Guerra e teodicea. Un problema «borghese» tra XVIII e XIX secolo

June 16, 2017 | Autor: G. Graíño Ferrer | Categoría: War Studies, Nationalism, Theodicy, Enlightenment Political Thought
Share Embed


Descripción

GUILLERMO GRAÍÑO FERRER GUERRA E TEODICEA. UN PROBLEMA «BORGHESE» TRA XVIII E XIX SECOLO Hai tu un braccio come quello di Dio, e puoi tuonare con voce pari alla sua? Giobbe, 40:9

1. Una visione antropocentrica del male Una religione che postula l’onnipotenza, l’onniscienza e la perfezione morale della divinità è inevitabilmente coinvolta nella questione dell’esistenza del male nel mondo. Il problema diventa più evidente se la società nella quale tale religione è professata conosce e pratica la filosofia, e si accentua ulteriormente se, infine, l’attributo della perfezione morale della divinità è cosa distinta rispetto a quello della sua potenza, e se esso non equivale all’attributo della giustizia, ma, piuttosto, a quello della sua bontà. Tuttavia, la peculiare intensità con cui il problema della teodicea ha assillato la coscienza dei moderni non è dovuta esclusivamente alla crescente complessità filosofica che origina da quest’ordine di considerazioni; essa è dovuta, piuttosto, a un’urgenza psicologica che si manifesta in determinate situazioni (un’urgenza alla quale, verosimilmente, Agostino e Tommaso erano capaci di far fronte con una padronanza ben maggiore). L’uomo moderno ha infatti collocato l’utilità e il benessere al centro dell’organizzazione sociale e della sua stessa esistenza: per questo motivo, egli sembra più incline dei suoi predecessori a trasformare le sue disgrazie particolari in capi d’accusa contro la creazione, elevando in tal modo le sue sofferenze e quelle dei propri vicini al rango di categorie metafisiche. Traduzione dallo spagnolo di Luca Demontis e Matilde Greci

125

Ciò che qui interessa in particolare, è osservare come il problema della teodicea risulti potenzialmente destabilizzante nel momento in cui l’uomo moderno, pur non avendo smesso di credere in Dio, ha tuttavia iniziato ad attribuire un ruolo essenziale alla propria felicità, vale a dire nel momento in cui si verifica una sovrapposizione di due epoche in cui la benevolenza della Provvidenza si allinea con le aspirazioni umane. Senza dubbio, questo problema si ripresenta con rinnovato vigore ogni qualvolta la realtà si faccia carico di mostrare, con una delle sue sferzate (una morte improvvisa, una terribile malattia, una catastrofe naturale, una guerra), la sua totale indifferenza verso i fini che si pone l’uomo, o che questi, facendo esclusivo affidamento sulla sua inerzia psicologica, dà per presupposti nella sua esistenza ordinaria. Probabilmente il lettore avrà in mente il Candide e l’inflessione pessimista che prese piede intorno alla metà del XVIII secolo. Ricorderà, dunque, che il primo grande episodio in occasione del quale l’esperienza dell’amabile protagonista confuta gli assiomi delle metafisiche ottimistiche è la guerra tra Avari e Bulgari, vale a dire la Guerra dei sette anni. Ciononostante, per un illuminista che intende secolarizzare la storia e che rifiuta di postulare l’intervento della Provvidenza nelle vicende umane, Dio deve essere in buona misura assolto dalla responsabilità di tali orrori: «La carestia, la peste e la guerra – scrive Voltaire alla voce Guerra del suo Dictionnaire philosophique – sono i tre ingredienti più famosi di questo basso mondo [...]. Questi due doni [la carestia e la peste] ci vengono dalla Provvidenza. Ma la guerra, che riunisce tutti questi doni, ci viene dalla fantasia di tre o quattrocento persone»1. Peraltro è interessante osservare come Voltaire, nonostante la semplicistica attribuzione all’immaginazione di poche persone – attribuzione in certa misura condivisa, ad esempio, da Erasmo da Rotterdam e Pierre Bayle –, sostenga che la guerra non opera in maniera diversa dalla natura: «La natura è come quei grandi principi – dice il geometra de L’uomo dai quaranta scudi – per i quali non conta nulla la perdita di quattrocentomila uomini, 1

126

Voltaire, Dizionario filosofico, trad. it., Torino, Einaudi, 1995, p. 237.

a patto che realizzino i loro augusti disegni»2. Un’osservazione sorprendentemente simile a quella di Nietzsche – che, ricordiamolo, dedicò a Voltaire il suo Menschliches, Allzumenschliches: «La natura si comporta come la guerra, è indifferente al valore degli individui»3. Davanti all’impasse teorico in cui si imbattono coloro che, pur attribuendo tanto valore morale all’assenza di sofferenza, professano la fedeltà alle leggi di natura e criticano l’antropocentrismo, Voltaire preferisce restare fedele al suo spirito umanistico, piuttosto che abbracciare una crudeltà della natura dissolta nella sua grandezza. La sua opposizione alle soluzioni proposte da teodicee come quelle di Malebranche, Leibniz o Rousseau si manifesta, di fatto, nel suo restare costantemente sensibile all’empatia con le sofferenze sperimentate dalle anime individuali, oltre che nel suo rifiuto di attribuire una qualche validità pratica a tutti quei ragionamenti che mostrano l’armonia del Tutto e l’inflessibile necessità delle auguste leggi generali. Questa preferenza borghese4 era già condivisa dal grande formulatore del problema della teodicea nella modernità, Pierre Bayle: «[Monsieur Bayle] – afferma Leibniz – immagina un principe che fa costruire una città, e che, per mancanza di buon gusto, preferisce che abbia un aspetto di magnificenza […], anziché fornire agli abitanti ogni sorta di comodità»5. Lo smarrimento vissuto da Voltaire nello sperimentare il terrore davanti alla crudeltà umana e naturale conduce, invece, a risultati opposti nell’opera di Joseph de Maistre. Nelle sue Considerations sur la France, il provocatore sabaudo osserva che, davanti all’universalità della pratica della guerra, il

2 Voltaire, L’ingenuo e l’uomo dai quaranta scudi, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1998, p. 135. 3 F. Nietzsche, Frammenti postumi: 1869-1874, in Id., Opere di Friedrich Nietzsche, trad. it., 7 voll., Milano, Adelphi, 1992, vol. III.3.2, 32 [62], p. 385. 4 Cfr. L. Strauss, On Moses Mendelssohn, Chicago, University of Chicago Press, 2012, p. 156. Strauss qualifica come borghese la posizione di Bayle rispetto a quella di Leibniz per il suo preferire la comodità e la tranquilla benevolenza rispetto alla grandezza. 5 G.W. Leibniz, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, trad. it., Milano, Bompiani, 2005, § 215, p. 573.

127

naturalista Buffon avrebbe potuto estendere agli uomini le medesime considerazioni che valgono per l’enorme numero di animali destinati dalla natura a morire di morte violenta6. I conflitti bellici rappresentano la sublimazione umana di una legge di natura che cosparge senza sosta la terra di sangue, versato al fine di espiare la nostra colpa7. Come già in Voltaire, il problema si presenta qui in una forma molto più drammatica rispetto a quanto apparisse in quelle teodicee ottimiste che dirimevano la questione relativizzando l’esistenza del male nel mondo, tanto più che il Conte assume una posizione di sapore manicheo: il male ha un reale e ingente spessore ontologico in un mondo diviso. In Les soirées de SaintPetersbourg la guerra è presentata come la chiave di lettura per la risoluzione del problema della teodicea. Sotto questo aspetto, troviamo nella figura di de Maistre un’inversione perfettamente simmetrica del profilo voltairiano: lo stesso sconcerto davanti all’orrore che induce l’uno a escludere la possibilità di un intervento della Provvidenza nella storia spinge l’altro a non nutrire alcun dubbio intorno alla sua effettiva presenza. È interessante osservare come, sebbene molti illuministi si mostrassero stupiti da un punto di vista morale, essi non manifestassero alcuna perplessità nell’operare attribuzioni causali più o meno elementari – si pensi ad esempio alla già citata «fantasia di tre o quattrocento persone». Nella prospettiva di de Maistre, lo sconcerto provocato dalla guerra impedisce letteralmente di avanzare spiegazioni causali di ordine terreno, rendendola, come nessun altro fenomeno, una prova della presenza divina. I governanti non sono, dunque, il motore causale della guerra: essi non sarebbero in grado di esercitare alcun comando sulla volontà di coloro che, per il fatto stesso di obbedire, devono pagare un prezzo umano così alto. Un simile sconcerto coinvolge ogni aspetto della guerra: la sua origine, l’estrema facilità con cui essa ha inizio, il prestigio sociale che le viene associato, il suo esito, e, infine, lo strano stato 6 Cfr. J. de Maistre, Considerazioni sulla Francia, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 24. 7 Cfr. J. de Maistre, Le serate di San Pietroburgo, trad. it., Milano, Rusconi, 1971, pp. 396 ss.

128

di rapimento nel quale, con sorprendente leggerezza, sembrano condurla i suoi protagonisti8: Non sentite la terra che grida e invoca sangue? Non le basta il sangue degli animali e neppure quello dei colpevoli versato dalla spada delle leggi. Se la giustizia umana uccidesse tutti i rei, non vi sarebbe guerra; ma essa non può raggiungerne che un numero limitato e spesso li risparmia senza pensare tuttavia che la sua feroce umanità contribuisce a rendere necessaria la guerra, soprattutto se nello stesso tempo un’altra cecità, non meno stupida e funesta, lavora a spegnere l’espiazione nel mondo. La terra non ha gridato invano: la guerra divampa. L’uomo, colto all’improvviso da un furore divino, estraneo all’odio e alla collera, avanza sul campo di battaglia senza sapere quel che vuole e nemmeno quel che fa. Che cos’è dunque questo terribile enigma? Niente è più contrario alla sua natura e nulla gli ripugna di meno: compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire9.

La guerra è dunque il fenomeno nel quale, con maggiore evidenza, si palesa l’inadeguatezza di una spiegazione immanente: per renderla comprensibile è necessario postulare l’esistenza di un agente totalmente invisibile. Per de Maistre, ricordiamolo, «dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile»10. Per quegli esponenti dell’illuminismo che conservavano la credenza nell’esistenza di Dio, al contrario, l’intervento dell’invisibile risultava inevitabilmente ridotto, il che di conseguenza limitava drasticamente le risorse utili per affrontare il drammatico problema della teodicea. In un certo senso postulare un Dio razionale, senza dogmi né interventi sovrannaturali, rendeva le sofferenze del mondo ancora più incomprensibili, a meno di non optare per una soluzione ottimistica di tipo leibniziano che però era già stata respinta per il valore indiscutibile dell’esperienza del dolore umano. Pertanto, in palese contrasto con la tendenza della prima metà del Settecento, il Voltaire post-Lisbona e, ancor di più, de Maistre attribuiscono piena centralità al lato terribile dell’esistenza 8

Cfr. ibidem, pp. 399-401. Ibidem, pp. 397-398. 10 Ibidem, p. 469. 9

129

nella loro concezione del mondo. In questa prospettiva, la guerra offre un punto di osservazione privilegiato, una sorta di parossismo drammatico a partire dal quale definire i reciproci limiti tra l’autonomia dell’agire umano, la natura e la Provvidenza. La considerazione progressivamente acquisita da tale visione pessimistica muterà l’intuizione di un «Diofondazione» in favore di quella di un «Dio-abisso» pascaliano, un cambiamento dal quale de Maistre trarrà un chiaro profitto: la religione rivelata assimila la vertigine abissale con una coerenza ben maggiore rispetto a quanto possa fare il deismo. 2. Morire per la patria Fino a questo momento abbiamo preso brevemente in considerazione la guerra come un’importante, per quanto ambivalente, possibilità a disposizione degli autori per fornire risposte al problema della teodicea. Su queste basi, nelle pagine seguenti tenteremo invece di comprendere in quale modo le risposte date a tale problema siano state efficaci al fine di legittimare l’esigenza dei sacrifici individuali inevitabilmente richiesti dall’attività bellica. All’inizio del capitolo abbiamo esaminato il farsi largo nelle società europee della logica della ricerca del benessere e, con essa, della progressiva legittimazione delle aspirazioni particolari degli individui. Su questa strada, le società moderne si sono progressivamente allontanate da quell’indifferenza che abbiamo osservato con Voltaire e Nietzsche: «La nuova epoca» – scrive quest’ultimo – «va intesa come l’epoca che rifugge da tutte le conseguenze: non c’è niente che essa voglia avere per intero, compresa tutta la naturale crudeltà delle cose»11. Tuttavia, in quest’epoca le società non smettono di richiedere enormi sacrifici individuali per poter condurre la guerra: si origina in tal modo un conflitto frontale tra le aspirazioni dell’individuo e una società che esige dai suoi membri, quantomeno in occasione della guerra, il perseguimento dell’indiffe11 F. Nietzsche, Frammenti postumi: 1869-1874, cit., vol. III.3.1, 10 [1], p. 348.

130

renza che sembra improntare la nuda esistenza. Questo conflitto fu colto alla perfezione da Moses Mendelssohn, che ad esso dedicò parte del terzo dialogo del suo Fedone: Io penso piuttosto che qualora la conservazione della patria ineluttabilmente esiga, per esempio, che un cittadino perda la sua vita o almeno corra il pericolo di perderla, debba sorgere una guerra fra la patria e questo cittadino e, cosa rarissima, una guerra che è giusta da entrambi i lati12.

L’apparente assurdità di una guerra legittima da entrambe le parti si può risolvere soltanto se la vita degli individui viene concepita come immortale e se gli interrogativi sulla felicità terrena sono assorbiti nella prospettiva della totalità della vita eterna13. Di conseguenza, intendere i sacrifici come mezzo per la felicità e, in ultima analisi, accettare l’ordine morale dell’universo (ovvero adottare la soluzione ottimista al problema della teodicea) è necessario per porre termine all’inevitabile conflitto che si produce tra l’individuo e lo Stato in occasione della guerra14. Per Mendelssohn il carattere fondamentalmente assurdo di tale conflitto vale già, di per sé, come prova dell’esistenza di una vita eterna destinata alla felicità. È qui interessante osservare come la sua teodicea sia più borghese di quella del suo maestro Leibniz e ancora più di quella di Malebranche. Le condizioni dell’armonia generale e del grandioso ordine del cosmo non sono più sufficienti: per formulare una risposta realmente soddisfacente ai quesiti che concernono la bontà divina è necessario preservare la garanzia della felicità individuale15. 12 M. Mendelssohn, Fedone. Sull’immortalità dell’anima in tre dialoghi, trad. it., Brescia, Morcelliana, 2009, pp. 189-190. 13 Cfr. ibidem, p. 197. 14 Per Mendelssohn le proposizioni illogiche da un punto di vista morale lo sono nello stesso modo di quelle che lo sono metafisicamente: egli si difende dall’accusa di circolarità nei poscritti alla seconda e terza edizione, non inclusi nell’edizione italiana dell’opera. Per il riferimento preciso a questo dibattito cfr. la traduzione spagnola Fedón o Sobre la inmortalidad del alma, Valencia, MuVIM, 2006, pp. 216-217. 15 Per quanto Mendelssohn sia leibniziano e ottimista, e dunque avverso a Bayle, sotto certi aspetti i presupposti della sua soluzione del pro-

131

Ancora una volta possiamo rilevare in quale senso la trasformazione dell’uomo moderno, evidenziata all’inizio del capitolo, implichi una nuova considerazione dell’esistenza dell’individuo per quanto riguarda i suoi diritti non solo davanti allo Stato, ma anche davanti all’universo e a Dio stesso. Se il pessimista faceva delle sue disgrazie dei capi d’imputazione contro il creato, ora anche il nostro umanista ottimista, in posizione diametralmente opposta a Nietzsche, tende a considerare una condizione generale dell’esistenza quella benevolenza che la società deve auspicabilmente garantire agli individui. Da ciò si sarà evidentemente costretti a valutare la felicità dell’esistenza terrena a partire dal postulato della beatitudine eterna (anche contro coloro che credono nella realtà dell’inferno), al fine di giustificare una visione così contrastante rispetto alle esperienze con le quali Bayle e Voltaire avevano confutato l’ottimismo. Di fatto, siamo di fronte a un soggetto che abita l’universo come se questo fosse retto da un regime politico garantista; per quanto esso esiga terribili sacrifici, tali sacrifici non gli sono richiesti alla stregua di un’immolazione eroica e senza contropartita, come a un cittadino spartano, ma, piuttosto, come a un cittadino borghese. In breve, Mendelssohn considera il governo di Dio analogo a una monarchia costituzionale. In ogni caso, lo stesso Mendelssohn riconosce che non tutti coloro che muoiono eroicamente per la patria sanno dell’esistenza della vita dopo la morte: «in verità vi sono stati indotti dal cuore, non dall’intelletto»16, e questo perché, «sebbene le dimostrazioni possano convincerci, esse non possono muoverci all’azione». Pertanto, «è necessario fare appello a tutte le risorse che conducono alla virtù, senza escludere quelle puramente persuasive»17. Thomas Abbt, amico di Mendelssohn e ammirato da Johann Gottfried Herder, aveva dedicato proprio a questo blema della teodicea condividono una certa sensibilità con quelli di Bayle. A questo riguardo Strauss assume una posizione tesa a enfatizzare anche l’origine leibniziana di una simile sensibilità: cfr. L. Strauss, On Moses Mendelssohn, cit., pp. 160-161. 16 M. Mendelssohn, Fedone, cit., p. 188. 17 M. Mendelssohn, Recherches sur les sentimens moraux, Genève, Philibert, 1763, p. 88.

132

tema il suo influente Vom Tode für das Vaterland18. In questo modo, quei filosofi patrioti che non avevano preso in considerazione il furore sovrannaturale, di cui ha scritto de Maistre come una spinta per il soldato, cercavano un nuovo strumento per spingere il cittadino borghese delle monarchie moderne verso un eroismo apparentemente tanto estraneo al suo modo di stare al mondo e nella società. Ricordiamo che Montesquieu aveva dato origine a una polemica con il suo sostenere, in L’esprit des lois, che il principio che anima le monarchie è un desiderio di distinzione chiaramente distante dalla concezione ideale dell’onore, un onore che, per quanto sia «altrettanto utile al pubblico di quanto lo sarebbe quello vero», «da un punto di vista filosofico, è falso»19, lasciando così fuori i principi dell’autentica virtù e dell’amore per la patria20. Il problema dell’assenza di un vincolo patriottico tra gli individualisti e all’interno delle indolenti monarchie moderne si manifestò con una certa urgenza a coloro che, come Abbt, ammiravano da un lato lo splendore della monarchia illuminata di Federico il Grande, e, dall’altro, avvertivano la pericolosa mancanza di un patriottismo prussiano o alemanno, la quale rischiava di indebolire un regime esposto militarmente su così tanti fronti: «[In Germania] non si parla nulla, o quasi, del Cittadino»21. Di conseguenza la confutazione di Montesquieu, mediante argomentazioni capaci di richiamare l’uomo moderno ai suoi obblighi davanti alla patria con la stessa forza con cui poteva sentirsi vincolato uno spartano, fu un grande stimolo intellettuale per molti pensatori tedeschi e svizzeri della seconda metà del diciottesimo secolo. 18 Per comprendere in quale misura il testo di Abbt sia stato recepito a questo fine cfr. Ch. Clark, Iron Kingdom. The Rise and Downfall of Prussia, 1600–1947, London, Penguin, 2006. 19 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. it., 2 voll., Milano, Rizzoli, 1999, vol. I, p. 173. 20 Cfr. E. Piirimäe, Dying for the Fatherland. Thomas Abbt’s Theory of Aesthetic Patriotism, in «History of European Ideas», XXXV, 2009, pp. 196-197. 21 Prefazione di Thomas Abbt in M. Mendelssohn, Recherches sur les sentimens moraux, cit., p. XI.

133

Il giovane Abbt, traducendo in francese la Rhapsodie über die Empfindungen di Mendelssohn, afferma nel prologo che «La Filosofia del Cittadino è, tra tutte, la più utile, trovandosi nella più immediata relazione con la situazione in cui ciascuno si trova. Essa mostra i doveri di chi obbedisce e di chi comanda, e indaga le cause del benessere o del malessere di uno Stato»22. Tuttavia, una simile Filosofia del Cittadino deve necessariamente essere preceduta da una Filosofia dell’Uomo che Abbt mutua da Mendelssohn, ma che, sotto molti aspetti, sembra trarre origine da una fonte più lontana. Shaftesbury (autore che Abbt e Mendelssohn progettavano di tradurre insieme) aveva elaborato a tal proposito un’interessante difesa della socievolezza umana e della naturalezza delle virtù pubbliche fondata sulla contemplazione dell’armonia sociale, una virtù della quale non possono fare a meno nemmeno le monarchie ordinate: «Relazioni, amici, compatrioti, leggi, costituzioni, la bellezza dell’ordine e del governo, l’interesse della società e dell’umanità sono cose che […] fanno sorgere spontaneamente un’affezione più forte di quella che ha come unico oggetto il proprio sé»23. La completa naturalità della virtù politica teorizzata da Shaftesbury, insieme al ruolo che questi attribuisce alla bellezza nella morale24 – rinforzate, da un lato, dalla lettura di Helvétius e dalla sua filosofia del pubblico contenuta nel celebre De l’esprit, e, dall’altro, dalle teorie estetiche di Baumgarten e Meier25 – gettano le fondamenta che consentono a Abbt di teorizzare un patriottismo estetizzante, in accordo al quale la morte per la patria rappresenta la più virtuosa delle azioni. Lo stesso Shaftesbury afferma nel suo brillante Sensus communis che 22

Ibidem, p. X. Shaftesbury, Sensus communis. Saggio sulla libertà di spirito e di umorismo, in Id., Scritti morali e politici, trad. it., Torino, Utet, 2007, p. 182. In realtà, questi argomenti di Shaftesbury sono diretti contro Hobbes. 24 Cfr. ibidem, 197. 25 Mentre Piirimäe spiega estesamente l’influenza su Abbt dell’estetica di Shaftesbury, da un lato, e della matrice tedesca derivata da Baumgarten, dall’altro, Benjamin Redekop ignora questo aspetto e si concentra sull’eredità rispetto al tema della socievolezza naturale e della virtù pubblica. Cfr. 23

134

è strano pensare che la guerra, la cosa più barbara al mondo, sia capace di appassionare gli spiriti più eroici. Ma è in guerra che lo spirito di gruppo si contrae in modo strettissimo. In guerra, più che in qualsiasi altra occasione, ci si offre mutuo soccorso, si corre insieme il pericolo, e si esercita e si rivela di più il senso di comunanza. Eroismo e filantropia, infatti, sono una cosa sola26.

Questa passione sociale può però trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso, ovvero nello spirito di fazione e, in breve, nel fanatismo, pericoli dai quali è lontano l’individuo completamente egoista: «Lo spirito di fazione, per lo più, non sembra essere altro che un cattivo uso e un eccesso di quell’amore sociale e di quel senso di comunanza che è naturale nell’umanità»27. Davanti al riconoscimento della possibilità di una simile deviazione, sembra probabile che molti uomini sentano la mancanza di quel tranquillo egoismo, temperato e incanalato mediante il commercio, di cui scrivono altri filosofi moderni. È per questo che la virtù politica di Shaftesbury e dei suoi seguaci prende le mosse, come non poteva essere altrimenti, dal punto di vista individuale: «senza dubbio, essere egoisti in modo giusto è il massimo della saggezza»28. L’intento di conciliare un punto di vista indiscutibilmente borghese con il pieno riconoscimento delle virtù pubbliche è dunque la grande sfida affrontata da Shaftesbury e Mendelssohn. È a questo punto che il nostro tema di fondo assume piena rilevanza. Da un lato, la guerra rappresenta l’evento estremo nel quale risulta più difficile conciliare l’interesse particolare con il bene comune. Dall’altro lato, gli argomenti elaborati dalle teodicee ottimistiche che si mostrano più sensibili verso le aspirazioni individuali offrono, al filosofo orientato al patriottismo, gli strumenti per rendere possibile una simile conciliazione, ovvero per armonizzare le sofferenze individuali con la bontà del principio superiore – Dio o, nel nostro caso, lo Stato. E. Piirimäe, Dying for the Fatherland, cit., pp. 199-202; B.W. Redekop, Enlightenment and Community. Lessing, Abbt, Herder and the Quest for a German Public, Montreal, McGill-Queen’s University Press, 2000, pp. 129-132. 26 Shaftesbury, Sensus communis, p. 179. 27 Ibidem, p. 180. 28 Ibidem, p. 184.

135

In realtà Thomas Abbt – pur essendo un grande lettore di Bayle, ma più pessimista di Mendelssohn per quanto riguarda la Provvidenza29 – annovera tra le sue influenze più importanti non solo Shaftesbury, ma persino il grande poeta ottimista Alexander Pope. Shaftesbury risolve la questione sostenendo che l’uomo sarebbe completamente infelice senza le passioni sociali e che tali passioni si manifestano nel modo più radicale in occasione della guerra. Tuttavia, per quanto l’armonia tra il tutto e le sue parti giochi un ruolo fondamentale nella teoria di Shaftesbury, è probabilmente il pensiero di Pope, nel suo famoso Essay on Man, che più chiaramente ed esplicitamente congiunge le argomentazioni delle teodicee ottimiste con quelle legate all’ordine sociale30: Self-love but serves the virtuous mind to wake, As the small pebble stirs the peaceful lake! The centre mov’d, a circle strait succeeds, Another still, and still another spreads; Friend, parent, neighbour, first it will embrace; His country next; and next all human race31.

In questa grande catena dell’essere, tipica dell’ottimismo provvidenzialista del XVIII secolo, gli individui sono sia mezzi finalizzati alla perfezione del tutto, sia fini in sé medesimi: è questa la duplicità che regola le relazioni tra l’individuo e la 29

Cfr. L. Strauss, On Moses Mendelssohn, cit., p. 159. È la nota critica nei confronti di Pope mossa congiuntamente da Mendelssohn e Lessing nel saggio Pope ein Metaphysiker!, in cui è negata la possibilità di confrontare la poesia di Pope con il sistema di Leibniz. In questo testo gli autori sostengono la sicura influenza di Shaftesbury su Pope, pur negando che egli lo abbia inteso o rielaborato correttamente. Risulta curioso che, al contrario, Kant considerasse la teodicea di Pope superiore al sistema di Leibniz. Cfr. Strauss, On Moses Mendelssohn, cit., pp. 7-13; B.W. Redekop, Enlightenment and Community, cit., pp. 86-88. 31 «L’amor proprio ad altro non serve che a risvegliare la mente virtuosa, / Come un piccolo sasso agita un piccolo lago: / Toccato al centro, una piccola onda circolare si forma, / Ancora un’altra, e un’altra ancora s’estende; / Così essa prima abbraccia l’amico, il genitore , il vicino, / Poi la patria e infine la stirpe umana» (A. Pope, Saggio sull’uomo, trad. it., Macerata, Liberilibri, 1994, Epistola IV, p. 97). Sul tema cfr. B.W. Redekop, Enlightenment and Community, cit., pp. 135-138. 30

136

società realmente armoniosa ricercata da Abbt nella Vaterland. Come già sostenuto da Shaftesbury, Hutcheson, Mendelssohn o Lessing, le passioni umane opportunamente incanalate non possono costituire un elemento di disintegrazione della comunità ma, piuttosto, il suo fondamento. Così la guerra, anche se terribile, rappresenta la manifestazione più estrema della socievolezza umana e, in questo modo, può aiutare ad armonizzare e unire le parti di una patria che appare inesistente o disgregata quando i pericoli sono lontani e sono vicine le comodità. Il discorso sull’armonia sociale sfocia, in questo modo, nella difesa di una forma di monarchia repubblicana nella quale il merito e la cittadinanza sono elementi fondamentali per l’ordine pubblico32. Lo stesso Pope scrive: Honor and shame from no Condition rise; Act well your part, there all the honour lies33.

Così, in ultima analisi, il patriottismo estetico di Abbt si avvale delle elaborazioni delle teodicee ottimiste per conciliare le parti con il tutto nel caso estremo rappresentato dalla guerra, richiamandosi, come fanno Mendelssohn, Shaftesbury e Pope, all’armonioso legame esistente tra le passioni umane e le più drammatiche esigenze imposte agli individui dalla necessità politica. 3. Guerra e teodicea: una questione moderna La durata e la qualità della vita sono soggette a grandi variazioni. Si può trascorrere una lunga vita relativamente comoda e priva di grandi drammi; ma si può altresì sperimentare un orrore difficilmente immaginabile, per esempio partecipando a una guerra. È quindi impossibile non rilevare una

32 Sulla relazione tra teodicea e politica cfr. J. Israel, Leibniz’s Theodicy as a Critique of Spinoza and Bayle, in L.M. Jorgensen e S. Newlands (a cura di), New Essays on Leibniz’s Theodicy, Oxford, Oxford University Press, 2014. 33 «Onore e infamia di nessuna condizione son frutto; / Fa’ bene la tua parte, qui sta tutto l’onore» (A. Pope, Saggio sull’uomo, cit., p. 87).

137

grande discontinuità tra i vari tipi di esistenza possibili. Gli sforzi tesi a trovare un medesimo fondamento per la vita civile e in guerra non sembrano, quindi, esenti da difficoltà. In un certo senso, de Maistre costruisce la sua teoria sovrannaturale della guerra proprio a partire da questa discontinuità: l’uomo, che sente una compassione naturale nei confronti dei suoi simili, si dirige con animo tranquillo verso la carneficina, come se fosse una cosa del tutto normale. Bayle invece era terrorizzato di fronte alla distorsione del senso morale che associa il conseguimento della gloria sociale alla guerra34. Ciononostante, è pur vero che il conflitto bellico incentiva livelli di coesione e di spirito di servizio sconosciuti in tempo di pace. In altre parole, le ostilità politicamente organizzate contro un altro gruppo umano sono accompagnate da una compenetrazione più forte all’interno del proprio gruppo; o, almeno, questo è ciò che accade nelle guerre condotte non tanto dai nobili o da un corpo di professionisti, quanto piuttosto da tutto il gruppo, cioè dalla nazione. Sembra tuttavia dubbio che una simile unione sia compatibile con lo spirito di quelle società liberali moderne che, in un certo senso, rimpiazzano i vincoli sociali con il commercio. Come sostengono molti liberali, questa sostituzione rende gli individui meno virtuosi ma più sensibili al dolore e moralmente più transigenti, secondo una tendenza contraria a quella che si verifica in guerra (con maggiore intensità questo problema si manifesta nelle società borghesi, nel momento in cui esse iniziano a dare particolare importanza alle aspirazioni individuali). Ma è possibile individuare quale tipo di esperienza sia più autentica o prossima al fondamento dell’esistenza umana? Max Scheler ha scritto: «Chi sente spirare lo spirito divino solamente nello stormire dei pioppi e nel cinguettio degli uccelli, e non anche nel rombo dei cannoni, sarà forse un uomo più gentile, ma non un uomo […] completo»35. È senza dubbio affascinante chiedersi se una civiltà sensibile sia il vero punto di partenza morale o se, al contrario, essa sia 34

Cfr. E. Labrousse, Pierre Bayle, Paris, Albin Michel, 1964, p. 503. M. Scheler, Der Genius des Krieges un der Deutsche Krieg, Leipzig, Verlag der Weißen Bücher, 1915, p. 130. 35

138

semplicemente in balìa di un’anestetica décadence davanti alla dolorosa logica dell’esistenza. La guerra offre, a tale riguardo, un terreno estremo quanto proficuo per dirimere la questione: coloro che sostengono la prima tesi avranno senz’altro un’idea di Dio calibrata sulla nostra sensibilità (cioè benevola), mentre i secondi non tenteranno di attribuire moralità a una divinità né più amorevole né più crudele di quanto lo sia la natura. La teodicea rappresenterà un problema, dunque, solo per i primi. Per quanto concerne l’esperienza della guerra, essa può far precipitare entrambe le soluzioni. Da un lato, e in accordo con le posizioni di Voltaire o di Nietzsche, se la guerra presuppone una totale soppressione dell’individualità, essa eluderà il problema della teodicea: dove manca una certa sensibilità o predilezione per il punto di vista individuale il nodo si allenta, o appare meno urgente. D’altra parte, se l’animo non è completamente condizionato dalla guerra, l’esperienza dell’orrore potrà indubbiamente fornire innumerevoli motivazioni per recriminare davanti alla Provvidenza, mettendo in evidenza gli aspetti peggiori della variabilità dell’esistenza e costringendoci a prendere coscienza della drammaticità ad essa sottesa. Certo, sembra decisamente difficile comprendere ciò che, infine, fa oscillare l’uomo verso l’una o l’altra soluzione: «Qualche anima – scrive Eric Voegelin – reagisce più fortemente innanzi all’inadeguatezza del mondo, qualcuna innanzi alla magnificenza della creazione»36.

36 E. Voegelin, Le religioni politiche, in Id., La politica: dai simboli alle esperienze, trad. it., Milano, Giuffrè, 1993, p. 32.

139

Lihat lebih banyak...

Comentarios

Copyright © 2017 DATOSPDF Inc.