Ecos de México: Scott Joplin e il suo eroe segreto
Descripción
Ecos de México: il giovane Scott Joplin e il suo eroe segreto di Marcello Piras [NOTA: Questa è una traduzione di sola lettura, senza note a pie’ di pagina. Il saggio originale, concepito e scritto in inglese, uscirà completo dell’apparato di riferimenti bibliografici.]
1. Sfondo storico. Nel XIX secolo, non uno degli stili musicali radicati nel territorio degli Stati Uniti era adatto all’esportazione. Le culture indigene non svilupparono nessuno stile moderno che i non-‐ indigeni potessero trovare interessante o anche solo comprensibile, come è invece accaduto nelle Ande o in Guatemala. La società bianca anglosassone dominante aveva un interesse trascurabile per la musica, che appare vieppiù trascurabile se paragonato al suo interesse per gli affari. Gli USA, prima di ricevere la grande ondata migratoria di gruppi etnici assai musicali come ebrei, italiani e russi, avevano una musica che era una debole, periferica, piatta copia di quella dell’Inghilterra, e questa a sua volta era di gran lunga la nazione più debole nella musica colta europea: l’unica potenza politica senza grandi compositori né uno stile nazionale. In questo senso, Usa, Canada, Regno Unito e Australia nel XIX secolo si possono descrivere come una compatta area anglofona in cui la popolazione era rimasta ferma a canti e balli contadini, più inni religiosi; nella musica scritta dominavano una vacua produzione da salotto, marce militari e commedia musicale leggera; la musica sinfonica tedesca era riverita come genere superiore che quasi nessuno capiva; e infine l’opera italiana era amata ma non considerata come vero banco di prova della raffinatezza del gusto. I compositori locali sfornavano o canzoni, ballabili e inni alquanto anonimi, o smorte imitazioni della musica tedesca. La gaia e sensuale oasi francese a New Orleans era isolata come un vascello di appestati. Louis Moreau Gottschalk era stato scacciato via con l’arma prediletta dai bigotti: uno scandalo sessuale. Il suo nome era divenuto tabù da un giorno all’altro. Non sorprende che quasi nulla della musica nordamericana riscuotesse interesse in Europa. Gottschalk aveva rappresentato una fugace eccezione perché era un grande originale. Ma le copie americane dei generi europei erano troppo fiacche per riattraversare l’oceano. I minstrel bianchi potevano piacere solo ai pubblici di lingua inglese, specie quelli non immuni da sentimenti razzisti. Di fatto, le loro tournée internazionali approdavano con regolarità in Gran Bretagna, Irlanda, Sudafrica e Australia; altrove il loro impatto era pressoché nullo. Gli spiritual da concerto incontravano interesse e apprezzamento, ma non ebbero mai seguaci in
Europa. Erano visti come musica tipica di un gruppo etnico, un po’ come il flamenco o le danze cosacche. Da questo panorama deprimente, gli Usa saltarono, nel giro di una generazione, a esportare in tutto il mondo jazz e musica da ballo. Un simile rovesciamento fulmineo del rapporto fra dare e avere fu certo alimentato dall’ascesa degli Usa come potenza mondiale dopo il 1918. E tuttavia era stato preparato da un’importante fase di transizione, incardinata nel ragtime. Il ragtime e i generi suoi consanguinei — cake-‐walk, cantanti di vaudeville, virtuosi di banjo, e così via — costituirono la prima area stilistica in cui i modelli europei subirono negli Usa una trasformazione originale, che può definirsi all’ingrosso come una nascente africanizzazione. La musica risultante iniziò a riscuotere un certo interesse all’estero, se non nel campo del repertorio concertistico più elevato, per lo meno nel démi-‐ monde di circo, teatro leggero, alberghi di lusso e café-‐concert. Scott Joplin è riconosciuto come il massimo esponente della stagione del ragtime. Di fatto, era il musicista più geniale nato negli Stati Uniti fino a quel momento. Questo solo dato suggerisce la domanda, o le domande: da dove trasse ispirazione? Chi furono i suoi modelli, se la sua nazione non ne aveva uno da offrire? L’apparizione di una simile figura torreggiante in mezzo al nulla non si può spiegare solo con il talento individuale di Joplin, per quanto straordinario. Nel suo periodo formativo, gli anni ’80 e ’90, egli certo attinse ispirazione a fonti e tradizioni del luogo. Ad esempio conosceva Stephen Foster, tant’è che il balletto del I Atto di Treemonisha, We’re Going Around, parafrasa Camptown Races. Sapeva suonare il banjo e il violino, strumenti con cui i genitori erano soliti trastullarsi, e aveva familiarità con gli stili del momento, da Johann Strauss — la cui operetta Der lustige Krieg poté vedere a Texarkana da bambino — fino a John Philip Sousa. A quanto pare, gli sfuggì solo Gottschalk, che fu bersaglio della damnatio memoriæ proprio durante la giovinezza di Joplin. Sebbene ciascuno di questi ingredienti faccia capolino di tanto in tanto nell’opera di Joplin, nessuno di essi spiega da solo in che modo egli sia riuscito a distaccarsi dalla cerimoniosità mortifera della ballata vittoriana da salotto, documentata in Please Say You Will e A Picture of Her Face, per trovare la propria voce individuale. Chi, o che cosa, lo illuminò? 2. La musica in Messico. Negli stessi anni, il Messico era già sia importatore che esportatore di musica. Mentre i suoi autori di musica da concerto godevano solo di una ristretta fama nazionale, e non riuscirono a raggiungere il resto del mondo fino all’apparizione di Manuel Maria Ponce, le canzoni
messicane godettero di un successo internazionale durevole; alcune sono ancora famose. Per esempio, Cielito lindo fu composta da Quirino Mendoza nel 1882. Si noti che la canzone è nota, il compositore no: il successo di un motivo non garantiva analogo destino al suo creatore. Questa età aurea della canzone scritta messicana presenta una significativa sincronia con le condizioni di pace, stabilità, crescita economica e industriale che il Messico sperimentò sotto il pugno di ferro di Porfirio Díaz e fino allo scoppio della rivoluzione del 1910. All’epoca il Messico inviava musicisti negli Usa con regolarità; il contrario non risulta accadesse. Un contemporaneo di Joplin, Miguel Lerdo de Tejada (1869-‐1941), pianista, direttore e compositore, girò gli Stati Uniti in lungo e in largo, spingendosi a nord fino alla Carnegie Hall di New York. Le esibizioni di una “Mexican Band”, ricordate da diversi veterani di New Orleans, attinsero un status quasi di leggenda, fino a quando le ricerche di Jack Stewart non hanno chiarito che numerosi complessi di differente organico, tutti chiamati Mexican Band, avevano visitato la città nell’arco di diversi decenni. Anche case editrici locali come Werlein e Grunewald tenevano sempre musica messicana in catalogo. 3. A Rosas Is a Rosas. Uno degli intramontabili motivi messicani che conquistarono gli Stati Uniti e il mondo in quegli anni è Sobre las olas, noto nel mondo anglòfono come Over the Waves. Come già nel caso di Cielito lindo, tutto il mondo lo conosce mentre il suo autore, Juventino Rosas Cadenas (1868-‐1894) è ancor oggi ignoto alla maggior parte degli ascoltatori non messicani. Io stesso ho potuto verificare di persona che giovani di varie nazioni sono ancor oggi in grado di cantare questo maestoso valzer dopo averne udito solo le prime cinque note: e tuttavia essi danno per scontato che il compositore debba essere stato un qualche “re del valzer” viennese. La biografia di Juventino è ormai ricostruita almeno nei suoi tratti essenziali, e buona parte di quanto sopravvive della sua produzione è stato inciso su CD. Indigeno di etnia otomí, era nato nel 1868 da una famiglia poverissima, in una cittadina chiamata all’epoca Santa Cruz de Galeana (Guanajuato). Apprese i rudimenti di violino e teoria dal padre, insieme al quale suonava chiedendo l’elemosina per strada. Studiò poi musica nella scuola pubblica e al Conservatorio Nazionale di Città del Messico, grazie a una legge che consentiva ai poveri ma meritevoli di frequentare gratis. Esecutore e leader carismatico sulla scena, e compositore fertile di ballabili lisci e sincopati, si fece ben presto un nome nell’ambiente della musica da ballo; i suoi pezzi, pubblicati da Wagner y Levién, gli diedero fama nazionale. Prima del 1890 già suonava in un complesso che presentava la strumentazione di una banda New Orleans, salvo il flauto al posto del clarinetto. La sua composizione più nota — che non è una semplice
canzone a tempo di valzer, ma un ampio e ben sviluppato valzer da concerto con introduzione lenta, tre temi e coda, della durata di circa cinque minuti — venne dapprima titolata Junto al manantial (“Accanto alla sorgente”) e poi ribattezzata Sobre la olas (“Sulle onde”). Una leggenda che ha goduto di ampia circolazione vuole che egli stesso l’avesse presentata con successo all’Esposizione Mondiale del Cotone di New Orleans nel 1884, a diciott’anni. Ciò è improbabile, e tuttavia la sequenza di accordi del primo tema di Sobre las olas sarebbe divenuta familiare presso le bande di New Orleans come sezione finale di Tiger Rag. Nel gennaio 1893, Rosas intraprese un lungo giro di concerti nel Nord America come solista ospite della Orquesta Típica Mexicana. Dopo alcuni avvicendamenti nella formazione, il complesso, ribattezzato Orquesta Típica Italo-‐Mexicana, si imbarcò infine per Cuba per un ulteriore giro di esibizioni. Qui Juventino contrasse il meningococco e in breve tempo si spense, vittima della mielite. Aveva 26 anni. Il segmento più importante di quella tournée negli Usa fu la permanenza all’Esposizione Mondiale Colombiana di Chicago, un’occasione più unica che rara per farsi conoscere oltre confine e lanciarsi in una carriera internazionale. Il 3 gennaio 1893, subito prima della partenza dell’Orquesta Típica Mexicana, El Monitor Republicano, un periodico di Città del Messico, ne riferiva la formazione completa, che si presta ad alcune osservazioni. Il complesso, diretto in quel momento dal flautista Antonio G. García, allineava anche Julio Camacho cornetta, Norberto López clarinetto, Lucio Murillo e la piccola Bernarda Medina (dieci anni) sassofoni, Manuel Pedroza sax baritono, Baltasar Espinosa, Sidronio García Narro, Juventino Rosas ed Eduardo Flores violini, Alberto Ramírez violoncello, Cecilio Flores bajo sexto (una chitarra messicana a dodici corde), Antonio Montes contrabbasso, Alfredo Díaz timpani, più due piccole danzatrici, “Manuelita” Rodríguez (otto anni) e María Isabel García (sette). Se li elenchiamo in breve come cornetta, flauto, clarinetto, tre sax, cinque archi, chitarra, contrabbasso e tamburi ci rendiamo conto di quanto questo gruppo fosse già simile a un complesso jazz, parecchi anni prima che il “jazz” fosse nato, o che il jazz fosse “nato” (scegliete le virgolette preferite). Chi scrive non ha mai rintracciato il minimo indizio che orchestre da ballo con un organico di questo tipo fossero comuni negli Stati Uniti intorno al 1893. I sassofoni, in particolare, dovevano apparire strani ed esotici al pubblico di qualsiasi paese del mondo, tranne Messico e Francia. Di fatto, una simile formazione era nuova anche per il Messico. Essa appare aver inglobato l’influenza del danzón cubano, genere che già nel 1890 era sbarcato a Veracruz e si stava ormai diffondendo a macchia d’olio in tutta la Federazione. Per contro, il bajo sexto era
una specialità locale messicana, al pari dei sax, assai comuni in Messico da quando la politica di Porfirio Díaz di attrarre investimenti dalla Francia ne aveva accelerato la diffusione. Altra novità era l’idea di far esibire i musicisti con indosso l’abito del charro, il cowboy messicano, cosa che sarebbe divenuta comune tra le orchestrine mariachi solo molto più tardi. Il repertorio dell’Orquesta comprendeva danze europee, come valzer e polka, fianco a fianco con quelle messicane come il jarabe tapatío, vetrina per le due piccole danzatrici, composta da Juventino. El Correo de Laredo lo segnalò come grande successo, che l’autore dovette bissare a furor di popolo. Nel programma dell’Esposizione gli eventi musicali rientravano grosso modo in due categorie. Il programma ufficiale prevedeva quattro concerti al giorno, puntualmente annunciati dal Daily Columbian, l’organo ufficiale dell’Esposizione. Rosas non suonò in nessuno di questi. Poi vi era una quantità di locali che riversavano musica sui milioni di visitatori a passeggio per l’Esposizione, non solo negli auditorium e dai gazebo delle bande, ma anche in sale e caffè interni ad alcuni padiglioni nazionali. L’Orquesta Típica Mexicana arrivò a Chicago il 10 maggio ed esordì al Teatro Marlowe una settimana dopo. Qui, riferisce El Universal, era diretta da Eduardo Flores e da Juventino, che probabilmente suonò anche la cornetta in uno speciale numero-‐attrazione. In data ancora successiva troviamo indicato come direttore Julio Camacho; forse i solisti principali si alternavano in tale ruolo. Un indizio del successo dell’Orquesta è che continuò a esibirsi in questo locale da 1200 posti dal 18 al 25 maggio. Sempre El Universal del 31 maggio riferisce il programma completo della serata del 22. Lo apriva l’ouverture di Poeta e contadino di Franz von Suppé; la seconda parte iniziava con l’ouverture della Muta di Portici di Daniel Auber, due classici leggeri assai noti. Il resto del programma consisteva di ballabili, e le composizioni di Juventino ne prendevano una buona fetta. A ogni modo il Teatro Marlowe, sito all’epoca al 6254 di South Stewart Avenue, fu giudicato troppo lontano dal centro e dal cuore pulsante dell’Esposizione. Così, dopo una pausa, il 9 giugno l’Orquesta riapparve in altro luogo. Dove di preciso, non è chiaro; i testimoni citano un “Midway Plaisance Café” che non risulta nelle mappe ufficiali. Forse si esibiva in un caffè collocato in qualche punto del Midway Plaisance, il grande viale su cui aprivano i battenti molti padiglioni nazionali. Su ambo i lati della passeggiata, diversi caffè e ristoranti offrivano musica, ma molti stavano all’interno di un’area nazionale e ovviamente offrivano solo la musica loro; per esempio, il ristorante ungherese aveva un’orchestra tzigana. Sicché il locale che ospitava la Orquesta Típica Mexicana doveva per forza trovarsi in campo neutro. Se è così, rimane un unico locale candidato: il Garden Café, adiacente al Moorish Building sul lato destro del viale camminando in direzione ovest. La Official Guide to the
Midway Plaisance, un libriccino aggiornato al 10 agosto 1893 che offriva per dieci centesimi una descrizione dettagliata di tutti i locali di quella strada, lo cita come numero 38 della lista con queste concise parole: This is a pleasant and satisfying resting and refreshment place, where orders are filled promptly and at moderate prices. Good music is furnished and guests are treated with civility and consideration.
Quale che fosse il locale, dev’essere stato in una collocazione assai migliore, davanti alla quale i visitatori erano costretti a passare, ulteriore riprova del successo dell’orchestra. Difatti la sua permanenza iniziò il 9 giugno ma era ancora in corso il 19 agosto. Si concluse di certo prima del 4 ottobre, la Giornata Messicana all’Esposizione, quando la Federazione fu rappresentata ufficialmente da una banda militare. In quei mesi ebbe luogo un altro evento, sul quale l’informazione disponibile è confusa e in gran parte di terza mano. Il biografo di Juventino, Helmut Brenner, riferisce che lo scrittore cubano Hugo Barreiro Lastra afferma che il grande poeta e prosatore cubano Manuel Serafín Pichardo (1865-‐1936) scrisse nel suo libro La ciudad blanca dello straordinario successo che l’Orquesta Típica Mexicana colse al “Manufacture and Liberal Arts Building” [sic], davanti a migliaia di persone in delirio. Questa lunga catena di riferimenti approssimativi è spezzata in qualche punto. Pichardo firmò una serie di vivaci corrispondenze dall’Esposizione, molte — o forse tutte — per il popolare periodico cubano El Fígaro. Esse vennero in effetti raccolte in un libro intitolato La ciudad blanca. Ma in esso non vi è una parola su Juventino. La prefazione, firmata da Enrique José Varona, è datata 19 gennaio 1894, il che mostra essersi trattato di un instant book sfornato in fretta dallo stesso editore del Fígaro, probabilmente per lucrare sull’interesse del pubblico per l’Esposizione. Come vedremo, Pichardo scrisse in effetti anche un articolo su Juventino, ma solo dopo l’uscita del libro, e pertanto esso non avrebbe potuto esservi incluso. Barreiro Lastra ha creduto che l’articolo si trovasse all’interno della Ciudad blanca e Brenner gli è andato dietro, contribuendo a diffondere l’equivoco. Siamo su una pista più fruttuosa se seguiamo un altro intellettuale cubano, l’eclettico Andrés Clemente Vázquez Hernández (1844-‐1901), giornalista, scrittore, avvocato, cultore del diritto nonché giocatore e teorico degli scacchi. Alcuni dei suoi scritti furono raccolti nel 1898 in un libro, En el ocaso. Reminiscencias americanas y europeas, che contiene un capitolo su Juventino, “Over the Waves” (en casa de los esposos Crusellas). Carta abierta a la egregia poetisa y desolada señora Luisa Pérez de Zambrana. La “lettera aperta” di Vázquez è datata L’Avana, 24 gennaio 1894. Si tratta di un lungo e divagante elogio di Juventino, scritto subito dopo il suo
arrivo a Cuba (e quindi dopo il giro di concerti negli Usa), quando il giovane violinista era al culmine della fama. Sobre las olas, egli scrisse: [l]o mismo se toca en la Habana por las músicas militares, que por los pianos de las señoritas; que ya suena en los parques y en las alamedas, cuando no se escucha original y velado en el silbido de los gamines de la ciudad de la Habana.
Un passo concernente una delle piccole danzatrici è di particolare interesse: De Manuelita Rodríguez, mexicanita de once [sic] años, que viene con la compañía, y que ha encantado a los visitantes de la Exposición Universal de Chicago, asombrándolos con su nuevo modo de bailar — siempre sobre la punta de los piés, y con la actitudes del más gracioso pudor — ¿para qué hablarle? En un próximo número de El Fïgaro se publicará su retrato, y el hábil pincel del Sr. Pichardo la describirá en los salones del gran certámen de los Estados Unidos, en donde él la vió lucir y triunfar, con hurras á la República de México, repetidos por 40,000 ó 50,000 voces entusiasmadas.
Dunque, se Vázquez ha ragione, l’articolo di Pichardo dovrebbe esistere in un qualche numero successivo del Fígaro. Per ora è sepolto in qualche biblioteca cubana, e questa è la fonte più prossima che siamo riusciti a recuperare. L’evento colossale citato da Vázquez ebbe luogo probabilmente tra il 25 maggio e il 9 giugno, cioè durante l’intervallo tra i due ingaggi al Teatro Marlowe e al Midway Plaisance Garden Café. Il Manufactures and Liberal Arts Building — questo il nome corretto — era una costruzione elefantiaca. All’epoca era l’edificio più grande al mondo: ci sarebbero potuti entrare dentro sei campi da baseball. Dunque le cifre fornite da Vázquez circa i presenti non vanno considerate esagerazioni. L’edificio andò a fuoco l’8 gennaio 1894, e non ne rimane traccia. L’Orquesta Típica Mexicana probabilmente vi suonò una sola volta, perché la sua sterminata sala era molto richiesta. Prima di lasciare il Messico, Juventino aveva pubblicato quattro pezzi apposta per l’esposizione: Soledad, valzer, Flores de México, polka, Flores de romana — indicato in copertina come danzón ma di fatto una danza o habanera cubana, come vedremo — e Flores de margarita, altro valzer. Tutti furono editi da Eduardo Gariel, Saltillo (Coahuila), e recavano un’identica frase sottolineata nella parte alta del frontespizio: Edición especial para la Exposición Colombiana de Chicago 1893. Si trattava di una mossa tempestiva, in quanto l’Esposizione prevedeva gare, classifiche e premi in tutti i campi e per ogni genere di prodotto. Rosas, da solo o con l’orchestra, si aggiudicò quattro medaglie d’oro e diplomi d’onore. Le medaglie sono visibili sulla sua foto più famosa, chiaramente scattata subito dopo
l’esposizione. Vi appare indossando il costume da charro, le medaglie orgogliosamente appuntate sul petto. È opportuno sottolineare che l’Esposizione ebbe anche molti visitatori di colore. Alcuni hanno lasciato resoconti scritti, in parte raccolti dal libro di Lynn Abbott e Doug Seroff, Out of Sight. Sappiamo anche per certo che Scott Joplin era all’Esposizione. Le informazioni circa la sua attività sul posto sono scarse e non facili da controllare, tuttavia, con ogni probabilità, egli si esibì con il suo Texas Medley Quartette, il gruppo vocale nel quale agiva come pianista, compositore, arrangiatore e/o uno dei cantanti. Il 22 agosto il complesso fu oggetto di un paragrafo breve ma molto positivo sulla Cedar Rapids Evening Gazette, in cui si cita il fatto che fosse arrivato da Chicago. È ragionevole pensare che Joplin avesse girato l’Esposizione e ascoltato tutta la musica possibile: non avrebbe più avuto in tutta la vita un’occasione simile per ascoltare Sousa, Dvořák, l’orchestra tzigana di Paul Olah, le danze del sertão brasiliano, i musicisti africani ospiti del villaggio del Dahomey, musica egiziana e turca, e molte altre cose. L’Orquesta Típica Mexicana era stata premiata come la migliore, fuori dell’ambito classico, e rimase disponibile ogni giorno fino ad agosto, se non di più, sulla Midway Plaisance. Il buon senso suggerisce che Joplin abbia ascoltato Juventino. E le prove? Giudicate voi. 4. L’identità nazionale del nero americano in musica. Per porre gli eventi nella giusta cornice storica, va individuata la fase evolutiva che Joplin stava attraversando. Aveva 26 anni; aveva studiato musica a Texarkana con Julius Weiss, che a quanto sembra gli insegnò la lettura, la teoria, l’armonia e il pianoforte ma non la composizione, campo nel quale si limitò ad additare all’allievo alcuni modelli elevati. Subito dopo, il giovane Joplin si era tuffato in una vita vagabonda, esibendosi spesso con il Texas Medley Quartette, per il quale scriveva canzoni, arrangiava e armonizzava melodie famose per adattarle al suo repertorio. Gli anni ’90 dell’Ottocento videro anche la graduale apparizione dei “rag”. I primi articoli di giornale in cui è attestato il termine mostrano che in origine indicava un evento simile a quello che, nella Harlem degli anni ’20, si sarebbe poi chiamato rent party: una festa da ballo privata, che una famiglia organizzava in casa per raccogliere il denaro necessario a pagare l’affitto. Ciò corrobora la tesi di recente formulata da Karl Gert zur Heide, che riconduce “rag” all’arabo raqs, che ancor oggi sta per “danza” in molti paesi musulmani, di lingua araba o no. Solo dopo un certo tempo il significato del vocabolo migrò dal rituale
sociale allo stile genere di musica che vi si ascoltava più spesso, e che risultava dall’applicare sincopi e controtempi a danze lisce europee, come la polka. Intanto, la nascente borghesia nera lottava per raggiungere standard di vita più elevati, sebbene la rivincita razzista seguita agli anni della Ricostruzione facesse sentire la sua stretta sempre più soffocante. Essa iniziò così a organizzare non solo balli di società, ma anche un’attività musicale da concerto. Emerse a quel punto il problema dell’identità nazionale afro-‐ americana in musica: ed esso trovò una prima soluzione nell’opera di John William Boone. Prendendo esempio dalle Rapsodie ungheresi di Liszt — la n. 6 era un elemento fisso del suo repertorio — Boone compose pezzi per pianoforte di carattere virtuosistico, con titoli come Caprice de concert, nei quali incastonava melodie folk negre, più o meno come Liszt aveva fatto uso di motivi tzigani. Anche il sincopato iniziò a insinuarsi nel linguaggio di Boone. E tuttavia le sue composizioni, sebbene robuste e in qualche caso addirittura poderose, non acquisirono mai un senso di spontanea unità espressiva. I motivi folk apparivano innaturalmente associati a una panoplia di effetti virtuosistici inventata altrove. Mentre l’esperimento di Boone agiva dall’alto in basso, per così dire, i pionieri del ragtime come Thomas Turpin percorrevano la strada opposta. Turpin creò brevi e agili brani di danza, che serbano l’impronta dell’invenzione estemporanea perfino dopo essere stati affidati al pentagramma, ma al tempo stesso vantano la chiarezza formale, l’eleganza e la distinzione della buona musica scritta. Essi iniziarono a essere pubblicati a stampa nel 1897 (Harlem Rag), ma alcuni circolavano già prima dell’Esposizione. Il loro limite era la mancanza di respiro concertistico: queste amabili creature, per quanto funzionali al loro scopo, mancavano della forza d’impatto emotivo necessaria per sostenere l’attenzione di un uditorio seduto. Si trattava in buona parte di un problema di equilibrio. Da un lato, la borghesia nera imitava le usanze della sua controparte bianca, dall’altro aspirava a conferire a tali usanze una piega “negra”. Altrove l’ho definita strategia “nido del cuculo”. In soldoni: va’ dove vanno i bianchi, fa’ quel che fanno loro e lasciavi la tua impronta negra. Tale tendenza era all’epoca comune in tutto il continente, da Toronto a Buenos Aires, ma in altre nazioni aveva avuto inizio prima, in qualche caso molto prima: forse già intorno al 1730 a Saint-‐Domingue e in Brasile. Inoltre, la musica scritta godeva laggiù di uno status sociale più alto e di un rispetto e un interesse più diffusi, era meglio conosciuta, era suonata più spesso e aveva compositori migliori. Gli schiavi di Saint-‐Domingue, cercando a loro modo di accedere a un ambiente musicale orientato ed educato secondo il gusto francese, finivano per suonare il violino nelle opere di Grétry. I neri brasiliani potevano addirittura diventare maestri di cappella o
pubblicare testi di teoria. E i neri del Tennessee? Essi avevano ben poco da attingere dalla squallida vita musicale dei loro vicini anglosassoni. Così, la strategia nido del cuculo diede frutti disuguali. Generi nuovi, originali e riccamente sincopati di musica scritta di influenza africana, come la danza a Cuba, già producevano capolavori decenni prima che gli Usa fossero riusciti a deglutire il sincopato rudimentale del cake-‐walk. Joplin colmò questo ritardo praticamente da solo. Lo stato embrionale della musica scritta nera negli Usa si può misurare dalle reazioni di fronte ai musicisti del Dahomey presenti all’Esposizione di Chicago. Noti intellettuali neri protestarono contro l’idea di far esibire negri così primitivi, che mettevano in cattiva luce la loro razza. Può darsi che gli organizzatori dell’Esposizione avessero avuto la perfidia di sceglierli per far apparire l’Africa come particolarmente selvaggia. Ma ci si aspetterebbe anche che una simile occasione, più unica che rara, di ascoltare vera musica dell’Africa occidentale fosse giudicata elettrizzante, anziché odiosa. La verità è che nel 1893 quella musica era una bevanda troppo forte anche per i neri statunitensi, figurarsi per chiunque altro. Fare tesoro del suo intricato gioco di cicli e incastri ritmici, trascriverlo, e poi usarlo per comporre musica originale era al di là delle capacità di chiunque. Per contro, l’Orquesta Típica Mexicana offriva una perfetta combinazione di ingredienti. La sua musica si basava su forme e generi familiari, come valzer e polka. Vantava un materiale tematico espressivo, merito in parte del talento di Juventino, in parte della diffusa influenza dell’opera italiana, ben più stimolante che non gli sbiaditi inni e marce militari inglesi. E sopra vi era spruzzata una dose di accenti ritmici di origine africana che andava molto al di là della produzione corrente negli Usa, e purtuttavia era messa su carta, stampata e pronta per l’uso. Joplin dovete scoprire che la musica di Juventino era quella che più si avvicinava a ciò che stava confusamente emergendo nella sua mente: creare una musica scritta negra che fosse ballabile ma nel contempo esibisse la dignità della musica da concerto. 5. Dalla teoria alla pratica. Cercando di ricostruire le ruminazioni mentali di Joplin all’Esposizione, iniziai a un certo punto a chiedermi se fosse possibile trovare qualche indizio dell’influenza di Juventino nella parte del suo catalogo che ci è nota. Cominciai allora a ripassare al pettine fitto le composizioni di Rosas, e il safari portò subito risultati inattesi. Molti anni fa avevo concepito e supervisionato l’incisione integrale in tre Cd della musica per pianoforte di Joplin su strumento d’epoca, lavoro per vari motivi ancora inedito. Volevo che la musica fosse disposta il più possibile in ordine cronologico. Per le composizioni
di Joplin abbiamo solo gli anni di edizione, e questi producono un ordine in parte differente: molti pezzi stanno al posto giusto, ma alcuni, specie giovanili, finiscono collocati in modo incongruo in mezzo a pezzi ben più avanzati. Così cercai di individuare quali, in base allo stile o ad altra considerazione, diano l’idea di essere stati scritti anni prima della data di edizione. Subito mi saltò agli occhi The Augustan Club Waltzes, pubblicato nel 1901, dopo che Joplin aveva già firmato creazioni originali come Maple Leaf Rag e The Ragtime Dance, nelle quali ogni battuta reca la sua inconfondibile impronta. Anche a un’occhiata o ascolto superficiale, The Augustan Club Waltzes non ha nulla di jopliniano. Avrebbe potuto essere sfornato da decine di oscuri artigiani del XIX secolo e mostra solo deboli accenni di talento. All’inizio pensai che potesse essersi ispirato ai valzer di Émile Waldteufel, all’epoca famosi in tutto il mondo. Ma mi sbagliavo. E tuttavia avevo ragione nell’attribuire, in via di ipotesi, a questo brano la data più antica nel catalogo di Joplin: più o meno il 1895. Il vero modello di Joplin qui è un valzer di Juventino, Carmen, pubblicato nel 1888. L’autore lo aveva dedicato alla consorte del dittatore Porfirio Díaz, Carmen Romero Rubio, e tutti i complessi messicani avevano l’obbligo di eseguirlo alla presenza di lei. Rosas lo suonava quasi ogni sera. Le somiglianze tra Carmen e The Augustan Club Waltzes appaiono stupefacenti, non appena si confrontino i rispettivi primi temi. Carmen, tema A
The Augustan Club Waltzes, tema A
In Joplin, la destra di fatto suona due melodie: un tema principale punteggiato di silenzi, a cui fa contrasto un frastagliato disegno riempitivo, dal profilo melodico di Jodler austriaco. Se togliamo quest’ultimo, le analogie tra Rosas e Joplin diventano schiaccianti. Si noti, in particolare, come Joplin ricavi il proprio motivo d’apertura da quello di Juventino. Ma quando si confronta l’accompagnamento alla sinistra, emerge qualcosa di ancor più impressionante: è copiato! Joplin ha preso la base armonica del tema A di Carmen e poi, cambiando appena qualche rivolto, ha composto la sua melodia, nuova ma imparentata con l’originale, sopra la vecchia progressione armonica: un po’ come, mezzo secolo dopo, Charlie Parker costruì Scrapple from the Apple sopra Honeysuckle Rose. In anni successivi, Joplin avrebbe fatto lo stesso, in maniera più sofisticata, su successioni di accordi proprie, usando Maple Leaf Rag come punto di partenza per creare The Sycamore, Leola, The Cascades, Gladiolus Rag e Sugar Cane. I temi B delle due composizioni mostrano somiglianze più ridotte, e anche queste poi scompaiono mano a mano che il valzer di Joplin si allontana dal suo modello. Figurazioni simili, laddove esistono, appaiono inoltre collocate in un punto diverso. In sintesi Joplin, da compositore principiante, scelse di prendere le mosse da un ancoraggio solido, come se si sentisse insicuro, e così si appoggiò a una composizione e a un compositore per cui provava affinità. Tutto ciò avrebbe potuto essere fatto in qualsiasi
momento, compreso l’anno di pubblicazione 1901, ma è più convincente datarlo subito dopo l’Esposizione, prima che Joplin avesse composto qualsiasi altro pezzo a noi conosciuto, prima che il suo stile e la sua tecnica compositiva raggiungessero la maturità, e mentre era ancora sotto l’impressione fresca e vivida dell’aver visto e sentito Rosas in persona. Di fatto, poco dopo l’Esposizione, Joplin si risolvette a iscriversi allo Smith College di Sedalia dove, con ogni probabilità, poté ricevere quelle lezioni di composizione che il buon vecchio professor Weiss non aveva potuto dargli. The Augustan Club Waltzes potrebbe dunque ben essere una delle sue primissime fatiche. Per tutte queste ragioni suggerisco qui di datarlo intorno al 1894. Ciò detto, la pubblicazione nel 1901 è facile da spiegare: verso il gennaio 1900 Joplin si vide commissionare, o concepì egli stesso, una suite di danze, «such as a waltz, march, polka, schottisch, and “rag”», dedicata al club omonimo, che ritraesse tutta la gamma dei ballabili dell’epoca dal liscio al sincopato. Non aveva ragione di comporre un valzer all’antica da zero, se ne aveva uno bell’e pronto. (Il resto della suite non fu composto, o è perduto, o i suoi movimenti uscirono pubblicati sotto altri titoli). La derivazione di The Augustan Club Waltzes da Carmen non è un caso isolato. Ce n’è almeno un altro in un brano successivo, più aderente allo stile del Joplin maturo. Come detto, Rosas aveva fato pubblicare quattro sue composizioni prima del viaggio a Chicago. Fra queste, Flores de romana ha un posto speciale. Fu pubblicata come danzón ma, si sa, gli editori preferiscono far uscire un brano con l’etichetta più recente e più di moda, piuttosto che sotto un’etichetta giusta, ma ormai fuori moda. Sta di fatto che non si tratta per niente di un danzón: non ne possiede né la forma a quattro temi, ne la tipica figurazione ritmica del cinquillo. È una danza cubana, non lontana dalla sua forma stilizzata per esportazione, la habanera. Contiene perfino una fugace omaggio alla Habanera op. 21 n. 2 di Pablo de Sarasate, che aveva compiuto un giro in Messico nel 1890.
L’elemento di base della habanera è il ritmo puntato al basso, cui è sovrapposta una
terzina di crome al canto. Ovviamente c’è molto più che questo in Flores de romana, che, in quanto brano largamente sincopato, dovette suscitare grande interesse in Joplin. Non vi è la minima prova che questi stesse già suonando e/o scrivendo musica sincopata nel 1893. Egli stesso affermò che il ragtime ricevette un forte impulso dall’Esposizione, e in tal senso è ben possibile che alludesse a se stesso. A ogni modo, il Messico e i Caraibi erano molto più avanti degli Usa in fatto di quantità e varietà di sincopi. Dopo tutto, l’importazione di schiavi africani vi era iniziata ai primi del Cinquecento, quando nessuna colonia inglese esisteva; e la prima composizione di influenza
africana in Messico fu messa su carta nel 1609, quando i primi coloni inglesi riuscivano a malapena a sopravvivere sul suolo americano. Se traduciamo la notazione su pentagramma nel più pratico concetto africano del time-‐ line pattern, ogni battuta o gruppo di battute sincopate si può considerare come un ciclo in cui un numero pari di impulsi è diviso in due sottogruppi dispari. Ad esempio, una battuta di 2/4 consiste in un ciclo di otto semicrome. La figurazione del Charleston lo divide in 3+5. Quando il sincopato si diffonde nella musica non sincopata, compie una serie di passi avanti che è identica sempre e ovunque. Essa mostra come le culture a tronco bloccato — secondo la terminologia di Alan Lomax — resistano all’influenza delle culture a tronco articolato. La più corta e semplice figurazione 1+3 appare per prima, poi segue la 3+5, e infine — se mai arrivano — compaiono 5+7 e 7+9. Nel corso del XIX secolo, il sincopato appare negli Stati Uniti solo nella forma più rudimentale 1+3, associata al cake-‐walk e già reperibile nelle canzoni dei minstrel. Con Original Rags, Joplin compie un salto quantistico, ricorrendo generosamente alla figurazione 3+5. Nel frattempo, il sincopato era stato presente nella danza cubana fin dai primi dell’Ottocento, e negli anni ’90 aveva ormai raggiunto una spettacolare varietà di cicli e controtempi. Lo stesso Rosas non era certo il musicista più ardito nel bacino dei Caraibi, e tuttavia Flores de romana dovette suonare come una rivelazione per Joplin e i suoi colleghi, ancora tenuti a una dieta quotidiana di cake-‐walk, con i suoi singulti sincopati 1+3. Essi dovettero saltare come lupi famelici sulle composizioni a stampa di Juventino, in cerca della chiave per capire, scrivere e dominare il sincopato del loro folklore afro-‐ statunitense. Il confronto tra il tema B di Flores de romana e il tema D di The Strenuous Life, pubblicato nel 1902, mostra come Joplin avesse riformulato tale influenza. Pervenuto alla maturità, egli non si limita più a copiare: piuttosto riplasma in modo fantasioso qualsiasi fonte di ispirazione su cui scelga di lavorare. Flores de romana, tema B.
The Strenuous Life, tema B.
I due brani sono concepiti per balli differenti, e quindi mostrano accompagnamenti differenti alla mano sinistra. Ma le funzioni armoniche sono identiche, a parte qualche minuzia. In effetti, chiunque abbia familiarità con la musica di Joplin resta colpito in primo luogo da quanto sia joplininano Rosas! Inoltre, il motivo di base nella melodia di Joplin è chiaramente imparentato con quello di Juventino, sebbene l’andamento generale sia rovesciato, da su-‐e-‐giù a giù-‐e-‐su. The Strenuous Life è troppo maturo e originale per essere datato 1893, anche se, a mio sentire, non lo è abbastanza per il 1902, quando Joplin si accingeva a partorire un capolavoro torreggiante e di complessa scrittura come Weeping Willow Rag. Uno sguardo all’insieme della sua produzione mi suggerisce una data intermedia, diciamo intorno al 1898-‐99: si tratterebbe cioè di un brano elaborato a partire da uno spunto del 1893 ma in data un poco posteriore. 6. Conclusioni.
Quale che sia la datazione a cui perveniamo, questi due esempi mostrano che l’interesse di Joplin per la musica messicana risale a un’epoca assai precedente rispetto a Solace (1909). Il compositore era nato in Texas una generazione dopo che quella terra era stata staccata a forza dal Messico. Fin da bambino era stato un grande ascoltatore, e un eventuale disinteresse per la scena musicale messicana, all’epoca feconda e stimolante, risultebbe inspiegabile in lui. Il rapporto di Joplin con il Messico non fu forse intenso e radicato nel subconscio come sarebbe stato in seguito quello di Charles Mingus, e tuttavia dovette essere assai più significativo di quello che con il Messico intrattennero compositori quali Gershwin, Ellington e Copland, i quali scrissero tutti pezzi di ispirazione messicana, più o meno interessanti. Questo solo fatto spalanca un’intera area di ricerca, dato che Rosas non fu né il primo né l’unico musicista a comporre in questo stile. Sicché, influenze messicane ancora più antiche su Joplin sono un evento teoricamente possibile. Lungi dal rappresentare un episodio nella carriera di Joplin, l’influenza di Juventino appare far parte di una lunga serie di influssi venuti da compositori neri, bianchi e — ora sappiamo — amerindi, assorbiti da Joplin nell’arco di tutta la sua esistenza. Ciò include anche apporti dalla musica tedesca, austriaca, italiana e tzigana, nonché dalla religione e dalla filosofia indiana, più altre ancora che ci proponiamo di documentare in futuro. Tutto ciò non implica minimamente che la predominante radice africana in Joplin si debba sottostimare o considerare marginale. Al contrario, è proprio la sua visione del mondo profondamente africana, universalista e inclusiva — in quanto opposta al rifiuto sadico-‐anale di ibridarsi, all’epoca prevalente negli Usa — a consentire e giustificare il fatto che egli assorba idee da ogni parte del mondo, in una sorta di sfida continua, espansione del proprio sé, dialogo transculturale. E forse è proprio questa parola, “dialogo”, a rendere la lezione estetica e filosofica di Joplin così eloquente, e la sua diffusione così urgente, nel mondo d’oggi, tanto incline alla guerra.
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