Governo e processo legislativo

August 9, 2017 | Autor: Marco Giuliani | Categoría: Italian Politics, Legislative Studies
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Governo e processo legislativo Marco Giuliani e Francesco Zucchini

1. Introduzione Il primo studio italiano su governo e processo legislativo è di poco precedente al quarantennio coperto dalla presente opera, e tuttavia costituisce l’inevitabile punto di partenza per la ricostruzione che ci apprestiamo a fare1. Ci riferiamo ovviamente alla ricerca diretta da Sartori sui primi tre parlamenti repubblicani e sul loro operato, e che invero raccoglie più lavori, di taglio eterogeneo, che coprono un terreno ben più ampio di quello trattato nel presente capitolo [Somogyi, Lotti, Predieri e Sartori 1963]. Una ricerca pioneristica, come dice Sartori stesso nell’introduzione, e che per caratteri e collocazione temporale si pone alla pari con quanto stava accadendo nella letteratura internazionale in materia, e in particolare con la rinnovata attenzione per il Congresso statunitense e per il comportamento dei suoi membri [Mezey 1993]. Lo sviluppo successivo non è stato all’altezza di un esordio così «cosmopolita»: pluridisciplinare, in linea con gli studi internazionali, originale nella categorizzazione e metodologicamente innovativo per l’epoca. Torneremo nel corso del capitolo su questa nostra tesi. Per il momento ci basta affermare che i quesiti, gli approcci e i metodi utilizzati in mezzo secolo di studi sul processo legislativo testimoniano una qualche dose di «autarchia» della scienza politica italiana. Se in altri paesi il tema ha guadagnato precocemente un proprio statuto autonomo, in Italia è spesso risultato funzionale all’interpretazione più generale del sistema politico; se nella letteratura internazionale sono state avanzate e sottoposte a verifica ipotesi specifiche di legislative politics, nel nostro paese sono prevalse ricerche di tipo esplorativo. Questa differenza ha permesso altrove la sperimentazione di esplicite comparazioni cross-country, mentre in Italia, al più, sono state utilizzate comparazioni within-case; in Italia le dinamiche studiate sono state prevalentemente inter-partitiche, forti dell’assunto della rilevanza della dicotomia governo-opposizione e maggioranza-minoranza, altrove sono stati meglio analizzati anche i rapporti esterni con l’elettorato o le dinamiche intra-istituzionali. In estrema sintesi, in questo campo di ricerca hanno prevalso studi esplorativi, aventi per unità d’analisi il partito politico, in una logica incentrata sugli assunti del party-government e con una prospettiva almeno in parte idiografica. La letteratura internazionale, che presentava inizialmente le medesime caratteristiche, si è gradualmente emancipata, proponendo ipotesi più complesse, testate sistematicamente e con intenti esplicativi, e in una prospettiva comparata [Norton 1998; Loewenberg, Kiewiet and Squire 2002].

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Due fattori impediscono una qualsiasi pretesa esaustiva della nostra ricostruzione critica: i limiti di spazio e l’estrema frammentazione dei lavori, che solo raramente sono confluiti in volumi dal respiro più ampio. La letteratura in materia è infatti prevalentemente composta da articoli e saggi sparsi, la cui sintesi è apparsa immediatamente problematica. Per una sua copertura sufficientemente affidabile è possibile però consultare la bibliografia ragionata dell’archivio storico del parlamento http://storia.camera.it/bpr. Il capitolo è frutto di un comune confronto sulle categorie da utilizzare e sulle opportune periodizzazioni; tuttavia i paragrafi 1-4 sono stati scritti da Marco Giuliani e 5-7 da Francesco Zucchini

Per meglio rendere conto di queste differenze, questo capitolo ha un impianto diacronico. Nel terzo paragrafo si renderà conto delle prime ricerche compiute dalla scienza politica italiana attorno al processo legislativo e alle sue istituzioni; successivamente si traccerà un filo che tiene insieme gli studi sparsi lungo il ventennio centrale osservato, mentre nel quinto e sesto paragrafo si darà conto del rinnovato interesse per l’argomento mostrato da nuove generazioni di scienziati politici, per poi concludere sulle prospettive future. Prima di incamminarci lungo tale itinerario dobbiamo però chiarire quali confini concettuali e disciplinari ci siamo imposti. A tale compito è dedicato il prossimo paragrafo.

2. Confini permeabili In altre comunità scientifiche si parla di legislative politics e del ruolo in essa giocato dagli esecutivi come di un’area di ricerca autonoma e specifica della scienza politica. In Italia non è possibile altrettanta certezza di attribuzione. Il diritto si è da sempre confrontato non solo con le regole del processo legislativo, ma anche con le sue prassi. La citata ricerca condotta da Sartori vedeva Alberto Predieri – noto costituzionalista – fra i co-curatori del volume, ed è proprio a lui che fu affidata la sezione sulla produzione legislativa. Ed è ancora da un’iniziativa di Predieri che nasce, a metà degli anni sessanta, un secondo e più ampio programma di ricerche sul legislativo, che vede la partecipazione di diversi politologi italiani. Tale interesse originario per i processi sostantivi e non solo per le forme giuridiche, passerà anche alle generazioni successive di studiosi di diritto costituzionale e parlamentare2. Ciononostante, qui limiteremo la nostra rassegna quasi esclusivamente ai lavori prodotti all’interno dei confini disciplinari della scienza politica. Esistono anche confini tematici, intradisciplinari, rispetto a cui non opereremo una cesura altrettanto netta, ma che vanno riconosciuti e che verranno oltrepassati solo in caso di chiara necessità. La funzione legislativa parrebbe tipica delle assemblee rappresentative, ancorché in modo dissimile fra parlamenti e congressi [Pasquino e Pelizzo 2006; Mastropaolo e Verzichelli 2006] e, all’interno dei primi, fra parlamenti di natura diversa. E quindi è proprio la natura delle assemblee rappresentative [Polsby 1975; Di Palma 1987; Morisi 1988a] a costituire un tipico tema di confine intradisciplinare. Il controllo conteso sulla funzione legislativa aiuta infatti a chiarire la natura e l’organizzazione del «sottosistema governoparlamento». Tuttavia lo studio di quest’ultimo tocca a sua volta aspetti diversi dalla mera funzione legislativa e finisce per riflettere i caratteri generali di un sistema politico se non di un modello di democrazia [Cotta 1987; 1995]. A sua volta, questo tema trascina con sé quello delle caratteristiche del ceto politico, che ha una sua lunga e autonoma tradizione nella scienza politica italiana. E, tuttavia, uno dei suoi confini più interessanti, che richiama proprio uno degli sviluppi della letteratura internazionale sulla legislative politics, è quello del cosiddetto «voto personale», cioè di quella quota di supporto elettorale che deriva a un parlamentare dalla sue qualità, attività e capacità [Cain, Ferejohn e Fiorina 1987]. In questa categoria ricade ovviamente il sostegno derivante dal servizio alla constituency, sia essa definita in termini geografici, professionali o di interessi variamente organizzati [Golden 2003; Golden e Picci 2008]. Pertanto i temi del voto personale ricadono evidentemente all'interno della letteratura sul ceto politico – chi sono e 2 Solo per citare qualche lavoro recente che riprende quella originaria ispirazione, possiamo citare il volume curato da Vesperini [1998] che si cimenta in una prima ricognizione del rendimento normativo dei “governo del maggioritario”, o quello curato Manzella [2013], che ricostruisce gli effetti dei cambiamenti interni alle regole parlamentari; ma avremmo potuto citare anche i lavori di Gianniti, Jervis, Lupo, Lippolis, Mattarella, ecc.

cosa fanno i nostri parlamentari [Russo 2013] – e tuttavia, hanno chiare ripercussioni sulle dinamiche legislative e sul rapporto legislativo-esecutivo. Per entrambe le fattispecie individuate si tratta di confini permeabili, che si attraversano senza troppe formalità, ma della cui presenza è necessario dare preliminarmente conto in un lavoro come questo, che non può essere inclusivo su tutti i fronti. 3. Primi passi Nella citata ricerca di Sartori sulle prime legislature repubblicane il traino delle scienze sociali è più che evidente, anche e soprattutto nel capitolo dedicato alla produzione legislativa, che pur è redatto da un giurista. Il lavoro di Predieri costituisce la prima esplorazione sistematica del processo legislativo in Italia. Si possono trovare approfondimenti sull’iniziativa legislativa di Parlamento e governo, sul suo tasso di successo, classificazioni sostantive delle leggi , indagini sull’impiego del tempo e i procedimenti utilizzati. Il tutto nella prospettiva longitudinale offerta dalle prime tre legislature repubblicane (1948-1963), e con sistematici tentativi di comparazione con la produzione legislativa di un sistema dissimile e tuttavia (con le dovute cautele) comparabile quale quello di Westminster. Nella ricerca vengono discussi in modo non scontato molti dei temi che segneranno gli studi dei decenni seguenti: l’inflazione legislativa, il ridotto spazio per un’azione delegata o regolamentare del governo, la disorganicità e frammentarietà dei provvedimenti e la bassa qualità tecnica dei testi approvati. Ma non si tratta di un semplice cahier de doléances. Esemplare, per quel periodo, l’analisi della tesi relativa all’eccesso di leggi. Esse erano sì tante già allora, e con una tendenza all’incremento, ma nella comparazione con il Regno Unito il raffronto non poteva essere meccanico. Bisognava prima esplorare i problemi di equivalenza fra un’attività normativa formalmente omogenea, come quella italiana, e la divaricazione fra (i pochi) atti del Parlamento e (la gran quantità di) normazione delegata che avveniva a Westminster. Per ricondurre la comparazione nei giusti binari, Predieri propone la categoria delle «leggine», cioè quelle norme di portata individuale, o i cui destinatari sono gruppi ristretti di cittadini, o che emendano al margine leggi preesistenti. Ebbene, una volta depurate da queste ultime, le leggi italiane non erano affatto superiori in numero agli acts britannici, e ne condividevano anche approssimativamente la lunghezza, intesa come proxy di rilevanza, ampiezza e complessità della norma approvata. Al tempo stesso, la comparazione fra leggine e private bills – formalmente ineccepibile – illumina invece il canale «perverso» del procedimento decentrato in Commissione a fronte delle garanzie previste dalle procedure britanniche. Abbiamo posto attenzione a un dettaglio di questa prima ricerca per mostrare come i suoi interessi originari, così come le stesse categorie proposte, influenzeranno notevolmente il modo di guardare al processo legislativo negli anni e nelle ricerche a venire. In particolare il concetto di leggine, la visione del procedimento in Commissione, la mancanza di un’autonomia regolamentare per il governo sono temi che arriveranno pressoché intatti fino alla fine degli anni novanta. Gli interrogativi aperti da quel primo lavoro saranno presto ripresi in modo sistematico. Preceduto da qualche saggio più breve, sarà proprio Predieri a dirigere un ampio progetto di ricerca – dal titolo Il processo legislativo nel parlamento italiano – i cui risultati furono pubblicati in ben otto volumi dal 1974 al 1981. L’ampio arco temporale fa sì che nel frattempo muti anche il periodo in cui l’oggetto d’analisi è indagato. Nel secondo e di gran lunga il più corposo e articolato volume dell’opera, Cantella, Mortara e Movia [1974] analizzano un campione di progetti di legge delle

prime quattro legislature, concludendosi la loro raccolta dati nel 1968. Più avanti, Cazzola [1974] e Cazzola, Predieri e Priulla [1975] iniziarono a ricomprendere proposte e progetti rispettivamente della quinta e anche sesta legislatura, mentre Cazzola e Morisi [1981] si concentrarono sui decreti legge fra la settima e l’inizio dell’ottava legislatura. L’unicità originaria della ricerca si riconosce dalle molte categorie comuni utilizzate, fra cui quelle del tipo di legge3 e dei suoi destinatari4, anche se ogni volume si specializza poi sul proprio oggetto di indagine: su una classificazione più puntuale dei caratteri dei decreti legge, piuttosto che su una disamina più sistematica dei comportamenti di voto od emendativi, e così via. E tuttavia una graduale inversione di rotta si scorge già all’interno dell’opera nel corso della pubblicazione dei vari volumi. Innanzi tutto, l’oggetto d’indagine cessa di essere fine a se stesso e almeno in parte diventa funzionale a comprendere altro: le relazioni governo-opposizione, gli spazi per l’esecutivo, la natura del sistema politico italiano. Non è né un bene né un male, ma è il segnale di un inserimento di questo filone di ricerca in un più ampio disegno interessato al sotto-sistema governo Parlamento più che alla funzione legislativa, come invece era avvenuto dalla prima ricerca di Sartori fino al secondo volume della ricerca di Predieri. Un secondo segnale di cambiamento sta nell’impianto tecnico delle analisi e nei riferimenti alla letteratura comparata. Il secondo volume di Cantella, Mortara e Movia [1974] ha un grado di sofisticazione metodologica che è sconosciuto ai volumi successivi; se questi ultimi mantengono un’attenzione all’analisi quantitativa, è in questo lavoro che tale analisi conquisterà una centralità e una consapevolezza tecnica ineguagliata per molto tempo in Italia negli anni a venire, anni che registreranno al contrario un sviluppo considerevole di questo tipo di analisi all’estero. In questo, come nel permanere dei riferimenti comparati, ci sembra che proprio il secondo volume dell’opera promossa da Predieri segni un limite, raggiunto il quale la ricerca italiana ha deciso di rivolgersi altrove.

4. L’età di mezzo Le età di mezzo, spesso si dice, non sono mai le più produttive o foriere di novità. Per quanto a rischio di tautologia, tale affermazione sembra valere anche per lo studio dei processi legislativi. Bisogna però chiarire meglio la periodizzazione. I primi contributi citati nel precedente paragrafo nascono da ricerche compiute ancora in buona parte negli anni sessanta: la redazione dei testi e i tempi editoriali dilatarono la loro pubblicazione lungo tutto il decennio successivo. E il punto è proprio questo. Sia in termini di dati sia in termini di categorie e di metodo, i vent’anni seguenti non brillano per innovazione e creatività, a prescindere dal successo e dall’importanza delle tesi sostenute. Proprio a cavallo fra i due periodi si collocano i lavori di Di Palma [1976; 1978; 1979], che hanno avuto una grande influenza nell’interpretazione del caso italiano. I dati legislativi su cui si basa Sopravvivere senza governare sono in gran parte i dati delle ricerche già citate, a cui l’autore aggiunge soprattutto un elevato numero di interviste a parlamentari membri dei tre principali partiti. Il fuoco si è già spostato su una più generale interpretazione 3

Estrattive, regolative e distributive, riprese e adattate dalla ripartizione di Almond e Powell [1970]. La distinzione più in uso è quella fra interessi generali, sezionali, microsezionali e individuali, ma nel volume di Cantella, Mortara e Movia [1974] è addirittura articolato in nove classi distinte. 4

dei comportamenti parlamentari alla luce delle teorie sartoriane del multipartitismo estremo e polarizzato. Sono i partiti al centro dell’analisi di Di Palma, e non più il processo legislativo. Anche se quest’ultimo serve a capire come si riesca a non governare, attraverso compromessi, scambi e rinvii, garantendo la sopravvivenza nel tempo degli attori politici nei loro rispettivi ruoli. La ricchezza di riferimenti comparativi, sia in termini di dati di confronto (non meramente diacronici) sia in termini di letteratura utilizzata, proprio mentre questi stessi riferimenti cominciavano a scarseggiare nella scienza politica italiana, spiegano l’eco e la rilevanza dell’opera. Il suo respiro insolitamente ampio stride in apparenza con la periodizzazione da noi proposta5. Mentre la letteratura internazionale andava spacchettando il legislativo nelle sue componenti, indagandone le strutture, le regole interne e le logiche di comportamento dei suoi membri, la scienza politica italiana compiva un po’ il tragitto opposto, ricollocando il legislativo in un quadro più ampio che rendesse conto della specificità, e talvolta anche dell’anomalia, dell’intero sistema politico italiano. Dalla seconda metà degli anni settanta alla seconda metà degli anni novanta tre paiono essere le tendenze principali: a) da un lato, l’aggiornamento delle analisi precedenti, con la novità rappresentata dall’interruzione anticipata delle legislature degli anni settanta e poi delle diverse formule politiche di governo: in questa tendenza possiamo credo collocare l’analisi di Motta [1985] sull’attività legislativa dei governi, così come la ripresa di uno dei temi peculiari del nostro processo legislativo, e cioè la decretazione d’urgenza come specchio dei rapporti fra governo e Parlamento e fra maggioranza e minoranza [Morisi e Cazzola 1981]; b) in secondo luogo, abbiamo l’ibridazione della letteratura sul legislativo con quella su partiti, interessi e, più in generale ancora sul sottosistema governo-Parlamento. Si tratta di uno di quei passaggi di confine segnalato nel secondo paragrafo, e che può essere esemplificato dal libro di Morisi [1992] sulle «leggi del consenso» o dal contributo di Cotta [1994]; c) infine, altro segnale di un diverso attraversamento di confine, è un trasversale interesse degli studi di policy per il legislativo. Law-making e policy-making non sono la stessa cosa, e le «cassette degli attrezzi» impiegate per comprendere i due fenomeni contengono in buona parte strumenti analitici diversi. Tuttavia, i due oggetti di ricerca sono anche strettamente imparentati, e fare ricerca sui loro confini non è cosa nuova né all’estero né in Italia. Le dinamiche del governare i problemi collettivi passano anche attraverso i processi legislativi, e la formulazione di politiche si intreccia costantemente con la produzione autoritativa di decisioni [Sartori 1987]. È difficile trattare una letteratura che, in buona parte, si frammenta nella ricerca empirica lungo linee definite dai settori d’intervento. Ciò nonostante, in modo assai diverso, il contributo di Dente e Regonini [1987] sul concetto di party-government applicato all’Italia6, e il volume di Morisi [1988b] sulla politica industriale italiana sono i primi segni di una possibile intersezione fra processi formali, istituzioni per la decisione e studi di policy. Un’intersezione che difficilmente potrà essere sistematicamente perseguita, ma che dalla seconda metà degli anni ottanta arriva, attraverso molte diramazioni, anche ai giorni nostri [Regonini 2012]. 5

Più o meno negli stessi anni si tentavano nuove strade comparate da parte di gruppi di ricerca internazionali, come testimoniato dai lavori di uno scienziato politico «italianizzato» in anni successivi quali Blondel [1970; 1973]. Vent’anni più tardi, gli sforzi comparativi confluirono invece nel volume curato da Döring [1995] che, da quel momento, costituì il nuovo punto di riferimento per gli studi sul legislativo sul nostro continente. 6 Il party-government, nella letteratura politologica italiana rappresenta da solo un incrocio di lavori da prospettive diverse, in cui l’efficacia legislativa dei governi è uno dei possibili sfondi interpretativi; sul tema, tra altri, Pasquino [1987], Vassallo [1994], la parte seconda di Caciagli, Cazzola, Morlino e Passigli [1994], Cotta e Isernia [1996], Fabbrini e Vassallo [1999].

5. Una nuova generazione Sul finire degli anni novanta il processo legislativo attira una nuova generazione di studiosi. I loro contributi spesso ispirati a filoni della scienza politica statunitense sviluppatisi nei due decenni precedenti, sono arricchiti da una mole considerevole e crescente di dati, resi facilmente accessibili dalla messa online di una discreta quantità di informazioni sui nuovi siti web del parlamento. Il collasso della Prima Repubblica e la faticosa trasformazione del sistema partitico offrono a questa generazione un’opportunità ignota alle precedenti, perché consente di valutare esplicitamente l’effetto del mutamento delle regole elettorali e della dinamica del sistema partitico sul processo legislativo. E però, proprio perché i mutamenti in atto sono ancora recentissimi quando i primi contributi vengono alla luce, non è chiaro se raccontino gli equilibri di un nuovo sistema politico o una transizione ancora in essere. La domanda di ricerca più ricorrente di questi studi ruota (ancora) intorno al livello di consenso del processo legislativo e alla possibilità che la transizione, con le sue critiche al «consociativismo all’italiana», avesse inciso sulle sue pratiche. È un quesito che si ricollega naturalmente ai due tipi ideali di Parlamento – policentrico e avversariale – proposti da Cotta [1987; 1994], e conseguentemente al ruolo esercitato dal governo nel processo legislativo. Nel medesimo anno compaiono ben tre contributi che gravitano attorno al tema del consenso e/o dell’efficacia decisionale dei governi. De Micheli [1997] pubblica una ricerca che copre le ultime legislature della Prima Repubblica: la persistente debolezza dell’esecutivo e l’alto livello di consenso dell’ultima fase della Prima Repubblica vengono discussi congiuntamente, e congiuntamente fatti risalire, vista l’evidente depolarizzazione ideologica all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, alla crescente frammentazione partitica in Parlamento. La classificazione della produzione legislativa in microsezionale, sezionale e nazionale consente inoltre all’autrice di confutare le tesi di quanti considerano la crescita dei decreti legge come complementare al calo delle leggine (ossia di provvedimenti microsezionali). Il lavoro di Zucchini [1997] non aggiunge nuove evidenze empiriche allo studio della fase finale della Prima Repubblica, ma si avventura in un esercizio di interpretazione del caso italiano alla luce delle teorie razionali del Congresso statunitense. L’idea generale è che combinazioni di caratteristiche istituzionali anche molto diverse fra loro possano produrre processi decisionali simili. Secondo il resoconto più in voga presso gli studiosi del Congresso degli anni ottanta, i processi decisionali sarebbero caratterizzati da un elevatissimo grado di consenso dentro le commissioni (universalism) e di deferenza reciproca fra commissioni (reciprocity) [Fiorina 1981; Weingast 1979]. I partiti non giocherebbero un ruolo rilevante e a dominare sarebbero gli interessi delle constituency elettorali dei membri del Congresso. L’autore argomenta che, sia nel caso italiano sia in quello statunitense, le minacce alla sopravvivenza politica/elettorale per gli eletti proverrebbero dai futuri sfidanti ancora esterni all’arena legislativa. Forte sarebbe pertanto la spinta a cooperare tramite accordi unanimi o quasi unanimi in commissione fra parlamentari di partiti di maggioranza e quelli delle opposizioni su provvedimenti tipicamente distributivi. Il «gioco» delle leggine, che negli Stati Uniti chiamerebbero pork barrel politics, sarebbe qui facilitato dall’assenza di cooperazione fra i leader partitici nel gioco delle grandi politiche. Il consociativismo parlamentare sarebbe pertanto un effetto collaterale dello stallo che caratterizza quelle che Cotta [1996] chiama mesopolitiche, e allo stesso tempo ne attenuerebbe i costi in termini di consenso elettorale. Sebbene suggestiva, questa interpretazione non affronta i mutamenti

del processo legislativo degli anni più recenti e non collega esplicitamente il livello di consenso all’efficacia dell’azione di governo in Parlamento. Quest’ultimo aspetto verrà affrontato alcuni anni più tardi, ma nell’ambito di un framework teorico, quello dei veto players, in cui i partiti giocano un ruolo decisivo [Zucchini 2001a]. Ancora diverso è l’articolo pubblicato da Giuliani [1997]. Esso copre anche la prima legislatura eletta con le nuove regole elettorali (1994-1996) e, oltre alle leggi approvate in sede legislativa, vengono per la prima volta considerati sistematicamente i disegni di legge sponsorizzati dai parlamentari provenienti da partiti di governo e di opposizione, e i comportamenti di voto in aula. L’autore ritiene che l’evidenza empirica raccolta lasci intravedere una sostanziale persistenza di pratiche consensuali. Successivamente, egli argomenterà che la diminuzione di leggi approvate in sede legislativa sarebbe più che compensata da un imponente numero di leggi approvate in aula con amplissime maggioranze [Giuliani 2008]. Questa evidenza empirica sembrerebbe cozzare con quanto sostenuto autorevolmente venti anni prima da Sartori. Le pratiche consociative del Parlamento italiano non sarebbero insomma confinate al mondo della politica invisibile. L’estensione e varietà di suggestioni provenienti dalla letteratura internazionale è ben rappresentata dal libro curato da Capano e Giuliani [2001a]. Il volume è caratterizzato da una base dati comune a quasi tutti i capitoli, e la sua parte centrale è dedicata in modo sistematico allo studio di alcune commissioni parlamentari. Per ogni commissione l’autore è diverso, in genere si tratta di uno specialista dell’area di policy che contraddistingue maggiormente i lavori della commissione stessa. Accanto ad una descrizione «quantitativa» del processo legislativo strutturata in modo identico per tutte le commissioni, ciascuno specialista si esercita poi in un’interpretazione delle informazioni raccolte alla luce dei framework teorici con i quali è solito leggere i processi di policy che più lo interessano. Il filo conduttore che attraversa l’opera è il confronto fra le ultime legislature della Prima Repubblica e quelle più recenti. I vantaggi di questa operazione sono quelli di allargare la ristrettissima platea di esperti del legislativo agli studiosi delle politiche pubbliche e quella di esporre i lettori ad una pluralità di approcci teorici. I limiti sono ovviamente quelli di introdurre troppe fonti di variazione che non rendono agevole la comparazione fra commissioni. Contrariamente all’esempio più celebre e per certi versi inarrivabile di Fenno [1973], l’assenza di una comune chiave interpretativa e la mancanza di informazioni «qualitative» sulla natura del processo decisionale non consentono di isolare al meglio le peculiarità di ciascuna commissione. Nella parte introduttiva del libro, quella i cui capitoli sono dedicati ad argomenti trasversali e più generali, Vassallo [2001] mostra come l’esecutivo durante la transizione e nei primi due anni della 13° legislatura abbia sistematicamente eluso le procedure legislative ordinarie tramite l’utilizzo crescente dei decreti legge7 e soprattutto delle leggi delega. L’aumento delle leggi delega, e conseguentemente dei decreti legislativi, è un fenomeno che è destinato a permanere nel tempo e che verrà ripreso più avanti, sia da chi argomenta a favore di un sostanziale rafforzamento del governo nei processi decisionali delle legislature della Seconda Repubblica [Zucchini 2010; 2011], sia da chi, al contrario valuta questa crescita e quella di altre prassi come prova di una debolezza [Capano e Giuliani 2001b; 2003]. L’aspetto più suggestivo del capitolo di Zucchini [2001b] è invece il tentativo di connettere gli studi sulle élites parlamentari a quelli sul processo legislativo. Ispirato agli studi statunitensi in materia [Shepsle 1978; Krehbiel 1992], l’autore indaga sulla distribuzione dei parlamentari nelle commissioni e sull’intensità della loro partecipazione ai lavori delle stesse a seconda delle professioni svolte prima dell’ingresso in Parlamento. Quanto la pubblicistica sospetta, ossia una forte 7

Si veda anche Della Sala e Kreppel [1998] e Musella [2012].

corrispondenza fra il tipo di commissione e gli interessi della professione su cui la commissione stessa potrebbe promuovere l’iniziativa legislativa o addirittura legiferare (o astenersi dal fare entrambe le cose), è confermato in modo sistematico e senza significative differenze fra le legislature della Prima e della Seconda repubblica. Non è facile per i curatori di quell’opera collettanea pervenire nelle conclusioni ad una sintesi ed interpretazione unitaria. Una lettura più netta e chiara compare in due articoli redatti successivamente [Capano e Giuliani 2001b; 2003]: essi sostengono ad un tempo il rafforzamento del governo nel processo di produzione di norme e la straordinaria resistenza al cambiamento dell’istituzione Parlamento. La combinazione di queste due caratteristiche, in astratto incompatibili, produrrebbe governi attivi, ma ancora troppo fragili, parlamenti ancora molto consensuali e istituzionalmente impermeabili ai mutamenti delle regole elettorali e del sistema di partito, ma anche sostanzialmente meno «centrali». Ribaltando il celebre titolo del libro di Di Palma nell’Italia dei primi anni del terzo millennio si governerebbe senza sopravvivere.

6. Una prospettiva sempre più comparata , una metodologia sempre più sofisticata. Negli anni successivi osserviamo almeno quattro sviluppi: a) si accentua l’attenzione ai frames teorici originatisi nella letteratura internazionale, in particolare nell’ambito della rational choice; b) l’indagine empirica avviene sempre di più in una prospettiva comparata; c) le domande di ricerca, riflettendo i quesiti che nel frattempo si impongono nel dibattito internazionale, sono in molti casi assai più specifiche di quelle del periodo precedente; d) cresce la sofisticazione dei metodi statistici di verifica delle ipotesi, di pari passo con la mole di dati nel frattempo raccolti. Testimoni della prima tendenza sono un contributo di Zucchini [2005] nel quale il lettore è introdotto alla teoria principale-agente e alle sue possibili applicazioni nello studio dei processi legislativi ed uno di Verzichelli [2003], nel quale la stessa teoria è usata per ricostruire la catena di delega che caratterizza il sistema politico italiano, dall’elettorato fino alla burocrazia, passando per lo snodo cruciale che lega il Parlamento all’esecutivo. Altri esempi rilevanti di attenzione agli sviluppi teorici di oltreoceano sono rintracciabili in campi di ricerca contigui e collegati a quello del processo legislativo, ovvero alla formazione dei governi e la distribuzione degli incarichi ministeriali [Verzichelli 2008; Curini e Martelli 2009; Curini e Pinto 2011]. Un esempio, ma altri se ne potrebbero fare [Giuliani 2002; Ieraci 2003; Verzichelli e Mastropaolo 2006] di attenzione alla prospettiva comparata è il libro pubblicato da Pasquino e Pelizzo [2006]. Mentre comparano struttura e funzioni dei parlamenti democratici contemporanei in Europa e negli Stati Uniti, i due autori si confrontano costantemente con la letteratura internazionale contemporanea e in alcune parti propongono non solo nuove classificazioni, ma anche analisi secondarie più o meno sofisticate tese a controllare ipotesi scaturite nella letteratura. Là dove i processi legislativi dei parlamenti europei, e in particolare di quello italiano, sono oggetto di trattazione, è ribadita una lettura sartoriana che fa dipendere l’interazione governoparlamento dalla morfologia e dinamica del sistema dei partiti. La comparazione fra paesi, per quanto auspicabile, non è certo immune da rischi e fraintendimenti. In un articolo metodologico di quegli stessi anni Giuliani [2005] mostra come il confronto fra dati del legislativo di paesi dalla diversa architettura istituzionale sia denso di trappole e ambiguità perché profondamente diverso può esser il significato di quanto si finge identico: una legge, un disegno di legge, la durata del processo decisionale.

In realtà la letteratura scientifica italiana non sembra correre molti di questi rischi. Purtroppo, occorrerebbe aggiungere. Quasi nessuna delle ricerche pubblicate sul processo legislativo infatti combina dati di paesi diversi per testare l’effetto di variabili di sistema su caratteristiche del processo legislativo. Un articolo che indaga sul rapporto fra dinamica del sistema partitico e potere di agenda legislativo dei governi in diciassette democrazie parlamentari è una parziale eccezione [Zucchini 2011]. Per lo più, nella maggior parte degli studi italiani la comparazione è per così dire garantita dalla stessa vicenda «domestica»: un unico paese ma due sistemi politici o per lo meno due insiemi di regole elettorali e dinamiche del sistema di partito, uno precedente al 1994 e l’altro successivo [Giuliani e Zucchini 2008]. Come si è detto, ambiti e domande di ricerca si fanno nel tempo più specifici e numerosi. Il processo di emendamento [Capano e Vignati 2008], la formazione della legge di bilancio [De Giorgi e Verzichelli 2008; Forestiere e Pelizzo 2008], la compattezza dei gruppi parlamentari al momento del voto [Curini e Zucchini 2012], la durata del processo legislativo [Borghetto e Giuliani 2012], il ruolo delle istituzioni europee [Borghetto, Giuliani e Zucchini 2009; 2012] sono tutti argomenti che si aggiungono progressivamente a nuove indagini sul livello di consenso e sull’efficacia dei governi nel processo decisionale [Pelizzo e Babones 2001]. In alcuni casi le ipotesi di ricerca sono ricavate direttamente dalla letteratura internazionale, in altri sono elaborazioni originali suggerite dalle peculiarità del caso italiano. È un esempio del primo tipo l’indagine sulle votazioni finali in aula dal 1988 al 2008 [Curini e Zucchini 2010] condotta per testare le principali teorie «positive» sul processo legislativo [Cox e McCubbins 2005; Tsebelis 2002]. Appartiene alla seconda fattispecie l’indagine sulla compattezza dei gruppi parlamentari italiani nel voto sulle leggi [Curini e Zucchini 2012] e quella sulle trasformazioni in Parlamento dell’iniziativa legislativa governativa [Pedrazzani e Zucchini 2012]. Quest’ultimo lavoro, sulla scorta degli studi di Martin e Vanberg [2005; 2011] sulla cosiddetta legislative review, riconduce le difficoltà del governo italiano a proteggere in Parlamento la propria iniziativa legislativa, non diversamente da quanto emerso in altri paesi, alla conflittualità interna al governo e non a quella fra governo e opposizione. Il Parlamento sarebbe centrale come arena governativa supplementare dove il conflitto sopito in Consiglio dei Ministri si riaccenderebbe nella battaglia parlamentare degli emendamenti.

7. Conclusioni La recente proliferazione di temi a cui si accompagna una crescente padronanza delle tecniche statistiche di verifica delle ipotesi testimoniano l’inserimento degli studi del legislativo italiano contemporanei nel dibattito internazionale. Non solo e non più, come avveniva anche solo alcuni anni fa, gli studiosi italiani cercano di divulgare presso la comunità scientifica italiana le teorie più recenti affermatisi nella letteratura internazionale ma, approfittando della peculiarità del caso italiano prima ricordata, ambiscono a contribuire creativamente a tale dibattito. La «deriva autarchica» dell’età di mezzo sembra definitivamente alle spalle, e uno degli obiettivi è anzi quello di fornire dati e strumenti per l’analisi comparata all’intera comunità scientifica [Borghetto, Curini, Giuliani, Pellegata e Zucchini 2012]. Come tuttavia in un movimento del pendolo, la tempestività ad adeguarsi ai temi e metodi prevalenti negli studi sul legislativo della scienza politica internazionale sembra rinviare ad un futuro indefinito le interpretazioni complessive, quelle in grado di ricollocare il processo legislativo italiano contemporaneo nell’architettura complessiva del sistema politico. In altre parole, sebbene non manchino tentativi di sintesi e opere di inquadramento generale e di

riepilogo [De Micheli e Verzichelli 2004], non è ancora comparso uno studio sistematico che ricomponga in un’interpretazione unitaria del caso italiano della Seconda Repubblica i pezzi di analisi e studi fino ad oggi condotti, (né tanto meno una proposta di taglio comparato che ambisca a proporre un teoria generale del processo legislativo). Perché? Alcuni autori che abbiamo citato provengono dagli studi di policy e quindi è probabile che esista una certa diffidenza verso la generalizzazione di dinamiche decisionali che prescindano dal contenuto di policy di tali processi. È indubbio, tuttavia, che anche fra chi sarebbe maggiormente ben disposto a tali generalizzazioni il compito appare ancora molto arduo. Qualsiasi tentativo dovrebbe essere confortato da un’evidenza empirica più chiara ed univoca mentre, al contrario, i dati restituiscono ancora oggi un’immagine del processo legislativo contraddittoria, il profilo di un «animale» impossibile, un ippogrifo o ircocervo che non dovrebbe sopravvivere in natura. E che forse, in effetti, non sopravviverà.

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