Els paisatges de la postmodernitat

June 29, 2017 | Autor: Claudio Minca | Categoría: Geography, Postmodernism
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Els paisatges de la postmodernitat II Seminari Internacional sobre Paisatge 21, 22 i 23 d’octubre de 2004

Il soggetto, il paesaggio e il gioco postmoderno Claudio Minca Professor of Political Geography School of Geography, Politics and Sociology University of Newcastle-upon-Tyne (United Kingdom)

Il paesaggio è forse l’unico concetto Moderno in grado di riferirsi con efficacia alla cosa e alla descrizione della stessa cosa. Il termine rimanda infatti sia ad un tratto di territorio che alla sua immagine, alla sua raffigurazione artistica. Ciò lo rende un concetto scivoloso, ma affascinante, lo apre alla libertà delle sensazioni e dei sentimenti che suscita, ma lo espone talvolta all’arbitrio di chi quei sentimenti e sensazioni vuole inchiodare alla propria logica e al proprio sistema di valori. È proprio da questa doppia natura del paesaggio che trovo utile partire per riflettere sulle sue più recenti avventure, e in particolare sull’eventuale rapporto che possa aver stabilito con quello che oggi chiamiamo il postmoderno. Quella che Farinelli (1992) chiama “l’arguzia del paesaggio” tende infatti a scontrarsi con le interpretazioni, per così dire, ‘estreme’ che comunemente lo intendono o come finestra scientifica sul mondo o, in alternativa, come lettura meramente estetica dello spazio, come una sorta di sussulto poetico. Fin da queste prime battute, io credo, si delinea chiaramente quale sia la vera posta in palio ogniqualvolta ci si ritrovia discutere di paesaggio di questi tempi: innanzi tutto, l’importanza straordinaria del paesaggio nella definizione del soggetto Moderno; poi, il bisogno impellente di riflettere sul suo statuto ontologico, e quindi politico; infine, la gestione e legittimazione delle procedure che traducono il paesaggio, da insieme di pratiche territoriali, emozioni e sensazioni, in testo, in processo comunicativo. Su queste tre coordinate si muoverà dunque la mia riflessione, con la quale cercherò di esplorare non soltanto alcuni passaggi della storia dei modi di vedere (e quindi di conoscere) moderni, ma anche le ragioni profonde per le quali, quando si chiede a qualcuno – a volte anche ad un professionista del paesaggio – che differenza in realtà ci sia tra paesaggio e territorio (intendendo qui per territorio lo spazio umanizzato, come fanno i geografi francesi e italiani), alla domanda spesso

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corrisponde un certo imbarazzo, una fatale esitazione, un momento durante il quale l’interlocutore sembra doversi improvvisare una risposta lì per lì, su due piedi. Anche chi risponde con apparente fermezza e serenità, in fondo si rende conto di entrare su un terreno instabile, di ingaggiare suo malgrado un dialogo con la storia del pensiero moderno e con le sue stridenti contraddizioni, a meno che non decida di affidarsi al dogma della cecità disciplinare, ma si tratterebbe allora di una risposta assai poco interessante per le cose di cui vogliamo occuparci in questa sede. Interrogarsi sul paesaggio significa dunque ancora oggi interrogarsi sul significato del mondo; interrogarsi sul paesaggio significa chiedersi da dove vengano i concetti di ordine e armonia che implicitamente o esplicitamente riaffiorano sempre durante i nostri viaggi dentro al paesaggio, significa porsi il problema del rapporto tra estetica e scienza, tra poesia e ragione cartografica, significa soprattutto cercare di scoprire come il paesaggio, da modo di sentire e percepire il nostro rapporto con la Terra abbia potuto trasformarsi in cosa, in oggetto, in dispositivo cognitivo che prevede, per così dire, la morte apparente del soggetto. Tutti parlano oggi di paesaggio. Molte discipline se ne occupano, qualcuna perfino con la pretesa di trattarlo scientificamente o di avere una prospettiva privilegiata sul bagaglio di significati morali ed operativi che esso porta con se. Questo è già di per sé un buon motivo per interrogarsi sul significato contemporaneo di un termine che non solo ha assunto negli ultimi decenni una rosa di significati inediti, ma che coinvolge una dimensione pubblica di grande rilievo per la nostra concezione del rapporto tra società e territorio. Dopo aver brevemente spiegato come intendo interpretare il riferimento al postmoderno che troviamo nel titolo di questo seminario, spenderò perciò qualche riga nell’analizzare quale è stata la traiettoria del concetto di paesaggio che l’ha portato, ad un certo punto della sua storia, a trasformarsi da puro concetto estetico e artistico a vero e proprio strumento e oggetto di interesse scientifico. Capire le modalità dell’ingresso del paesaggio nelle scienze sociali, e nella geografia in particolare, è fondamentale, a mio parere, per capire in quali termine possa essere affrontata oggi la questione dei paesaggi della postmodernità. L’analisi di questo passaggio cruciale mette in luce a mio avviso almeno due cose: che il paesaggio, nella concezione di molti, si sia trasformato da punto di vista in cosa, in oggetto, in materiale riproducibile, vendibile, consumabile; in altre parole come i paesaggi, nella presunta postmodernità, abbiano cominciato a viaggiare. La seconda rivelazione a cui ambisce questa analisi riguarda il ruolo del soggetto del paesaggio, un soggetto apparentemente immobile e invisibile nella costruzione teorica di molti paesaggi, paralizzato in una fissità micidiale, una figura retorica che ha retto, nonostante i paradossi che porta in seno, fino a quando la riflessione postmoderna, liberando concettualmente l’oggetto del paesaggio dal suo soggetto non ha messo in luce la sua prigione epistemologica, con tutto l’apparato ideologico e l’impianto ontologico su cui essa insiste.

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Ma partiamo con un poco di ordine. È noto che il postmoderno e i termini ad esso associati, postmodernismo, postmodernità, ecc., sono soggetti a diverse interpretazioni, spesso il riflesso della posizione di chi ne parla all’interno del dibattito culturale di una determinata comunità interpretativa (Minca 2001, ma anche Dear 2000; Best e Keller 1995; Benko e Strohmaier 1997 e molti altri). Ebbene, siccome spesso queste interpretazioni sono in conflitto tra di loro, io mi trovo costretto ad esplicitare la specifica visione del postmoderno che intendo qui adottare: il postmoderno non è un’epoca, non è un nuovo paradigma, non è la follia riproduttiva delle immagini, staccate dal referente come vuole Baudrillard (1998) e una parte rampante della sociologia francese. A me piace pensare il postmoderno come ad un disvelamento, una sorta di risveglio della dimensione critica del Moderno e soprattutto un ritorno al centro della dimensione ontologica che il Moderno ha a lungo voluto dimenticare, soprattutto nella sua produzione accademica. In altre parole, io ritengo che il più importante contributo del postmoderno sia stato quello di consentirci di ripensare le coordinate e il funzionamento dell’episteme Moderno, e soprattutto le sue relazioni implicite con il potere e la politica. La crisi della rappresentazione, il collasso della catena del significante, la folla di immagini che svolazzano apparentemente libere nelle geografie reticolari dell’informazione globale e mediatica, sono alcuni tra i sintomi di questo ripensamento. Come tutti i ripensamenti, anche questo può dare naturalmente la luce a molteplici proposte critiche che non abbiamo certo il tempo qui di riprendere. È sufficiente dire che con questa precisa interpretazione in mente cercherò di analizzare come la nuova coscienza e la condizione cognitiva prodotta dalla riflessione postmoderna nell’arte e nelle scienze sociali possa aiutarci a comprendere – e probabilmente a recuperare nella sua dimensione più potente e democratica – il concetto di paesaggio, un concetto in molti casi perdutosi nei meandri geometrici di un’ipermodernità mediatica spesso aberrante e indigeribile sul piano intellettuale. La vitalità contemporanea del paesaggio in effetti è un poco sospetta, anche perché sembra una strana sopravvivenza di un Moderno in cui pochi credono ormai, almeno nell’interpretazione banale che la cultura popolare e mediatica sembra ancora fornire di esso, specialmente quando impiega concetti come questo. Questa ultima considerazione impone secondo me alcune domande ineludibili: innanzi tutto, se è vero che il paesaggio è un concetto genuinamente Moderno che nasce come frutto delle epistemologie che hanno colonizzato il Rinascimento (Cosgrove 1984) e che si consolida come concetto popolare grazie al suo ingresso nella nuova geografia dei saperi accademici espressa dalla modernità illuminista ottocentesca (Farinelli 2003), e se è altrettanto vero che il postmoderno ha scardinato le coordinate sulle quali il Moderno come progetto politico e intellettuale si è poggiato, come mai ancora oggi si parla così tanto di paesaggio, e il concetto è ancora cosi frequentato da politici, accademici, pianificatori, giornalisti? Ha forse cambiato natura e contenuto e non ce ne siamo accorti? Se sono in effetti venute

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meno le condizioni epistemologiche per vedere il paesaggio in chiave moderna, allora di quale paesaggio stiamo qui discorrendo? La seconda domanda trascende dalla prima: è noto ormai a tutti che il paesaggio si fonda su una determinata costruzione di uno specifico soggetto moderno, un soggetto che, imparando a posizionarsi in modo strategico e prospettico, legge il territorio, lo spazio che ha davanti a sé, assegnando un primato assoluto alla visualizzazione e alla verità delle sue rivelazioni, e proprio grazie alle lenti offerte dal paesaggio produce significato, ordine, riconoscimento, valore (si vedano Cosgrove 1984; Daniels 1989; Duncan e Duncan 1988, Olwig 2002 tra gli altri). Paralizzato dal paesaggio, questo soggetto si pensa immobile senza saperlo, parla di un mondo da cui è esterno; egli vede la mutabilità e il movimento di ciò che gli sta davanti e tuttavia continua a rappresentarlo e a pensarlo come un quadro, una fotografia, una rigida (morta) griglia spazio-temporale. Qual è dunque oggi la posizione di questo soggetto, alle prese con la moltiplicazione informatica di immagini e la riproducibilità dei paesaggi offerta dalle nuove tecnologie (Guarrasi 2002)? Se il paesaggio ha contribuito a creare soggetti moderni che con la loro visione e conseguente azione hanno trasformato la concezione e l’esperienza dello spazio vissuto, allora, ragionare di paesaggio oggi significa soprattutto ragionare, come vuole Franco Farinelli, della storia del rapporto tra le immagini di cui il paesaggio è composto e il soggetto che le descrive (Farinelli 1992). L’ingresso del paesaggio nelle scienze sociali Che il Moderno sia stato caratterizzato dalla dittatura della visione è ormai un dato accettato sostanzialmente da tutti. Il dominio della prospettiva e la verità dell’occhio, ricordano Denis Cosgrove (1984; 2003) e molti altri, sono parte della nuova teoria dello spazio che si accompagna al progressivo smantellamento, tra Settecento e Ottocento, dell’ancien regime e delle sue epistemologie, per sostituirlo con una visione scientifica e neutrale della natura e del mondo (Livingstone 1992). Sappiamo tutti che ogni nuova teoria spaziale comporta l’introduzione di un potenziale nuovo ordine sociale e politico (Farinelli 1992; Dematteis 1985). Il paesaggio, dunque, ad un certo punto della sua storia, diventa l’espressione di una logica che tenta di far coincidere la dimensione estetica e quella scientifica o, detto in altre parole, la morale e la politica. È difficile capire cosa sia oggi il paesaggio senza capire cosa avviene nella geografia tedesca della metà dell’Ottocento (Farinelli 1992). La cosiddetta geografia pura, prodotta con pretese scientifiche e di neutralità nel Settecento, si scontra durante il secolo successivo in maniera sempre più drammatica con la cosiddetta geografia di stato, fondata su una teoria spaziale esplicitamente politica, fondata sugli obiettivi dello stato aristocratico (Dematteis 1995). Si tratta di una guerra civile (Farinelli 1992: 117-8), soprattutto in Francia e Germania, che durerà oltre un secolo e che rifletterà in maniera chiara la

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formidabile tensione tra morale e politica che attraversa il pensiero europeo durante tutto il settecento e buona parte del secolo successivo. Con l’avvento al potere della borghesia in due dei paesi più potenti al mondo, questa tensione si risolve in un compromesso tra potere e sapere che porta in seno tutta l’ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano l’epistemologia moderna che ha attraversato i decenni successivi e tutto il Novecento, e con la quale stiamo in buona parte battagliando ancora oggi. Il paesaggio è un esito di questo formidabile e micidiale compromesso tra ragione scientifica e ragione di stato, tra la nuova struttura della conoscenza borghese e le parallele esigenze di legittimazione della sua presa del potere, un compromesso che si tradurrà nella più straordinaria invenzione geografica della modernità: lo stato nazione; un compromesso le cui conseguenze pesano ancora sul nostro modo di ragionare di territorio e dei suoi valori. Ancora all’inizio dell’Ottocento il paesaggio viene considerato in sostanza un determinato stato d’animo, un sentimento, anzi una relazione tra diverse impressioni sentimentali: “la pittura era il suo messo, la vissuta esperienza della comunione con la vita della terra era la sua mira e il suo significato. Il suo ambito era il regno dell’apparenza estetica, il suo referente era la pubblica opinione, già intesa in quel momento come organo di riflessione comune e pubblica sui fondamenti dell’ordine sociale” (Farinelli 1992: 202). Sarà uno dei padri della geografia, Alexander von Humboltd – sostiene sempre Franco Farinelli (1992: 203) – “a strappare il soggetto di tale riflessione dal proprio atteggiamento contemplativo per dotarlo di un sapere in grado di garantire la conoscenza e la manipolazione del pianeta. Grazie a Humboltd il concetto di paesaggio si muta, per la prima volta, da concetto estetico in concetto scientifico, passa dal sapere pittorico e poetico – l’unico concesso ai borghesi dagli aristocratici – alla descrizione del mondo, si carica di un significato del tutto inedito dal punto di vista della storia e della storia della conoscenza” di un significato di cui ancora oggi, qui, noi ci ritroviamo a discutere. “Proprio il carattere estetico della cultura borghese impone,” insiste Farinelli (1992: 203), “perché il sapere artistico si trasformi in scienza della natura, la mediazione della visione: perciò proprio il concetto di paesaggio viene da Humboldt scelto e adoperato come il veicolo più adatto ad assicurare il transito dei protagonisti della dimensione pubblica letteraria verso il dominio della conoscenza scientifica.” È questo un passaggio chiave per capire la natura dell’ingresso del concetto di paesaggio in quelle che si affermeranno in futuro come le scienze sociali; è qui che riposa la costituzione inevitabilmente ambigua dell’idea di paesaggio con la quale combattiamo ancora oggi e alla quale continuiamo spesso a dare risposte goffe o addirittura a non rispondere. Perché una cosa deve ancora essere ricordata per ragionare di paesaggio postmoderno: “Per Humboldt il concetto di paesaggio si fonda sul doppio senso, sull’impiego molteplice dello stesso materiale, sul duplice

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carattere del termine, che in Germania, nella specifica forma del landschaft, almeno a partire dall’epoca moderna, vale allo stesso tempo come contrada o tratto di paese e come artistica rappresentazione figurativa della contrada stessa” (Farinelli 1992: 205). “La strategia di Humboltd è chiara” sostiene con convinzione sempre Farinelli (1992: 205): “quella di utilizzare politicamente un doppio senso con allusione, nel quale una stessa parola esprime due significati diversi, e uno di questi significati – il più usuale e frequente (vale a dire quello di natura estetica e letteraria) risulta prevalente, mentre il secondo (più remoto e da raggiungere: e si tratta dell’accezione oggettuale, materiale e concreta, anzi scientifica) resta sullo sfondo”. Se quello che ci racconta Farinelli corrisponde al vero, allora come è potuto accadere che oggi, e durante grande parte del Novecento, questa seconda dimensione abbia continuato a confondersi arbitrariamente con la prima, senza che tale inghippo venisse mai risolto? Come mai ancora oggi c’è chi parla di paesaggio come di un oggetto, o addirittura lo scambia con il territorio, senza rendersi conto che, così facendo, cade proprio nella trappola micidiale di un concetto che rimanda, per definizione, a due cose contemporaneamente e può sopravvivere solo in questa duplice e ambigua dimensione? Ebbene, ricorda ancora Farinelli, “bruscamente, e in maniera irriflessa, il paesaggio diventa un semplice insieme di oggetti – si reifica – nel 1919, con i fondamenti geografici del landschaftkunde elaborati da Sigfrid Passarge, altro geografo tedesco. La dimensione poetica, invisibile, lo stato d’animo presenti in qualsiasi concezione moderna di paesaggio, improvvisamente scompaiono, si convertono, in geografia e nelle altre scienze sociali, in ‘cosa’, in oggetto, in cartografia, unica porta d’accesso al visibile e all’esistente. La grande guerra e i nazionalismi sono l’occasione o il movente di tale improvvisa virata ontologica. La fotografia ne è il mezzo: cioè l’immagine che riduce a dato istantaneamente e obiettivamente prodotto ciò che prima era invece il risultato di un processo conoscitivo soggettivamente fondato e consapevolmente determinato dal punto di vista – e la consapevolezza sia della natura processuale che sociale della conoscenza scompaiono dalla vista e perciò cessano di esistere” (Farinelli 1992: 207-8). Le conseguenze sono a dir poco spaventose. Il soggetto-che-guarda viene immobilizzato per sempre di fronte ad un paesaggio pensato scientificamente come una fotografia, come un quadro spazio-temporale, senza riconoscere l’apparato ideologico e cognitivo che giustifica il suo riconoscimento, il suo valore come strumento comunicativo e produttivo di sapere strategico e etico. Paradossalmente, questa trasformazione avviene proprio nel momento in cui inizia la crisi, oggi davanti agli occhi di tutti, della stretta relazione, fino ad allora costituiva del sapere legittimo, tra visibilità e funzionamento del mondo stesso (Farinelli 1992: 208; si veda anche Mondada, Panese e Soderstrom 1992). E quest’ultima considerazione ci proietta dritti dritti nel cuore della riflessione sui rapporti tra paesaggio e postmoderno.

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Cosa è dunque diventato il paesaggio trasformato in oggetto? Di quale paesaggio stiamo parlando oggi? Dell’ambiguo e strategico concetto segnato dalla sua duplicità connaturata o di un contenitore pieno di oggetti e per ciò trattato come qualcosa di ‘oggettivo’, di esistente ‘a prescindere’ e di sostanzialmente corrispondente ad un pezzo di territorio segnato da una serie di significati impliciti? Come mettiamo d’accordo il paesaggio inteso come punto di vista, come sentimento, come narrativa del nostro passato, presente e futuro con un’idea scientifica di paesaggio che lo oggettifica? Come facciamo a conciliare il bagaglio di sentimenti e sensazioni che ancora oggi tutti noi proviamo di fronte alla meraviglia di certi paesaggi e la riproducibilità virtuale e perfino materiale di alcuni paesaggi caratterizzati da una particolare densità di simboli e di valori appartenenti alle nostre geografie morali e politiche? Il soggetto del paesaggio C’e qualcosa di inquietante nel congelamento del soggetto imposto dalla prospettiva paesaggistica. È come se un concetto introdotto nelle scienze sociali con lo scopo di coniugare scienza e poesia, ragione cartografica e esperienza del vissuto, si fosse trasformato in un oscuro oggetto del desiderio buono per tutte le occasioni e circostanze; abbandonato, nell’uso e nell’interpretazione, ad un arbitrio del tutto contraddittorio, peraltro, con la concezione popolare ancora prevalente che lo vuole una cosa, o meglio un insieme ordinato di elementi sul territorio (Dematteis 1989). È inquietante perché buona parte della riflessione contemporanea sul paesaggio sembra dimenticare la sua complessa relazione con la dialettica tra sapere e potere. Se il Moderno impone un’idea geometrica come misura unica del mondo, allora è bene ricordare che il paesaggio contribuisce a proporre un modello per la composizione ordinata e piena di senso delle parti di questo mondo, una composizione di cui il progetto chiave della modernità ottocentesca, quello dello stato nazione, ha un bisogno disperato. Il paesaggio sembra prestarsi infatti molto bene a rappresentare e a legittimare la coincidenza impossibile tra sentimento e geometria su cui si reggono lo stato nazione moderno e la sua proiezione spaziale. L’ambiguità necessaria del paesaggio, proposta da Von Humboldt come parte del suo progetto politico di conciliazione tra sapere e potere, si trasforma dunque dopo il 1920 in una micidiale macchina che produce immagini ipostatizzate e le contrabbanda per paesaggi. Ai problemi, posti anche dal paesaggio, si sostituiscono gli oggetti, ricorda Farinelli (1992), che non resta che classificare, incorniciare, riconoscere. Il soggetto scompare definitivamente dalla vista e l’oggetto, la narrazione delle connessioni territoriali da cui nasce l’idea stessa di paesaggio, sembra trasformarsi in simulacro, in feticcio, in povero riflesso del concetto originario. Ma è proprio vero?

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In realtà lo stato nazione, che impara a celebrare e a farsi celebrare attraverso una specifica geografia dei paesaggi della memoria e dell’identità, non può permettersi di abbandonare la dimensione sentimentale ed emotiva, e nemmeno quella estetica del paesaggio (Daniels 1989). Ecco allora che ancora oggi ci troviamo alle prese con un uso del paesaggio, spesso drammatizzato dalla sua riproducibilità, che lo tratta in effetti come una cosa, come una collezione di immagini riproducibili all’infinito e buone per tutte le occasioni, ma che spende grandi energie nel tentativo di investire quelle stesse immagini di significati in grado di suscitare emozioni, sentimenti e senso di appartenenza. Il soggetto, nascosto e sempre congelato, riappare dunque come cittadino, come turista, come consumatore, come fruitore passivo di paesaggi. La contraddizione stridente che questa spuria dimensione presenta non gli impedisce tuttavia di funzionare e di apparire come ovvia e di essere legittimata dalla narrativa ufficiale di Stato, o anche dalla logica di mercato che tenta di agganciare significati, prodotti, esperienze ad una serie selezionata di paesaggi, ormai trasformati in icone – di nuovo, in feticcio puro. Se il postmoderno consiste nella denuncia di questa condizione cognitiva – e perciò anche di questa produzione di senso che passa attraverso l’uso contemporaneo del paesaggio – ebbene il primo compito che dovremmo porci è quello di restituire al paesaggio la sua dimensione originaria, non per nostalgia delle logiche ottocentesche, ma perché solo capendo come nasce questo compromesso e questo clamoroso equivoco si può disvelare la dimensione genuinamente intellettuale e politica del rapporto tra modernità e paesaggio. Solo capendo che la penetrazione nel nostro quotidiano di una certa idea di paesaggio è figlia di una formidabile operazione di politica culturale associata alla costituzione dei grandi stati nazionali europei saremo in grado di dare una risposta post-moderna - cioè eminentemente politica - al problema contemporaneo del paesaggio nelle società occidentali e non soltanto in esse. Tanto per fare un esempio, si pensi alla concezione di viaggio pittoresco che si afferma nello stesso periodo, appropriandosi delle stesse coordinate culturali di cui abbiamo discorso fin qui e confermando, come ricorda sempre Farinelli (1992: 9092), la natura profondamente politica del viaggio a partire dalla costituzione dello stato nazione moderno e borghese. Nell’ottocento infatti, ricorda anche Renzo Dubbini (1994, 109), il paesaggio si impone come problema di dominio totale dello spazio sensibile, e il viaggio diventa presto una sorta di esercizio borghese per la conferma visiva ed esistenziale della natura di tale dominio. Il viaggio pittoresco è infatti il risultato di una necessaria relazione tra la verità del luogo e le modalità di un metodo di osservazione accuratamente stabilito a priori. Il paesaggio, in questa prospettiva, diventa la composizione armonica – sia sul territorio che sulla tela – che mette in ordine il patrimonio nazionale, diventa lo strumento per la ricerca dell’essenza, del carattere profondo dei tratti geografici della nazione. Il contatto diretto con il monumento, ancora tanto popolare nelle

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nostre escursioni turistiche del mondo, diventa dunque la condizione per un nuovo discorso sull’antichità, osservata nei luoghi, nel contesto dei paesaggi originari. I paesaggi, nella concezione popolare, diventano perciò anche icone dello stato e bisogna pertanto assicurar loro stabilità e certezza nel significato, esattamente il contrario, cioè, delle caratteristiche per cui von Humboldt li aveva mobilitati nel suo progetto culturale. Con l’arrivo della velocità dei treni, delle automobili, degli aerei, ma soprattutto delle reti invisibili di comunicazione informatica e satellitare, la visibilità del territorio assume una serie di significati totalmente diversi, come ben sappiamo (Farinelli 1992; ma anche Mondada, Soderstrom 1992; Zanetto 1991). Allora, come mai un concetto fondato sulla conoscenza offerta dal visibile è ancora e sempre tra di noi e sembra che non abbia alcuna intenzione di andarsene? Paesaggio postmoderno? La riflessione fin qui svolta mi consente quindi di tirare le prime fila del mio ragionamento e di avvicinarmi alla conclusione. Ho accennato in precedenza al fatto che la riflessione poststrutturalista nelle scienze sociali – nel caso del paesaggio guidata soprattutto dai geografi inglesi che hanno fondato la new cultural geography negli anni Ottanta con in testa Denis Cosgrove, Stephen Daniels e Peter Jackson – ha mostrato come il paesaggio sia in realtà una costruzione ideologica, caratterizzata da precise coordinate culturali e obiettivi politici, e questo spiega come il paesaggio, nel farsi oggetto di indagine scientifica, non smetta, nonostante le pretese di obiettività che avanza, di paralizzare alcuni soggetti, di celebrarne altri, di dimenticare e far sparire altri ancora. Si tratta di una riflessione molto importante per l’avanzamento degli studi sul paesaggio, dalla quale oggi non si può certamente prescindere. Ma si tratta pur sempre di una riflessione che, scardinando la struttura epistemologica sulla quale hanno riposato durante tutta la modernità l’idea e l’uso del concetto di paesaggio, evita di raggiungere alla radice il problema fondamentale dal quale siamo partiti, invece, in questa sede: il problema del rapporto tra il tipo di conoscenza veicolata da un concetto così straordinariamente ambiguo come il paesaggio e quella che Heidegger chiama la ‘certezza del rappresentare’ (si veda ancora Farinelli 1992), un rapporto che forse può aiutarci a capire la sua straordinaria resilienza tra le nostre categorie per giudicare il mondo. Proviamo dunque a vedere come funziona e come viaggia il paesaggio, in un’epoca dominata in accademia dalla decostruzione post-strutturalista, ma anche dominata nella cultura popolare dalla gioia del banale e dalla riproduzione ossessiva delle immagini, e quindi anche da una vera e propri inflazione dei paesaggi. Iniziamo dal tempo e dal movimento. Il tempo insito nella strategia narrativa implicita in qualsiasi passaggio e in qualsiasi esperienza del paesaggio è un tempo che dipende dalle modalità di lettura, dal ritmo di cui lo si guarda e lo si

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“vive”, dallo spirito del lettore. Ma il paesaggio ha un suo tempo narrativo autonomo, scandito dalle sue variazioni temporali: esso varia anche quando il lettore rimane virtualmente immobile. Il paesaggio, che nell’arco del tempo si può scorgere da un determinato punto di vista, non è mai riconducibile ad un’immagine unica. In realtà, siamo di fronte ad almeno due movimenti: quello del punto di vista di chi guarda e si sposta nell’attraversare un paesaggio e quello determinato dai mutamenti indotti nel breve dal tempo atmosferico e dalla luce, nel medio e lungo periodo dalla trasformazione materiale, incessante, del territorio (Socco 1998; 2000) Quello che vediamo in una foto di un paesaggio, un secondo dopo averla scatta è già diverso, irreversibilmente diverso; mai più le condizioni che hanno reso possibile quell’immagine si ripeteranno assolutamente identiche. In questo consiste la follia del paesaggio-oggetto, o forse dovrei dire la sua truffa. Si pensi poi alla costituzione dei paesaggi mobili dell’automobilista e a come questa scardini definitivamente una determinata concezione ipostatizzata del paesaggio. Il paesaggio, come sappiamo, è peraltro sempre soggetto alla valutazione di una dimensione estetica, che solo in certi momenti la scienza ha provato ad eliminare, ma senza successo, a conferma di come i concetti abbiano una loro resilienza, una capacità di sopravvivenza autonoma che talvolta si tende a sottovalutare. Cosa comporta ad esempio, politicamente e sotto il profilo delle nostre strategie cognitive, il prendere in considerazione ed esaltare una serie di paesaggi banali, meno interessanti perché privi di quelle connotazione estreme che siamo abituati a considerare come ‘i segni’ simbolici di un determinato paesaggio, che riconosciamo di solito durante le nostre esplorazioni? I connotati espressi dal paesaggio, sostiene Carlo Socco (1998), sono già di per sé metafora di sentimenti; il paesaggio suscita emozioni, gioia e dolore. Il paesaggio, ancora, è qualcosa di più della somma delle parti che lo compongono. La dimensione estetica non è quindi un accessorio lasciato ai poeti e agli innamorati, o parte di una visione romantica del territorio, ma un necessario elemento della costruzione del concetto di paesaggio, un concetto interno alla cultura che lo riconosce e contribuisce in varie maniere a costruirlo. Il paesaggio, sia nella sua rappresentazione, sia nella sua costituzione, si regge su una determinata struttura spazio-temporale, una struttura rispetto alla quale convergono ad esempio le idee di ordine e di disordine espresse da un determinato gruppo sociale in un determinato momento storico, ma anche il bagaglio di valori assegnati a quell’ordine e disordine (Turri 1998). Per richiamare una metafora spesso utilizzata, l’ordine esprime una presunta ipotetica armonia del mondo; il disordine esprime la paura, ma anche il desiderio, la trasgressione sensuale da quello stesso ordine. E il paesaggio, nella forma in cui a noi è noto, non può fare a meno di questi due terreni della politica, della morale, dell’etica. Solo così si spiega, da un lato, la difficoltà – e aggiungerei anche il rischio – di dire in termini meramente scientifici cosa sia in effetti il paesaggio, perché

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qualsiasi definizione univoca si scontra irrimediabilmente con l’esperienza quotidiana di tutti noi, procurando, ad alcuni cultori di questa via, delle vere e proprie crisi di auto-rappresentazione e soprattutto di legittimità; dall’altro lato, si comprende il frequente tentativo di risolvere questa tensione immaginando il paesaggio come un riflesso dell’ordine desiderabile della Terra, come l’espressione di una felice combinazione tra utilità (trasformazione economica del territorio) e dolcezza (concezione estetica dello stesso e in particolare dell’opera dell’uomo), tra utilità e natura, come espressione dell’ordine naturale delle cose (Vecchio 2002). È frequente ancora oggi il ricorso ad immagini dall’alto che sembrano voler dimostrare che ‘uomo’ e natura costruiscono inconsapevolmente opere d’arte; da qui a interpretare il paesaggio come espressione di un ordine divino o naturale e ‘giusto’ il passo è relativamente breve. La retorica della perdita, la nostalgia per un ordine immaginario che non tornerà più, sono peraltro parte di questa fascinazione quasi mistica per il paesaggio e per le sue sensuali o drammatiche geometrie. Ad essa si accompagna spesso la ricerca di una serie di modelli che investono nel paesaggio aspettative in grado di fornire una sorta di magico, per quanto atteso e pre-costruito, stupore di fronte al sublime, al terrifico, al senso di avventura e di infinito, al misticismo che la visione di un determinato spettacolo del territorio sa procurare. Questo groviglio di sensazioni, aspettative, modelli precostituiti, immagini masticate e mal digerite, spiega anche in parte l’ansia di fotografare che coglie molti di noi di fronte ad un paesaggio stupendo, come se avessimo un istintivo bisogno di fermarlo, di fissarlo, di congelarci, di fronte a quella visione, in un momento e in un luogo ideali. Eppure è appena sufficiente confrontare due immagini dello stesso paesaggio-oggetto in due momenti diversi, oppure a distanza diversa, per vanificare immediatamente questo tentativo di congelamento, per capire l’inconsistenza della nostra posizione teorica quando indossiamo le vesti di cacciatori di inquadrature e di vedute perfette. Quando proviamo a riprodurre, nella realtà, il modello. Al contrario, il paesaggio nell’esperienza del vissuto è sempre e solo una sequenza di immagini, il frutto del nostro spostamento attraverso una serie di spazi in continuo mutamento sia in termini di prospettiva che in termini di atmosfera, luce, presenza, assenza e struttura narrativa. Il paesaggio quindi non si può ridurre a testo e non si può ridurre ad immagine (Socco 1998). E questo pone naturalmente una serie di problemi molto seri da affrontare qualora, per comunicare sentimenti, significati e valori, l’esperienza del paesaggio deve in qualche misura essere testualizzata. Cos’è l’immagine di un paesaggio dunque? Cosa diventa? Possiamo continuare a chiamarla paesaggio e a trattarla come un paesaggio senza porci il problema della metafisica della rappresentazione da cui essa altro non è che un effetto speciale? La questione può anche essere banalmente posta in questi termini: cosa si perde e cosa si guadagna nella traduzione/riduzione testuale del paesaggio? O ancora, come facciamo a gestire cognitivamente un concetto creato per descrivere sia una serie di

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connessioni territoriali sia le rappresentazioni delle stesse? Non è questo, forse un problema genuinamente postmoderno? Conclusioni Alla luce di queste considerazioni, cosa significa, oggi, parlare di paesaggi postmoderni? Il soggetto mediatico, trasformato in consumatore di paesaggioggetto, è quindi colto da morte apparente mentre, proprio grazie alla sua fissità epistemologica, le immagini dei paesaggi navigano liberamente e producono nuovo senso e nuovi rapporti tra noi e lo spazio rispetto al quale impariamo a dire chi siamo. Il paesaggio mediatico diventa un oggetto di cui si parla come se fosse ancora il suo progenitore, richiamandosi proprio a quella serie di valori estetici e morali che, paradossalmente, possono persistere solo a patto che esso non venga trasformato in oggetto. Solo il distacco virtuale tra osservatore e osservato, tra soggetto e oggetto, solo il loro fittizio congelamento possono spiegare perché oggi ci sia ancora qualcuno che parla del paesaggio come di una cosa, come sia possibile che esso venga non solo riprodotto, ma addirittura anche consumato come un prodotto, come se la sua testualizzazione fosse un dato di fatto indiscutibile e incontrovertibile. Cosa resta dunque del nostro stupore, del sentimento dopo che il paesaggio diventa un’ icona riproducibile e consumabile? E il postmoderno come entra in questo gioco? Non sarà forse che ci accontentiamo della testualizzazione perché non vogliamo (non siamo più in grado) di affrontare e di gestire la complessità, l’ambiguità e la libertà del paesaggio? E il paesaggio tradotto in icona mediatica non amplifica drammaticamente gli effetti di questa condizione paralizzante? Questo forse spiega anche perché oggi il paesaggio lascia il soggetto al suo posto e comincia a muoversi, a navigare, a fluttuare attraverso le ricostruzioni ipostatizzate, attraverso le reti di informazione più o meno globale, pervade perfino le simulazioni del linguaggio dei GIS!! (Guarrasi 2002). Questo movimento impazzito, qualcuno crede, potrebbe in effetti decretare la vera e propria morte del paesaggio. Ebbene, non direi che questa dimensione arbitraria e speculativa del paesaggio sia affatto una caratteristica della postmodernità come da primo acchito qualcuno potrebbe essere tentato di affermare, semmai si tratta dell’estremizzazione di una fetta particolare di storia moderna del paesaggio che invece uno spirito postmoderno può aiutare a disvelare e a restituire al suo significato originario.

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Io credo in effetti che vi sia una risposta a questo problema, una risposta che torni a conciliarci con forse il più prezioso dei concetti regalatici dalla geografia moderna: l’unica via d’uscita, l’unica risposta possibile a questo paradosso mascherato, è quella di rifiutare con forza questa interpretazione a tratti arbitraria e a tratti pseudoscientifica del paesaggio, e tornare a pensarlo con tutto il suo carico necessario di ambiguità; un’ambiguità che consente non solo di mantenere quell’informazione che il congelamento cartografico delle immagini del mondo spesso cancella e fa dimenticare, ma soprattutto di tornare ad amarlo nella sua dimensione estetica e nei valori che esprime, come specchio necessariamente ambivalente del nostro rapporto con lo spazio, con la natura e con il mondo – come parte della nostra immaginazione geografica a proposito di quello che non solo è stato ed è, ma che potrebbe essere e forse sarà. In realtà, a ben guardare, il paesaggio aveva fin dall’origine le caratteristiche che siamo oggi abituati ad attribuire ad alcuni concetti tipicamente postmoderni, tra le quali l’ambivalenza dei significati e una certa indistinzione tra significanti, significato e referente, caratteristiche insite proprio nella sua capacità di riferirsi ad un tempo alla cosa e alla descrizione della cosa (Farinelli 1992). Questo spiega secondo me perché il paesaggio è ancora cosi importante oggi, ma non nel modo in cui normalmente, pensandolo modernamente, si intende. Il paesaggio, si sostiene da molte parti (Turco 2002, Guarrasi 2002), rappresenta uno straordinario capitale comunicativo, essendo segnato da emblemi dell’ordine sociale che lo percorrono, lo influenzano, che fungono da allegorie della legge e dell’ordine. Ma non è e non può essere solo questo, altrimenti utilizzeremmo un altro termine. Il paesaggio, suggerisce Angelo Turco (2002), si può pensare come spazio liminale, oppure come eterotopia, suggerisce Enzo Guarrasi (2002), come spazio della possibilità, del confine tra ciò che esiste, è esistito e potrebbe esistere. Per questo è urgente una teoria politica del paesaggio, della quale ho provato oggi a delineare alcuni brevi tratti. La battaglia del paesaggio è e resta una battaglia sul controllo politico e ideologico dei significati che assegniamo al nostro rapporto con lo spazio, e per questo rischia talvolta di diventare uno strumento micidiale per paralizzare alcuni soggetti (e non altri) in una sorta di congelamento mortale, un congelamento che li lascia liberi soltanto di consumare quello spazio e di essere letteralmente soggiogati dai modelli sociali che attraverso il paesaggio vengono veicolati e imposti. Per concludere vorrei perciò tornare alla riflessione di Farinelli (1992, 209) sull’arguzia del paesaggio: “Il paesaggio s’è mutato da modello estetico-letterario in modello scientifico” è bene ricordarlo “non per descrivere l’esistente, ma per rendere possibile il sussistente”. Analogamente, sostiene il geografo bolognese, l’informatizzazione dello spazio ne minaccia oggi l’esistenza non tanto perché comporta la crisi della visibilità, ma perché la diffusione dei computer tende a ridurre il mondo intero in sterminato campo della predicibilità – mentre la nascita del concetto di paesaggio obbedisce esattamente all’intento opposto, al bisogno di

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arnesi ideali in grado di promuovere l’inaspettato, di permettere il cambiamento, la rivoluzione (Farinelli 1992). “Ma proprio in forza della sua connaturata e calcolata ambiguità, il paesaggio resta l’unica immagine del mondo in grado di restituirci qualcosa della strutturale opacità del reale – dunque il più umano e fedele, anche se il meno scientifico dei concetti. Per questo non può esservi crisi (ne tantomeno morte) del paesaggio: perché esso è stato già esattamente pensato per descrivere la crisi, il vacillamento, il tremito del mondo” (Farinelli 1992: 209). E proprio dal paesaggio che bisogna ripartire, da una parola in grado di mostrare, in funzione del contesto, una faccia oppure l’altra, e, così facendo, “di cogliere meglio di altre l’innata bifaccialità del mondo, la sua ambigua inesorabile doppiezza” (Farinelli 1992: 209-10). Vale a dire una parola che esprime insieme il significato e il significante, e in maniera tale da non poter distinguere uno dall’altro. E non è oggi proprio la difficoltà se non l’impossibilità di tale distinzione il segno più evidente della nostra crisi, della crisi della nostra capacità di conoscenza? (Farinelli 1992: 209). Non è questo il vero, grande, problema della postmodernità?

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