Confines. El extremo del mundo durante la antigüedad, edd. Fernando PRADOS - Iván GARCÍA - Gwladys BERNARD. Alicante, Publicaciones de la Universidad de Alicante, 2012, pp. 440

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la pluralità di esperienze vocazionali. – Coronano questa miscellanea le Conclusions redatte da S. Demougin (329-333). La ricchezza del lavoro è dimostrata anche dalla precisione con cui sono stati creati gli Indices (335-374): sono infatti presenti un Index locorum, nel quale i passi sono suddivisi a seconda del dominio di pertinenza (testi epigrafici, papirologici, giuridici ed ecclesiastici, letterari, cristiani), un Index geographicus, un Index nominum e un Index rerum. Pregevoli sono, inoltre, le varie tabelle esemplificative e riassuntive che arricchiscono molti saggi. In conclusione, si tratta di una miscellanea ampia e densa di riflessioni, che offre, grazie ad una rigorosa impostazione metodologica, un quadro completo sulla biografia e sulla prosopografia nell’Impero romano. Tra i suoi punti di forza vale la pena di annoverare la continuità dello spettro cronologico in cui si collocano i singoli contributi, dall’epoca repubblicana fino alla Tarda Antichità, nonché il taglio scientifico che contraddistingue i singoli contributi, fondati tutti su un medesimo approccio storico. Alessia Cosenza Aa.Vv., Confines. El extremo del mundo durante la antigüedad, edd. Fernando Prados, Iván García, Gwladys Bernard. Alicante, Publicaciones de la Universidad de Alicante, 2012, pp. 440. Il volume raccoglie i contributi presentati da studiosi spagnoli e francesi in occasione di un convegno internazionale tenutosi nel 2010 all’Università di Alicante ed incentrato sul tema dei confini occidentali dell’oikoumène dal periodo della colonizzazione fenicia all’età altoimperiale. Tale filone di indagine, che ha tratto nuova linfa dagli studi di C. R. Whittaker tra il 1980 e il 2004 e che ha suggerito l’organizzazione di un importante congresso già nel 2002 a Tozeur, deve fronteggiare le difficoltà poste non solo dalla natura polisemica e relativa del concetto di confine, ma anche dal fatto che – a meno di sensibili cambiamenti prodotti dal contatto con barbari o con pellegrini provenienti dal centro del bacino mediterraneo – gli abitanti di tali aree periferiche sembrassero non maturare una coscienza della propria identità geografica sino al punto di lasciarne un segno tangibile in testimonianze scritte e Realien. Di qui la necessità di una certa prudenza e di un notevole rigore metodologico, che in effetti alimentano i saggi raccolti nel volume ed opportunamente raggruppati in quattro blocchi tematici. La prima sezione (Los límites del concepto) consta di quattro studi. Si comincia con Límite, confín, margen, frontera… conceptos y nociones en la Antigua Iberia (pp. 23-47), in cui Ignasi Grau Mira, dopo aver proposto – sulla scorta di un articolo di Ruiz y Molinos – l’uso di una nozione ‘complessa’ di frontiera (delimitazione architettonica ma anche termine naturale di un insediamento abitativo), invita a considerare il problema del confine nell’antica Iberia da un triplice punto di vista: non occorre, infatti, limitarsi ad analizzare le contaminazioni etnoculturali tra gli autoctoni e altri popoli mediterranei (in primis i Fenici), ma è opportuno anche approfondire le due principali forme di territorializzazione delimitata (ossia l’oppidum e le comunità microregionali) e non trascurare le valenze simboliche di eventuali santuari collocati in aree liminari. Dopo un denso contributo di Marco García Quintela sull’opportunità di rivalutare lo spessore autoriale di Strabone e la sua conseguente importanza come fonte per lo studio della storia della Spagna e delle modificazioni dei suoi confini in sintonia con il mutamento dell’oikoumène (Una dialéctica de la distancia: Estrabón sobre Iberia y la Oikumene, pp. 49-72), è la volta di Monstres et héros des confins occidentaux de l’oikoumène (pp. 73-94), in cui Gwladys Bernard – curatore del volume insieme a Fernando Prados e Iván García – sostiene che le leggende sui mostri localizzati in prossimità delle colonne di Ercole, oltre ad essere probabili relitti di un patrimonio foclorico usato come deterrente dai Fenici per mantenere il controllo sullo stretto di Gibilterra, potessero anche scaturire dal timore universale dinnanzi alle cosiddette “porte della Notte”. Infine, in Aux marges de l’Oikoumène: la quête des confins à la fin de la République et

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au début de l’Empire (95-105), Jean-Michel Roddaz si sofferma sull’attitudine della classe dirigente dell’Urbe e – da Augusto in avanti – degli imperatori ad estendere le frontiere dei domini di Roma e, una volta compiuta tale propagatio sull’esempio delle imprese di Eracle, Dioniso e Alessandro Magno, ad illustrare poi il nuovo assetto dell’orbis terrarum in carte come quella che – secondo Plinio il Vecchio – era esposta sulle pareti della porticus Vipsania. Nel secondo segmento del volume (Los confines de Africa) l’attenzione si sposta dall’antica Iberia ai confini della provincia Africa, la cui evoluzione è delineata da Michel Christol in Les confins de la Province d’Afrique (109-23), dove si puntualizza come il riferimento alla fossa regia nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio non sia un indebito arcaismo ma il rilievo di un’entità che, sin dalla sua creazione ad opera di Scipione Emiliano per separare i possedimenti romani da quelli dei figli di Massinissa, continuava ad incidere sulla fisionomia di quell’area geopolitica. Dal canto suo, Laurent Callegarin in La Mauretanie occidentale à l’époque romaine: une terre de confins entre l’Atlantique et l’Atlas (125-48) si occupa della Mauritania occidentale, terra doppiamente di confine (in quanto delimitata sia dall’Oceano Atlantico che dalla catena montuosa dell’Atlante) oggetto di un’ambigua fascinazione da parte dei Romani, che, pur disprezzando i barbari, fantasticarono spesso sulla ricchezza del suolo e del mare, finché, alla fine del III sec. d.C., volsero altrove i loro interessi, ritraendo il limes verso nord. In Aræ fines Africæ. Monumentos funerarios en los confínes de África septentrional (149-74), invece, Fernando Prados Martínez, dopo alcune riflessioni sui mutamenti del limes in Africa, prende in esame la prassi romana di erigere monumenti funebri per separare il proprio territorio da quelli dei Nasamoni, dei Getuli e del mitico regno di Fezzan. Ancor più affascinante Las columnas de Atlas. El periplo africano de Statius Sebosus de Gades a las Islas Afortunadas (175-209), in cui Alfredo Mederos Martín, sulla scorta di quattro loci della Naturalis historia di Plinio il Vecchio (6.183, 200-01 e 202; 9.46), cerca di ricostruire il periplo compiuto in 40 giorni da Statius Sebosus (figura di cronologia controversa, ma forse databile nel I sec. a.C.), che, partendo da Gades e costeggiando la catena dell’Atlante, giunse in Etiopia. L’antica Spagna torna protagonista nella terza sezione del volume (Iberia en el confín del mundo), inaugurata da El litoral de la Contestania ibérica ante la conquista romana: una cuestión de confines en el sureste de Hispania (213-26), uno studio di Feliciana Sala Sellés sull’importanza strategica del sud-est della Penisola iberica durante le guerre civili e sulla conseguente necessità di approfondire in futuro le ricerche sul processo di romanizzazione di quest’area. È poi la volta di Paisaje arqueológico-paisaje simbólico. Carteia y las columnas de Hércules, una lectura comparada di Juan Blánquez, Helena Jiménez e Lourdes Roldán (22769), testimonianza delle fruttuose indagini condotte sin dal 1994 dall’Universidad Autónoma de Madrid su Carteia (San Roque, Cádiz), ricca cittadina costiera il cui paesaggio fu anticamente coinvolto nella mitologia sul Fretum Herculeum. Ad altre zone di frontiera sono invece dedicati La costa de Tarifa (Cádiz) durante el II milenio a.C. y la era de las colonizaciones. Una aproximación a partir de los datos arqueológicos (271-301) e La cueva de Gorham (Gibraltar): un santuario fenicio en el confín occidental del Mediterráneo (303-81). Nel primo contributo Iván García Jiménez tratta l’evoluzione dell’insediamento a Tarifa (Cádiz), appendice meridionale del continente europeo che dista appena 15 km. dalle coste nordafricane e che, sin dall’età del Bronzo, si distinse come scenario insediativo dalle notevoli valenze monumentali e strategiche, per poi assistere – sotto il dominio italico – alla fondazione della città ispanoromana di Baelo Claudia. Nel secondo lavoro, invece, José María Gutiérrez, Maria Cristina Reinoso, Francisco Giles, Clive Finlayson e Antonio Sáez tracciano un interessante profilo della Caverna di Gorham, autentico santuario di confine che sembra essere stato ininterrottamente attivo dalla prima metà dell’VIII sec. a.C. alla metà del II sec. d.C.: di questo luogo di culto (in cui sono state rintracciate offerte votive utili a ricostruire alcuni aspetti del commercio nel Mediterraneo antico) non si conoscono ancora dettagli importanti quali la divinità venerata e le cause del declino. Soltanto due i saggi dell’ultima sezione (Confines septentrionales), che segna un’apertura di

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interesse anche nei confronti di altre porzioni del limes romano. In La frontera del Danubio durante el Imperio Romano: ¿Barrera o espacio para el intercambio cultural? (385-96) Francisco Javier Guzmán Armario rileva come l’incrocio delle testimonianze letterarie con i dati archeologici suggerisca una visione più moderna della frontiera danubiana, non mero baluardo contro il dilagare dei barbari ma anche luogo di contatti economici e contaminazioni culturali. Infine, in El Atlántico norte durante la época romana: de frontera a via maris (397-437) Ángel Morillo Cerdán analizza il progressivo mutamento della percezione dell’Oceano Atlantico, che, da luogo inesplorato ed orrorifico, in seguito alle conquiste romane in Germania e Britannia divenne un nuovo spazio marittimo ben integrato nella struttura commerciale e politica dell’impero. La ricchezza degli orizzonti, la varietà degli strumenti metodologici e la puntuale bibliografia apposta in calce a ciascun contributo fanno di questo volume una fondamentale risorsa per chiunque si interessi ad un campo di ricerca destinato verosimilmente a restare oggetto di un notevole fervore di studi ancora per molti anni. L’unico neo resta, dunque, la totale mancanza di indici, che, in una raccolta di saggi riservati ad argomenti così tecnici e settoriali, avrebbero offerto un ausilio prezioso al lettore. Marco Onorato Heikki Solin, Miscellanea Atinate, Formia, ed. Artistic & Publishing Company 2013, pp. 112. Miscellanea Atinate è una raccolta di studi storico-epigrafici condotti da Heikki Solin sulla città romana di Atina e sul suo territorio, comprendente gli attuali comuni di Alvito, Vicalvi, Casalattico, Gallinaro, San Donato Val di Comino, Settefrati con la Valle di Canneto, Picinisco, Villa Latina, S. Biagio Saracinisco, Belmonte Castello, Opi e Villetta Barrea. La raccolta è stata realizzata in occasione del decimo convegno su Le epigrafi della Valle di Comino, tenutosi a Sora nel 2013 e comprende studi pubblicati da Solin a partire dagli anni Ottanta (eventuali aggiunte dell’autore sono segnalate in parentesi quadre). Il volumetto si apre col Saluto del Sindaco Silvio Mancini (7-8), cui seguono la Presentazione di Domenico Cedrone, presidente dell’Associazione “Genesi” (9-10), e la Prefazione di Heikki Solin (11). La raccolta è, quindi, ripartita in nove contributi, o argomenti. I primi due contributi sono incentrati sulle iscrizioni atinate e sulla loro analisi: nel primo, dal titolo Iscrizioni di Atina (13-46, = H. Solin, Iscrizioni di Sora e di Atina, «Epigraphica» 43, 1981, 45-102), Solin non si limita a presentare le iscrizioni inedite rinvenute nel 1977 nella zona di Atina, ma commenta anche quelle già note; nel secondo, anch’esso dal titolo Iscrizioni di Atina (47-50, = H. Solin, Postille sorane ed atinati, «Epigraphica» 46, 1984, 178-184), vengono presentate ed analizzate iscrizioni della città di Atina e del suo territorio. Nel terzo contributo, dal titolo Atina (51-54, = H. Solin, Sul consolidarsi del cognome nell’età repubblicana al di fuori della classe senatoria e dei liberti, in Epigrafia. Actes du colloque international d’épigraphie latine en mémoire de Attilio Degrassi, Roma 1991, 153-187), Solin analizza, sulla base dei documenti epigrafici, l’onomastica della plebe romana, dei liberti e del ceto dirigente nella città di Atina, concentrandosi in particolare sulla pratica dell’utilizzo del cognomen. Nel quarto contributo, dal titolo Al territorio di quale città romana sono appartenute Opi e Villetta Barrea? (55-70, = H. Solin, Le epigrafi della Valle di Comino. Atti del primo convegno epigrafico cominese, Alvito, Palazzo Ducale 5 giugno 2004, Abbazia di Casamari 2005, 63-83), l’autore affronta il delicato problema dei confini della città di Atina con la regio IV. Come emerge dall’analisi dello studioso, durante il periodo tardorepubblicano e del principato Atina era ‘percepita’ come una città del Latium, non della Campania. Essa apparteneva alla regio I, ma era città di frontiera, in quanto confinava con la regio IV: stabilirne i confini, rileva lo studioso, è di importanza fondamentale, perché permette di comprendere meglio anche quale doveva essere il confine tra il Latium stesso e la regio IV. Ora, al di là dei Monti della Meta, tra Opi e Villetta Barrea, sono state rinvenute attestazioni della tribù Teretina, ovvero della tribù a cui appartenevano gli Atinati. Dopo aver analizzato ciascuna di queste attestazioni, Solin valuta meti-

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