Goffredo Parise e Il prete bello - Alice Mazzara
Descripción
Universität Leipzig Alice Mazzara Seminario “Raccontare il Nordest” Prof. Nievo Del Sal W.S. 2014/2015
Goffredo Parise e “Il prete bello”
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Indice Introduzione …………………………………………………………………………………………………………………………........ 3 La vita ………………………………………………………………………………………………………………………….................. 4 La genesi ………………………………………………………………………………………………………………………….............. 5 La trama …………………………………………………………………………………………………………………………............... 6 I personaggi ………………………………………………………………………………………………………………………............ 6 L’analisi ………………………………………………………………………………………………………………………................... 8 La critica ………………………………………………………………………………………………………………………............... 10 Il confronto con i “Sillabari” ……………………………………………………………………………............................. 11 Conclusioni ………………………………………………………………………………………………………………................... 14 Bibliografia ……………………………………………………………………………………………………………….................... 15
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Introduzione L’obiettivo di questo lavoro è di arrivare ad un’esaustiva comprensione e interpretazione del romanzo “Il prete bello” di Goffredo Parise. Per far ciò, ho ritenuto necessario partire dalla biografia dell’autore poiché risulta essere un elemento essenziale nell’ analisi delle sue opere. Per quanto concerne il testo in sé, ho deciso di trattarlo a partire dalla sua genesi e dalla sua apparizione alquanto travagliata. L’esposizione della trama e l’analisi dei personaggi seguono questa parte come momenti indispensabili per la comprensione di un testo in prosa. Nucleo che considero centrale nella mia tesina è l’analisi del testo, alla quale ho deciso di dare un’impronta personale scaturita da un attento studio del romanzo e al contempo da una sua piacevole lettura. Per quanto riguarda l’apparato critico ho scelto di soffermarmi sui giudizi degli intellettuali contemporanei a Parise e in particolare sulle personalità più di spicco nel mondo della critica letteraria di metà Novecento. Infine si è cercato di operare un confronto con quello che è considerato il capolavoro di Parise i “Sillabari”. Le fonti che ho adottato per sviluppare il mio percorso consistono in un’opera monografica sull’autore, due articoli tratti da riviste letterarie, un saggio dedicato a Parise da parte di un altro scrittore, il testo in cui lo stesso Parise racconta del suo rapporto con Leo Longanesi, un saggio di un celebre psichiatra sulle figure ecclesiastiche del mondo della letteratura, un’intervista a Giosetta Fioroni per l’anniversario de “Il prete bello” e due pagine web riguardanti la biografia dello scrittore.
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La vita Goffredo Parise nasce a Vicenza l'8 dicembre 1929 da Ida Wanda Bertoli, figlia adottiva di Antonio Marchetti, proprietario di una fabbrica di biciclette. Il padre abbandona Ida Wanda prima della nascita del figlio. Goffredo trascorre la sua infanzia nella casa dei nonni in uno stato di isolamento, probabilmente imposto per cercare di proteggere il bambino dalle dicerie del quartiere. Le condizioni economiche della famiglia si risollevano quando la madre di Goffredo sposa Osvaldo Parise, direttore del “Giornale di Vicenza”, il quale pochi anni dopo decide di riconoscere il bambino come suo figlio adottivo. La carriera scolastica di Goffredo non si può definire proprio brillante e lo stesso scrittore si chiamerà retrospettivamente “asino”. La scuola e la letteratura italiana lo annoiano, ma al contempo coltiva alcune letture personali tra le quali Dostoevskij, Kafka, Sartre. Si diploma nel 1947 e in quegli stessi anni inizia a manifestarsi la sua passione per la pittura. I suoi lavori ricordano i dipinti di Chagall i quali ammirerà dal vivo alla “Biennale di Venezia” del 1948, convincendosi ad abbandonare la pittura. Tuttavia, l’arte continuerà a essere una componente necessaria della vita di Parise, ma in altra forma stavolta, quella letteraria. Infatti, nel 1951 esce il suo primo romanzo pubblicato da Neri Pozza, “Il ragazzo morto e le comete”, che non riscuote particolare successo. Il percorso universitario all’ateneo di Padova non lo porterà mai ad una laurea, ma durante gli anni degli studi inizia l’apprendistato di giornalista in alcune testate locali, introdotto nell’ambiente dal padre adottivo. Stipulato un contratto con la casa editrice “Garzanti”, si trasferisce a Milano e nel 1954 esce “Il prete bello”, opera che riceve numerose critiche e qualche apprezzamento. La scoperta delle opere di Comisso lo porterà a indirizzare all’autore trevigiano un’appassionata lettera che darò l’avvio al loro lungo rapporto d’amicizia, tanto che qualche anno più tardi Comisso sarà il testimone di nozze di Parise. Nel 1955 Parise inizia a collaborare con il “Corriere della Sera” e in quegli stessi anni escono “Il fidanzamento” e “Atti impuri” pubblicato in origine con il titolo di “Amore e fervore”. Diventa inviato speciale del Corriere e il suo primo incarico lo porta a Parigi. Intanto, soffocato dal clima milanese, decide di trasferirsi a Roma, dove incontrerà gli intellettuali della scena letteraria dell’epoca e stringerà amicizia con Montale, Piovene e Moravia. La capitale gli offre l’opportunità di lavorare per grandi registi e in particolare di collaborare alla sceneggiatura dei due film di Mauro Bolognini “Agostino” tratto dal romanzo di Moravia e “Senilità” dall’opera di Svevo. Ricava da un suo testo teatrale la sceneggiatura di “Una storia moderna: l'ape regina” con il regista Marco Ferreri e tra gli altri lavori per il grande schermo, diventa co-‐sceneggiatore di un episodio del film “Boccaccio '70” di Federico Fellini. Nel 1961 parte diretto verso gli Stati Uniti e l’impatto con la società dei consumi americana gli provoca un forte shock culturale che funzionerà però anche da stimolo per i successivi viaggi. Infatti, Parise si allontana molto dall’Italia per andare a conoscere e a raccontare i paesi più discussi sulla scena politica dell’epoca: Cina, Cile, Cuba, Giappone, Vietnam e Cambogia sono solo alcune delle mete da lui toccate. Ognuno dei suoi viaggi produrrà controversi reportage sul suo quotidiano e saggi in cui Parise è critico e acuto testimone di realtà problematiche, come ad esempio “Cara Cina” del 1966 o “Due o tre cose sul Vietnam” uscito un anno dopo. Per quanto riguarda la narrativa invece, dopo cinque anni di silenzio, esce nel 1965 “Il padrone”, testo che affronta il tema dell’alienazione prodotta dal lavoro in fabbrica negli anni del boom economico. L’anno successivo Parise pubblica “Gli americani a Vicenza”, un racconto scritto dieci
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anni prima e nel 1969 esce “Il crematorio di Vienna”, una raccolta di trentatré prose brevi con la quale si aggiudica il “Premio Campiello”. Tuttavia, i vertici della sua opera Parise li tocca con i “Sillabari”, due volumi di racconti pubblicati in due momenti, nel 1972 e nel 1982, che però rimarranno incompiuti. Al “Sillabario n. 2” viene assegnato nel 1982 il “Premio Strega”. Durante gli ultimi anni della sua vita Parise sceglie di ritornare in Veneto, dove a causa di una grave arteriopatia si spegnerà nel 1986.
La genesi Goffredo Parise inizia a lavorare alla stesura de “Il prete bello” dopo essersi trasferito a Milano per collaborare con la casa editrice “Garzanti”. È un inverno malinconico nella capitale dell’editoria italiana e Parise vuole combatterlo scrivendo un romanzo che gli tenga compagnia e al contempo lo riscaldi. Infatti, è proprio sul “Resto del Carlino” che Parise spiega quale tipo di romanzo avesse allora intenzione di stendere: Volevo dunque scrivere un altro romanzo che mi tenesse compagnia durante l’inverno milanese, che mi divertisse, che mi commuovesse quel tanto da cacciare il freddo e la solitudine: un romanzo con molti personaggi allegri e sopra ogni altra cosa un romanzo estivo che mi facesse un poco caldo.1 In realtà, l’opera che viene portata a termine non ha nulla di caldo ed estivo, bensì è il freddo, patito dai protagonisti, a dominare la scena. Il manoscritto era inizialmente destinato a Leo Longanesi, il quale però, dopo la prima lettura, lo rifiutò duramente. Le critiche di Longanesi si basavano essenzialmente sulla mancanza di originalità del romanzo. L’editore lo considerava obsoleto in particolare per il contenuto, che sembrava ricalcare un vecchio modello di romanzo alla De Amicis ormai superato. Nonostante ciò, quello che infastidiva di più Leo Longanesi era la caricatura del fascista che Parise realizza attraverso la figura di Don Gastone Caoduro. Era inaccettabile il modo in cui Parise si prendeva gioco del suo prete appassionato sostenitore del regime. Il libro è quindi respinto dall’editore e lo scrittore viene persino accusato di fare con il suo nuovo scritto “la figura del provinciale”. Nel 1954 “Il prete bello” è quindi pubblicato dalla casa editrice Garzanti e scoppia un caso editoriale. Il romanzo diventerà, infatti, il primo best seller del dopoguerra, contando nel 1965 già dieci edizioni italiane e tredici traduzioni. Come per ogni successo letterario, il dibattito si infiamma e la critica si divide. Parise suscita scandalo per aver creato la figura di un ecclesiastico coinvolto in una relazione sessuale con una prostituta. Sono in molti, infatti, a non apprezzare la satira che lo scrittore fa dei suoi personaggi bigotti e ipocriti, dimenticandosi però che lo spirito principale del romanzo è tutt’altro. Infatti, è chiaro come l’intento di Parise non sia scagliare una severa critica sociale, ma piuttosto dipingere uno spaccato di quel sottoproletariato dei quartieri di provincia. Fin dalle prime battute del racconto si evince come Parise intenda canzonare i modi e le ipocrite convinzioni del “prete bello”, ma non come fine ultimo del suo romanzo. Ciò che più gli interessa sono le stravaganti figure che gravitano attorno al parroco e in particolare Sergio, la voce narrante, ed il suo amico Cena, a tal punto che sembrano loro i veri protagonisti della vicenda. 1 Incontro con Longanesi, in Il resto del Carlino, 5 ottobre 1957.
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Per comprendere quale peso hanno i vari personaggi all’interno della narrazione, è necessario esaminare in maniera dettagliata la trama del romanzo.
La trama
In un quartiere popolare di una città veneta di provincia, il dodicenne Sergio vive di piccoli furti e altri illeciti espedienti insieme alla sua combriccola di amici, la naia. Lo stabile, dove il bambino abita insieme ai nonni e alla madre, è popolato da personaggi tanto stravaganti quanto miserabili, tutti accomunati dalla stessa passione: il parroco Don Gastone Caoduro. Don Gastone è un prete dalle convinzioni fasciste che, grazie alla sua prestanza fisica, ha fatto innamorare tutte le povere e ingenue signorine del quartiere. Le donne sono disposte a tutto per lui, persino a pagare Sergio e il suo amico Cena in cambio di informazioni sulla vita privata del sacerdote. Una delle innamorate più testarde è la signorina Immacolata, la rigida padrona del complesso edilizio, la quale è l’unica a godere di un rapporto privilegiato con Don Gastone. Infatti, i due si intrattengono spesso a chiacchierare nel salottino di lei, mentre Immacolata è intenta a rammendare la biancheria del prete. È chiaro fin da subito che il parroco sfrutta il suo potere seduttivo sulla signorina per ottenere da lei il finanziamento dei suoi progetti. Ad esempio, viene sovvenzionata la pubblicazione di un saggio politico sulla guerra di Spagna, il quale poi però si rivela un fallimento colossale, ed in seguito la società di donne fasciste cattoliche “Fede e Ardimento”, con tanto di divise, che vedrà partecipi ed entusiaste tutte le signorine del quartiere. L’amore cieco della signorina Immacolata, dal carattere abitualmente avido, la porterà a regalare all’amato una Balilla cabriolet amaranto, con la quale il prete scorrazza tronfio per tutta la città. Don Gastone non sembra, tuttavia, ricambiare le gentili attenzioni della donna con altrettanta passione, piuttosto sarà qualcun altro a suscitare il suo interesse. Si tratta di Fedora, giovane dalla bellezza sfavillante che, rimasta orfana, si trasferisce nella soffitta dei nonni di Sergio, dove esercita la professione di prostituta. Tutti i personaggi maschili, compresi Sergio e Cena, sono innamorati della giovane dalla sensualità irresistibile, ed in particolare il parroco diventa schiavo di una passione irrefrenabile. I due divengono amanti esclusivi e Don Gastone sarà spesso vinto da folli crisi di gelosia, fino a quando la sua salute non inizia ad aggravarsi. Infatti, la tubercolosi colpisce l’atletico Don Gastone il quale, divenuto irriconoscibile nell’aspetto, muore in un sanatorio, dimenticato da tutti e lasciando Fedora sola ed incinta. Intanto, uno zio di Cena, soprannominato il Ragioniere, organizza un furto notturno per il quale richiede la collaborazione di Sergio e del nipote. Sembra andare tutto per il verso giusto, quando i due ragazzini vengono scoperti da una guardia la quale, nel trambusto, rimane uccisa da una coltellata di Cena. Il bambino viene quindi mandato in riformatorio, dal quale però tenta ben presto la fuga. La sorte non sembra pendere dalla parte del ragazzino che, scappando, viene investito da un tram ed è gravemente ferito. Così, anche Cena si spegne come Don Gastone in un letto d’ospedale, ma questa volta con accanto il fedele e inseparabile amico Sergio.
I personaggi
La vicenda è narrata da Sergio, un bambino di dodici anni che non ha mai conosciuto il padre e vive con la madre e i nonni. Il nonno, malato di cancro alla prostata, possiede una custodia di biciclette che non garantisce un’alta rendita. Già da queste prime informazioni, è facilmente intuibile come Sergio sia un personaggio di derivazione autobiografica. Come il suo autore, è figlio
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di N.N. e soggetto quindi alle voci pettegole del quartiere. Come il suo autore, è cresciuto a casa con i nonni e la madre, grazie alla custodia di biciclette del nonno. L’unica variante rispetto alla vicenda autobiografica dello scrittore riguarda le condizioni sociali di Sergio. Il bambino, infatti, è nato in una famiglia di un sottoproletariato molto indigente e ignorante, che ha persino difficoltà a mettere qualcosa in tavola per cena. I luoghi dell’infanzia dello scrittore, sebbene non si siano contraddistinti per il lusso, non sono paragonabili all’immensa povertà che invece caratterizza il mondo di Sergio. È come se Parise trasportasse, con un’opera di falsificazione letteraria, la sua infanzia in quelle abitazioni dei più poveri quartieri di provincia dove la fame mordeva le pance. Nonostante il grigiore degli ambienti in cui è nato, Sergio è un bambino dalla grande sensibilità che filtra con sguardo disincantato la miseria materiale e morale che lo circonda. Sergio è quasi protettivo nei confronti della madre, da sempre costretta a portare il peso di una vergogna troppo grande. E sarà l’arrivo di una bicicletta, una Bianchi rossa, dono della signorina Immacolata, a riscattare agli occhi di Sergio la miseria della sua famiglia: Pensavo alla mamma; non si sarebbe più vergognata di me, ora, con una bicicletta simile. Un figlio con una bicicletta così era un trionfo della maternità e ne sarebbe stata felice e orgogliosa.2 La bicicletta sarà complice delle tante avventure di Sergio e del suo fedele amico Cena e sarà a lei che Sergio si rivolgerà nei momenti di sconforto. Figlio di una donna gravemente alcolizzata, Cena è invece un bambino violento e sboccato. Descritto da tutti come “figlio del diavolo”, rappresenta la figura del reietto della società. È un truffaldino e commette furti ogni volta che gli si presenta l’occasione per lenire quella fame intrinseca “che gli scorreva nelle vene insieme al sangue”. Tuttavia, non ha un cuore malvagio, la sua natura non rispecchia le sue azioni, tanto che “alla fine sempre si perdeva in lagrime per un film, consegnava tutto a piene mani al primo che sapesse recitare la commedia quanto lui l’aveva recitata per arraffare”. Infatti, si percepisce fin dal principio come questo personaggio susciti la compassione e al contempo la simpatia del suo autore. La figura di Cena è inoltre centrale per l’economia interna del romanzo: sarà con la sua infelice morte, da “ladro e miserabile a dodici anni” che la narrazione volge al termine. A questo punto è legittimo domandarsi se non siano proprio Cena e Sergio i veri protagonisti del racconto. In effetti, sebbene lo stesso titolo sembri rivelare il personaggio centrale della vicenda, sono i due ragazzini ad essere sempre presenti con le loro marachelle sulla scena. In particolare è Sergio a descrivere attraverso i suoi occhi lo stravagante mondo degli altri personaggi. Inoltre, Sergio e Cena sono le due figure più attentamente tratteggiate e anche quelle più curate dal punto di vista psicologico: da una parte Sergio, con il suo trauma di essere cresciuto senza un padre e di non conoscerne nemmeno l’identità, dall’altra Cena, con il suo carattere ambivalente di bambino iroso e violento, ma contemporaneamente arrendevole all’evenienza. In confronto a queste due personalità complesse, il prete bello sembra il personaggio più stereotipato. Don Gastone Caoduro più che un prete, è la caricatura di un fascista. Parise scrive, infatti, che del prete, Don Gastone, non aveva nemmeno l’odore. È un uomo atletico e dal fascino virile, curato nell’abbigliamento e nei modi. Orgoglioso e soprattutto ambizioso, impone il suo spirito dentro e, ancor di più, fuori dalla chiesa. La sua è una “non religione” che gli servirà da strumento per nascondere i progetti che più gli stanno a cuore, e cioè le azioni utili a sostenere il regime. Il suo cattolicesimo ipocrita lo porta, inoltre, a iniziare una relazione con una giovane prostituta la quale diventerà succube di lui. Il successo di Don Gastone Caoduro dipende 2 Il prete bello, Goffredo Parise, Garzanti, Milano, 1954, n. ed. 1964
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soprattutto dai suoi instancabili ammiratori, l’appassionata cerchia delle signorine supportata dal Cavalier Esposito. Il gruppo delle signorine rappresenta un personaggio corale dai tratti bizzarri. Si tratta di donne nubili in età avanzata che non hanno saputo resistere al fascino del parroco fino ad innamorarsene perdutamente. Don Gastone è il centro attorno a cui ruota la loro povera esistenza. Si contendono un suo sguardo e sono gelose le une delle altre. L’unica a poter godere di un rapporto più privilegiato è la signorina Immacolata, la proprietaria dello stabile. Come sarà chiaro fin da subito, però, Don Gastone sfrutta con finta ingenuità i sentimenti della donna per farsi finanziare i suoi progetti e addirittura l’acquisto di un’automobile. Dunque, il destino delle signorine rimane sempre quello di fantasticare sull’uomo che mai potranno avere. Tutte sono, comunque, accomunate dalla miseria in cui sono costrette a vivere, un degrado economico che spesso diventa anche morale. Come ad esempio in Camilla, perfida donnetta sulla cinquantina, che è sempre pronta a diffamare il prossimo senza concrete motivazioni. Vi sono poi le signorine Walenska, madre e figlia di una nobiltà ormai decaduta, che si servono di una lente collocata davanti alla finestra, per aumentare il calore dei raggi solari in casa. Infine, la Botanica chiamata così perché ha trasformato la sua abitazione in una grotta colma di diverse erbe e arbusti dai quali prepara rimedi di ogni genere, senza però possedere alcuna conoscenza scientifica. L’unica voce maschile, in questo frastuono di zitelle invidiose, è quella del Cavaliere Esposito. Si tratta di un ex carceriere in pensione, che rimasto vedovo vive con le cinque figlie. Il Cavaliere è un uomo del sud, un napoletano all’antica, e dunque fortemente geloso delle sue cinque figlie, tanto da tenerle recluse in casa per tutta la settimana fino al giorno della messa. È soprannominato lo “squadrista WC” perché i suoi due beni più grandi sono il duce e il gabinetto (binomio beffardamente composto dall’autore). Infatti, a differenza degli altri abitanti dello stabile, il cav. Esposito possiede un bagno personale, che ha decorato con cura e assicurato con un grosso catenaccio. Insieme al suo gabinetto, questo personaggio sarà protagonista di una scena a dir poco grottesca. Durante la visita di Mussolini in città, il Cavalier Esposito dovrà cambiarsi d’abito di fretta per indossare con orgoglio la divisa da ufficiale. Nel correre al gabinetto, che si trova in posizione sopraelevata rispetto a tutte le altre abitazioni, il piccolo cubicolo franerà con il Cavaliere all’interno, rimasto penzoloni appeso soltanto ad una trave. Scena emblematica, quasi a voler rappresentare un mondo, quello fascista, ormai in fase di sgretolamento.
L’analisi
Dal punto di vista narrativo, “Il prete bello” si presenta come un testo costruito secondo gli schemi del romanzo tradizionale, ma con ciò non si vuole far pensare ad un’opera obsoleta o prevedibile, tutt’altro. Per quanto riguarda le scelte dell’autore, il narratore è interno alla vicenda, intradiegetico, per usare la terminologia narrativa di Genette, e corrisponde al personaggio di Sergio. Far raccontare ad un bambino della tragica miseria in cui vive, non vuole essere un modo per suscitare commiserazione o pietà, bensì l’effetto ricercato è opposto. Il racconto è, infatti, alleggerito grazie al disincanto di un dodicenne che forse non si realizza nemmeno la gravità della sua condizione. La lingua è utilizzata in maniera molto abile, sebbene la voce narrante sia quella di un bambino di strada. La narrazione procede, infatti, incalzante, colorata, quasi immediata, seguendo un registro linguistico colloquiale con qualche spruzzata di dialetto veneto soprattutto nel discorso diretto. Se dovessimo sintetizzare al meglio con una parola il tono narrativo che percorre il romanzo, la scelta ricadrebbe probabilmente sull’aggettivo “grottesco”. Infatti, dominano sulla scena i momenti
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umoristici che suscitano ilarità senza tuttavia infondere reale allegria, piuttosto è una sensazione amara quella che resta dopo la lettura di tali passi. D’altronde, il romanzo vuole ritrarre un quadro d’ambiente dei quartieri popolari veneti di provincia dove il moderno benessere non è ancora arrivato. Il Veneto, e in particolare quello bigotto dei ceti più umili, è spesso richiamato e descritto nei suoi vizi e nella sua tipica mentalità. Il bisbiglio, in questa curiosa regione dove stravaganti palazzi si ergono a formare una città al centro delle campagne, è antico, connaturato, raffinato dal tempo, postillato da una quantità di aggiunte non pronunciate ma che si esprimono con doloroso giro dell’occhio, sì che la palpebra tremi e si afflosci sotto il peso di un peccato che non si vuol dire.3 Parise descrive la sua regione come la terra del pettegolezzo e della maldicenza, la stessa che ha dovuto subire Parise bambino a causa del suo destino di figlio di nessuno. L’identità veneta secondo Parise, è inoltre incarnata dal personaggio di Cena, nel quale l’impulso di imbrogliare il prossimo è congenito. Una ne pensava e due ne faceva; ma questo istinto gli suggeriva anche di tener ogni cosa nascosta, da buon veneto, far finta di niente per intascare tutto da solo e lasciare gli altri in carità.4 Lo stesso Comisso, nell’introdurre il giovane scrittore venticinquenne nel mondo letterario, pose l’accento sull’appartenenza di Parise alla tradizione della narrativa veneta, che dagli antichi ambasciatori di Venezia passa da Goldoni per arrivare a Fogazzaro. Altro tema centrale de “Il prete bello” è la storia di fede e di sesso che lega il prete bello ad una prostituta. L’argomento non suscitò pochi scandali all’epoca della pubblicazione, senza tuttavia ostacolarne il clamoroso successo nelle vendite o forse fu proprio questo fattore a favorirne la popolarità. Insieme a queste critiche, il romanzo venne anche accusato di disimpegno, attacco che verrà nuovamente mosso a Parise alla pubblicazione dei “Sillabari”. Colpisce la particolare ricorrenza nelle vicende del romanzo della componente olfattiva e dunque di campi semantici a questa collegati. Ogni personaggio, ogni luogo sembra portare con sé un determinato odore che lo contraddistingue: la testa rapata di Cena sa di fumo e di selvatico, nella casa del Cavalier Esposito si annusa il meridione, sentore che mescola aromi di trattorie, pisciatoi pubblici e ricchi baroni, Fedora emana la sua sensualità “come se dai pori uscisse un polline dolciastro che faceva star lì col naso all'erta”. Invece, Don Gastone sa di tutti gli odori meno che di quello del prete, condizione che rispecchia il suo scarso carattere ascetico. Ci sono poi le esalazioni della strada, che sanno di cibo marcio, di paglia, capelli e del caffellatte che è l’unico alimento di gran parte del rione. Far percepire al lettore gli odori del narrato dona un altro grado d’immediatezza al racconto e lo caratterizza, insieme ad alcune descrizioni fortemente “visive”, in maniera multisensoriale. Sicuramente, però, il motivo di cui è più impregnato “Il prete bello”, come d’altro canto gran parte dell’opera di Parise, è l’autobiografismo. Questa tendenza, marchio della penna dello scrittore, si manifesta concretamente, e come già accennato, nel personaggio di Sergio. La sua storia familiare è inequivocabilmente ispirata da quella di Parise e, tra le varie sequenze di derivazione autobiografica, una sembra particolarmente significativa, tanto che, circa vent’anni dopo, l’autore la inserisce in modo quasi speculare nel racconto “Carezza” dell’opera “Sillabario n. 1”. 3 Il prete bello, Goffredo Parise, Garzanti, Milano, 1954, n. ed. 1964, p. 127 4 Il prete bello, Goffredo Parise, Garzanti, Milano, 1954, n. ed. 1964, p. 83
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La mamma venne a chiamarmi e mi presentò: «Questo è Sergio» disse arrossendo. Come sempre sentii che tutto intorno a me, le persone e gli oggetti, i letti, la mamma, il fidanzato, le fotografie dei nonni alle pareti, […] tutto gridava vendetta al peccato, alla assurda e ingiustificata nascita di Sergio, figlio senza nozze. «Dai la mano allo zio» mi sollecitò la mamma non sapendo che dire.5
Si tratta del momento in cui Sergio fa la conoscenza del fidanzato della mamma: un ricordo d’infanzia, rimasto evidentemente indelebile nella memoria dell’autore. Com’è noto, infatti, il compagno della madre, Osvaldo Parise, sarà una figura fondamentale per l’infanzia di Goffredo. Dopo sei anni, il giornalista deciderà di dare al bambino il suo cognome e l’affetto tra i due crescerà fino a porre le basi per un rapporto di stima e fiducia. Osvaldo Parise, direttore del “Giornale di Vicenza”, avrà anche probabilmente ispirato le ambizioni future del figlio, tanto che questo, giovanissimo, inizierà a collaborare con alcuni quotidiani locali fino ad arrivare a soli venticinque anni alla testata de “Il Corriere della sera” e a diventarne, in seguito, inviato speciale all’estero per il resto della sua carriera. Dunque, il rapporto tra Goffredo e Osvaldo giocherà un ruolo essenziale nella crescita dello scrittore, tanto che in ben due opere, molto distanti anche come epoca di stesura, viene presentato il primo incontro con il fidanzato della mamma. Il ruolo decisivo che la biografia dell’autore svolge all’interno delle sue opere è, infine, chiarito dallo stesso Parise in un’intervista con Claudio Altarocca: Il lettore (e l'intervistatore) avrà già capito a questo punto che tutti i miei libri partono chiaramente dall'autobiografia. La mia vita e la mia opera sono la stessa cosa.6
La critica
L’apparizione de “Il prete bello” del 1954 scatena non poche discussioni. L’appena venticinquenne Parise viene salutato da molti come un enfant prodige, ma al contempo i classici schemi utilizzati nel romanzo e le tematiche scandalose sono tacciati di facile mezzo per ottenere un successo di pubblico. Emilio Cecchi critica del romanzo di Parise, l’ingenuità della satira e lo scarso lavoro di interpretazione psicologica. Inoltre, ritiene che la ricorrente tendenza di Parise nel narrare degli impulsi umani sfugga a volte di mano allo scrittore, come se egli stesso non se ne sentisse sicuro. Tuttavia, Cecchi non intende respingere in toto l’opera di un autore emergente che considera comunque ricco di potenzialità e rintraccia ne “Il prete bello” una “vena di angosciosa poesia” come scrive nella recensione che ne fece per “Il Corriere della Sera”. Anche Edoardo Sanguineti traccia una netta critica dell’opera che non esclude però qualche apprezzamento. Elogia il gusto teatrale che il romanzo offre e il ritmo sostenuto del racconto insieme ai motivi grotteschi. Secondo Sanguineti, sono proprio il grottesco e il caricaturale che fanno di Parise uno scrittore lontano dalle correnti sperimentali dell’epoca e piuttosto meglio accostabile ai modi tradizionali della prosa del primo Novecento. Chi, invece, esalterà appieno il terzo lavoro di Parise sarà Giuseppe Prezzolini ne “Illustrazione Italiana”. Prezzolini trova ne “Il prete bello” una perfetta maturazione delle capacità espressive e 5 Il prete bello, Goffredo Parise, Garzanti, Milano, 1954, n. ed. 1964, pp. 179-‐180 6 Claudio Altarocca, Goffredo Parise, ne Il Castoro, numero 69, Settembre 1972
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organizzative di Parise: elementi già presenti in testi anteriori sono ora sistemati in modo tale da suscitare grande ilarità. Inoltre il critico tiene a sottolineare che il giovane scrittore non va confuso con un “antagonista della morale o sostenitore di un partito” e che il romanzo non vuole affermare nulla se non la propria fantasia. Descrivendolo come “un continuo prodigio”, Prezzolini paragona il testo di Parise ai romanzi picareschi, avvicinandolo in particolare al prototipo indiscusso del genere, “Lazarillo De Tormes”. Il parallelo scelto dall’intellettuale non è casuale, infatti, il romanzo picaresco è la narrazione in prima persona delle avventure di un giovane briccone, il “picaro” per l’appunto, orfano e di umili origini. Il protagonista vive diverse peripezie incontrando personaggi di tutte le estrazioni sociali e spesso commette dei crimini, che però non derivano da una sua indole malvagia, ma al contrario l’animo del protagonista si rivela sempre magnanimo. Dunque, il paragone con il testo di Parise sembra azzeccato, se si vuole vedere Sergio come il picaro de “Il prete bello”. Inoltre, il tono semiserio del romanzo picaresco si riscontra anche nel testo di Parise, dove si alternano passi umoristici ad altri dai toni più cupi. Infine, comune ad entrambi è la tendenza alla satira della società contemporanea, che viene realizzata dalla voce di un giovane ragazzo di strada. Nel romanzo di Parise, il fatto che la critica sociale sia sferzata dall’innocente voce di un bambino produce due risultati quasi contrapposti: da un lato la satira appare più impietosa, dall’altro si copre di un’ingenuità infantile obbligata. Come poter, quindi, definire un romanzo così sfaccettato? Accanto a quale genere o categoria letteraria sarebbe più appropriato collocarlo? È sicuramente un’opera picaresca nei toni e nell’intreccio, ma lo sfondo appare più realistico, sebbene non in senso classico o dispregiativo. È stato necessario coniare un nuovo genere per poter definire senza sbavature il testo di Parise, “realismo favoloso”. In particolare, la definizione venne adoperata da Geno Pampaloni, critico italiano, nel 1951 alla pubblicazione del primo romanzo di Parise “Il ragazzo morto e le comete”. Con “realismo favoloso” Pampaloni intendeva che in Parise “la favola non è che un modo di guardare la realtà”.7 Come se ci trovassimo di fronte ad un racconto calato in tempi e luoghi ben precisi e riconoscibili ma intrisi di un’atmosfera favolistica. Come se la fantasia si intrecciasse fino a fondersi, senza soluzione di continuità, con il reale. Alla domanda di Claudio Altarocca sull’origine del “timbro” di favola e realtà che pervade quasi tutte le sue opere, Parise rispose: Forse deriva dal fatto che la realtà in cui viviamo ha alcuni aspetti che non mi piacciono. Ma non è vero, sto dicendo una bugia. In realtà mi piace tutto, anche quello che non mi piace. Perché mi piace il fatto che non mi piaccia. La favola forse deriva dalla mia infanzia molto fantastica, con molte avventure sognate e in-‐ ventate, dalla solitudine dell'infanzia (ho avuto un'infanzia molto solitaria), dal piacere innato di allargare le cose con altre cose, senza mai dire bugie però, ma raccontando sempre cose vere.8
Il confronto con i “Sillabari”
L’opera che tuttora viene considerata il reale capolavoro di Goffredo Parise è la raccolta dei “Sillabari”. Si tratta di due volumi pubblicati come “Sillabario n. 1” e “Sillabario n. 2”, rispettivamente nel 1972 e nel 1982. Dunque un’opera, innanzitutto, distante nel tempo rispetto 7 Caro Goffredo, dedicato a Goffredo Parise, Raffaele La Capria, Minimum Fax, Roma, 2005, p.7 8 Claudio Altarocca, Goffredo Parise, ne Il Castoro, numero 69, Settembre 1972
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al “Il prete bello” che uscì nel 1954. Dal punto di vista del genere, se il best seller di Parise ricalca gli schemi del romanzo tradizionale, i “Sillabari” sono invece un volume che raccoglie prose brevi secondo un originale criterio. Si tratta infatti di un vero e proprio dizionario dei sentimenti nel quale Parise assegna ad ogni lettera dell’alfabeto uno stato d’animo e ne trae ispirazione per un racconto. In primo luogo, è necessario distinguere i ruoli e le funzioni dei narratori in queste due opere dello scrittore vicentino. Come già osservato, ne “Il prete bello” ci troviamo di fronte ad un narratore a focalizzazione interna che è anche uno dei protagonisti del racconto. Tutt’altra tecnica, invece, nei “Sillabari”, dove alla focalizzazione esterna si associa un narratore testimone. In questo caso il narratore sa meno dei suoi personaggi, non conosce né le loro intenzioni né le lor motivazioni e si conforma bene alla struttura del racconto breve, mentre sarebbe probabilmente risultato inefficace o faticoso in un testo più complesso come “Il prete bello”. Naturalmente, l’uso di questi due diversi espedienti porta a risultati opposti. Se da un lato la voce di Sergio ci porta ad un diretto contatto con le avventure narrate, il narratore dei “Sillabari” pone tra noi e il mondo narrato qualcosa come un schermo cinematografico sul quale proietta asetticamente le vicende. Tuttavia, questa è solo una prima differenza tra le due opere che vanno confrontate soprattutto per quanto riguarda lo stile e il tono narrativo. Nei “Sillabari” Parise usa sapientemente la lingua piegandola ai suoi scopi. Infatti, è come se l’autore sia deciso a eliminare ogni impurità, sbavatura o abbellimento retorico per ridurre la sua espressione all’essenziale. Il risultato è un linguaggio immediato, rapido, asciutto, ma non per questo privo di poesia, anzi forse è proprio grazie a questo sforzo espressivo che l’arte si rivela nella sua purezza. L’apparenza è quella di un racconto facile e non troppo pensato, ma al contrario uno sguardo più attento comprendo come ogni testo sia stato attentamente costruito e rilavorato. Di certo lo stesso non si può dire de “Il prete bello”, romanzo che Parise scrisse appena venticinquenne e quindi con ancora un’ingenuità stilistica che è stata anche spesso criticata. In questo caso, inoltre, la narrazione segue dei toni vivaci con degli acuti di realismo e grottesco. I registri linguistici sono vari e connessi al grado sociale del parlante, la lingua dei personaggi è in questo caso strumento di potere in mano al più istruito. A livello tematico le due opere non potrebbero risultare più distanti, ma ciò che le può avvicinare è la stessa sensibilità con la quale viene trattata l’emozione, con rispetto o quasi con pietas. Così avviene quando si narra la tragica condizione personale di Sergio e Cena ne “Il prete bello” o quando si presenta la paura di una donna così povera che non può risarcire il danno che ha causato, nel racconto “Bontà”. Sicuramente la collocazione nel tempo e nello spazio è comune ai due testi. Ci troviamo, infatti, in epoca fascista, ciò è chiaro ne “Il prete bello” e diviene esplicito con l’episodio della visita di Mussolini nel quartiere popolare. Invece, nei “Sillabari” lo si deduce solo da alcuni dettagli presenti in vari racconti, come ad esempio un’incisione in una stazione ferroviaria che campeggia “Credere, obbedire, combattere”. Eppure, il fattore che più accomuna le due opere è la tendenza all’autobiografismo che Parise non nasconde mai nelle sue opere. In particolare la figura di Parise bambino ricorre in più racconti come in “Bambino” o in “Carezza” dove, come già osservato, troviamo la scena dell’incontro con il fidanzato della mamma, già stesa ne “Il prete bello”. Inoltre, come suggerisce Raffaele La Capria in “Caro Goffredo”, si può forse rintracciare una vena di autobiografismo anche nel racconto “Antipatia”. In questa simpatica narrazione, infatti, un uomo viene pesantemente infastidito dalla telefonata di un amico che vuole convincerlo a sposare una sua causa politica. La Capria vede nel personaggio disturbato dalle richieste dell’amico proprio Parise mentre l’insistente figura non sarebbe altro che una caricatura di Pier Paolo Pasolini.
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Infine, nonostante la distanza cronologica e contenutistica tra le due opere, quello che forse le lega di più è il senso di immediatezza che sopraffà il lettore fin dal primo rigo. L’incipit del “Il prete bello” tuona “Il nonno aveva un cancro alla prostata e la custodia di biciclette non andava avanti”, frase che suona quasi come una sentenza senza via di scampo. Tutti i racconti dei “Sillabari” cominciano con una connotazione temporale che fionda subito il lettore dentro la narrazione: “Un mattino presto d’inverno”, “Un giorno di settembre del 1941”, “Una sera d’inverno del 1946” sono solo alcuni esempi delle rapide frasi di attacco scelte dall’autore per aprire le sue narrazioni. L’immediatezza, che rapisce chi legge e trascinandolo vorticosamente nell’orbita del racconto, è una delle doti più sensazionali dello scrittore vicentino che al giorno d’oggi si fa purtroppo fatica a trovare.
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Conclusioni “Il prete bello” di Goffredo Parise, sebbene nasca dalla penna di uno scrittore in erba, è un’opera dalla forte immediatezza e vitalità. Il romanzo è stato oggetto di una severa critica, ma al contempo ha riscosso il successo del pubblico che gli ha garantito il destino di primo best seller del dopoguerra. È risaputo che non tutti i best seller siano libri di qualità, anzi non di rado vale la regola opposta, ma “Il prete bello” di Parise sembra distaccarsi da questo schema. Con la sua freschezza narrativa, intervallata da episodi tragicomici, si distingue da tutto un certo tipo di letteratura molto venduta, ma anche molto prevedibile. Il testo prende, infatti, in prestito le forme da un romanzo picaresco e le trasporta in una dimensione dove i confini tra il reale e il favoloso si sfumano fino a non essere più distinguibili. La forza de “Il prete bello” sta nel suo mondo caricaturale e nei suoi personaggi tanto stravaganti quanto perfettamente adeguati alla folle realtà che li circonda. L’originalità dell’opera rispecchia il suo intento di non volere tracciare una mera critica politico-‐sociale del mondo che racconta, ma piuttosto di voler genuinamente sprigionare la fantasia dell’autore verso le possibilità del suo racconto. Infine, Parise è uno scrittore in pieno controllo del suo mezzo, in grado di piegare la lingua secondo i suoi scopi, a volte con estro, altre con ironia beffarda. Così, il suo stile diviene spontaneo, fluido senza mai però ricadere nell’ordinario. Parise, in un saggio in cui riflette sui suoi scrittori più amati, afferma che “L'arte è come una farfalla, senza eredi e capricciosa, si posa dove e quando vuole lei”9 e probabilmente questa stessa farfalla scelse, quasi sessant’anni fa, di adagiarsi sull’opera di un giovane scrittore vicentino. 9 Quando la fantasia ballava il «boogie», Goffredo Parise, a cura di Silvio Perrella, Adelphi, 2005.
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Bibliografia Altarocca C., Goffredo Parise, , ne Il Castoro, numero 69, Settembre 1972 Andreoli V., Preti di carta: storie di santi ed eretici, asceti e libertini, esorcisti e guaritori, Milano, Piemme, 2010 La Capria R., Caro Goffredo: dedicato a Goffredo Parise, Minimum Fax, Roma, 2005 Parise G., Il prete bello, Garzanti, Milano, 1954, n. ed. 1964 Parise G., Il sillabario degli scrittori italiani: Goffredo Parise racconta la sua vita, in “Novella”, 13 febbraio 1966 Parise G., Incontro con Longanesi, in “Il Resto del Carlino”, 5 ottobre 1957 Pernigo C., La voce del sangue: maternità e paternità mancata nell’opera di Goffredo Parise, in “La figure de la mère dans la littérature contemporaine”, E-‐talis, 1, 2013 Fioroni G., I sessant’anni del Prete bello, in http://www.letteratura.rai.it/articoli/i-‐sessantanni-‐del-‐prete-‐bello/1017/default.aspx (8 Febbraio 2015)
Schede biografiche personaggi, Goffredo Parise, in
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/parise.htm (7 Febbraio 2015)
Scrittori veneti, Goffredo Parise, in
http://www.scrittoriveneti.it/parise/index.html (7 Febbraio 2015)
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