Cioran

July 25, 2017 | Autor: F. Lunaria | Categoría: Philosophy
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Descripción

Dall' introduzione. Il Cioran che a ventidue anni scrive, nella sua madrelingua "superbamente scomposta", "Al culmine della Disperazione" è solo in apparenza diverso dal Cioran lucido e implacabile della maturità, che tesse il suo pensiero sul rigoroso ordito del francese. Tormentato dall'insonnia - il "disastro per eccellenza", il "nulla senza tregua" - si getta a scrivere forsennatamente per ingannare le interminabili notti di veglia, che senza questa "esplosione salutare" lo spingerebbero al suicidio. Notturno Don Chisciotte, affronta i giganteschi mulini a vento dell'essere universale e dell'esistenza umana menando fendenti che annientano il comune e borghese sentire con un sarcasmo ignaro del correttivo dell'ironia. In questo libro concepito come "una sfida al mondo", tutto è negazione della misura, violazione del limite, sprofondamento nel paradosso. E chi lo legge può subito intendere le parole che Cioran, a distanza di decenni, gli dedicava: "Se c'è qualcosa di inspiegabile nella mia vita, è il fatto che sia riuscito a sopravvivere a tanta febbre, estasi, follia".

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Ho scritto questo libro nel 1933, all'età di ventidue anni, in una città che amavo, Sibiu, in Transilvania. Avevo finito gli studi, e per ingannare i 1

miei genitori, ma anche per ingannare me stesso, feci finta di lavorare a una tesi. Devo confessare che il gergo filosofico lusingava la mia vanità, e mi rendeva sprezzante verso chiunque usasse un linguaggio normale. A tutto questo pose termine uno sconvolgimento interiore che finì col rovinare tutti i miei progetti. Il fenomeno capitale, il disastro per eccellenza è la veglia ininterrotta, questo nulla senza tregua. Per ore e ore passeggiavo di notte nelle strade deserte, o talvolta in quelle dove bazzicavano prostitute solitarie, compagne ideali nei momenti di supremo smarrimento. L'insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il paradiso stesso in luogo di tortura. Qualsiasi cosa è preferibile a questo allerta permanente, a questa criminale assenza di oblio. è durante quelle notti infernali che ho capito la futilità della filosofia. Le ore di veglia sono, in sostanza, un'interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero, è la coscienza esasperata da se stessa, una dichiarazione di guerra, un infernale ultimatum della mente a se medesima. Camminare vi impedisce di lambiccarvi con interrogativi senza risposta, mentre a letto si rimugina l'insolubile fino alla vertigine. Ecco in quale condizione di spirito ho concepito questo libro, che è stato per me una specie di liberazione, di esplosione salutare. Se non lo avessi scritto, certamente avrei messo fine alle mie notti.

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ESSERE LIRICI Perchè non possiamo restare chiusi in noi stessi? Perchè perseguiamo l'espressione e la forma, cercando di svuotarci di ogni contenuto e di disciplinare un processo caotico e ribelle? Non sarebbe più fecondo abbandonarci alla nostra fluidità interiore, senza preoccuparci dell'oggettivazione, limitandoci a godere di tutti i nostri ribollimenti, di tutte le nostre agitazioni intime? Ecco che allora vivremmo con un'intensità infinitamente ricca di questo accrescimento interiore che le esperienze spirituali dilatano fino alla pienezza. Vissuti molteplici e differenziati si fonderebbero, creando così un'effervescenza delle più feconde. Ne nascerebbe quindi una sensazione di attualità, di presenza complessa dei contenuti dell'anima, simile a un'ondata o a un parossismo musicale. Essere pieni di sé - non nel senso dell'orgoglio, ma 2

della ricchezza -, essere travagliati da un'infinità interiore e da un'estrema tensione significa vivere con una tale intensità da sentirsi morire di vita. è così raro questo sentimento, e così bizzarro, che bisognerebbe viverl gridando. Sento che dovrei morire di vita, e mi chiedo se abbia un senso cercarne la spiegazione. Quando il passato dell'anima palpita in te in una tensione infinita, quando una presenza totale rende attuali esperienze ormai esaurite, quando un ritmo perde equilibrio e uniformità, allora la morte ti strappa dalle vette della vita senza che tu provi davanti a essa il terrore che ne accompagna la tormentosa ossessione. è un sentimento analogo a quello degli amanti quando al colmo della felicità appare loro, fugace ma intensa, l'immagine della morte, o quando in un amore nascente, nei momenti di incertezza, balena il presentimento della fine o dell'abbandono. Troppo pochi sono coloro che possono sopportare esperienze del genere sino in fondo. è sempre pericoloso conservare contenuti che chiedono di essere oggettivati, trattenere un'energia esplosiva, perché può venire il momento in cui non si sarà più in grado di padroneggiarla. Il crollo nascerà allora da un eccesso di pienezza. Esistono stati e ossessioni con cui è impossibile convivere. La salvezza non consiste quindi nell'ammetterli? Nel chiuso della coscienza, la terribile esperienza e la spaventosa ossessione della morte portano alla rovina. Parlando della morte si è invece salvato qualcosa di se stessi, anche se qualcosa nell'essere si è spento, giacché i contenuti, una volta oggettivati, perdono d'attualità nella coscienza. Il lirismo rappresenta un impulso a disperdere la soggettività, perchè denota, nell'individuo, un'effervescenza insopprimibile che continuamente esige espressione. Essere lirici significa non poter restare chiusi in se stessi. Tale bisogno di esteriorizzazione è tanto più imperioso quanto più il lirismo è interiore, profondo e concentrato. Perchè l'uomo diventi lirico nella sofferenza e nell'amore? Perchè entrambi questi stati, sebbene diversi per natura e orientamento, sorgono dal fondo più remoto dell'essere, dal centro sostanziale della soggettività, che è una sorta di zona di proiezione e di irraggiamento. Diventiamo lirici quando la vita dentro di noi palpita a un ritmo essenziale, e quando ciò che stiamo vivendo è talmente forte da sintetizzare il senso stesso della nostra personalità. Ciò che abbiamo di unico, di specifico, si compie in una forma così espressiva che l'individuale si eleva al livello dell'universale. Le esperienze soggettive più profonde sono anche le più universali, perchè in esse si tocca il fondo originario della vita. La vera interiorizzazione 3

conduce a un'universalità inaccessibile a quanti restano alla superficie. L'interpretazione volgare dell'universalità vede in essa più una forma di complessità in estensione che la ricchezza di una comprensione qualitativa. Ecco perchè il lirismo è considerato un fenomeno marginale e inferiore, frutto di un'inconsistenza spirituale, quando invece le risorse liriche della soggettività testimoniano una freschezza e una profondità interiori fra le più considerevoli. Certuni diventano lirici solo nei momenti cruciali della loro vita; altri solo nell'agonia, quando tutto il loro passato si attualizza e si riversa su di loro come un torrente. Ma nella maggioranza dei casi questo sfogo lirico nasce in seguito a esperienze essenziali, quando l'agitazione del fondo intimo dell'essere attinge il parossismo. Così, uomini inclini all'oggettività e all'impersonalità, estranei a se stessi come alle realtà profonde, una volta prigionieri dell'amore provano un sentimento che mette in moto tutte le loro risorse personali. Il fatto che, quando sono innamorati, quasi tutti facciano della poesia mostra chiaramente che il pensiero concettuale non basta a esprimere l'infinità interiore, e che solo una materia fluida e irrazionale è in grado di offrire un'oggettivazione appropriata al lirismo. Non accade lo stesso con l'esperienza della sofferenza? Ignari di ciò che nascondiamo in noi stessi come di ciò che nasconde il mondo, siamo improvvisamente afferrati dall'esperienza della sofferenza - la più seria dopo quella della morte (intesa come presentimento di morire) - e trasportati in una regione infinitamente complessa, in cui la soggettività si agita come in preda a una vertigine. Il lirismo della sofferenza provoca un'incendio, e attua una purificazione interiore in cui le ferite non sono più semplici manifestazioni esterne, senza implicazioni profonde, ma partecipano della sostanza stessa dell'essere. è un canto del sangue, della carne e dei nervi. Quasi tutte le malattie, dunque, hanno virtù liriche. Soltanto coloro che vegetano in una scandalosa insensibilità restano anodini di fronte alla malattia, sempre fonte di un approfondimento personale. Non si diventa lirici se non in seguito a un profondo turbamento organico. Il lirismo accidentale nasce da fattori esterni, e scompare con essi. Non c'è autentico lirismo senza un pizzico di follia interiore. è caratteristico il fatto che le psicosi siano contraddistinte, al loro insorgere, da una fase lirica in cui le barriere e gli ostacoli abituali crollano per far posto a un'ebbrezza interiore delle più feconde. Così si spiega la produttività poetica delle psicosi incipienti. La follia potrebbe ben essere l'esasperazione del lirismo. Contentiamoci dunque di scrivere l'elogio di quest'ultimo, per evitare di riscrivere quello della 4

follia. Lo stato lirico è al di là delle forme e dei sistemi. Una fluidità, una scioltezza interiore mescolano in uno stesso slancio, come in una convergenza ideale, tutti gli elementi della vita dell'anima per creare un ritmo intenso e pieno. Rispetto alla raffinatezza di una cultura anchilosata che, costretta in forme e cornici, camuffa tutto, il lirismo è un'espressione barbara. Qui sta appunto il suo valore: nell'essere solo di sangue, sincerità e fiamme.

COME TUTTO è LONTANO! Ignoro totalmente perchè bisogna fare qualcosa su questa terra, perchè bisogna avere amici e aspirazioni, speranze e sogni. Non sarebbe mille volte preferibile ritirarsi in disparte dal mondo, dove non giungesse neppure l'eco del suo frastuono e delle sue complicazioni? Rinunceremmo così alla cultura e alle ambizioni, perderemmo tutto senza ottenere niente. Ma che cosa si può ottenere in questo mondo? Per certuni nessun guadagno ha importanza, irrimediabilmente infelici e soli come sono. Siamo tutti così chiusi gli uni agli altri! E se anche fossimo aperti fino a ricevere tutto dall'altro o a leggere nelle profondità della sua anima, fino a che punto riusciremmo a illuminare il suo destino? Siamo talmente soli nella vita che ci chiediamo se la solitudine dell'agonia non sia il simbolo stesso dell'esistenza umana. Voler vivere e morire in mezzo agli uomini è segno di grave debolezza. Vi sono consolazioni possibili nei momenti della fine? è mille volte preferibile morire soli e abbandonati, senza clamori o finzioni. Provo soltanto disgusto per coloro che nell'agonia si dominano e s'impongono atteggiamenti destinati a suscitare impressione. Le lacrime sono cocenti unicamente nella solitudine. Tutti quelli che nell'ora suprema vogliono circondarsi di amici lo fanno per paura e per incapacità di affrontare i loro ultimi istanti. Cercano di dimenticare, nel momento capitale, la propria morte. Perchè mancano a tal punto di eroismo, perchè non sprangano la loro porta per sopportare queste sensazioni folli con una lucidità e una paura sconfinate? Siamo così separati da tutto! E tutto ci è inaccessibile. La morte più profonda, la vera morte è la morte per solitudine, quando la luce stessa diventa principio di morte. In tali momenti si è separati dalla vita, dall'amore, dai sorrisi, dagli amici e persino dalla morte. E paradossalmente ci si chiede se non esista altro che il niente del mondo 5

- e il proprio.

NON POTER PIù VIVERE Vi sono esperienze alle quali non si può sopravvivere. Al termine delle quali si sente che più nulla potrebbe avere un senso. Dopo aver raggiunto i limiti della vita, dopo aver vissuto con esasperazione tutto ciò che offrono questi pericolosi confini, i gesti quotidiani e le aspirazioni normali perdono ogni fascino, ogni seduzione. Se tuttavia si continua a vivere, è solo grazie alla scrittura, che ci sgrava, oggettivandola, di questa tensione infinita. La creazione è una temporanea salvezza dagli artigli della morte. Mi sento sul punto di esplodere di tutto ciò che mi offrono la vita e la prospettiva della morte. Mi sento morire di solitudine, d'amore, di disperazione, di odio e di tutto quanto il mondo può darmi. Come se ogni cosa che vivo mi dilatasse al pari di un pallone pronto a scoppiare. In queste condizioni esasperate si compie una conversione al niente. Ci si espande interiormente fino alla follia, di là da tutte le frontiere, ai margini della luce, là dove questa è strappata alla notte, e da tale eccesso di pienezza , come in un turbine selvaggio, si è scaraventati diritti nel niente. La vita crea la pienezza e il vuoto, l'esuberanza e la depressione; che cosa siamo davanti alla vertigine interiore che ci consuma fino all'assurdo? Sento la vita scricchiolare in me per eccesso di intensità, ma anche di squilibrio. è come un'esplosione incontrollabile, che può far saltare irrimediabilmente in aria anche te. All'estremo della vita senti che essa ti sfugge, che la soggettività è un'illusione, e che in te si agitano forze di cui non sei responsabile, sottoposte a un dinamismo estraneo a ogni ritmo definito. Ai confini della vita c'è qualcosa che non sia occasione di morte? Si muore di tutto ciò che è come di tutto ciò che non è. Ogni esperienza diventa quindi un salto nel nulla. Quando hai vissuto fino al parossismo, fino alla suprema tensione tutte le cose che ti ha offerto la vita, sei pervenuto a quello stato in cui non c'è più niente che si possa ancora vivere. Anche senza aver dato fondo a tutte le esperienze: basta aver esaurito le principali. E quando ci si sente morire di solitudine, di disperazione o d'amore, le altre emozioni non fanno che prolungare questo amaro corteggio. La sensazione di non poter più vivere dopo tali vertigini deriva anche da una consunzione puramente interiore. Le fiamme della vita bruciano in un crogiolo da cui il calore 6

non può uscire. Gli individui che vivono su un piano esteriore sono salvi in partenza; ma che cosa hanno da salvare, se non conoscono il minimo rischio? L'eccesso di interiorità e il parossismo degli stati d'animo conducono in una regione estremamente pericolosa, perchè un'esistenza troppo consapevole delle sue radici non può che negare se stessa. La vita è troppo limitata, troppo frammentaria per resistere alle grandi tensioni. Tutti i mistici non ebbero forse, dopo le grandi estasi, il sentimento di non poter più vivere? Che cosa possono dunque ancora aspettarsi dal mondo coloro che sentono al di là del normale la vita, la solitudine, la disperazione e la morte?

LA PASSIONE DELL'ASSURDO Non c'è nulla che giustifichi il fatto di vivere. Dopo essersi spinti al limite di se stessi si possono ancora invocare argomenti, cause, effetti, considerazioni morali, ecc.? Certamente no. Per vivere non restano allora che ragioni destituite di fondamento. Al culmine della disperazione, solo la passione dell'assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il Caos. Quando tutti gli ideali correnti - di ordine morale, estetico, religioso, sociale, ecc. - non sanno più imprimere alla vita una direzione né trovarvi una finalità, come salvarla ancora dal nulla? Vi si può riuscire solo aggrappandosi all'assurdo, all'inutilità assoluta, a qualcosa, cioè, che non ha alcuna consistenza, ma la cui funzione può creare un'illusione di vita. Vivo perchè le montagne non sanno ridere né i vermi cantare. La passione dell'assurdo non può nascere se non in un uomo in cui tutto è stato liquidato, ma che potrebbe subire spaventevoli trasfigurazioni. A chi ha perduto tutto resta solo questa passione. C'è qualcosa, nell'esistenza, ancora capace di emozionarlo o di sedurlo? Certuni diranno: il sacrificio in nome dell'umanità, del bene pubblico, il culto del bello, ecc. - fosse pure temporaneamente - con queste cose. Essi sono gli unici ad avere il diritto di parlare della vita. Si può ritornare all'amore o alla serenità; ma vi si ritorna per eroismo, non per incoscienza. Un'esistenza che non nasconda una grande follia è priva di valore. In che cosa, infatti, si distinguerebbe dall'esistenza di una pietra, di un pezzo di legno o di una putrilagine? Sono sicuro, d'altra parte, che bisogna celare una grande follia per volere diventare pietra, pezzo di legno o putrilagine. Solo dopo aver assaporato tutte le venefiche delizie dell'assurdo si è completamente purificati, perchè soltanto allora si è 7

portato l'annientamento all'ultima espressione. E non è assurda ogni espressione ultima? Vi sono uomini a cui è dato assaporare soltanto il veleno delle cose, per i quali ogni sorpresa è dolorosa, e ogni esperienza una nuova occasione di tortura. Questa sofferenza, si dirà, ha ragioni soggettive, e deriva da una costituzione particolare: ma esiste un criterio oggettivo per valutare la sofferenza? Chi potrebbe stabilire che il mio vicino soffre più di me, o che il Cristo ha sofferto più di chiunque altro? Non si può valutare oggettivamente la sofferenza, giacché non si misura in base a una reazione esterna o a un preciso disturbo dell'organismo, ma secondo il modo in cui la coscienza la sente e la riflette. Ora, da questo punto di vista, qualsiasi gerarchizzazione è impossibile. Ciascuno resta con la sua sofferenza, che ritiene assoluta e sconfinata. Se anche pensassimo a quanto il mondo ha sofferto finora, alle agonie più terribili e alle torture più raffinate, alle morti più cruente e agli abbandoni più dolorosi, a tutti gli appestati, agli arsi vivi, o alle vittime della fame, la nostra sofferenza risulterebbe alleviata? Nessuno potrebbe trovare consolazione, durante l'agonia, nel pensiero che tutti sono mortali; così come, soffrendo, non si potrebbe trovare conforto nella sofferenza - passata o presente - degli altri. In questo mondo, costituzionalmente insufficiente e frammentario, l'individuo tende a vivere in modo totale, desideroso di fare della sua esistenza un assoluto. Ogni esistenza soggettiva è di per sé un assoluto. Ciascuno vive quindi come se fosse il centro dell'universo o della storia. Come potrebbe dunque la sofferenza non essere un assoluto? Cercare di comprendere la sofferenza altrui non allevia quindi la propria. In casi del genere i confronti non hanno alcun senso, giacché la sofferenza è uno stato di solitudine interiore, che niente dall'esterno può temperare. Poter soffrire soli è una grande vantaggio. Che cosa succederebbe se il volto umano esprimesse fedelmente tutta la sofferenza di dentro, se l'espressione traducesse tutto il tormento interiore? Riusciremmo ancora a conversare? Non dovremmo parlare nascondendoci il volto con le mani? La vita diventerebbe decisamente impossibile se i nostri tratti palesassero l'intensità dei nostri sentimenti. Nessuno avrebbe più il coraggio di guardarsi allo specchio, perchè un'immagine insieme grottesca e tragica mescolerebbe ai contorni della fisionomia macchie di sangue, piaghe sempre aperte e rivoli di lacrime irrefrenabili. Proverei una voluttà piena di terrore nel veder esplodere, nell'armonia comoda e superficiale di ogni giorno, un vulcano di sangue che vomitasse fiamme brucianti come la disperazione, nel guardare 8

tutte le ferite del nostro essere aprirsi irrimediabilmente per far di noi una sola sanguinante eruzione. Allora soltanto ci renderemmo conto dei vantaggi della solitudine, che rende la sofferenza così muta e inaccessibile. Nell'erompere del vulcano del nostro essere, tutto il veleno assorbito dalle cose non basterebbe ad avvelenare il mondo? Quanto veleno, quanta acredine nella sofferenza! La vera solitudine ci fa sentire completamente isolati tra cielo e terra. In questo assoluto isolamento, un'intuizione di agghiacciante lucidità ci rivela tutto il dramma della finitudine dell'uomo davanti all'infinito e al nulla del mondo. Le passeggiate solitarie - estremamente feconde e insieme pericolose per la vita interiore - vanno fatte senza che niente venga a turbare l'isolamento dell'uomo nel mondo. Per favorire il processo di interiorizzazione e di conversione verso il proprio essere, bisogna farle di sera, quando nessuna delle seduzioni abituali può più suscitare interesse, e quando le rivelazioni sul mondo sorgono dalla ragione più profonda dello spirito, là dove esso si è separato dalle ferite della vita. Quanta solitudine occorre per accedere allo spirito! La solitudine nega a tal punto la vita, che la fioritura dello spirito, effetto dello straniarsi da essa, diventa quasi insopportabile. Non è significativo che contro lo spirito insorgano proprio coloro che ne hanno in eccesso, coloro che conoscono in tutta la sua gravità la malattia che ha colpito la vita per generarlo? Sono gli uomini pieni di salute a farne l'apologia, quelli che non hanno la minima idea di ciò che esso significhi, e che non hanno mai provato i tormenti della vita né le antinomie dolorose su cui si fonda l'esistenza. Coloro che ne hanno davvero coscienza lo tollerano orgogliosamente o lo presentano come una calamità. Tuttavia nessuno, nel fondo del suo essere, è ammaliato da tale acquisizione, catastrofica per la vita. Ma come si può essere affascinati da questa esistenza priva di attrattive, di ingenuità e di spontaneità? La presenza dello spirito indica sempre una carenza di vita, molta solitudine e una sofferenza prolungata. Com'è possibile parlare di salvezza attraverso lo spirito? Non è affatto vero che il vivere immanente sia un vivere ansioso, a cui l'uomo si sarebbe sottratto grazie allo spirito. è vero il contrario: lo spirito ci ha procurato squilibrio e ansietà, anche se nel contempo ci ha dato una certa grandezza. Cosa volete che sappiano dei pericoli dello spirito coloro che ignorano persino quelli della vita? Fare l'apologia dello spirito è segno di grande incoscienza, come lo è di squilibrio fare quello della vita. Per l'uomo normale la vita è un'evidenza; solo il malato ne è estasiato, e la 9

magnifica per non crollare. Ma che cosa avviene di chi non può più magnificare né la vita né lo spirito?

IO E IL MONDO Il fatto che io esisto prova che il mondo non ha alcun senso. Quale senso potrei trovare, infatti, nei tormenti di un uomo infinitamente tragico e infelice, per il quale tutto si riduce in ultima istanza al nulla, e per il quale la sofferenza è la legge di questo mondo? Che il mondo abbia permesso un esemplare umano della mia fatta prova soltanto che le macchie sul cosiddetto sole della vita sono così estese che finiranno per nasconderne la luce. La bestialità della vita mi ha calpestato e schiacciato, mi ha tagliato le ali in pieno volo e derubato di tutte le gioie a cui avevo diritto. Lo zelo smisurato e la passione folle e paradossale che ho dispiegato per eccellere su questa terra, il sortilegio demoniaco di cui mi sono servito per rivestire un'aureola futura, e tutto l'entusiasmo sprecato in vista di una rinascita organica o di un'aurora interiore si sono dimostrati più deboli della bestialità e dell'irrazionalità del mondo, che ha riversato in me tutte le sue risorse di negatività e di veleno. La vita non resiste alle alte temperature. Così sono giunto alla conclusione che gli uomini più tormentati, il cui dinamismo interiore raggiunge il parossismo, incapaci di rassegnarsi alla tiepidezza abituale, sono votati al crollo. Nello sfacelo di quanti vivono in regioni insolite si ritrova l'aspetto demoniaco della vita, ma anche la sua insufficienza, il che spiega come mai essa sia il privilegio dei mediocri. Solo costoro vivono a una temperatura normale; gli altri si consumano a temperature in cui la vita non resiste, in cui non si riesce a respirare se non stando con un piede al di là di questa. Non posso apportare niente al mondo, giacché non ho che un metodo: quello dell'agonia. Vi lamentate che gli uomini siano malvagi, vendicativi, irriconoscenti o ipocriti? Vi propongo il metodo dell'agonia, con cui sfuggirete temporaneamente a tutti questi difetti. Applicatelo a ogni generazione, e ne vedrete subito gli effetti. Può darsi che così anch'io mi renda utile all'umanità! Ricorrendo alla frusta, al fuoco o al veleno, fate provare a ogni agonizzante l'esperienza degli ultimi istanti, affinché conosca, in un supplizio terribile, la grande purificazione indotta dalla visione della morte. Poi lasciatelo andare, lasciatelo fuggire in preda al terrore, fin quando, sfinito, stramazzerà al suolo. L'effetto sarà, ve lo garantisco, 10

straordinariamente più efficace di tutti quelli che si otterrebbero per le vie normali. Se solo potessi portare il mondo intero all'agonia, per purificare le radici stesse della vita! Le incendierei con fiamme ardenti e insinuanti, non per distruggerle, ma per dar loro una linfa e un calore diversi. Il fuoco che appiccherei al mondo non porterebbe alla rovina, ma a una trasfigurazione cosmica, essenziale. Così la vita si abituerebbe alle alte temperature, e non sarebbe più un ricettacolo di mediocrità. E forse, in questo sogno, la morte stessa cesserebbe di essere immanente alla vita. (Righe scritte oggi, 8 aprile 1933, giorno in cui compio ventidue anni. Provo una strana sensazione al pensiero di essere diventato, alla mia età, uno specialista nel problema della morte).

SENTIMENTO DI ESTENUAZIONE E DI AGONIA Avete mai provato la sensazione atroce di dissolvervi, di scorrere come un ruscello, di sentire il vostro essere annullarsi in una strana liquefazione? Come se tutto ciò che in voi ha consistenza e sostanza svanisse in una spossante fluidità e non restasse che la testa. Alludo qui a una sensazione non vaga e indeterminata, ma precisa e dolorosa. Sentire che è rimasta solo la propria testa, recisa dal corpo e isolata, come in un'allucinazione. Niente che ricordi l'estenuazione vaga e voluttuosa che si prova contemplando il mare o abbandonandosi a certi trasognamenti melanconici; è invece un'estenuazione che vi consuma e vi distrugge. Allora nessuno sforzo, nessuna speranza o illusione giovano più. Restare storditi dalla propria catastrofe, incapaci di pensare o di agire, oppressi da una tenebra gelida, disorientati come durante le allucinazioni notturne o soli come nei momenti di rimpianto, significa raggiungere il limite negativo della vita, la temperatura massima, che distruggerà anche l'ultima illusione di vita. E in questo sentimento di estenuazione si rivelerà il senso vero dell'agonia, che non è una lotta chimerica o una passione gratuita, ma il dibattersi della vita negli artigli della morte, con scarse possibilità di spuntarla. Non si può separare il pensiero dell'agonia da quello dell'estenuazione e della morte. L'agonia come lotta? Ma con chi, e a che scopo? Ma sarebbe falso anche interpretare l'agonia come uno slancio esaltato dalla propria inutilità o come un tormento che reca in sé la propria 11

finalità. In sostanza, agonia significa un tormento alla frontiera tra la vita e la morte. E poiché la morte è immanente alla vita, quasi tutta la vita è un'agonia. Da parte mia, definisco istanti di agonia solo i momenti drammatici di questa lotta tra la vita e la morte, i momenti in cui quest'ultima è vissuta con una dolorosa consapevolezza. La vera agonia è quella in cui si passa nel nulla attraverso la morte, in cui il sentimento dell'estenuazione vi consuma irrimediabilmente, e la morte ha la meglio. In ogni vera agonia si ritrova il trionfo della morte, anche se, una volta passati questi momenti di estenuazione, si continua a vivere. Dove sarebbe, in questo tormento, la lotta chimerica? L'agonia non ha sempre un carattere definitivo? Non somiglia a una malattia inesorabile che ci tortura a intermittenza? I momenti di agonia indicano un'avanzare della morte nella vita, un dramma della coscienza, causato dalla rottura dell'equilibrio tra la vita e la morte. Essi sopravvengono solo in questo sentimento di estenuazione, che fa scadere la vita al suo minimo assoluto. La frequenza di questi momenti è segno di decomposizione e di crollo. La morte è qualcosa di ripugnante - l'unica ossessione che non possa diventare piacevole. Persino quando la si desidera, implicitamente ci si rammarica del proprio desiderio. Voglio morire, ma mi dispiace di volerlo. Ecco il sentimento di tutti coloro che si abbandonano al nulla. Il sentimento più perverso è quello della morte. E pensare che vi sono uomini che non possono dormire per l'ossessione perversa della morte! Come vorrei non sapere più niente di me né di questo mondo!

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