Il Caso Mortara

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29612 STORIA DELLE ISTITUZIONI SOCIALI E POLITICHE EUROPEE (C.I.) (LM)

Nicola Lugaresi

A.A. 2012/13

Il caso Mortara Nella post-fazione del saggio di Liora Israel intitolato Le armi del diritto, l'avvocato Berti Arnoaldi Veli menziona il caso Mortara come esempio in ambito italiano di utilizzo del diritto nella duplice accezione delineata dalla Israel1. Infatti, secondo la sociologa il diritto può essere inteso sia come elemento di repressione, come forza che delimita le forme dell'agire sociale a favore dell'ordine costituito, oppure, come forza progressiva che può contribuire a un rovesciamento del regime politico sfruttando le contraddizioni interne di un ordinamento giuridico, dando voce a quelle forze sociali che dal basso reclamano libertà civili. Queste forze sociali, protagoniste nel caso Mortara, sono rappresentate dall'esile minoranza ebraica presente all'interno dello Stato della Chiesa, memori di un precedente fondamentale - quello rivoluzionario - che li aveva elevati a una parità giuridica con i cristiani e a protagonisti del cambiamento politico. Con "caso Mortara" ci si riferisce a un triste episodio avvenuto a Bologna la sera di mercoledì 23 giugno 1858 quando un gruppo di gendarmi pontifici, tra cui il maresciallo Pietro Lucidi e il brigadiere Giuseppe Agostini, entrarono nella casa di una numerosa famiglia ebrea di commercianti, i Mortara, per prelevare uno dei figli, Edgardo di sei anni. Tutto ciò avvenne per ordine dell’inquisitore di Bologna padre Pier Gaetano Feletti, il quale, aveva emanato l’ordine dal momento in cui era venuto a sapere del battesimo di Edgardo avvenuto nel 1852 ad opera della fantesca cristiana Anna Morisi. Il conferimento del sacramento da parte di un laico al bambino ritenuto in punto di morte, giustificava, secondo il parere della Congregazione del Sant’Uffizio a cui era stato sottoposto il caso, l’ allontanamento del fanciullo dalla famiglia che non avrebbe potuto garantirgli una educazione cristiana. Presentato al papa, dopo un breve soggiorno ad Alatri, Edgardo fu poi ricevuto nel collegio di San Pietro in Vincoli diretto dai Canonici Regolari Lateranensi, dove più tardi entrò perseverando con fervore sino alla morte, avvenuta nel 1940. Furono vani i reiterati tentativi della famiglia, prima presso le autorità pontificie e poi, dopo la fine del potere temporale del papa, presso lo stesso giovane, di riavere il figlio.

1)L'utilizzo del diritto nel caso Mortara A partire dall'impostazione sociologica della Israel, cercheremo di stabilire che tipo di utilizzo del diritto è stato fatto nel caso Mortara. La famiglia Mortara in un primo momento non si rassegnò alla sottrazione del figlio. Dopo una serie di sfortunati tentativi di mediazione personale fatti dal padre Momolo Mortara presso l'arcivescovado di Bologna e l'inquisitore padre Feletti, ben presto la 1

L. Israel, Le Armi del Diritto, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 126-131.

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famiglia decise di affidarsi al diritto. Tuttavia il panorama istituzionale in cui si accingeva ad agire il padre ebreo non gli era per nulla a vantaggio. Non era sviluppato infatti un canale istituzionale attraverso il quale si potesse apertamente contestare, per via legale davanti a un tribunale, una decisione della Congregazione del Sant'Uffizio. Quest'organo aveva poteri di delibera molto forti e agiva in base alla complessa tradizione giuridica del diritto canonico. Non erano presenti nel panorama giuridico dei meccanismi che potessero garantire una limitazione dei poteri dell'intervento dello stato a scapito dell'individuo, tanto meno se questo apparteneva a una minoranza confessionale come quella ebraica che non godeva di condizioni giuridiche paritarie a quelle dei cristiani. In questo contesto il diritto si configurava come una delle forze che garantivano la riproduzione di diseguaglianze sociali su base confessionale. Non fu possibile tenere un processo perché sarebbe stato come contestare apertamente, per vie legali, l'operato dell'Inquisizione. Come ha notato G. Berti Arnoaldo Veli, un reclamo che contestasse apertamente la legittimità della decisione del Sant'Uffizio, confutando alcune contraddizioni di fondo che nel sistema cristiano erano date per scontate, come la superiorità del sistema religioso cristiano rispetto a quello ebraico o il significato e il valore sacramentale del battesimo, non potevano essere efficaci. Non doveva essere nulla che offendesse l'autorità della Chiesa e sfidasse il suo dominio temporale. Diversamente da altri grandi casi processuali o affaire, come il caso Calais, De la Barre, Cléreau, o Dreyfus, dove grandi intellettuali impegnati come Voltaire, Victor Hugo, Emile Zola si sono fatti interpreti e promotori presso l'opinione pubblica delle contraddizioni interne dei regimi politici, nei meccanismi del potere, i Mortara non poterono contare su intellettuali di spicco riconosciuti dalla società come interpreti delle istanze provenienti dal basso. Non poterono nemmeno avere l'opportunità di discutere della sottrazione del figlio davanti a un tribunale che avrebbe fatto da cassa di risonanza sull'Europa intera. Tuttavia la stampa, in forte espansione nel secolo XIX, e gli interessi politici di alcuni importanti personaggi come Cavour e Napoleone III avrebbero reso la vicenda estremamente famosa. E' necessario evidenziare come la grande visibilità che ha avuto questo caso a livello europeo abbia innescato dei meccanismi sociali di mobilitazione delle principali comunità israelitiche, non solo italiane, ma anche dei principali stati liberali europei arrivando addirittura fino agli Stati Uniti2. In questo modo le comunità israelitiche acquisirono coscienza della propria condizione, consapevolezza dei propri diritti e dei pericoli ai quali erano

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Anche oltreoceano il caso ebbe una discreta risonanza. Negli Stati Uniti la diffusione dello scandalo contribuì al rafforzamento del Know Nothing (un movimento politico ostile all'immigrazione di cattolici irlandesi) e a una riorganizzazione delle comunità ebraiche. Cfr. B.V. Korn, The American Reaction to the Mortara Case, 1858-1859. Review by: Donald L. Kinzer The Mississippi Valley Historical Review, Vol. 44, No. 4 (Mar., 1958), pp. 740-741Published by: Organization of American Historians. Stable URL: http://www.jstor.org/stable/1886627 ultima consultazione: 06/08/2013 10:11

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esposte a vivere nello stato del papa. Questa presa di coscienza incoraggiò la nascita di una associazione internazionale per la difesa dei diritti degli ebrei come l'Alliance Israélite Universelle. La minoranza ebraica fu così mossa da maggiore attivismo politico di segno contrario al conservatorismo papale. Il caso Mortara, pur non essendo ufficialmente ancora passato dalle aule di un tribunale, acquisiva presso l'opinione pubblica internazionale un contenuto politico nettamente favorevole ai settori democratici e liberali che già da tempo lavoravano per arrivare all'unificazione italiana. Momolo Mortara, una volta venuto a conoscenza del trasferimento di Edgardo a Roma, cercò, sicuramente aiutato da giuristi, di preparare una richiesta di restituzione formale del figlio. La prima petizione inviata pochi giorni dopo il fatto al papa e all'inquisitore di Bologna, con uno stile prudente e reverenziale, denuncia una certa indecisione da parte del padre che non conosceva altri modi di chiedere giustizia: «non conoscendo l'Ore e il modo da fare pervenire all'Angusto Trono le formulate umilissime preci, ha pensato di diriggersi per la trafila del Supremo Dicastero dipendente da V.E.R.»3. Momolo, in questo primo intervento, si era avvalso dell'appoggio delle comunità di Reggio e Modena che tenevano in archivio il testo di tutte le passate petizioni presentate in casi simili. Kertzer infatti evidenzia come nel corso dell'Ottocento il rapimento di figli ebrei battezzati dalle fantesche fosse in aumento. C'erano importanti precedenti come quello di Pamela Maroni di Modena (1844), Saporina De Angeli di Reggio (1814) o di Ferrara (1817)4. Momolo però, non sapendo ancora chi avesse battezzato Edgardo e come ciò fosse avvenuto, contestò l'operato dell'inquisitore di Bologna in base ad argomenti generali, facendo leva sull'importanza della patria potestà nel diritto canonico. Questa prima lettera, non avendo ancora abbastanza elementi su cui controbattere, non si sofferma troppo su un registro giuridico ma cerca di puntare soprattutto sull'umanità del pontefice attraverso il racconto commovente del rapimento. Sicuramente, concludeva Momolo, dietro l'intero avvenimento doveva esserci stato un fraintendimento, un errore. Solo in una successiva istanza presentata al Cardiale Antonelli, il 17 agosto 1858, è evidente che i Mortara ricevettero un importate aiuto da parte di qualche giurista anonimo esperto nella materia. Il ruolo dell'avvocato come mediatore tra società e stato, agente del liberalismo politico non è apertamente manifesto ma visibile. Il documento, reso noto e dato a stampa all'interno di una raccolta di fonti sul caso nel 1859, risulta particolarmente importante perché ci consente di evidenziare sul piano del diritto quali siano state le principali modalità di contestazione nei

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D. Kertzer, op. cit. p. 58. In tutti questi casi non avvenne la restituzione dei figli. A Ferrara la comunità ebraica iniziò a tutelarsi tramite la compilazione di un atto notarile, una dichiarazione firmata in cui la fantesca, prima di essere rilasciata, dichiarava di non aver battezzato nessun figlio. Purtroppo questo espediente legale non fu adottato dalla famiglia Mortara. D. Kertzer, op. cit. p. 62. 4

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confronti della sottrazione di Edgardo Mortara5.

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Nonostante i Mortara non fossero cristiani,

dovettero argomentare l'operato dell'inquisizione con argomenti di diritto canonico, riferimenti a San Tommaso, Tertulliano e altri canonisti. Sin dal XVI secolo almeno, la comunità ebraica aveva questo modo di rispondere alla sottrazione forzata di un proprio componente: attraverso l'assunzione di un avvocato cristiano, le cui argomentazioni, venivano spesso prese in considerazione dalle autorità ecclesiastiche 6. Era un patrimonio giuridico che personalmente non appoggiavano eppure venne maneggiato strumentalmente per cercare di ottenere l'effetto voluto: la restituzione del proprio figlio. Si tratta di un uso contestatario del diritto che non mette in discussione la legalità delle norme ma la legittimità di come esse sono state applicate dal governo pontificio. Questo modo di agire, come mette in evidenza la Israel, ha l'effetto di delegittimare implicitamente il regime politico vigente. Tuttavia «l'uso del diritto nei confronti di uno stato considerato ingiusto [...] può avere l'effetto di legittimarlo, cosicché, lungi dal combatterlo, la contestazione per mezzo del diritto contribuisce a rinsaldarlo» 7. La lettera cerca di dimostrare l'illegittimità della sottrazione di Edgardo a partire da tre argomentazioni principali che furono utilizzate anche del successivo processo, tenuto dalle nuove autorità del Governo delle Romagne, contro padre Pier Gaetano Feletti, inquisitore di Bologna. Il primo punto affermava che in realtà Edgardo non era mai stato in reale pericolo di morte. Alla lettera era allegata una deposizione del medico di famiglia, Dott. Pasquale Saragoni,

che giurava

che, nel 1852 in occasione del presunto battesimo, Edgardo fosse stato soggetto a una semplice «febbre verminosa» non tale da mettere in pericolo la vita del bambino. Il pericolo di morte era essenziale perché condizione necessaria per giudicare valido il battesimo effettuato senza il consenso dei genitori secondo la casistica stabilita da San Tommaso e confermata dagli interventi di Benedetto XIV in materia8. L'allegato era accompagnato da una certifica della commissione provinciale di sanità che dichiarava vera la firma del medico. Tuttavia la testimonianza del medico probabilmente non fu presa sul serio dalle autorità pontificie. Pasquale Saragoni era un noto cospiratore e attivista politico, appartenente alla massoneria di Bologna: le argomentazioni

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Delacouture, Roma e la opinione pubblica d'Europa nel fatto Mortara. Atti, documenti, confutazioni. Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1859. 6 Cfr. M. Caffiero, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Viella, Roma, 2004. 7 L. Israel, op. cit. p. 79. 8 Secondo la corrente teologica prevalente, stabilita dalle lettere apostoliche di Benedetto XIV Postremo mense(1747) e Probe te meminisse(1751), il battesimo invitis parentibus (contro la volontà dei genitori) era possibile nel caso di pericolo di morte del bambino; di abbandono dei genitori; di sottrazione alla loro potestà senza speranza di rimedio; se uno dei genitori acconsentiva e vi era speranza di allevare il bambino cristianamente. C. Zendri, Umanesimo giuridico ed ebraismo. La questione del battesimo invitis parentibus nel pensiero di Ulrich Zasius. CEDAM, Milano, 2011.p. 6.

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giuridiche si andavano così a intrecciare, anche se velatamente, con la contestazione politica vera e propria9. La seconda argomentazione evidenziava l'assenza di testimoni: una simile tragedia familiare non poteva essere eseguita solamente sulla base della testimonianza di un'umile fantesca. Un fatto non poteva essere stabilito legalmente sulla base di una sola testimonianza perché « non mancano gravi autori in materia canonica, i quali nella sola circostanza della deficienza di testimoni, scorgono sufficienti ragioni per dichiarare la nullità di simili battesimi» 10. Infine è messo in evidenza che la Morisi ha parlato cinque anni dopo il fatto. Visto il tempo trascorso potrebbe non avere rispettato le esigenze formali del rito battesimale essendo allora giovane, rozza e inesperta. Le argomentazioni giuridiche vertevano quindi sulla dimostrazione dell'assenza dei prerequisiti perché il battesimo fosse valido: l'assenza della volontà dei genitori, dell'effettivo pericolo di morte, l' insufficienza di prove per stabilire il fatto. Era in gioco la definizione formale e sostanziale del sacramento del battesimo del quale il giurista metteva in risalto l'aspetto formale e volontaristico attraverso autori come Sant'Agostino, Tertulliano, Origene e Sant'Ambrogio. La violenza non era un metodo idoneo nel fare proseliti, il cristianesimo lo aveva sempre affermato, anzi secondo « S. Thom. 3 Queest. 67 [...] È pericoloso battezzare i figli degli infedeli i quali possono facilmente tornare alla loro religione in forza del naturale affetto verso i parenti»11. San Tommaso viene citato in quanto sostiene l'illiceità del battesimo a bambini ebrei perché «l'opinione contraria ripugna al diritto naturale e alla consueta via della Chiesa quando vi è pericolo che diventati più grandi non abbandonino la fede [paterna]»12. Alle opinioni dei grandi autori della cristianità veniva affiancato il magistero papale di Clemente I e Martino V. Non veniva certo riportato il parere di Innocenzo III, secondo cui gli ebrei avevano lo stato di servi 13 oppure, molto più recenti, le opinioni di Benedetto XIV che, pur avendo decretato l'illegalità dei battesimi senza consenso dei genitori, aveva 9

G. Volli, Il caso Mortara nell’opinione pubblica e nella politica del tempo, in Bollettino del Museo del Risorgimento, 1960, 5 pp. 1097-1099. 10 In nota sono presenti i riferimenti giuridici in latino: «Felga super decret. lib. v, Rit. 6, cap. ix, ibid. (innotis). Si puer (Judceus) fuerit per scecularem baptisatus testibus non existentibus, talis puer non dicitur baptizatus. Ila Petrus de Ancha tractatu de Judceis (p. 3, cap. 2, N. 6) ubi late discutit hanc difficultatem». Delacouture, Roma e la opinione pubblica d'Europa nel fatto Mortara. Atti, documenti, confutazioni. Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1859 p. 63. 11 Delacouture, op. cit. p. 66. 12 Ivi. p. 67. Le abbreviazioni e il puntuale riferimento agli autori rivelano l'estrema dimestichezza con lo strumento del diritto del giurista incaricato: « Ugolino "Degli uffici e della potestà del vescovo" Parte 1 cap. 23: Non debbono essere battezzati contro il volere de genitori: i figli degli Ebrei che non hanno ancora l 'uso della ragione come disse il Glos. nel capitolo de Judceis 28 lett 1 E seguito da Abb. nel capitolo Siccome agli Ebrei ecc e nella rubrica in Clement. I 8 Quest. 5 de Judceis e san Tommaso 22 quest 10 art 12 dove dice che l opinione contraria ripugna al diritto naturale e alla consueta via della Chiesa quando vi è pericolo che diventati più grandi non abbandonino la fede e si fatta opinione essere più comunemente accettata lo asserisce anche Felyn nel Capit Sicut Judcei numero 1 e dalla bolla di Martino V». 13 Innocenzo III con la decretale Etsi Iudaeos nel cui incipit è ribadita la perpetua schiavitù degli ebrei, causata dalla loro colpa, e con il Decreto, dichiara lo stato di servitus degli ebrei: con esso sono incompatibili la cittadinanza e quindi la patria potestà. L. Luzi, "Inviti non sunt baptizandi". La dinamica delle conversioni degli ebrei, in «Mediterranea ricerche storiche», n. 10, agosto 2007, p. 234.

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confermato il valore sacramentale di quelle azioni 14. Il diritto viene maneggiato attraverso una attenta selezione anche grazie all'utilizzo di precedenti favorevoli. Il linguaggio giuridico del diritto canonico viene adoperato magistralmente per confutare l'azione della Congregazione del Sant'Uffizio in base alle sue stesse norme, in base ai principi stessi del cristianesimo. Si ricorre cioè a un ordinamento che a differenza della maggior parte dei codici europei trovava la propria legittimità in un fondamento esterno al diritto: la morale e la religione. Due sfere sulle quali la Chiesa aveva esercitato nei secoli un irrinunciabile influsso, elevando sé stessa a suprema interprete. Come ha osservato Caffiero, nonostante sul piano del diritto la legislazione della Chiesa offrisse una certa cautela e tolleranza nei rapporti con gli ebrei, tra cui il riconoscimento dello status civitatis che garantiva l'esercizio della patria potestà secondo il diritto romano (e quindi il diritto di non vedersi sottratti i figli), la ratio fidei si configurava spesso come strumento sufficiente a smantellare il sistema teorico - formale di garanzie15. Quindi il diritto per i coniugi Mortara era uno strumento estremamente inadeguato e parziale che aveva un importante limite nell'ordinamento normativo e istituzionale nel quale era inserito 16. Tuttavia il tentativo effettuato per mezzo del diritto ha sollevato una tempesta politica e diplomatica nei confronti del regime papale da parte di altri stati come Inghilterra, Francia e Piemonte. Ciò ha scatenato la macchina dell'opinione pubblica europea, inorridita di fronte al caso, la mobilitazione di organizzazioni confessionali (come l' Alleanza Cristiana Universale, il Concistoro centrale di Francia e il Board of Deputies of British Jews di Londra) e la mediazione della comunità ebraica di Roma che contribuì fortemente a sensibilizzare le autorità pontificie alla vicenda. In questo senso i per mezzo del ricorso al diritto ha avuto luogo un processo di delegittimazione dello Stato della Chiesa, soprattutto nei confronti della legittimità del suo potere temporale: alla Santa Sede continuavano a giungere da ogni parte d’Europa, e anche dall’America, istanze, memoriali, raccomandazioni, suppliche perché restituisse il bambino Mortara ai suoi genitori. Parallelamente nel papa e nei suoi collaboratori doveva crescere la convinzione che questo non fosse altro che l’ennesimo strumento di propaganda di cui si servivano i nemici della Chiesa: l'appello dei governi e delle organizzazioni era improprio trattandosi interamente di una questione di materia religiosa. I Mortara riuscirono a essere ricevuti dal segretario di stato Antonelli e ottennero un accesso senza precedenti alla Casa dei Catecumeni per fare visita a Edgardo. Ma il figlio non fu mai restituito. L'unica speranza di rivederlo era quella di sperare nella fine del potere temporale della Chiesa: circostanza che fu avverata solamente nel 1870 quando, Edgardo, già maggiorenne ed educato nel cristianesimo decise di rinnegare le origini ebraiche venendo ordinato sacerdote. Tuttavia la 15 16

Cfr. M. Caffiero, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Viella, Roma, 2004 L. Israel, op. cit. p. 11.

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diffusione della vicenda nella stampa e nell’opinione pubblica internazionale e l’attivismo di alcune importanti personalità politiche dell’epoca (Napoleone III, Cavour) che videro nello scandalo una irripetibile opportunità politica, determinarono e influenzarono l’apertura del processo a padre Feletti nel 1860, a pochi mesi dalla fine del dominio papalino a Bologna.

2) Il processo all’inquisitore: una controversa sentenza in un clima di transizione politica e giuridica. L’ampia documentazione e la conoscenza dei particolari di questo caso è dovuta all’apertura nel 1860 di un processo presso il Tribunale civile e criminale di prima istanza di Bologna 17, contro il padre Inquisitore Pier Gaetano Feletti e all’allora capo della polizia pontificia di Bologna De Dominicis, con l’imputazione di rapimento18. L’apertura del processo e le accuse furono possibili grazie al movimento di unificazione italiana. Nel 1859 un’insurrezione, approfittando dell’assenza di molti contingenti austriaci impegnati nella guerra contro Francia e Piemonte (II Guerra di Indipendenza italiana), aveva costretto le autorità pontifice ad abbandonare le legazioni delle Romagne, le quali, avevano eretto un governo provvisorio prima dell’effettiva unificazione con lo Stato sabaudo, sotto la guida di Luigi Carlo Farini. Da tempo infatti era caduta l’ipotesi di una compatibilità tra unificazione italiana e dominio papalino (giobertismo), anzi era diffusa l’idea per cui la caduta dello Stato pontificio fosse necessaria e per di più avrebbe favorito la liberazione del piccolo Edgardo. Uno dei primi atti di Farini come governatore delle Romagne fu l’abolizione dell’Inquisizione e l’ordine al ministro della Giustizia di perseguire i responsabili del rapimento 19. Farini fu infatti personalmente informato dell’accaduto grazie a Samuel Levi Mortara, il nonno di Edgardo, che scrisse al governatore delle Romagne per chiedere la restituzione del nipote mentre il padre Momolo era a Londra per chiedere

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I tribunali di prima istanza, presenti in ogni legazione dello Stato Pontificio, costituivano il primo livello dell’amministrazione della giustizia civile e (dal 1831 penale), creati da un motu proprio di Pio VII dopo la restaurazione dello Stato Pontificio nel 1816 (Motu Proprio della Santità di Nostro Signore Papa Pio VII in data de 6 luglio 1816 sulla Organizzazione dell'Amministrazione Pubblica). Cfr. N. Picardi, Alle origini della giurisdizione vaticana, in «Historia et Ius» n. 1 luglio 2012, URL: http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/picardi.pdf ultima consultazione 24/07/2013; 18 L’accusa fu formulata il 18 gennaio 1860 dal magistrato Carboni. Gli esecutori del rapimento, Lucidi ed Agostini, non furono accusati. La logica fu che De Dominicis, come capo della polizia di Bologna, aveva il dovere di stabilire se l’ordine datogli dall’inquisitore fosse legale, mentre i suoi subordinati non potevano essere ritenuti responsabili per avere obbedito ad un ordine diretto di un loro superiore. Inoltre De Dominicis che era stato troppo vicino agli austriaci era fuggito a Roma e quindi non poteva per il momento essere processato. Cfr. D. Kertzer, Prigioniero del Papa Re, Rizzoli, Milano 1996. 19 D. Kertzer, Prigioniero del Papa Re, Rizzoli, Milano 1996 p. 274.

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aiuto al governo e alla comunità ebraica locale 20. Il delegato dello Stato sabaudo diede subito grande importanza al caso: era l’occasione per denunciare le aberrazioni del vecchio sistema giudiziario ed esaltare il maggior grado di equità e garantismo del nuovo. Inoltre si tratta di un caso di ricorso alla giustizia da parte di una vittima che, come evidenzia la Israel, è spesso portatore di logiche e di risultati molto forti21: Samuel Levi Mortara però non chiedeva la condanna dell'Inquisitore Feletti, bensì la liberazione del nipote grazie all'opera diplomatica del nuovo governo. Il processo all’inquisitore era un atto che ebbe quindi una forte valenza politica: un regime politico giudicava l’altro. Ma da un punto di vista del diritto ciò era lecito? Era forse possibile applicare retroattivamente le leggi del governo provvisorio? La presenza di una diversa giurisdizione al momento dell’atto giudicato criminoso in che modo influì nel processo? La sociologia del diritto ha messo in evidenza come «il diritto sta esattamente al centro delle controversie e delle innovazioni che prendono corpo quando la forma dello stato si trasforma e in particolare quando un nuovo regime si insedia e si sostituisce al precedente»22.

Il nuovo regime poneva il problema di

reinterpretare le leggi del precedente e, attraverso un processo, stabilire ciò che veramente era accaduto. L’ordine di procedere contro l’inquisitore fu eseguito da Filippo Curletti, figura controversa, direttore generale della polizia per la Romagna e fidato agente di Cavuor che era stato inviato dal Piemonte per assistere Farini23. La tipologia di processo penale adottato dal nuovo Governo delle Romagne fu un procedimento misto: era composto da una prima fase istruttoria - affidata a Curletti e Carboni, in cui si raccoglievano le prove (attraverso interrogratori e perquisizioni) a insaputa del reo - per poter formulare l’accusa. Questa fase aveva un carattere marcatamente inquisitorio. Una seconda fase dibattimentale invece era affidata ai giudici del tribunale di Bologna che, in base agli atti presentati dal magistrato procuratore, dovevano formulare una sentenza. In questa fase l’imputato poteva godere della tutela legale di un avvocato 24.

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ASBO, Tribunale Civile e Criminale di Prima Istanza in Bologna. - Causa di separazione violenta del fanciullo del Fanciullo Edgardo Mortara... contro Feletti Frate Pier Gaetano, 1860 (D’ora in poi: Atti processo). p. 4. Sotto il comando di Luigi Carlo Farini avviene anche l'abolizione dei feudi, dei fedecommessi e della censura preventiva sulla stampa. 21 L. Israel, op. cit. pp. 73-74. 22 Israel si è soffermata soprattutto sui nuovi regimi instaurati nella seconda metà del XX secolo. Evidenzia come i processi di Norimberga e di Tokio abbiano segnato la nascita di un nuovo diritto penale internazionale. In questo periodo si è posto più che mai il problema della irretroattività delle leggi. Ivi p. 84. 23 Si deve a Curletti la pubblicazione pochi anni più tardi di un opuscolo di scandalosa denuncia dell’operato di Farini, Cavour e altri personaggi del nuovo stato. Per un approfondimento sul personaggio: R. Fantini, Due “buone lane” nelle vicende del nostro Risorgimento: Griscelli e Curletti., “Strenna storica bolognese” Vol 15, 1965, pp. 99 - 112; Adriano Colucci, Griselli e le sue memorie, Roma 1909. 24 Il processo misto era stato rilanciato dalla legislazione napoleonica: al Code d'instruction criminelle (1808) che sarà, modello per molti codici dell'Italia preunitaria, tra cui il Codice sardo del 1859, si deve una radicalizzazione del

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L’incarcerazione dell’inquisitore avvenne in base alle testimonianze di tre personaggi coinvolti nella vicenda: Placido Vizzarelli, Pietro Caroli e Giuseppe Agostini. I primi due erano carabinieri passati da poco dalla polizia pontificia alla forza di polizia del nuovo Stato. Curletti doveva stabilire con esattezza chi avesse ordinato di irrompere nella casa dei Mortara e prelevare Edgardo il 24 giugno 1858. Vizzarelli depose di essere a conoscenza di un ordine di padre Feletti a De Dominicis, il quale aveva convocato il brigadiere Agostini a Bologna. Quest’ultimo ricevette ordine da De Dominicis di recarsi a casa Mortara e prendere il bambino per portarlo a Roma. Caroli, allora vicebrigadiere con l’incarico di curare gli archivi della polizia, testimoniò di avere archiviato una lettera del padre inquisitore diretta a De Dominicis con l’ordine di prelevare il fanciullo. Il fatto rilevante sarebbe stato che sia Caroli che Agostini concordarono sulla mancanza nella lettera di riferimenti ad ordini provenienti da Roma 25. Tuttavia tale lettera, che poteva essere una delle prove giuridiche fondamentali per accertare la responsabilità di Feletti, non era più reperibile. De Dominicis infatti, quando il caso era stato divulgato dalla stampa piemontese, l’aveva fatta sparire, come del resto era successo all’intero archivio della polizia pontificia che era finito al macero nel 1859, quando si iniziava a sospettare seriamente della caduta dello Stato papalino. Anche Giuseppe Agostini, che aveva partecipato in prima persona al fatto accompagnando Edgardo a Roma, fu interrogato da Curletti a Cento. Agostini raccontò della scena del rapimento e narrò del viaggio a Roma dove aveva lasciato il bambino alla casa dei Catecumeni 26. A questo punto, accertato il coinvolgimento di padre Feletti e la sua responsabilità nel rapimento di Edgardo Mortara, si procedette all’arresto dell’inquisitore nelle prime ore del mattino del 2 gennaio 1860. Curletti, per l’importante cattura, si fece accompagnare da diversi ufficiali superiori della polizia di Bologna e dal magistrato procuratore Francesco Carboni, colui che avrebbe proseguito le indagini nella fase successiva27. L’interrogatorio stragiudiziale tenuto da Curletti ebbe assai scarsi risultati: Feletti si rifiutò di rispondere a qualsiasi domanda. L’ex - inquisitore di Bologna si trovò di fronte ai suoi inquisitori, funzionari di uno Stato che non riconosceva. Per tale motivo si rifiutò sin da subito di riconoscere il loro diritto a giudicarlo: «questo mio arresto lo riconosco proveniente da una autorità incompetente; come Sacerdote regolare, e come una volta appuntamente incaricato dal Sommo Pontefice alla inquisizione di Bologna». Inoltre non poteva rivelare nulla su eventuali questioni appartenenti al suo ufficio: «Io sono vincolato da un giuramento sacrosanto di non manifestare le cose che

modello misto. Colpisce la netta opposizione tra fase istruttoria e pubblico dibattito. Cfr. G. Alessi, Il processo penale. Profilo storico. Laterza, Bari, 2001. pp. 158-163. 25 In questo caso, la responsabilità del rapimento sarebbe potuta essere attribuita interamente a padre Feleltti. 26 Atti del processo, pp. 12-14. 27 D. Kertzer, Prigioniero del Papa Re, Rizzoli, Milano, 1996. p. 281.

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appartengono al Tribunale della Fede Cattolica». Curletti provò a chiedere al frate se sapesse qualcosa della lettera contenente l’ordine di cattura di Edgardo oppure del viaggio di Agostini per portare il bambino a Roma, facendo notare che si trattava di una questione che aveva compromesso l’ordine pubblico e la tranquillità delle famiglie. Ma il frate non rivelò nulla, rivendicando la sua appartenenza a un altro sovrano, a un altro Stato: «Per ciò che riguarda le operazioni da me eseguite come inquisitore del S. Uffizio di Bologna sono obbligato a darne conto unicamente alla suprema sacra congregazione di Roma, il cui Prefetto è il Sommo Pontefice Papa Pio Nono, a null’altro io son responsabile delle cose d’uffizio» 28.

Inoltre, il frate si riufiutò anche di sottoscrivere il verbale dell’interrogatorio dopo il quale venne trasferito nel carcere del Torrone che godeva la fama di carcere per il prigionieri politici. Dopo qualche settimana il caso fu passato al magistrato procuratore Carboni il quale ebbe nuovamente un colloquio con il domenicano. L’imputato, anche in questa occasione, si appellò al privilegio, tipico di antico regime, di essere giudicato da un tribunale ecclesiastico. Carboni lo informò che il privilegio ecclesiastico era stato abolito dai recenti editti del governo 29. La tradizione giuridica di antico regime infatti prevedeva tradizionalmente la presenza di “corpi immuni” come ecclesiastici o aristocratici. La procedura, la sede di giudizio e le procedure variavano in relazione allo status dell’accusato30. Tuttavia, il frate rivelò un particolare che si rivelerà determinante nello svolgimento del processo: «Conosciutosi che il fanciullo Edgardo Mortara era stato battezzato in pericolo di morte, la Suprema Sagra Congregazione ordinò che questo fanciullo venisse tradotto in Roma, nel Collegio dei Catecumeni, e a me venne affidata la esecuzione».

La responsabilità del rapimento del fanciullo quindi era da appellare all’Inquisizione romana e al papa Pio IX, sovrano temporale. Carboni però, non convinto della versione del frate, continuò le indagini per ricostruire con esattezza la vicenda e interrogò numerosi altri testimoni tra cui anche Anna Morisi, l'autrice del battesimo, la quale fece la seguente deposizione: quando il bambino aveva circa un anno si ammalò gravemente; lei vide i genitori vegliare tutta la notte accanto alla culla del bimbo e leggere da un libro ebraico le preghiere che gli ebrei usavano recitare ai moribondi. Il mattino seguente il droghiere Cesare Lepori le consigliò di battezzare il piccolo insegnandole come doveva fare. Ritornata a casa, vedendo il bambino incustodito, lo battezzò. Tuttavia il bambino non morì. Qualche anno dopo Aristide, un altro figlio dei Mortara, fu in punto di morte e Regina Bussolari, una compaesana della domestica, le consigliò di battezzarlo. Anna rispose che non l’avrebbe fatto 28

Atti processo, pp. 7-12. Questi editti erano in linea con la legislazione Piemontese: nel 1851 le leggi Siccardi avevano dismesso numerosi privilegi ecclesiastici tra cui l’abolizione del foro ecclesiastico. 30 Cfr. G. Alessi, Il processo penale. Profilo storico. Rizzoli, Milano 2001. 29

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perchè il bambino avrebbe potuto sopravvivere come era successo con Edgardo. La Bussolari era l’unica a conoscenza dell’accaduto per cui doveva essere stata lei a fare arrivare la notizia all’inquisitore31. Questa versione venne contestata dagli altri testimoni: la Bussolari smentì di sapere dell’accaduto e di averlo confidato all’inquisitore, il dott. Pasquale Saragoni dichiarò che il bambino non era mai stato in pericolo di morte e ci furono delle discordanze anche in merito al periodo in cui il bambino si ammalò. Anche il droghiere Lepori, definito negli atti amico di don Pini della Chiesa di San Giorgio, gesuita austriacante” negò di aver esortato Anna Morisi a battezzare il bambino. Infine Marianna Padovani, la madre del bambino, garantì di non averlo mai lasciato incustodito nel periodo in cui era malato32. Come si evinse dagli sviluppi successivi, Anna Morisi era stata chiamata da padre Feletti per un interrogatorio in cui le aveva fatto giurare di non parlane con nessuno del contenuto. Tuttavia Feletti non testimoniò mai come effettivamente era venuto a sapere dell’accaduto e quale procedura avesse adottato, se non quella di presentare il caso al S. Uffizio di Roma 33. La fase dibattimentale si svolse a favore di padre Feletti. Quest'ultimo aveva rifiutato di scegliersi un avvocato e perciò gli fu assegnato d'ufficio. Inoltre l'imputato non volle comparire davanti ai giudici perché se lo avesse fatto avrebbe riconosciuto il diritto del nuovo Stato a giudicarlo 34. L'avvocato Francesco Jussi si trovò a dover difendere un imputato che per principio rifiutava la difesa. Seguendo la normale procedura penale, il caso venne presentato alla Corte da un magistrato che sosteneva la pubblica accusa, il procuratore fiscale, e non da magistrato inquirente (Carboni). Fu assegnato come pubblico accusatore Radamisto Valentini che scelse di procedere facendo condannare l'imputato sulla base delle leggi vigenti al tempo del fatto. Il magistrato Valentini, consapevole dell’impossibilità di una applicazione retroattiva della legge allora vigente, costruì l’accusa secondo due tesi principali: in primo luogo padre Feletti doveva avere agito di propria iniziativa nell’ordinare la sottrazione del fanciullo. Non vi era infatti nessuna prova diretta che riconducesse l’ordine di Feletti a organi più alti come il Sant’Uffizio. In secondo luogo il frate inquisitore aveva abusato del proprio ufficio e svolto male le indagini sull’avvenuto battesimo. Tutti i testimoni che avevano deposto dichiararono di non essere stati interrogati

31

Atti processo, p.108 e ss. deposizione di Anna Morisi 9 febbraio 1860. Cfr. G. Volli Il caso Mortara , in «La Rassegna mensile di Israel», terza serie, Vol. 26 No. 3 (Marzo 1960). 33 G. Volli nella ricostruzione della vicenda (Il caso Mortara , in «La Rassegna mensile di Israel», terza serie, Vol. 26 No. 3 (Marzo 1960), pp.108-112) parla di violazione del segreto confessionale. Effettivamente la Morisi testimoniò di essere andata a confessarsi dai domenicani ed è lecito pensare che in quella occasione trapelò la notizia. Ma ciò di per sè non giustifica la violazione del segreto confessionale: il battesimo di un bambino in presunto punto di morte non era certo un peccato da presentare in confessionale, semmai era una buona azione agli occhi della dottrina cristiana e della corrente teologica del tempo. 34 Atti processo, pp. 404-410. 32

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dall'inquisitore. Quest'ultimo, secondo l'accusa, non aveva fatto nulla per verificare il racconto di Anna Morisi che affermava di aver battezzato il bambino due anni prima. La versione della Morisi era infatti resa ancor meno credibile dal fatto che la donna avesse da poco smesso di lavorare con i Mortara. Poteva essere risentita con loro e desiderosa di vendetta. Inoltre c’era una discrepanza tra la testimonianza del medico dei Mortara e quella di Anna Morisi sul periodo del battesimo. Il medico infine aveva negato che il bambino fosse stato in pericolo di morte. In poche parole l’azione di Anna non avrebbe avuto un effetto sacramentale perché il bambino in realtà non era mai stato in pericolo di morte: «è una delle ironie della storia dell’unificazione italiana e della caduta del potere pontificio nelle legazioni che questo primo processo in Emilia [...] si trasformasse in un disputa sui requisiti che rendevano valido un battesimo. Il caso venne analizzato non tanto in base alle leggi dello stato quanto in base alla corretta interpretazione del diritto 35

canonico» .

Jussi contestò l'accusa sostenendo la validità della testimonianza della Morisi e del battesimo. In fondo Lepori e la Bussolari erano molto vicini ad ambienti ecclesiastici. Se hanno negato il loro coinvolgimento lo hanno fatto solo per proteggere loro stessi. Quanto all'affermazione della pubblica accusa secondo cui Edgardo non correva pericolo di vita al tempo del battesimo, anche se fosse vera non servirebbe a negare la validità del sacramento. Infatti nella tradizione della Chiesa un battesimo dato senza il consenso dei genitori era un atto perseguibile ma l'atto sacramentale in sé rimaneva pur sempre valido. Inoltre i coniugi Mortara sostenevano che il battesimo non fosse valido per l'assenza di testimoni. Tuttavia per il diritto canonico, come aveva stabilito papa Benedetto XIV, bastava solamente un testimone al battesimo, colui che lo eseguiva. Perciò l'imputato non avrebbe potuto agire diversamente: quando la Sacra Congregazione apprese che Edgardo era stato battezzato, ordinò all'inquisitore di prendere il bambino e di spedirlo nella casa dei Catecumeni a Roma. Ciò è avvalorato da un circolare del Governo delle Romagne inviata ai suoi rappresentanti all'estero in cui Gioacchino Pepoli (non certo un filopontificio) riferiva di un "non possumus" del papa alle richieste di restituzione del fanciullo. Dunque il papa avrebbe dato quell'ordine, o almeno come presidente della Sacra Congregazione del S. Uffizio lo avrebbe approvato. Una manifestazione così ferma e decisa del Santo Padre non poteva che avvalorare l'ipotesi per cui egli stesso emanò l'ordine. Infine, da un punto di vista giuridico, la Corte non aveva diritto di processare l'ex-inquisitore. Il principio di irretroattività della legge era in linea con le norme di diritto internazionale e lo Stato Pontificio era riconosciuto da tutte le nazioni europee. Perciò l'attività di inquisitore di padre Feletti poteva essere giudicata solo dal Sant'Uffizio, non da un tribunale secolare.

35

D. Kertzer, op. cit. p.337.

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Dimostrato e dichiarato che l'ex-inquisitore aveva agito per un ordine superiore, al quale non poteva disubbidire, P. Feletti fu assolto e dimesso dal carcere: «Il Tribunale [...] dichiara [...] che l'ablazione fu fatto di Principe. Che non era quindi, e non è luogo a procedere criminalmente contro gli esecutori dell'ablazione suddetta, e perciò contro il prevenuto Padre Pier Gaetano Feletti dell'ordine dei Predicatori, Già inquisitore del Santo Officio in Bologna, quale in conseguenza ordina che venga liberamente dimesso dal carcere»

36

.

Il processo fu aperto d’ufficio per ordine della più alta autorità in quel momento presente su Bologna. Ciò non può che avvalorare l’idea per cui il processo abbia avuto una forte valenza politica e sia stato eseguito per volontà del nuovo potere esecutivo, soprattutto in relazione alla diffusione che aveva avuto lo scandalo presso la stampa europea e gli ambienti diplomatici37. Più in generale è da notare come la magistratura del nuovo Stato, a maggior ragione in questa fase di confusa transizione politica, non godesse di una spiccata autonomia 38. Di per sé la carica di “dittatore”, conferita a Farini dallo Stato piemontese risultava straordianaria e temporanea, consentiva di invadere il campo giudiziario, ordinando al ministro della Giustizia di muoversi per arrestare i responsabili del rapimento. Tuttavia, come abbiamo visto, padre Feletti fu assolto. La forte volontà politica di cambiamento e condanna del vecchio sistema giuridico espressa da Farini fu di fatto inibita. Tutto ciò, analizzata la vicenda giuridica in modo obbiettivo, riteniamo sia avvenuto a causa di due fattori principali. In primo luogo a Bologna la classe dei magistrati era tutt’altro che rivoluzionaria. Così come la nuova classe politica, il ceto giudiziario proveniva per lo più dalla vecchia cerchia di nobili e notabili. Perciò i giudici incaricati ritennero di non potere condannare l’inquisitore per aver eseguito un ordine che gli era stato impartito dall’alto, per quanto fosse stato ingiusto e deprecabile. Non vi erano prove definitive che negassero il coinvolgimento del Sant’Uffizio nella vicenda e la ferma volontà del papa di trattenere il fanciullo avvalorava la versione della difesa. A una prima condanna dell’opinione pubblica europea sul caso Mortara non corrispose una sentenza adeguata: il diritto in questo caso fu utilizzato come arma difensiva che precluse una condanna aperta al precedente regime e al sistema di valori, fortemente confessionali, su cui si fondava. Il corpo di giudici fece prevalere i principi di legalità e di irretroattività della legge penale. Oltre alla magistratura, un altro elemento che influì pesantemente nello svolgimento del processo è da ricercare nel complessivo orientamento giuridico nella giustizia criminale che si era sviluppato 36

Atti processo p. 400, dalla seduta del 16 aprile 1860. Cfr. G. Volli, Il caso Mortara nell’opinione pubblica e nella politica del tempo, Bollettino del Museo del Risorgimento, 1960, 5, Bologna. pp. 1087-1152. 38 Il potere giudiziario, anche nel successivo sviluppo istituzionale dell’Italia unita, si configurò come potere debole, a scarsa legittimazione, rispetto al legislativo e all’esecutivo. G. Alessi, Il processo penale. Profilo Storico, Laterza, Bari, 2001p. 165. 37

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nel corso del XIX secolo. Il Codice Penale Napoleonico del 1810 aveva pesantemente influenzato gli orientamenti giuridici e le procedure degli Stati preunitari. Questo codice riaffermava solennemente i principi di legalità e di irretroattività della legge penale e la segretezza della fase istruttoria. Questi vennero mantenuti e risultarono fondamentali per il risultato finale del processo a padre Feletti: come sarebbe stato possibile infatti condannare un imputato sulla base dello stesso impianto legislativo che aveva determinato il suo atto criminoso? Gli atti del processo infatti fanno ancora riferimento alla legislazione precedente, in vigore durante la dominazione dello Stato Pontificio 39. La condanna viene formulata sulla base del Codice di procedura civile del 1817 uno dei più importanti prodotti della riforma consalviana della giustizia, un'innovazione di carattere liberale non esente dall'influenza della legislazione napoleonica 40. La durata della pena (da 1 a 3 anni) invece faceva riferimento all'Editto penale del 1832, un codice che rimase in vigore a Bologna fino all'1 maggio 1860 (è da notare come il processo a padre Feletti si concluse nell'aprile dello stesso anno) quando venne sostituito dal Codice di procedura penale del regno di Sardegna del 1859 41. Possiamo pensare quindi come il processo a padre Feletti comportasse non poche difficoltà ai magistrati, i quali, erano chiamati a orientarsi in un clima di incertezza giuridica, a cavallo tra due differenti ordinamenti differenti. Un’unificazione legislativa in campo penale infatti si avrà solamente nel 1865 con il Codice di procedura penale per il regno d’Italia.

3) Una contesa tra diritto naturale e diritto canonico Il dibattito che scaturì dal rapimento del piccolo Edgardo, a livello dell'opinione pubblica, ebbe la peculiarità di toccare un tema scottante come la condizione della minoranza ebraica nello Stato pontificio e più in generale il difficile confronto tra Chiesa e liberalismo. La disputa si radicalizzò tra cattolici e laici, o meglio, tra chi approvava la condotta di Pio IX e chi la condannava. In questo senso risulta interessante analizzare le argomentazioni, a distanza di più di un secolo e mezzo in modo obbiettivo, per cogliere i connotati culturali e ideologici che assunse lo scontro.

39

Il magistrato inquirente chiese che l’imputato «per gli effetti degli Art. 440 e 444 del Vig[ente] Codice di proced[ura] civ[ile] sia condannato nella pena comminata dagli articoli 133 e 200 dell’Editto penale 20 [...] 1832 contro i magistrati che hanno, abusando del loro potere prevaricato nell’esercizio delle loro attribuzioni» Atti processo, p. 401 retro. 40 N. Picardi, Alle origini della giurisdizione vaticana, in «Historia et Ius» n. 1 luglio 2012 pp. 1-2. 41 P. Magri (note e commenti), Regolamento sui delitti e sulle pene del 20 settembre 1832, Tipi di Giuseppe Vitali alle Scienze, Bologna, 1862. Il testo integrale dell’Editto è disponibile al sito: http://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Regolamento_penale_StatoPontificio_1831.pdf (data di ultima consultazione: 29/07/2013).

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Come abbiamo visto l'opinione pubblica e i maggiori Stati europei erano ostili alla condotta di Pio IX: il fanatismo religioso aveva spinto un sovrano ad allontanare un figlio dai propri genitori, minando il principio della patria potestà, un diritto naturale inviolabile. L'accusa principale, accanto a innumerevoli considerazioni sensazionalistiche sulle vicende individuali dei genitori, fu quella di privazione dell'esercizio dei diritti naturali. Oggi noi moderni parleremmo di attentato ai diritti umani. Come poteva del resto il diritto canonico essere superiore al diritto naturale? Quale gerarchia di valori poteva giustificare l'allontanamento di un figlio dalla propria famiglia? Eppure l'autorità paterna (quale che sia la fede dei genitori) era sempre stata un principio del diritto naturale e assumeva un posto centrale tra i capisaldi del sistema cattolico. I rimproveri alla Chiesa sul caso Mortara non arrivarono solamente da ambienti liberali: dall'interno stesso del cattolicesimo si erano levate voci discordi. L'abate Delacouture, sacerdote cattolico vicino al gallicanesimo, pubblicò nel 1859 un opuscolo intitolato "Il diritto canonico e il diritto naturale" dove sosteneva che il Vaticano, nell'affaire Mortara, non solo era andato contro alle norme del diritto naturale, ma anche a quello canonico 42. Facendo riferimento al teologo Tournely, Delacouture sosteneva papa e i suoi fautori avevano torto perché il bambino non fu mai in pericolo di vita, fu rapito quando non aveva ancora compiuto sette anni e le decretali del Corpus iuris canonici in base alle quali era stato compiuto l'allontanamento di Edgardo erano cadute in disuso 43. Tuttavia le argomentazioni di ordine canonico che utilizza Delacouture erano ancora in minoranza all'interno della Chiesa. Lo sviluppo del caso Mortara trova sue ragioni più profonde all'interno del dibattito teologico sviluppatosi all'interno della tradizione cristiana sulla scottante questione del battesimo invitis parentibus, ovvero sulla liceità del battesimo a un fanciullo il quale abbia genitori di fede non cattolica. Per la dottrina teologica tomista il battesimo di un fanciullo è lecito solo a queste condizioni: se il bambino è in pericolo imminente di morte; se è stato abbandonato dai suoi genitori; se si trova sottratto alla loro potestà senza speranza di rimedio; se uno o l'altro dei genitori acconsentono e vi è speranza di allevare il bambino cristianamente. Questo orientamento era stato riproposto da Benedetto XIV in due lettere apostoliche: Postremo mense e Probe te meminisse, risalenti rispettivamente al 1747 e al 1751. San Tommaso si era schierato apertamente contro il parere di Dun Scoto che riteneva lecito il battesimo forzato di fanciulli ebrei sottoposti all'autorità di un principe cristiano, reputando tale pratica contraria al diritto naturale. Solo nei casi sopra elencati il battesimo poteva essere conferito. Per questo motivo Benedetto XIV aveva stabilito pene 42

La traduzione italiana: Delacouture, Roma e la opinione pubblica d'Europa nel fatto Mortara. Atti, documenti, confutazioni. Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1859 43 Il distacco dalla famiglia era stato eseguito, secondo Delacouture, in relazione a una norma del 663 dal IV Concilio di Toledo (60° canone). Era un caso di oblazione, ovvero di bambino di famiglia infedele offerto alla Chiesa ancora in stato di incoscienza invitis parentibus (contro la volontà dei genitori). Cfr. G. Volli, Il caso Mortara (nel primo centenario), in «La Rassegna mensile di Israel», terza serie, Vol. 26.

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pecuniarie e censure canoniche per chi avesse operato un battesimo illecitamente. Tuttavia nel caso di battesimo illecito bisognava stabilire cosa fare del battezzato. La soluzione fu netta: nonostante l'illiceità dell'amministrazione del battesimo, era nondimeno necessario sottrarre l'infante ai genitori, o, nel caso ciò fosse già avvenuto, guardarsi bene dal restituirlo (un'argomentazione che non a caso utilizzò anche l'avvocato difensore dell'inquisitore padre Feletti). La ragione di questa disposizione risiede in una motivazione di ordine superiore, vale a dire nel pericolo di apostasia. Nonostante qualsiasi umana pietà, la Chiesa non aveva alcun diritto di esporre l'infante battezzato al rischio di apostasia e aveva il dovere di educarlo e preservarlo. Non era la fede dei genitori, era la fede della Chiesa che - nel battesimo - era imputata al bambino. Dunque, poiché valida anche se illecita, l'azione di quella domestica (convinta che il piccolo stesse per morire) rendeva la Chiesa stessa come prigioniera del suo dovere di non respingere quel suo figlio inaspettato e di assicurargli un'educazione cristiana44. Pio IX nel suo non possumus era quindi stato fedele alle disposizioni del suo predecessore Benedetto XIV e, pur confessando la sua sofferenza, rispondeva alle numerose pressioni esterne di non poter agire diversamente, rimarcando tra l'altro che il caso increscioso aveva avuto origine da una illegalità dei Mortara. In effetti, le leggi dello Stato pontificio proibivano agli ebrei di assumere personale di servizio cattolico. Tale pratica era assai diffusa e tollerata dalle autorità pontificie: le domestiche cristiane nelle famiglie ebraiche erano molto utili perché potevano lavorare durante lo shabbath. Le fantesche cristiane erano però da sempre causa di preoccupazione nelle famiglie ebraiche: c'erano stati molti altri casi di oblazione nel corso dell'800. E' per questo motivo che da Roma il distacco di Edgardo dalla famiglia era visto come qualcosa di ordinario e perfettamente il linea con la corrente teologica prevalente a quel tempo. D'altronde la minoranza ebraica all'interno dello Stato della Chiesa - circa 15.000 unità al tempo del caso Mortara - non godeva di diritti civili che garantissero una situazione di uguaglianza con il resto della popolazione cattolica. Fin dal periodo della Controriforma la presenza ebraica nello Stato della Chiesa era stata disciplinata da duri regolamenti che garantivano una segregazione su base confessionale. La minoranza ebraica era anche oggetto di pregiudizi e stereotipi molto diffusi a livello popolare come ad esempio l'accusa di deicidio o omicidio rituale che non a caso riguardava fanciulli. E' quasi superfluo sottolineare come a fine Ottocento lo Stato pontificio fosse l'unico stato che riuniva ancora gli ebrei all'interno di ghetti (quelli di Roma e Ancona). Una visione fortemente confessionale della società, come società

44

Cfr. C. Zendri, Umanesimo giuridico ed ebraismo. La questione del battesimo invitis parentibus nel pensiero di Ulrich Zasius. CEDAM, Milano, 2011. Disponibile parzialmente su Google Libri al link: http://books.google.it/books?id=JgelojVQ8eIC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=on epage&q&f=false (ultima consultazione 26/08/2013).

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cristiana, configurava il rifiuto a priori di tutta una serie di "libertà moderne" quali la libertà di associazione, di stampa e, appunto, di coscienza. Nel Sillabo (1864), un importante documento che testimonia lo scontro tra Chiesa e Modernità, Pio IX persisteva nella condanna della visione delle libertà moderne proposta dal giusnaturalismo di tipo illuminista/razionalista. Le stesse libertà a cui i diplomatici europei, le organizzazioni ebraiche e i patrioti italiani si appellarono per contestare la condotta di Pio IX sul caso Mortara. Emerge quindi evidente una frattura tra Chiesa e liberalismo dalla quale è scaturito un differente giudizio sulla vicenda di Edgardo Mortara, due orientamenti distinti, due visioni antropologiche differenti dell'uomo e del suo diritto naturale. Secondo la concezione posta dal liberalismo nei suoi presupposti giusnaturalistici, è necessario salvaguardare le libertà individuali all'interno di una società pluralistica. Esiste una sfera dell'esistenza umana che deve restare fuori d'ogni competenza pubblica e dinanzi alla quale si deve arrestare la giurisdizione di ogni tipo di sovranità. Le istituzioni vengono rivestite del ruolo primario di garanti delle libertà individuali. Da ciò consegue il separatismo tra Stato e Chiesa, altro elemento caratterizzante del superamento dell'ancient regime. Le libertà di fede e di educazione non potevano quindi in nessun modo essere intaccate da una sovranità esterna. Una violazione di questi principi rappresentava una sottrazione dei diritti della persona. Secondo la concezione del giusnaturalismo cristiano di matrice tomista, il diritto naturale dell'uomo non rappresenta altro che il riflesso della legge divina nell'uomo. La legge naturale conoscibile attraverso la sola ragione dell'uomo è subordinata alla legge eterna di Dio di cui la Chiesa, depositaria della rivelazione, non poteva essere che l'unica interprete autentica. E' evidente come questa prospettiva teocentrica di diritto naturale, inconciliabile con la nostra visione moderna dei diritti, fosse in aperto contrasto con quella antropocentrica, appartenente alla tradizione illuminista. Il caso Mortara provocò importanti ripercussioni, stimolando una ripresa nel pensiero cattolico del giusnaturalismo. Non è un caso che il successore di Pio IX, Leone XIII, operò una forte ripresa del diritto naturale (soprattutto nell'enciclica Libertas) come supremo criterio della visione cattolica dell'organizzazione della vita collettiva, contrapposta alla visione liberale. Pecci operò una costruzione della legge naturale legandola alla trascendenza e svincolandola dalla cultura politica che l'aveva prodotta45.

Conclusione

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D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, Mulino, Bologna, 2012 . pp. 70-80.

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Il rapimento del piccolo Edgardo Mortara da parte delle autorità pontificie fu un dramma familiare che, forte della sua grande diffusione a livello internazionale, ebbe importanti conseguenze. Su un piano politico fu un elemento che incoraggiò l'entrata in guerra della Francia al fianco del Piemonte nella II Guerra di Indipendenza 46. Dunque contribuì indirettamente al crollo del potere pontificio in Italia preparando vasti strati dell'opinione pubblica italiana. Inoltre stimolò una maggiore unità e cooperazione internazionale tra le comunità ebraiche che nel 1860 fondarono l'Alliance Israélite Universelle, un'istituzione che aveva lo scopo di incoraggiare l'emancipazione ebraica promuovendo i diritti civili e politici degli ebrei. I Mortara comunque si affidarono, grazie alla mediazione di un anonimo giurista cristiano, all'arma del diritto che venne utilizzata come strumento idoneo, anche se parziale, per smuovere le istituzioni a favore della propria causa. Ciò avvenne attraverso argomentazioni che non contestavano apertamente la legittimità del potere temporale ma argomentavano, grazie a uno strumentale uso del diritto canonico, l'assenza di validità dell'azione sacramentale della Morisi. Si tratta di un uso contestatario del diritto che non mette in discussione la legalità delle norme ma la legittimità di come esse sono state applicate dal governo pontificio. Questo modo di agire ha avuto l'effetto di delegittimare implicitamente il regime politico vigente anche attraverso la tempesta politica e diplomatica che ha scatenato. Sul piano giudiziario una conseguenza importante fu il processo al padre inquisitore Pier Gaetano Feletti che la capacità di mettere in evidenza come il diritto venga applicato in condizioni di transizione politica e cambiamento di un regime. Nonostante la forte volontà politica di Farini di stabilire una nuova legalità e condannare il regime precedente - colpevole di non garantire un principio fondamentale come l'uguaglianza giuridica - il processo si concluse con un'assoluzione. La ragione di questo esito risiede principalmente nell'adozione del principio di irretroattività della legge penale, presente nei sistemi giuridici ottocenteschi e nella complessità della fase di transizione giuridica, ancora ancorata ai codici del regime precedente. Una così palese violazione, che noi contemporanei intenderemmo come violazione dei diritti umani, non fu così perseguita dal nuovo Governo delle Romagne. Infine ci siamo soffermati sulle ragioni dell'inconciliabilità delle contrapposte visioni sul caso Mortara. Il rapimento di Edgardo fu operato secondo presupposti teologici risalenti alla dottrina tomista in merito al battesimo invitis parentibus. Questa privazione dei diritti naturali era giustificata da una concezione di diritto naturale opposta a quella del liberalismo europeo, legata alla trascendenza. Il caso Mortara come si è cercato di dimostrare ha la capacità di fare emergere 46

Ciò è sostenuto da G. Volli, Cfr. Alcune conseguenze benefiche dell’affare Mortara, in «La Rassegna mensile di Israel», terza serie, Vol. 28, No. 3/4,(Marzo-Aprile 1962), pp. 309-320.

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quella contrapposizione tra Chiesa e Modernità, tra Papato e diritti umani che è stata parzialmente risolta dall'apprezzamento fatto da Giovanni Paolo XXIII nell'enciclica Pacem in terris (1963) per la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948. Con questa dichiarazione si è manifestata, dopo lo scempio delle guerre mondiali, la volontà dei giuristi di integrare al diritto positivo dei principi di diritto naturale, di rivalutare all'interno delle norme giuridiche un sistema di valori condiviso. In questo senso il caso Mortara è stato un episodio anticipatore che ha messo in discussione la necessità di ricercare un fondamento esterno al diritto che potesse legittimarlo.

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Nicola Lugaresi

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