidevano» (cosa grosso modo vera in Galizia, ma non dove ucraini, russi e bielorussi professavano la stessa fede, come non lo era stata laddove l’ortodossia greca aveva dominato su popoli che in seguito, come i bulgari, si erano conquistati la loro chiesa autocefala). Egli aggiungeva che i contadini «della Bielorussia e dell’Ucraina occidentale appartenevano alle Chiese orientatali e continuavano a parlare dialetti russi», dimenticando che San Pietroburgo, in un voto preso significativamente all’indomani del 1905, l’Accademia imperiale delle scienze aveva formalmente riconosciuto all’ucraino lo status di lingua, negatogli a lungo per favorire, attraverso la sua identificazione con un dialetto, un’integrazione a lungo perseguita (e poi continuata, malgrado le forme, in epoca sovietica, e non senza successo), ma anche molto risentita.

  Come dimostrano le agitazioni del 1948, 1953, 1956, 1968, 1970 e 1980-81, nonché le modalità di «scioglimento» pacifico di un ordine tenuto in piedi solo con la forza. 61

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Soprattutto, e questo Namier non poteva ignorarlo, mentre scriveva quelle parole, proprio nella sua Galizia i contadini «ruteni» combattevano contro la nuova presenza imperiale sovietica quella che è stata forse, date le limitate dimensioni del territorio, la più accanita, e sanguinosa, guerra partigiana del Novecento europeo. Ma tutto questo non può impedirci di vedere la forza, e la grandezza, di uno schema e di categorie interpretative cruciali per l’analisi di tutti i «territori plurilingui», inclusi quelli, enormi, che giacevano e giacciono fuori dei confini dell’Europa, come Toynbee, forse discorrendone con Namier, aveva presto capito. Senza Namier, insomma, comprendere il mondo, anche quello odierno, è molto difficile.

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