Elogio del trasformismo

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Giustizia e politica

Elogio del trasformismo ****, Giampiero Buonomo

G

ià una relazione della Commissione antimafia di Luciano Violante rilevava – in rapporto all’articolo 416-ter c.p. ed allo scambio elettorale politico-mafioso – che «la promessa di voti in cambio di denaro è una ipotesi di reato la cui prova è quasi impossibile. Sarebbe necessaria una riformulazione della norma che, pur non lasciando alla magistratura eccessivi margini di discrezionalità interpretativa e applicativa, sanzionasse in modo efficace, e non soltanto declamatorio, il voto di scambio politico»1. Dopo oltre un ventennio, quella riformulazione è arrivata con la legge 17 aprile 2014, n. 62 (relatore Buemi): essa precisa bene la ricaduta «della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva» sull’attività volta ad impedire (od ostacolare) il libero esercizio del voto o volta a procurare voti (a sé o ad altri) in occasione di consultazioni elettorali. Eppure, al di fuori della figura sintomatica dell’affiliazione mafiosa, il legislatore ancora nulla ci dice sul punto in cui la discrezionalità amministrativa e la gestione delle risorse pubbliche si incrociano con la ricerca del consenso, che è il proprium della nostra democrazia a livello centrale così come a livello locale: siamo ancora nel buio, cercando di illuminare con la lanterna di Diogene il luogo del possibile disvalore, e se, quando ed in che misura questo disvalore da etico si debba tradurre in giuridico. Occorre anzitutto prendere atto del fatto che l’oggetto dello scambio non consiste più, e forse non è mai consistito, nella semplice dazione di danaro in cambio dei voti: ben più frequentemente sono la materia urbanistica, i piani regolatori, le promesse di appalti o la concessione di servizi ad essere al centro dell’accordo criminoso. Recentemente un magistrato autorevole come Nello Rossi ha ammonito che «le fattispecie incriminatrici della corruzione non contemplano solamente l’elargizione di danaro, ma prevedono anche che si possa essere corrotti con la promessa o con la dazione di ‘altre utilità’. Ci rendiamo conto di che cosa questo significa del mondo della politica? Il mondo dalla politica è [...] il luogo naturale delle ‘altre utilità’»2.

La possibilità di ampliare l’area del corrispettivo, erogato da chi riceve i voti («in cambio della erogazione di danaro o di altra utilità») risolverebbe il problema? C’è chi lo crede, e in questo senso si sono volute leggere alcune delle nuove disposizioni della legge Severino (il reato di corruzione per induzione di cui all’art. 319-quater c.p. e la figura del traffico di influenze illecite, introdotta all’art. 346-bis c.p.). Come mai, allora, la giurisprudenza penale – come da ultimo nel caso del comune di Potenza – continua ad inerpicarsi nella precaria elaborazione pretoria costruita intorno alle fattispecie di corruzione elettorale? Fu durante il fascismo che si adottò la soluzione di qualificare i parlamentari come pubblici ufficiali Si tratta di reati che furono introdotti, mezzo secolo fa, sull’onda dell’indignazione prodotta dalle famigerate tecniche elettorali di Achille Lauro3. È ben vero che la giurisprudenza li ha “aggiornati”, individuando il momento della consumazione del reato nell’incontro del consenso fra le parti (e non nell’effettivo adempimento delle promesse, che potrebbero anche non concretizzarsi): ma è anche vero che i reati elettorali nascono tutti sotto l’antica eredità della “tregua delle armi” imposta per la campagna elettorale (“chiunque, per ottenere, a proprio od altrui vantaggio, la firma per una dichiarazione di presentazione di candidatura, il voto elettorale o l’astensione, dà, offre o promette qualunque utilità a uno o più elettori”), ed è oltremodo improprio estenderli alla fisiologia del mandato che intercorre tra un rinnovo dell’organo elettivo e l’altro. Anche laddove c’è il passaggio di danaro (moneta o preziosi), poi, la conclusione non è affatto scontata: fu durante il fascismo che si adottò la soluzione di qualificare i parlamentari come pubblici ufficiali, e, conseguentemente, di assoggettarli inte1 2 3

XI legislatura, seduta del 6 aprile 1993. Conferenza di via del Campo Marzio, 8 giugno 2015, su radioradicale.it. Articoli 96 e 97 del Dpr 30 marzo 1957, n. 361 ed articoli 86 e 87 del Dpr 16 maggio 1960, n. 570, mondoperaio 3/2016 +,+,+,+,saggi e dibattiti

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gralmente a tutte le norme sulla corruzione. Al giorno d’oggi, l’articolo 67 Cost. dovrebbe aver fatto giustizia di tutto ciò; invece, si affacciano teorizzazioni secondo cui il divieto di mandato imperativo si applica solo ai parlamentari: il codice di Casaleggio – imposto con un contratto di diritto privato ai candidati a tutte le altre cariche elettive, collegiali o monocratiche – sfuggirebbe quindi a duecento anni di costituzionalismo moderno e legherebbe gli eletti alla sala di controllo del sacro blog. Concediamo pure che, nell’alternanza tra sistole e diastole della “democrazia dei moderni”, oggi versiamo nella “fase stretta” – in cui solo i componenti di organi partecipi del potere legislativo sono garantiti dal divieto di mandato imperativo - anche se ci piacerebbe che a teorizzarlo fosse un consigliere comunale, non un vice Presidente della Camera (ma si sa, meglio cautelarsi da uno più puro che ti epura). Certo, però, non è un rogito notarile, non è la legge ordinaria – e neppure la giurisprudenza pretoria – che può deprimere la natura della politica come attività libera nel fine: l’ha teorizzata Aristotele per emanciparci dai guasti della Repubblica di Platone, e tra i due modelli la scelta della nostra Costituzione è chiara. L’eletto, in uno Stato democratico, gode della più ampia libertà nell’esercizio del suo mandato e non è tenuto a seguire, come accade all’amministratore o al giudice, percorsi normativi predeterminati, ma solo principi generali di correttezza e di legalità. La Costituzione riconosce al parlamentare la facoltà di interpretare il suo mandato nella maniera più libera possibile:

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ed anche quando, come è avvenuto nel caso De Gregorio, è lo stesso (ex) parlamentare che ammette di aver ricevuto danaro per i suoi voti e le sue scelte, non si è ancora fatto un passo avanti nella configurazione in concreto del reato. Qui si aprono, infatti, due sole strade: o si ricorre al modello operativo dei reati associativi - ricostruendo le condotte incriminate come “spia” dell’asservimento della funzione - oppure ci si attiene alla tipicità della fattispecie del diritto penale “comune” e si cerca un sinallagma “stretto”. La sentenza 14 aprile 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Contrada è monito abbastanza serio per non dilatare oltremisura la già censurata indeterminatezza dei reati associativi: se il “concorso esterno” vacilla anche per la mafia, figurarsi se lo si può ravvisare nell’eletto che accetta compensi continuativi da una lobby o da un altro centro di potere “lecito”. Dal 1994 nel fondo della camera oscura collettiva s’è impressa l’immagine di una nuova forma di governo Dall’altro lato, nella ricerca del sinallagma, spesso l’elaborazione pretoria offre al giudice una libertà interpretativa esageratamente vasta: si tratta pur sempre di un interprete che, come insegna J. Esser, è immerso in un contesto di concetti, pregiudizi, equiparazioni che gli trasmettono i criteri normativi; perciò la premessa maggiore e quella minore sono a tal punto prevalutate che la conclusione sillogistica – relativa alle singole caratteristiche della fattispecie – rimane al di sotto della soglia cosciente, e non si manifesta in pratica. La condotta seguita dal giudice napoletano è emblematica di come questa pre-valutazione sia rimasta sotto traccia. In punto di fatto, è bene ricordare che De Gregorio era stato espulso dal suo gruppo (Idv) fin dall’inizio della legislatura, avendo accettato l’elezione a presidente della commissione Difesa del Senato coi voti determinanti del centrodestra, dopo che la candidatura della sen. Lidia Menapace, indicata dal centrosinistra, era stata bocciata dal voto dei commissari: una vicenda squisitamente politica, che si era consumata molto prima della dazione di denaro da Berlusconi al movimento “Italiani nel mondo” (di cui il percettore era a capo). Ecco quindi che, preclusa la prima strada (un sinallagma concreto e specifico), il magistrato partenopeo si è orientato verso una diversa prospettazione della vicenda: l’allora senatore Sergio De Gregorio, eletto nel 2006 nello schieramento opposto all’ex presidente del Consiglio, si prestò – dietro compenso

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pecuniario – al “tradimento” di quello schieramento; ciò nel quadro di un disegno di erosione della ridotta maggioranza governativa in Senato (che sarebbe stata poi coronata da successo con la caduta del governo Prodi nel gennaio 2008). Può apparire ovvio sostenere che c’è corruzione politica anche quando l’eletto “vende” non questo o quel singolo voto, ma la sua stessa funzione, rinunciando per danaro alla libertà garantitagli dall’ordinamento attraverso il divieto di mandato imperativo: è quanto ha portato il tribunale di Napoli, nel processo a Silvio Berlusconi, a pronunciare la condanna per corruzione e finanziamento illecito di partiti. Ma siamo proprio certi che questa ricostruzione non abbia dato corpo a qualcosa che giaceva “al di sotto della soglia cosciente” del giudice? A dispetto di Edmund Burke e dell’abate Sieyès, dal 1994 nel fondo della camera oscura collettiva s’è impressa l’immagine di una nuova forma di governo. Come una scoria assunta quotidianamente nell’aria o nell’acqua, nel pubblico si è andata depositando la credenza secondo cui la Costituzione materiale prescrive, nell’ordine: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio; la sua legittimazione popolare con il voto; l’obbligo giuridico dei parlamentari eletti sotto le sue insegne a non disattendere il mandato ricevuto. “Se il giudice diventa legislatore, la libertà politica è annichilita” C’è stato chi (ancora Berlusconi) ha inteso conseguire anche un riconoscimento “formale” di questa concezione, sostenendola addirittura a palazzo della Consulta: ma la Corte costituzionale, nella sentenza n. 23 del 2011, ha negato che alla carica del Presidente del Consiglio dei ministri andasse riconosciuta una «nuova fisionomia» in quanto ricoperta da «persona che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo». La felice penna del giudice relatore Sabino Cassese fu sul punto tassativa: “La disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il ‘capo della forza politica’ o il ‘capo della coalizione’, non modifica l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, operata dall’art. 92, secondo comma, Cost., né la posizione costituzionale di quest’ultimo”. Eppure, nella chiacchiera mediatica, il trasformismo continua ad essere non una (deplorevole) conseguenza della “partitocrazia senza partiti”, bensì una violazione delle regole costituzionali (quali?), quando non addirittura un crimine. Con una formidabile giravolta, per i giudici napoletani proprio l’articolo 67 Cost.

esprimerebbe un interesse sovra-individuale “che esclude possa farsi riferimento ad una tutela costituzionale di una sorta di cieco arbitrio del parlamentare”: pertanto, sarebbe stato costituito in capo al De Gregorio un illecito mandato imperativo, cosa che ha prodotto un comportamento “contrario ai suoi doveri d’ufficio” ed ha determinato, in capo al corruttore, la meritata condanna. Se Popper avesse potuto applicare il criterio di falsificabilità a questa teorizzazione, avrebbe preteso analoghe conclusioni per analoga condotta che, nella legislatura successiva, fu tenuta dal De Gregorio rieletto: nel 2010, nel corso dell’inchiesta Telecom-Sparkle, si scoprì il versamento di una cospicua somma di danaro a suo favore. Il destinatario era il medesimo della rimessa di tre anni prima. Allora erogava il capo dell’opposizione; stavolta, invece, un compagno di schieramento parlamentare, la cui decadenza era stata impedita, pochi mesi prima, grazie alla presentazione in limine di un ordine del giorno a prima firma dello stesso De Gregorio. Eppure i giudici romani presero meramente atto delle testimonianze, senza ravvisare l’antigiuridicità del versamento: né voto (o firma) comprato, né alcun “asservimento” nel poliedrico svilupparsi della vicenda. Ecco che, “al di sotto della soglia cosciente” del giudice, si scopre il disvalore che operava a Napoli e non a Roma: lì si voltava la gabbana, qui si operava nell’ambito della solidarietà cameratesca. Difficilmente si sarebbe potuto pensare ad un esempio più calzante di questo, per riscontrare la fondatezza della massima: “Se il giudice diventa legislatore, la libertà politica è annichilita; il giudice diventa legislatore sì tosto che è lecito interpretar la legge”4. Quando Costantino Mortati elaborò la definizione di Costituzione materiale, nella “diarchia” del Ventennio si fronteggiavano una forza ed una debolezza: da un lato l’apparato corporativo fascista, dall’altro i residui statutari della legittimazione monarchica. Il mancato adeguamento della Costituzione repubblicana agli sviluppi successivi al 1992-1993 potrebbe aver ricostituito una “strana convivenza”, con l’aggravante che oggi si fronteggiano due debolezze: la politica della cosiddetta seconda Repubblica e le istituzioni fondate sulla Carta del 1948. L’ingresso della magistratura penale, in questa situazione, certamente risponde ad una legge fisica, comparabile alla dinamica dei pieni e dei vuoti. Ma ancor più certamente essa distorce la natura stessa dell’apparato della giustizia, arruolando i giudici in una funzione che neppure la scuola corporativa di Costamagna aveva mai sognato per il fascismo: quella dei guardiani-inveratori della Costituzione materiale, rendendola profezia che si autorealizza. 4

La massima e di Pietro Verri (Sulla interpretazione delle leggi, Il Caffè, II, 1765, fasc. XXVIII). mondoperaio 3/2016 +,+,+,+,saggi e dibattiti

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