A proposito del «Leben des Orest» di Ernst Krenek. Perugia 1997

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Descripción

A proposito del Leben des Orest di Ernst Krenek

Johannes Streicher


Quando la sera del 19 gennaio 1930 calò il sipario del Teatro Comunale di
Lipsia, il successo che arrise al giovane compositore — appena ventinovenne
— del Leben des Orest, data in prima assoluta, non lo lanciò in una
carriera vertiginosa. Non era più possibile: Ernst Krenek era ormai già
quasi una star, poiché l'éclat di Jonny spielt auf, apparso tre anni prima
nello stesso teatro[1], ne aveva fatto uno degli operisti più rappresentati
tra i musicisti contemporanei. Tra il 1927 e il 1930 più di settanta teatri
europei avevano messo in scena quest'opera, che — si può ben dire —
riscosse un successo di scandalo, essendone protagonista un musicista jazz,
per giunta di colore. (Nello stesso anno — è bene ricordarlo — il primo
film sonoro, The Jazz Singer, vide Al Jolson nei panni di un nero, con
evidente travestimento blackface, sulla scia del popolare Minstrel Show
— con attori bianchi mascherati da neri — del secondo Ottocento
americano[2], uno stratagemma troppo palese per poter essere passato sotto
silenzio.) I benpensanti tedeschi degli anni Venti non perdonarono mai a
Krenek una simile stravaganza, ripagandolo del clamore suscitato alcuni
anni più tardi bollandone la produzione quale «entartete Kunst».
Prima ancora dell'avvento del nazismo — il quale lo costrinse
all'emigrazione negli Stati Uniti d'America, dove (viaggi in Europa a
parte) sarebbe rimasto per tutto il resto della sua vita, conclusasi nel
1991 — Ernst Krenek potè cogliere però un altro successo di pubblico: il
Leben des Orest, appunto, come con dicitura volutamente asciutta il
compositore, in veste anche di librettista di se stesso, volle intitolare —
con uno sguardo a Leben Eduards II. von England (di Brecht e Feuchtwanger,
da Marlowe, 1924)? — in piena Neue Sachlichkeit la sua «Große Oper in fünf
Akten» dedicata all'infelice figlio di Agamennone. Ripreso varie volte in
diversi teatri tedeschi fino al 1931, pochi mesi dopo la prima lipsiense
Leben des Orest ebbe l'onore di essere diretto da Otto Klemperer alla
Krolloper di Berlino, con le scene di Giorgio De Chirico.
La critica conservatrice formulò forti riserve, laddove non fu
addirittura ostile: Julius Kapp nel suo Opernbuch[3], pur concedendo a
Krenek un grande talento, manifestatosi in Die Zwingburg, osservò che
Orpheus und Eurydike «wegen des verworrenen Textes von Kokoschka [sich]
nicht durchsetzen konnte», mentre Jonny spielt auf, «Köder» (amo) per il
pubblico, «diese künstlerisch nicht ernst zu nehmende Geschmacklosigkeit
[prodotto privo di gusto, che non può essere preso sul serio] brachte ihm
den großen Kassenerfolg [il grande successo di cassetta]. Und hiermit war
es um den Künstler Krenek getan. [E questo fu la fine dell'artista Krenek]
Die folgenden Drei Einakter [...] wie das in allen Farben schillernde Leben
des Orest sind künstlerisch beschämend» [artisticamente avvilenti].
Otto Schumann, per il quale Jonny, definito «Jazzoperette»,
«bezeichnet den Tiefstand des deutschen Operntheaters»[4] (segna il punto
più basso della parabola dell'opera tedesca), parlò di «die Wagner-
Meyerbeer-Verdi-Krenek-Oper Leben des Orest»[5].
Perché tanto accanimento?
Ernst Krenek — attratto fin dai tempi del liceo dal mondo greco, in
cui volle ambientare un romanzo giovanile, poi non realizzato, su Atene e
Sparta[6] — si ispirò a temi mitologici per ben quattro opere, ma il Leben
des Orest nel 1930 a molti dovette sembrare irriverente, non sospettando
che in Pallas Athene weint del 1955 il vero antagonista di Socrate sarebbe
stato il famigerato senatore Joseph McCarthy[7], mentre Der goldene Bock
del 1964, una personale versione del mito degli Argonauti, sarebbe stato
ambientato non solo in Grecia bensì anche negli Stati Uniti, tra gli
indiani e a bordo di un aereo per finire all'ufficio della dogana greca che
requisisce il tanto dibattuto vello d'oro.
Vediamone dunque la trama.
Il primo degli otto quadri si apre sulla piazza davanti alla casa di
Agamennone il quale vuole servirsi della guerra imminente onde conseguire
il dominio su tutta la Grecia. Anastasia, la nutrice dei figli del re,
avverte le donne sul pericolo incombente, mentre gli uomini ne minimizzano
gli orrori. Agamennone incita gli uomini alla guerra e di fronte
all'atteggiamento titubante del popolo, spaventato per il fare deciso del
re, egli — pur di raggiungere la sua meta — dichiara di essere persino
disposto a sacrificare i suoi figli. Sollecitato da Egisto, Agamennone si
accinge a realizzare il suo proposito, ma Clitennestra nel frattempo ha
fatto sparire Oreste (mandandolo a Phokis con Anastasia); sicché il re, per
non perdere la faccia, strappa Ifigenia dalle braccia della madre che
sviene e la colpisce. Ma dopo una repentina eclisse la figlia non c'è più:
il coro proclama il miracolo mentre il vento favorevole induce alla
partenza subitanea; Egisto farà le veci di Agamennone fino al suo ritorno.
Il secondo atto è ambientato nel «Nordland» (secondo quadro), in una
terra tetra tra brume nordiche dominate dal re Thoas (Toante), il quale, da
quando è vedovo, si è dato all'astrologia, cercando di appropinquarsi a
quel mitico paese assolato del quale gli hanno riferito i viaggiatori
capitati sulle coste del suo inospitale regno. Dedito alle arti magiche,
riesce a evocare il profumo dei fiori del sud grazie alla dea della luna,
che gli è propizia, mandandogli una fanciulla di quella terra agognata: in
un raggio di luna si materializza Ifigenia, contrastata fin dall'inizio da
Thamar, figlia di Thoas, che intuisce il pericolo legato alla sua
apparizione lassù.
Nel terzo quadro vediamo Oreste, accompagnato dalla nutrice, giungere
alla fiera di Atene, dove il giovane, non ancora avvezzo alle cose della
vita e meravigliato quasi di tutto, ragazze di strada comprese,
maldestramente porta dello scompiglio nelle attrazioni di alcuni artisti
girovaghi: nella fattispecie, irato per un teatrino in cui si rappresentano
parodisticamente le vicende di Paride ed Elena, lancia con impeto la palla
— si tratta di una sorta di Schießbude, di stand per giochi a premi — sì da
sfasciare tutto il chioschetto; la palla arriva diritta in grembo ad
Anastasia, seduta esausta ai piedi di una statua di Atena. Nella sua
disperazione la nutrice la offre alla dea, ma invano: i girovaghi si
avventano su Oreste, trascinandolo via, legato a un carro.
Il terzo atto, che si svolge dopo un lungo intervallo — i dieci anni
della guerra di Troia —, è ambientato nuovamente dinanzi alla casa di
Agamennone (quadro quarto), il quale vi ritorna, sfiduciato, avvilito: la
sola Elettra lo attende con gioia, Egisto e Clitennestra — dopo una disputa
condotta quasi svogliatamente dal guerriero ormai stanco — gli preparano un
calice di benvenuto contenente veleno. Agamennone, pur intuendo l'inganno,
desidera che sia Elettra a porgerglielo: al che Egisto può farla arrestare
con l'accusa di aver avvelenato il padre.
Nel quinto quadro Oreste, stanco di dieci anni di vane
pellegrinazioni, ascoltando il canto di un pastore avverte un forte senso
di nostalgia e decide di tornare a casa. Il sesto quadro, che si svolge tre
giorni dopo i due precedenti, è dedicato alla cerimonia funebre in onore di
Agamennone, alla quale assiste — dietro le sbarre — Elettra che riconosce
il fratello sopraggiunto: ma quello che doveva essere un omaggio al re
defunto si trasforma in un'orgia, al culmine della quale — dopo che Oreste,
informato da Elettra sulle circostanze della morte di Agamennone, ha ucciso
Egisto e Clitennestra — la folla si avventa su Elettra, colpevole di aver
scatenato la furia omicida di Oreste, seppellendola sotto i piedi della
moltitudine festante.
Il quarto atto è nuovamente ambientato nel «Nordland», dove Thoas
ormai da molto tempo fa una corte serrata a Ifigenia, contro il volere
della figlia Thamar che teme per l'incolumità del padre e l'integrità del
regno, minacciato dal suo lassismo e dalla sua passione per le stelle.
Thamar odia Ifigenia, la cui indole mite le sembra pura finzione, messa in
scena dalla «meridionale molliccia»: perciò medita di assassinarla, prima
che Ifigenia possa sposare Thoas. Nella notte tempestosa giunge un
forestiero che vaneggiando afferma di dover uccidere qualcuno per
redimersi. Thamar, attratta dallo straniero, gli fa intravedere la non
gradita ospite; ma prima del colpo fatale la giovane gli rivela di essere
di origine greca: lo straniero ritorna in sé dallo smarrimento e
l'agnizione Ifigenia — Oreste prelude alla conciliazione tra le due
principesse. Ifigenia acconsente finalmente a divenire la consorte di
Thoas, che invita Oreste a rimanere nel suo regno, onde trovare la pace che
l'assassinio della madre e la di lei maledizione gli negano. Ma Oreste deve
affrontare la sua sorte e tornare in Grecia. Thoas propone dunque di
partire tutti: egli stesso per andare incontro alla terra dei suoi sogni,
Ifigenia e Oreste per tornare in patria, Thamar per seguire colui che sarà
suo sposo.
Il quinto atto è nuovamente ambientato ad Atene, dove la corte sta
per giudicare Oreste. Egli stesso si dichiara colpevole del matricidio, ma
implora la comprensione dei giudici, adducendo a sua discolpa la gioventù
trascorsa in solitudine nella casa tetra del padre che lo teneva segregato.
I giudici sono tuttavia divisi: sei hanno consegnato delle palle nere, sei
hanno optato per la sfera bianca. Ifigenia, Thamar e Thoas intercedono
presso Aristobulos, il giudice supremo, per Oreste: ma in quel momento una
bambina che stava giocando con gli ex voto offerti ad Atena fa cadere la
palla bianca, a suo tempo donata da Anastasia, che casca giusto nel calice
del giudizio. Aristobulos, osservata questa circostanza singolare,
interpreta il volere della dea: Oreste è libero, la maledizione è
cancellata.

Krenek nel suo Leben des Orest ha quindi fuso tutto il mito della
casata degli Atridi in un'unica pièce, seppure di dimensioni considerevoli:
la prima di Lipsia sembra sia durata quattro ore e mezza (Il primo atto è
costituito da 1146 battute, il secondo ne comprende 1222, il terzo 1410, il
quarto 1392, il quinto 661.) Da Aulide a Tauride alla salvezza finale
un'unica serata — era questo il senso del recupero della "Große Oper"? La
rivalutazione di Meyerbeer oggi va di moda — sulla base degli studi assai
stimolanti di Heinz Becker, Sieghart Döhring, Anselm Gerhard —, ma nel 1930
il grand opéra era considerato decisamente anacronistico, e Krenek andava
controcorrente: anche per questo si registrò qualche commento ironico. Ma
l'ironia principalmente era quella dello stesso Krenek che usa il termine
"Große Oper" ben sapendo che dopo cent'anni non era più possibile fornire
all'uditorio uno spettacolo complesso e pompier come quelli parigini senza
una qualche presa di distanza[8]. Se Krenek avesse semplicemente voluto
scrivere un'opera opera, godibile, con tanto di balletto e impiego
grandioso del coro, numeri chiusi, duetti, terzetti, quartetti e financo le
beneamate colorature (agilità) sopranili (che infatti ci sono, nella parte
di Thamar), avrebbe potuto optare per un soggetto storico. Sarebbe stata
una scelta in qualche modo in sintonia con i tempi: dopo tutto siamo nel
pieno della Verdi-renaissance tedesca, cui tanto contribuì Franz Werfel,
futuro marito di Alma Mahler, con cui era in contatto anche Krenek,
avendone sposato la figlia Anna nel 1924. Ma se anche Verdi venne
finalmente riconosciuto quale maestro di spettacolo, e Krenek gli rese a
suo modo omaggio[9], quel che colpisce innanzitutto nel Leben des Orest è
l'assenza del coturno. I personaggi cantano in prosa, il linguaggio è
diretto, quotidiano, quasi colloquiale. Dopo Hofmannsthal, l'estetismo e il
decadentismo, lo psicologismo esasperato, la profondità dei significati del
suo vocabolario scelto, il simbolismo di Elektra, ma ancor più della Donna
senz'ombra, una nuova interpretazione del mito non avrebbe potuto
continuare su questa stessa linea, si sarebbe verificata necessariamente
un'involuzione. L'Orpheus di Kokoschka-Krenek (1926), non tanto dissacrante
quanto criptico e quasi surreale, nonostante il successo iniziale passò in
secondo piano a causa del ciclone di Jonny spielt auf: ora, invece, nel
Leben des Orest si registra una semplificazione degli intenti teatrali.
Dopo una fase atonale, cui appartiene Orpheus und Eurydike[10], Krenek
sviluppò uno stile neoclassico per poi approdare a un "Neo-Romantic Style",
come il suo bi(bli)ografo Garrett Bowles definì la "terza maniera",
inaugurata con Jonny spielt auf[11] e proseguita con Leben des Orest. Le
etichette sono quasi sempre discutibili, ma indubbiamente talvolta utili: e
prima della svolta dodecafonica di Karl V. (completato nel 1933)
sicuramente la cantabilità dell'Orest è un dato di fatto; volendo, il
quinto quadro, la scena di Oreste solo su un "Flacher Berggipfel in
Griechenland. Weiter Horizont, großer Ausblick auf viele schon im Dunkel
liegende Täler, helle Berge, das Meer und manche Inseln"[12], il panorama
sul paesaggio solitario, con la voce del pastore in lontananza (vedi
Tannhäuser, Fedora, Tosca), rimanda a Caspar David Friedrich: l'uomo solo
di fronte alla natura pacifica ("Friedevoller Sommerabend") non può che
suscitare sentimenti romantici, a maggior ragione poiché l'eroe solo è un
Wanderer. Il romanticismo o neoromanticismo che dir si voglia è sicuramente
più immediatamente palpabile rispetto all'espressionismo degli inizi. Ma la
semplificazione degli intenti teatrali non vuol dire appiattimento ed
evasione: al contrario, Krenek si volge nuovamente al mito — rileggendolo
però in modo personale ed individuale — per coniugare due Weltanschauungen:
a quella greca si aggiunge quella cristiana — Krenek in quegli anni si era
riavvicinato al cattolicesimo —, non senza cogliere ogni occasione buona
per la difesa della causa pacifista. Dopo la catastrofe della prima guerra
mondiale ogni entusiasmo guerresco doveva necessariamente sembrare stolto,
anche nella prospettiva del mito. Agamennone — cui fin dalla prima scena è
contrapposto il popolo che chiede esplicitamente di mantenere la pace:

Agamemnon Was wollt ihr?
Chor Frieden, Frieden![13] –


Agamennone è caratterizzato da "kurze, herrische, beinahe etwas
pathologisch anmutende Gesten, asketisch-fanatisches Aussehen"[14], gesti a
scatti, tratti quasi patologici, non riesce nemmeno a formulare frasi
intere; il suo discorso d'esordio è frammentario, retoricamente assai
debole:

Agamemnon Krieg, Krieg, Krieg und Krieg! Im Osten. Über dem
Meer. Ganz Griechenland. Ihr auch Alle! Waffen nehmen!
Auf die Schiffe![15]

Qualcuno dei critici di allora avrà anche colto l'allusione nemmeno troppo
sottile a Mussolini, ma il clima della Weimarer Republik era già piuttosto
surriscaldato, sicché a loro sarà parso più prudente tacere, per non
compromettere l'esito delle rappresentazioni, che in quegli anni venivano
già di sovente disturbati dai simpatizzanti dei nazisti.
Basti pensare che nel 1935 un critico conservatore ma non sprovveduto
quale Otto Schumann osservava un po' stizzito: "Ein wenig verschämt ist
Krenek zu dem alten Heldenstoff zurückgekehrt; darum 'aktualisiert' er ihn
auf seine Weise. Daß er sich mit seiner unzureichenden Psychologie und
seinen kriegsverletzten Leierkastenmännern an einem geheiligten Stoff
vergreift, kommt ihm freilich nicht zum Bewußtsein"[16]. Con la scusa che a
Krenek farebbe difetto l'approfondimento psicologico dei suoi personaggi,
Schumann liquida l'"attualizzazione" del mito quale irrispettosa nei
confronti di un argomento "sacrosanto", cioè intoccabile, non avvedendosi
del fatto che i mutilati di guerra con l'organetto che tanto gli danno
fastidio (e in effetti un "Hinkender", uno zoppo, chiude in bella evidenza
il primo atto, suscitando l'amaro commento di Clitennestra, esaperata per
il sacrificio della figlia: "Ein Krüppel, lahm und stumm — das bleibt
uns!"[17]) sono a loro volta quasi dei classici: mi pare evidente il
riferimento a un altro emarginato, il folle del Boris Godunov musorgskiano
che commenta "Piangi, piangi, o povero popolo", per tacere delle scene
della taverna nell'allora recentissimo Wozzeck di Alban Berg (Berlin 1925),
con la musica da ballo volutamente storpiata, mentre un grande estimatore
di Schubert come Krenek non poteva non pensare allo straziante uomo con
l'organetto della Winterreise che simbolizza il trapasso di ogni speranza.
Gli intenti pacifistici, seppure attualissimi, non erano quindi bene
accetti: sembra vi sia stato un sensibile contrasto tra
l'Erwartungshorizont, l'orizzonte d'attesa, del pubblico e la realtà della
partitura del Leben des Orest, un grand-opéra sì, ma sui generis. Krenek in
effetti però chiedeva tanto ai suoi spettatori: di apprezzare le sezioni
per così dire di puro spettacolo come anche di captare il messaggio
cristiano — talvolta palese, nelle citazioni testuali della Bibbia, dai
Dieci Comandamenti, dal Salmo XXIII —, e allo stesso tempo di digerire i
brevi commenti o annunci, quasi didascalie, del coro all'inizio di ben
sette su otto quadri — un coro invisibile collocato in orchestra, ma che
ciononostante ha un effetto un po' straniante, se non proprio il brechtiano
Verfremdungseffekt — mentre poi l'estrema ingenuità di certi interventi
corali rimanda quasi alla Volksoper di Werner Egk (Die Zaubergeige,
Frankfurt 1935), genere in auge specie sotto il nazismo. E' vero che alla
fine del primo atto il coro canta:

Männer/Alle Der süße Friede ist vorbei
der Teufel weiß, warum.
Die großen Herren zanken sich,
die armen Leute schlagen sich,
und niemand weiß den Grund davon,
das ist der Lauf der Welt.[18]


Versi che non sfigurerebbero in Brecht. Ma il coro di scherno intonato
attorno al catafalco di Agamennone

Fahr' du zur Hölle jetzt,
wirst uns nicht schinden mehr,
wirst uns nicht plagen mehr,
du böser Geist!
Magst in der Hölle jetzt
Rekruten eindrillen,
Du magst dem Teufel jetzt
das Regiment führen,
wenn er sich's bieten läßt,
weil du dem Teufel selbst zu schlecht.[19]

a parte i frequenti, anacronistici riferimenti al diavolo (!) ha un che di
popolarescamente stolto che fa pensare piuttosto a Švanda dudák (Schwanda
der Dudelsackpfeifer) di Jaromír Weinberger (Praha 1927) o all'Histoire du
soldat di Charles-Ferdinand Ramuz e Igor' Stravinskij (Lausanne 1918), due
opere non molto lontane nel tempo dal Leben des Orest, che affondano le
radici però nel mondo delle fiabe, ceche e russe, e non nel mito greco.
Krenek, insomma, accosta forse troppi stili diversi perché ne possa
scaturire un'impressione di omogeneità; lo iato tra messaggio umantario e
spettacolo disimpegnato è sensibile, se si pensa che nella scena della
fiera di Atene – rimando a Cocteau, che sosteneva la purezza del music-hall
contro l'imbastardimento del cosiddetto teatro "alto", mentre Wedekind
notoriamente aveva un debole per il circo, cui dobbiamo in fin dei conti
niente poco di meno che la Lulu di Berg: e forse giova ricordare che la
celeberrima trasposizione cinematografica del Professor Unrat di Heinrich
Mann, L'angelo azzurro, risale proprio al 1930 – che le scenette tra Oreste
e i girovaghi ad Atene sono da rappresentarsi "come in un film di Harold
Lloyd"[20].
Il sottoproletariato brechtiano non compare, ma che l'opera sia da
considerarsi come un inno alla grecità non sempre appare palese. La
Gräzität invece è il perno intorno al quale ruota l'opera per Krenek: il
motto corale esposto a quattro voci in re maggiore all'inizio del primo
atto recita "Land im Süden!", cui spinge la Sehnsucht. Un doppio omaggio,
mi pare, da un lato ovviamente a Goethe ("Das Land der Griechen mit der
Seele suchend", come dice la sua Ifigenia nel celeberrimo monologo
iniziale), dall'altro, forse, al "greco" (classico) Felix Mendelssohn-
Bartholdy (così definito da Robert Schumann), di cui due opere recano una
sorta di sigla subito in apertura: l'Oratorio Eliah e la Seconda Sinfonia,
il Lobgesang. Al motto melodicamente pregnante "Alles was Odem hat, lobe
den Herrn!" della Sinfonia corrisponde questo motto apposto sul
frontispizio della partitura da Krenek:

Land im Süden! Land der Sonne!
Zu dir geht meine Sehnsucht,
von dir will ich jetzt singen,
wie meine Sehnsucht mich heißt.[21]

Musicalmente Krenek ha coniato una sigla orecchiabile, positiva nella sua
ascensionalità (dal lungo re iniziale, una mezza nota con punto, seguito da
due ottavi: do# e si discendenti, si passa al mi superiore: un quarto, poi
ancora lo stesso re iniziale: un quarto, il sol superiore: un quarto, fa# e
mi discendenti: due ottavi, al lungo la superiore tenuto, per poi tornare
con note lunghe al primo grado re)[22].
Nemmeno Toante è immune a quest'adorazione per la Grecia, che si configura
come una reduplicazione del suo amore per Ifigenia – amore agli antipodi
della cattiveria di Egisto, che più di una volta giunge a dichiararsi
fratello del male, un altro Jago, insomma –, motivo, quello dell'amore di
Toante, introdotto, prima di Goethe, da La Grange Chancel (1697), almeno
stando a Elisabeth Frenzel[23]. Prima però di presentarla quale donna
amata, Krenek introduce Ifigenia quale bambina, trascinata vicino
all'altare da Agamennone, circostanza da lei minimamente compresa. Si
tratta di una voce bianca, presumibilmente – non c'è nessuna indicazione al
proposito –, poiché le poche parole che proferisce sono tutti diminutivi
pseudo-infantili assai datati ("Väterchen, liebes Väterchen, was machst du?
Warum willst du mich schlagen?"[24]), sostenuti dal quartetto d'archi
solistico, mentre il padre guerrafondaio ha dalla sua tutto l'armamentario
dell'orchestra novecentesca[25].
Nel secondo atto, la breve apparizione di Ifigenia è ancora all'insegna
della ricerca della Grecia: la fanciulla sorge "come da un'anestesia", e
saluta Toante come "Väterchen"[26], avvedendosi però subito dell'errore:
"Nein, du bist nicht Väterchen"[27], chiedendo poi lapidariamente "Warum
scheint hier nicht die Sonne?"[28]. "Thoas senkt traurig den Kopf": qui fa
capolino uno dei motivi-principi dell'Italien(e Griechenland-)sehnsucht di
antica data: il buon tempo, sic et simpliciter. E' solo nel quarto atto che
Ifigenia sviluppa quel quid che la rende tanto attraente a Toante:
quell'alone di mistero e di nostalgia che troviamo nel famoso quadro di
Feuerbach, e che la rende intoccabile, il gesto lento ("langsam ab – sie
weist ihn ab und geht"[29]) e ieratico. In Krenek Ifigenia non è una
sacerdotessa, ma la nobiltà della sua figura – come in Goethe, ma
ovviamente come anche la Konstanze di fronte a Bassa Selim nell'Entführung
aus dem Serail, cui Ifigenia è imparentata – risulta del tutto analoga. Ma
ancora una volta – ed è una delle ultime frasi significative, poiché nel
quinto atto non dirà molto – sarà la Grecia la chiave di volta per
comprendere l'atteggiamento di Ifigenia: "König Thoas, hör mich an! Jünger
bin ich wohl als du, weiser vielleicht, weil meine Heimat den ewigen
Quellen des Lebens näher ist"[30]: la fanciulla è più saggia del re,
ancorché più giovane, poiché la di lei patria è collocata più vicina alle
eterne fonti della vita, perciò attende la salvezza. Anch'ella, come
potrebb'essere diversamente, "Das Land der Griechen mit der Seele suchend".
















BIBLIOGRAFIA AGGIUNTIVA


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John L. Stewart, Ernst Krenek: the man and his music, Berkeley, University
of California Press, 1991
-----------------------
[1] Cfr. Fritz Hennenberg, 300 Jahre Leipziger Oper, München, Langen
Müller, 1993, pp. 112-113.
[2] Cfr. Gianfranco Vinay, Attorno a Porgy: il "negro" come soggetto
esotico nello spettacolo musicale americano, «Opera & Libretto», II, 1993,
pp. 451-460.
[3] Das Opernbuch. Eine Geschichte der Oper und ein musikalisch-
dramatischer Führer von Dr. Julius Kapp, Dramaturg der Staatsoper Berlin;
Völlig neu bearbeitete und ergänzte Ausgabe: Leipzig, Hesse & Becker, s. a.
[data del Vorwort zur Neuauflage: Herbst 1935], p. 349.
[4] Schumanns Opernbuch. Einführung in die Wort- und Tonkunst unserer
Spielplanopern von Otto Schumann, Berlin – Buxtehude, Hermann Hübener
Verlag, 1948, p. 636.
[5] Meyers Opernbuch. Einführung in die Wort- und Tonkunst unserer
Spielplanopern von Otto Schumann, Leipzig, Bibliographisches Institut,
1935, p. 501.
[6] Cfr. Roswitha Vera Karpf, Die Rezeption der Antike in Kreneks
Operntexten, in Ernst Krenek, a cura di Otto Kolleritsch, Wien — Graz,
Universal-Edition, 1982 (Studien zur Wertungsforschung, 15), pp. 79-94: 81.
[7] Ibidem.
[8] Poco dopo il convegno perugino è stata pubblicata la traduzione tedesca
dei Memoirs dattiloscritti di Krenek, stesi in inglese tra il 1942 e il
1952, in cui egli ricorda con divertita simpatia il Leben des Orest: Ernst
Krenek, Im Atem der Zeit. Erinnerungen an die Moderne, traduzione di
Friedrich Saathen e Sabine Schulte, Hamburg, Hoffmann und Campe, 1998 (alle
pp. 687-693), affermando tra l'altro: "Die Oper ist ein Konglomerat vieler
Elemente, die in alle Richtungen weisen – zu Mozart, Schubert, Meyerbeer,
Verdi, Puccini, Strauss, Strawinsky, Gershwin und anderen".
[9] Vedi la nota precedente.
[10] Cfr. Pipers Enzyklopädie des Musiktheaters, München – Zürich, Piper,
1989, vol. 3, pp. 327-329, e Garrett H. Bowles, Ernst Krenek. A Bio-
Bibliography, New York – Westport, Connecticut – London, Greenwood Press,
1989, pp. 3-4.
[11] Bowles, p. 5.
[12] Leben des Orest. Große Oper in fünf Akten (acht Bildern), Text und
Musik von Ernst Krenek (1928/29) (libretto), in Ernst Krenek, Das
musikdramatische Werk. I, herausgegeben in Zusammenarbeit mit der
Gesellschaft für Musiktheater, Wien, Österreichische Verlagsanstalt, 1974,
pp. 183-230: 209.
[13] E. Krenek, Leben des Orest (libretto), cit., p. 187.
[14] Ivi, p. 186.
[15] Ivi, pp. 186/187. Altrettanto esagitato appare Agamennone al momento
cruciale del sacrificio di Ifigenia, quando il suo "Dann opfr' ich
Iphigenie!" (nelle battute 932-936 del primo atto) culmina in un sol# acuto
sulla terza sillaba ("-ge-") del nome della figlia. Curiosamente, per la
figura di Agamennone (tenore) Krenek pare ispirarsi (parzialmente) al quasi
isterico Egisto (anch'egli tenore) dell'Elektra di Strauss, dal canto
agitato, nervoso e scattante (come il suo motivo orchestrale, dalla
connotazione negativa fin dalla prima apparizione), mentre notoriamente in
Strauss la figura – peraltro fisicamente assente – di Agamennone è
assolutamente ieratica, regale e positiva (almeno nella visione/monomania
della protagonista eponima). Al contrario, nell'Orestes di Felix
Weingartner (Leipzig 1902), ad Agamennone in quanto padre spetta il
tradizionale registro di basso, a Egisto, suo cugino, quello baritonale.
[16] Meyers Opernbuch, cit., pp. 502/03.
[17] E. Krenek, Leben des Orest (libretto), cit., p. 194.
[18] Ivi, p. 193.
[19] Ivi, p. 212.
[20] Ivi, p. 201.
[21] Ernst Krenek, Leben des Orest. Grosse Oper in fünf Akten (acht
Bildern) op. 60 (1928/29) (partitura d'orchestra), due volumi, Wien –
Leipzig, Universal-Edition (No. 9874), 1930.
[22] Le prime quattro battute della partitura (la Bayerische
Staatsbibliothek non mi ha concesso di copiare l'esempio musicale, per
questioni di diritti d'autore, visto che la scomparsa di Krenek risale a
pochi anni fa).
[23] Elisabeth Frenzel, Stoffe der Weltliteratur, Stuttgart, Kröner, 71988,
p. 348: «Die eigentliche neuzeitliche Entwicklung des Stoffes [Iphigenie
auf Tauris] beginnt mit La Grange Chancels Drama Oreste et Pylade ou
Iphigénie en Tauride (1697); hier ist es Thoas selbst, der die Priesterin
liebt. Die Handlung wird durch die Intrige einer Nebenbuhlerin
vorwärtsgetrieben, die Iphigenie entfernen will {corsivo mio: vi è già il
motivo dello scontro, che in Krenek sarà sostenuto da Thamar} und darum den
Griechen mit dem Götterbild zur Flucht verhilft».
[24] Dalla battuta 948, a p. 145 della partitura.
[25] Appare fortissimo il contrasto tra le parole immediatamente precedenti
del coro ("geschrien": gridato, urlato): "Er rast im Wahnsinn! Götter,
helft!" (battute 944-947) – che possono ricordare lo scatenarsi dionisiaco
cui ci ha abituati l'orchestra staussiana dell'Elektra, in cui sia
Clitennestra sia la protagonista sfiorano (?) la follia – e le parole della
candida Ifigenia, che si muove diatonicamente solamente tra quattro note,
do-re-mi-fa, concludendo il suo intervento per giunta sul do: disarmante.
[26] Battute 246-247 del secondo atto, con i soli violini I e II.
[27] Battute 255-257, senza accompagnamento.
[28] Battute 261-264, laddove Ifigenia è sostenuta dai soli archi, due
flauti, due clarinetti, dal clarinetto basso e dal primo corno.
[29] E. Krenek, Leben des Orest (libretto), cit., p. 218.
[30] Ibidem.
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