Appunto su Hayez

June 14, 2017 | Autor: L. Nicoletti | Categoría: Romanticism, Hayez, Francesco Hayez
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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

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inSEDICESIMO LE MOSTRE – RIFLESSIONI

– LO SCAFFALE

LA MOSTRA/1 APPUNTO PER FRANCESCO HAYEZ Alle Gallerie d’Italia di Milano a cura di luca pietro nicoletti

rima della grande mostra curata da Fernando Mazzocca e Maria Cristina Gozzoli nel 1983, la pittura di Francesco Hayez non godeva di particolari consensi. Su di lui gravava la “sfortuna dell’accademia” nella storiografia artistica novecentesca, su cui appena allora si cominciava a togliere il velo, e non poco contava il giudizio severo di Giulio Carlo Argan, che pure inaugurava la sua Arte moderna con un Canova “illuminista” che non consentiva di salvare il più giovane pittore veneziano, che pure in vita si era molto giovato del sostegno

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entusiasta accordatogli dal maestro di Possagno. Si provava ancora un certo fastidio per una pittura di storia intrisa di valori melodrammatici, in più occasioni avvicinabile con naturalezza alle opere messe in scena dal teatro musicale e da Giuseppe Verdi in particolare. Era quello scarto sentimentale, talvolta non privo di enfasi, che non si poteva conciliare con le utopie razionali di democrazia, sebbene Hayez fosse stato indicato da Giuseppe Mazzini, durante l’esilio, come emblema di pittore “democratico”. Si trattava dunque di

ridisegnarle linee portanti di un tratto di storia dell’Ottocento, secondo i modi della più avanzata storiografia di quegli anni: brevi introduzioni e lunghe schede che instaurassero con le opere un dialogo concreto e tenacemente filologico fino a farne un motivo di militanza culturale. Era in quell’occasione che molti dei quadri di Hayez, per la prima volta studiati con lo stesso rigore riservato alla pittura antica, recuperavano i lunghissimi e verbosi titoli con cui figuravano nei cataloghi delle esposizioni dell’epoca, eloquenti quanto allo spirito del quadro di storia come un moderno “fermo immagine” con commento didascalico. Va da sé che allora il maestro veneziano non era ancora il pittore de Il bacio, quanto quello del Risorgimento nelle mentite spoglie

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della storia medievale e rinascimentale. Non a caso, nel 1983 faceva da copertina una riproduzione del grande I profughi di Parga del 1826-31. Presto tuttavia la prospettiva si sarebbe rovesciata, e Il bacio, nella prima versione del 1859 oggi a Brera, che campeggia sulla copertina del poderoso catalogo 2015 curato ancora una volta da Mazzocca per la mostra alle milanesi Gallerie d’Italia, sarebbe diventata l’icona, logorata dal suo stesso successo, dell’amore romantico. Eppure altri, ben prima degli storici dell’arte, si erano accorti del potenziale “frappant” di quella tela, a partire dall’esplicito omaggio tributatogli da Luchino Visconti, il cui occhio sensibile era planato con intelligenza sulla pittura italiana dell’Ottocento, in una famosa scena di Senso. Oppure, fra le note di costume, la semplicità e immediatezza di quell’immagine, così vicina ad un’apprensione visiva di inizio Duemila, erano risultate chiare al direttore artistico della Perugina, che la

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utilizzò per decorare le scatole del famoso cioccolatino inventato da Luisa Spagnoli e che, grazie ad Hayez, da “cazzotto” veniva ribattezzato in “bacio”. Tutto questo, però, fa parte dell’Hayez “mediatico”, tralasciando invece la ricchezza di temi e motivi presentati dalla bellissima e ricchissima mostra promossa dalle Gallerie, da cui emerge l’inequivocabile statura del pittore, dotato di un virtuosismo mai ostentato, quanto esibito con la naturalezza di un prodigio che si dà per compiuto per mezzo del disegno: anche nei momenti di più buia sfortuna, i suoi dipinti si sarebbero fatti notare per un livello di qualità (non solo di bravura) con pochi precedenti e pochi possibili confronti. Fino alla fine della sua carriera, Hayez non dimentica i modi e le pratiche della pittura di antico regime, e anche a Milano, che gli darà fortuna e successo consentendogli di ritrarre fra i più notabili dell’epoca, da Manzoni a Rosmini, non si dimenticherà mai

della sua formazione sull’esempio dei maestri veneti. Non è di poco conto se ancora in tarda età ricordava con vivezza, nelle memorie dettate nel 1869 a Giuseppina Negroni Prati Morosini, la Presentazione di Maria al tempio di Tiziano come una delle più grandi folgorazioni avute visitando le veneziane Gallerie dell’Accademia. O ancora, nei pochi cimenti giovanili con la difficile arte dell’affresco, tradisce nella gamma di tenerezze cromatiche e luministiche, il tirocinio sui modelli veronesiani e soprattutto tiepoleschi. Ed è tipicamente veneto, infine, il ricorso, frequente nei primi anni, alla pratica di veloci oil sketch di presentazione o di memoria, quasi a uso di bottega, di proprie invenzioni. Del resto Hayez diventa presto pittore di fama, richiestissimo dai collezionisti e più di una volta spinto a replicare proprie composizioni per committenti diversi: è il caso, prima di tutti, proprio del Bacio, il cui prototipo del 1859 vede una replica con varianti

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aneddotico-narrative nel 1861 e ancora nel 1867. Ma soprattutto, il vero tratto fondante della pittura di Hayez è una portentosa abilità di mano, fondata sul disegno ma, all’occorrenza, vibrante di pennello. Alla base, infatti, vi è un assoluto controllo dei registri pittorici, capace di modulare stesure più fuse, tornite da una regia luministica fatta di ombre digradanti ma esatte e visibili, e momenti di maggior libertà di polso. Lo dice bene il confronto fra le due versioni di Romeo e Giulietta, più metallica nella tela di Villa Carlotta (1823), più calda e pittorica nell’edizione in collezione privata veneziana (1833). Del resto, come tutti i pittori veneti, Hayez ha un debole per i panneggi, di cui sa restituire l’epidermide e la morbidezza con qualche concessione talvolta alla sprezzatura. Ci si potrebbe addentrare nel pelago delle letture iconologiche, ma gli studi hanno già detto molto sulle fonti visive e letterarie, sui messaggi criptati di contenuto risorgimentale che si insinuano fin nell’abbinamento dei personaggi (i colori delle bandiere italiana e francese con cui vestono i due amanti del Bacio) o nelle effigi di Giacomo e Filippo Ciani nascoste sotto le vesti degli apostoli, o fra gli astanti delle grandi scene di storia. Su questo, però, esiste molta efficace bibliografia anche divulgativa, come il folgorante e appassionato libretto monografico, più volte ristampato, dedicato sempre da Mazzocca nel 2003 appunto al Bacio. Vale la pena di riflettere, invece, sul merito delle opere, sull’impaginazione

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teatrale dei grandi e affollati quadri di storia, fatti per prolungate e ravvicinate perlustrazioni entro le quali scovare di volta in volta una testa di carattere, un aneddoto, un dettaglio: uno per tutti, il soldato scalzo alle spalle di Pietro l’eremita nel grande dipinto del 1827-1829. Il racconto si svolge come un palco in cui i personaggi si affacciano alla ribalta, in primo piano, dove deve avvenire la scena madre della rappresentazione. E questo vale per i quadri di storia come per quelli biblici, e persino per le fortunate scene ambientate a Venezia: i suoi personaggi, ora, sono come attori calati in una parte, da interpretare con spirito melodrammatico. Ci si accorge poi che Hayez rimescola e rifonde motivi nuovi e motivi attinti dalla storia dell’arte: con una certa impressione si coglie che il gesto dell’Odalisca del 1839 rimanda a quello della Fornarina di Raffaello di tre secoli prima. Si potrebbe dire lo stesso per un genere come il ritratto, il più fedele a determinati schemi e modelli e alla loro riproposizione secondo un codice formale e sociale. Ma soprattutto, merita soffermarsi sul quadro di figura, a partire da una prova di bravura, anche se forse non esente da retorica, come l’Ajace Oileo del 1822. È un quadro nato in risposta ai detrattori che lo accusavano di

HAYEZ MILANO, GALLERIE D’ITALIA – PIAZZA SCALA 7 novembre - 21 febbraio 2016

dipingere solo scene molto affollate per incapacità di padroneggiare a sufficienza il dettato anatomico: Hayez lo realizza in quindici giorni, come consuetudine nelle sfide di abilità fra pittori all’epoca in voga, realizzando una figura nuda grande al vero fatta atteggiare in una posa che esibisse l’evidenza tornita della muscolatura in tensione, non senza cura verso la morbidezza di certe pieghe della carne. Ad uno sguardo ravvicinato, poi, si nota, unico caso fra le opere in mostra, che nel trattamento pittorico del nudo Hayez usa una tessitura analoga al tratteggio incrociato dei disegni d’accademia (di cui una bella selezione è stata presentata da Francesca Valli all’Accademia di Brera) che segue l’andamento dei volumi muscolari. Il tratteggio, che non compare invece nei più rapidi e vibranti studi preparatori per i dipinti, aiuta a meglio accompagnare una modulazione chiaroscurale del corpo che sia solida e sensibile, capace, nei nudi femminili, di raggiungere dei picchi di esplicita sensualità. Non è il caso, naturalmente, delle immagini, pur non prive di sottile provocazione, de La meditazione (1851) o di Tamar (1847) o di Rebecca al pozzo (1848), ma nelle bangnati come la grande Betsabea al bagno del 1833, e del disegno a inchiostro e rialzi in biacca tratto da questo (ancora un’autoreplica), oggi nelle raccolte del Castello Sforzesco di Milano. È evidente che il tema biblico è del tutto marginale negli interessi del pittore: è principalmente un pretesto per una rappresentazione su grande formato, intima e sensualissima, di un nudo

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femminile immerso in una luce calda e carezzevole. Il definitiva, Betsabea risponde al tipo della bagnante colta dall’osservatore nel momento di immergersi o di uscire dall’acqua. Se si volesse chiamare in causa la teoria dell’assorbimento di Fried, Betsabea è una bagnante che non si accorge della presenza dell’osservatore, comportandosi a prescindere da questo, diversamente da quel velo di timidezza che si trova negli occhi della Bagnante del 1859. Ma Hayez, che pure ci si accorge essere molto vicino alle convenzioni e allo spirito del nudo moderno, aveva fatto un salto nel rapporto fra dipinto e modello nudo in posa che aveva provocato qualche sconcerto. Aveva fatto discutere, per esempio, il solido, morbidissimo ma tornito nudo di spalle che ritraeva la ballerina Carlotta Chabert presentato nel 1830 come Venere che scherza con due colombe. A diturbare parte dei visitatori di Brera era il fatto che la donna non fosse stata sufficientemente idealizzata per poter essere a buon diritto identificata con una Venere e non con una donna in carne ed ossa, con i seni piccoli e le natiche sode che non potevano passare inosservate. Ma il gioco di provocazione era nelle corde di Hayez, come ricorda nelle memorie, in cui giocano sia le dimensioni ragguardevoli della tela, degne del quadro mitologico, sia la nitidezza così sfacciata di questo nudo, di terga oltretutto, troppo vero per poter essere tenuto in quella distanza irraggiungibile delle immagini astrattamente ideali: questa Venere, anzi, sembra mostrarsi proprio perché

l’osservatore si avvicini a lei non solo con lo sguardo. Ma dalle Memorie si capisce anche che per Hayez il rapporto con il modello aveva un ruolo centrale, tanto da dichiarare la necessità di trovare di volta in volta un modello che avesse le caratteristiche fisiche giuste per impersonare un personaggio della storia o della mitologia, cioè un corpo vero adatto a impersonare un carattere

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astratto, quasi calando le “antiche forme” nel tempo presente. Era il caso dell’imponente Sansone della galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze: «figura grande al vero e forse più, avendo avuto la fortuna d’un bellissimo modello il quale presentava tutte le antiche forme della scultura greca […] credo di essere riuscito a rendere una figura con quel carattere nobile e forte che portava il soggetto».

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