Quando conviene farla grossa. Robert Therrien e la “Tavola Alta” dell’arte contemporanea

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Michele Di Monte

Quando conviene farla grossa. Robert Therrien e la “Tavola Alta” dell’arte contemporanea1 Abstract: What is the importance of scale relationships in art-works? The recent trend toward gigantism in much contemporary art seems to show the relevance of the question. But macro and micro are relative to each other. According to Levi-Strauss “the vast majority of works of art are small-scale models”, and, if so, this puts forward several cognitive and aesthetic issues about the conditions of scale representation, the connection between modeling source and modeled object, the perception of proportions and the response to the size of the works. The present paper explores some of such issues, focusing on a particular case study, the works of the American artist Robert Therrien.

La natura opera sempre rispettando le scale e tutte le cose hanno la loro giusta grandezza D'Arcy Wentworth Thompson, Crescita e forma

“I filosofi hanno indubbiamente ragione – riconosce il dottor Gulliver a un certo punto delle sue avventure, come per agnizione – quando affermano che nulla è grande o piccolo in assoluto, se non per paragone”. In realtà, lo stesso Gulliver avrebbe potuto sottoscrivere un asserto del genere anche restandosene tranquillamente a casa, al sicuro, e senza dover studiare troppa filosofia. D’altra parte, riconoscere la verità della proposizione non significa ancora sapere cosa si prova a essere un gigante in mezzo ai Lillipuziani e, subito dopo, a essere un Lillipuziano in mezzo ai giganti. Come dire che non solo c’è una certa differenza tra speculazione teorica ed esperienza pratica – persino quando le due cose convergono a dimostrare una medesima verità – ma anche che bisogna cambiare “posizione” all’interno del paragone per rendersi pienamente conto della sua portata. Anche a questo proposito, tuttavia, si potrebbe aggiungere che non c’è proprio bisogno di essere capitati a Lilliput o a Brobdingnag per scoprire che ci si può sentire grandi rispetto a esseri molto più piccoli di noi oppure piccoli rispetto a esseri molto più grandi, guardando per esempio a una formica e a una quercia secolare, tanto per restare banalmente nell’ordine dei viventi, e piuttosto comuni. Quando osserviamo che la prima è minuscola e la seconda gigantesca lo facciamo senz’altro “per paragone”, non in assoluto, eleggendoci automaticamente a metro del confronto. Però resta il fatto che un uomo di 22 metri, come i giganti di Gulliver (per non dire di una formica delle stesse dimensioni), ci sembrerebbe probabilmente più gigantesco, o almeno diversamente gigantesco rispetto a una quercia. Se insomma c’è differenza tra Il testo che segue è stato scritto nel 2013 per un previsto numero monografico dei “Quaderni sull’opera d’arte contemporanea” dedicato ai rapporti di scala, Micro/Macro, a cura di Tiziana Migliore. 1

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misure assolute e misure relative, c’è ne anche tra misure semplicemente relative e misure scalari. Ed è una differenza soprattutto estetica, non soltanto perché colpisce i sensi, ma anche perché influisce sul modo, cognitivo e affettivo, in cui percepiamo le cose, i rapporti, lo spazio e noi stessi. Non per caso, proprio queste differenze sono spesso portate a tema dall’arte, particolarmente quella contemporanea, sempre ansiosa di promuovere esperienze a sfondo autoconoscitivo. E che la dimensione catartica (o almeno presunta tale) della fruizione estetica sia divenuta progressivamente dominante nello scenario artistico (o presunto tale) degli ultimi decenni è forse sufficiente a mostrarlo il progressivo aumento delle dimensioni delle opere. Molti osservatori segnalano ormai da tempo – con inflessioni di giudizio peraltro variabili – l’ubiquitaria presenza, nelle occasioni deputate come altrove, di installazioni e “interventi” di misure sempre più audacemente impressionanti, spiazzanti, disorientanti e simili. Il gigantismo sembra essere diventato la parola d’ordine tanto per artisti e galleristi, quanto per curatori e critici. Come sempre, nondimeno, la retorica del nuovo e della progressione (che ha sostituito, senza troppe conseguenze, quella del progresso) finisce per avere la memoria corta. Giacché non si potrà negare che la ricerca dell’ordine gigante attraversa pressoché uniformemente la storia delle civiltà artistiche, nelle forme, nei luoghi e per le destinazioni più diverse. Colossi di ogni tipo costellano la storia dell’arte, antica e moderna, da Abu Simbel al Monte Rushmore, con esempi, oltretutto, abbastanza celebri da rendere superflui elenchi di sorta. Più che ravvisare una tendenza di moda, conviene perciò, da una parte, cercare di chiarire e distinguere fenomeni che sono solo apparentemente convergenti e, dall’altra, individuare per contro connessioni tra realtà di solito considerate reciprocamente del tutto estranee 2. Anche perché, come abbiamo accennato, la fenomenologia del “fuori scala” è alquanto complessa e prospetta situazioni assai difformi dal punto di vista degli “effetti”. A cominciare dal fatto, piuttosto ovvio ma spesso sottostimato, che non tutto ciò che è colossale è perciò stesso anche scalarmente sovradimensionato. Anzi, si dà perfettamente il caso che oggetti o opere che potremmo ordinariamente ritenere enormi per dimensioni, siano da considerarsi addirittura delle miniature dal punto di vista dei rapporti di scala. Anche qui, la casistica è ampia e non c’è certo bisogno di inseguire il dernier cri: è sufficiente andare, per un esempio immediatamente istruttivo, a Roma, nel Museo della Civiltà Romana, e dare un’occhiata all’enorme maquette della Roma imperiale, che si estende per quasi duecento metri quadri, ben più di tante istallazioni oggi etichettate come colossali, ma è “grande” solo 1/250 dell’oggetto di cui è una riproduzione plastica in scala ridotta, appunto (fig. 1). Si dirà che l’esempio non è pertinente o non è ben scelto, perché qui non avremmo a che fare con un’opera d’arte. Ma l’obiezione sarebbe futile, per più di un motivo. In primo luogo, non è comunque difficile citare un caso perfettamente analogo pescato, tra i tanti possibili, nell’ambito della produzione Uno studio recente e complessivo sul problema della scala nella scultura contemporanea è quello annunciato da Rachel Wells, Scale in Contemporary Sculpture. Enlargement, Miniaturisation and the Life-Size, di prossima pubblicazione (Aldershot 2013). 2

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artistica contemporanea “istituzionalmente riconosciuta”: ad esempio, What my dad gave me, la scultura architettonica, se si può chiamare così, realizzata dall’americano Chris Burden al Rockefeller Center di New York nel 2008 (fig. 2), che è di fatto un grattacelo alto venti metri, ma poco più di un modellino formato-giocattolo se lo si valuta secondo le proporzioni reali di ciò che rappresenta. In secondo luogo, non è facile immaginare quali ragioni cogenti – di là da un’arbitraria, tacita consuetudine – potrebbero escludere de jure il plastico di Roma imperiale dal novero dei prodotti artistici, tanto più se si assume che per discriminare tra arte e non arte oggi potremmo contare solo sulle cosiddette “teorie istituzionali”, rispetto alle quali la “scultura” in questione ha in ogni caso tutte le carte in regola: essendo conservata in un’istituzione museale riconosciuta dall’Artworld, ideata da un addetto ai lavori (l’architetto Italo Gismondi, nel 1935) ecc.

1. Italo Gismondi, Plastico di Roma imperiale, Roma, Museo della Civiltà Romana, 1935 2. Chris Burden, What My Dad Gave Me, New York, Rockfeller Center, 2008

Qui, tuttavia, non è il caso di soffermarsi sui limiti teorici e pratici – peraltro ben noti – delle presunte3 teorie procedurali o istituzionali, se non per segnalare quanto lo statuto artistico, anche ammesso che lo si sappia definire in modo non contraddittorio, sia in fondo poco rilevante per la comprensione del problema dei rapporti di scala, anche sotto un profilo eminentemente estetico. Per questo, in quel che segue, parleremo di “arte” e di “artisti” in termini esclusivamente strumentali e senza alcuna pretesa ontologica. È invece opportuno sottolineare, a questo riguardo, due aspetti che gli 3 Dico presunte perché non è affatto chiaro che quelle istituzionali – sul modello proposto da George Dickie – siano in realtà delle vere teorie e non già delle mere descrizioni di una pratica fattuale contingente, prive, di conseguenza, di una reale forza normativa in ordine alla coerente decidibilità e discriminabilità di casi incerti o controversi, anche solo da un punto di vista estensionale, come mostra pure il nostro esempio.

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esempi qui convocati mettono bene in evidenza e che costituiscono condizioni indispensabili per una fenomenologia del macroscopico e del microscopico. Vale a dire l’istanza rappresentazionale e la funzione modellizzante, con le loro implicazioni insieme cognitive ed estetiche. Per cercare di chiarire meglio e in termini meno astratti queste condizioni e implicazioni possiamo assumere come case-study le opere dell’artista (o comunque lo si voglia altrimenti qualificare) americano Robert Therrien, che ormai da un paio di decenni esplora e sonda possibilità ed effetti del salto macrodimensionale4.

3. Robert Therrien, Under the Table, 1994

4. Robert Terrien, No Title, 2007

Infatti, a procurare a Therrien una notorietà internazionale, inaugurando peraltro una nuova fase della sua produzione, sono state soprattutto opere come Under the Table, del 1994, e le successive variazioni sul tema, di solito non meglio distinte con un generico No Title (figg. 3-4), esposte a più riprese negli Stati Uniti e in Europa5. Si tratta, in breve, di un set di tavoli e sedie da cucina, di design variabile, ma di proporzioni monumentali, alti circa tre metri. Va detto subito che la trovata, di per sé, non è né nuova né particolarmente originale. Tavoli e sedie di proporzioni più o meno ciclopiche sono più comuni di quanto si potrebbe credere, dentro e fuori dai musei, realizzati con intenti pubblicitari, ludici, ironici o per tutte queste ragioni insieme. Senza contare che anche artisti conclamati hanno anticipato Therrien di un bel pezzo nella “trasfigurazione del banale” – per dirla con Danto – trasformando oggetti di comune uso quotidiano in monumenti pubblici; e basti pensare alle sculture di Claes Oldenburg negli anni ’70 (fig. 5). Non per caso molti commentatori non hanno mancato di sottolineare il debito dello stesso Therrien nei confronti della Pop Art, nel quadro di un recente ritorno

Sull’opera di Therrien si veda, oltre al materiale reperibile in rete, il catalogo a cura di L. Zelevasky, N. Bryson, T. Frick, Robert Therrien, Los Angeles County Museum, Los Angeles 2000 e, più recentemente, quello curato da E. Wingate e M. Mahoney (con testi di M. Rowell e N. Bryson), Robert Therrien, Gagosian Gallery, New York 2008. 5 Queste non sono le uniche opere “fuori-scala” realizzate da Therrien, ma in questa sede, anche per semplificare il nostro discorso, trascureremo il resto della sua produzione. 4

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di interesse per certe tematiche legate a quella stagione6. Ma forse all’artista americano non interessava stabilire dei primati, non più di quanto a noi interessi qui diffonderci in indagini di tenore genealogico o, peggio, “crenologico”. Quel che ci pare più promettente, per contro, è osservare come funzionano le opere, osservarle “in azione” – per riprendere una felice formula di Nelson Goodman7 – a partire dalle loro peculiarità morfologiche ed estetiche.

5. Claes Oldenburg, Three Way Plug, Philadelphia, 1970

6. Giancarlo Neri, Lo scrittore, Roma, 2005

Ora, se è vero, come ci vien detto, che l’ossessiva ricerca di visibilità garantita ha finito col diffondere una sorta di sindrome acromegalica che affligge i prodotti del “mondo dell’arte”, si potrà anche ammettere che specialmente grazie all’inusitata altezza dei suoi tavoli Therrien si sia guadagnato un posticino alla “Tavola Alta”8, è il caso di dire, dell’arte contemporanea. Ma bisogna anche aggiungere che, proprio in termini dimensionali, queste realizzazioni colpiscono meno per la loro statura assoluta che per la loro “sobrietà”, almeno se giudicate “per paragone” con altri concorrenti di analoga categoria. Il tavolo di Under the table misura “solo” 297 cm di altezza, quattro volte un tavolo normale, ma molto meno, per esempio, dell’omologo e quasi contemporaneo Lo scrittore, di Giancarlo Neri (2005), la cui scrivania raggiunge i 750 cm, con proporzioni effettivamente degne dei giganti di Gulliver (fig. 6). Può anche darsi che qui sia intervenuto un mero bilancio pragmatico tra esigenze pratiche diverse, nondimeno è plausibile che l’autore abbia avuto di mira un effetto di scala relativamente contenuto, contenuto almeno entro certi limiti che potremmo chiamare di ispezionabilità. Camminare sotto il mobilio di Therrien ci fa certo sentire sicut nani sub cruribus gigantum, per parafrasare un detto famoso che dice bene in sintesi la duplice direzionalità e invertibilità del rapporto scalare: possiamo Su quest’ultimo punto, si veda, per esempio, il catalogo della recente mostra Lifelike, curata da Siri Engberg, al Walker Art Center di Minneapolis nel 2012. 7 N. Goodman, Arte in teoria, arte in azione, a c. di P. Fabbri, Milano 2010. 8 Il termine si riferisce metaforicamente alla “High Table” che nei refettori dei college inglesi era tradizionalmente riservata ai decani, ai professori e ai fellows dell’istituzione. L’espressione è stata utilizzata con lo stesso valore metaforico da Niles Eldredge, in Ripensare Darwin. Il dibattito alla Tavola Alta dell’evoluzione, Torino 1999. 6

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indifferentemente vedere gli oggetti come straordinariamente più grandi di quanto dovrebbero, oppure possiamo vedere noi stessi come sorprendentemente più piccoli di quanto ci percepiamo di solito. Potremmo persino immaginare, volendo, che quelli sopra le nostre teste siano in realtà dei giocattoli in miniatura per il trastullo di una specie di giganti ancora più colossali, un po’ come nella mise en abîme virtualmente infinita delle sequenze fotografiche di Duane Michals9 (fig. 7).

7. Duane Michals, Things are queer, 1973

Ma questo vederci, o sentirci, improvvisamente rimpiccioliti ha comunque ben poco a che vedere con un qualche sentimento del sublime, almeno nel senso filosofico moderno del termine, fissato da Burke e Kant, se non altro perché proprio Kant, come noto, precisava che “il sublime non si può cercare nei prodotti dell’arte”, appunto in quanto è suscitato da ciò che “è grande assolutamente, non per semplice comparazione”10. Nel nostro caso, invece, si direbbe che gli oggetti “dell’arte” sono (appena) sufficientemente grandi per poterli esplorare comodamente da inediti punti di vista. La pressoché immancabile associazione tra le opere di Therrien e le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, e più in generale il mondo infantile delle fiabe, ancorché scontata, è comunque indubbiamente pertinente, confortata anche dalle dichiarazioni dello stesso autore, la cui prima idea sarebbe scaturita dal desiderio di sbirciare under the table, appunto, per fotografare e vedere come son fatte le staffe metalliche che fissano le gambe del tavolo. Questo genere di “ingenua” curiosità è in realtà un elemento chiave nella dinamica funzionale delle opere che stiamo analizzando e ci consente di metterne a fuoco un altro carattere distintivo. Quelle di Therrien, infatti, non sono propriamente sculture, giacché non si limitano a riprodurre, più o meno

In particolare, per un esempio che qui viene a proposito, la serie fotografica Things Are Queer, del 1973, dove è appunto in gioco la variabilità continua dei rapporti dimensionali degli oggetti. 10 Critica del giudizio, a c. di A. Gargiulo, Roma-Bari 1982, pp. 101-104. 9

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sommariamente, le fattezze esteriori degli oggetti che rappresentano, come capita ad esempio con installazioni superficialmente simili, quali quelle già citate di Oldenburg o di Neri. Abbiamo invece a che fare con riproduzioni assai accurate fin nei minimi dettagli, come si usa dire, riproduzioni che sono persino più esasperatamente lifelike di certe creazioni iperrealiste, come le statue di Ron Mueck o i contenitori alimentari di Jonathan Seliger (fig. 8). A parte le misure, i tavoli e le sedie di Therrien sono realizzati con gli stessi materiali e la stessa struttura di assemblaggio delle loro controparti ordinarie: a vederli attraverso le foto, di insieme o di dettaglio (fig. 9), senza elementi di commisurazione, si resta effettivamente interdetti circa la stima delle reali dimensioni. Il che, per un verso, sembra suggerire la rivendicazione del primato di un’esperienza diretta e ravvicinata dell’opera, di una Nahsicht – nei termini di von Hildebrand – esistenzialmente meno ambigua di un’immagine a distanza, un Fernbild per giunta strumentalmente mediato. Per altro verso, la maniacale attenzione ai dettagli del processo costruttivo fa sembrare queste opere persino qualcosa di più di una rappresentazione, di una finzione: oggetti d’uso che, laddove esistessero utenti di dimensioni compatibili, potrebbero espletare egregiamente la loro funzione ergonomica. Insomma, tavoli e sedie “per essenza” più che “per omonimia”, secondo la distinzione sostanziale ratificata da Aristotele11. Proprio per questo la nostra attenzione può mettere tra parentesi, per così dire, gli effetti patici soggettivi della scala gigante e concentrarsi, sia pure non senza un qualche stupore, sull’oggetto, su come appare e su come è fatto.

8. Jonathan Seliger, Heartland, 2010

9. Robert Therrien, No Title, 2007, part.

Pur essendo oggetti funzionalmente perfetti, ma inutilizzabili (per noi) in senso attuale, le costruzioni congegnate da Therrien possono anche funzionare come dei veri e propri modelli, soprattutto se intendiamo il concetto nella sua massima latitudine epistemologica. Una categoria che, meno 11

De Anima, II, 412b.

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sorprendentemente di quanto si potrebbe credere, mette insieme giocattoli, ipotesi scientifiche e, forse, opere d’arte. Non per niente c’è stato chi, come Lévi-Strauss, si è chiesto addirittura se il “modellino in formato ridotto […] non sia anche il prototipo, sempre e dovunque, dell’opera d’arte” 12. Qui non abbiamo ovviamente a che fare con modellini in miniatura, ma l’accuratezza dei rapporti di scala conserva le stesse prestazioni rappresentazionali di tutti i modelli iconici omeomorfi – secondo la tassonomia proposta dall’epistemologo Rom Harré – vale a dire quei modelli che esibiscono le proprietà morfologiche e funzionali dell’originale (source) di cui sono anche rappresentazioni (subject)13. Non si tratta, però, di modelli progettuali, di quelli che – diceva Leibniz – “soccorono un’immaginazione incerta”14 nel concepire ciò che ancora non esiste. Qui gli originali sono già del tutto a portata di mano, il che ci riporta alla ridondanza ludica e simulativa tipica dei giocattoli. Con buona pace di molti studiosi moderni ancora affetti da mimetofobia e terrorizzati dalle implicazioni cognitive dell’iconismo, i tavoli e le sedie di Therrien, anche quando sono etichettati con No Title, sono immediatamente riconoscibili e categorizzabili come particolari tipi di oggetti non per qualche convenzione culturale di misteriosa natura e ancor più oscura origine, ma semplicemente perché istanziano, a un diverso rapporto di scala, un insieme sufficiente di proprietà sensibili, strutturali e superficiali, di tavoli e sedie. D’altra parte, è ovvio che un rapporto di scala può sussistere solo tra due oggetti omeomorfi, di cui uno è modellizzante e l’altro modellizzato. Ogni oggetto materiale ha ovviamente una certa grandezza assoluta – una quantitas, di nuovo nel senso kantiano del termine – ma non potremmo percepire, né avrebbe senso dire, che un tavolo è gigante o in miniatura se non lo rapportassimo a un tavolo normale, nel senso letterale del termine. Quando non sussiste un simile rapporto omeomorfo scalare, le stesse espressioni relative alla grandezza relativa diventano assai più generiche, se non arbitrarie: anche Gulliver avrebbe avuto non poche perplessità a stabilire, per esempio, se il mare che bagna Lilliput è altrettanto minuscolo quanto i suoi abitanti. E lo stesso vale per gli artefatti: è tutt’altro che chiaro quando si possa affermare che un edificio, che non possiede di norma caratteri rappresentazionali (non è un modello iconico), sia effettivamente grande e in rapporto a cosa. Il massimo che si può dire è che in architettura la bigness – per citare Rem Koolhaas – subentra una volta che si sia “superata una certa scala” o, per esprimersi più correttamente, “una certa massa critica”, senza poter meglio precisare a cosa corrisponda questa “certa” misura15.

C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano 1964, p. 35. Vedi R. Harré, Modeling. Gateway to the Unknown, a c. di D. Rothbart, Amsterdam 2004, in part. pp. 5-20. Secondo Harré ci sono anche modelli “paramorfi” – più frequentemente utilizzati a scopi teorico-scientifici – in cui source e subject non coincidono, in quanto utilizzano le proprietà di un certo oggetto o sistema “fonte” per modellizzare un oggetto o sistema diverso, che rappresenta appunto il “soggetto” proprio del modello. 14 Pacidius Philalethi (Prima de Motu Philosophia), in Philosophischen Schriften, III, Berlin 1980, p. 532. 15 R. Koolhaas, Bigness, or the Problem of Large, in “Domus”, n. 764, 1994, ora anche in Id., Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Macerata 2006, pp. 13-14. 12 13

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Ciò non significa che nei rapporti di scala tra oggetti e modelli, oltre all’invarianza di alcune strutture rilevanti, non sia presente comunque un principio di astrazione e idealizzazione, anche solo per mere necessità fisico-materiali, per “l’impossibilità del poter non solamente l’arte, ma la natura stessa – come scriveva già Galileo – crescer le sue macchine a vastità immensa […] che potessero sussistere e far proporzionatamente gli uffizzii loro”16. Certamente, se Therrien avesse voluto realizzare i suoi mobili da cucina su una scala dieci volte maggiore avrebbe dovuto necessariamente ripensarne i processi costruttivi e rinunciare di conseguenza alla proiezione di tutta una serie di proprietà. Anche per questo, probabilmente, l’indice di ingrandimento di Under the table e derivati è, come abbiamo già osservato, abbastanza contenuto. Pure così, nondimeno, resta un certo grado di variazione allometrica, nel senso che con l’aumento di dimensioni la costante di proporzionalità non può estendersi omogeneamente a tutte le proprietà dell’originale, e dunque non tutte le proprietà possono essere riprodotte o replicate nello stesso rapporto di scala: quello che si guadagna da una parte si perde da un’altra. Per fare un esempio concreto, anche se alcuni dei tavoli di Therrien non sono di ferro, cemento, resine o simili – come quelli di molti suoi colleghi – ma di legno, esattamente come gli esemplari oggetto di rappresentazione, resta che, proprio per questo, le venature, la grana superficiale, le fessure e tutta una serie di altre caratteristiche materiali ed estetiche non potranno avere le stesse proporzioni in rapporto alle dimensioni totali. Tutti i modelli, in quanto tali, anche quelli riproduttivamente più perfetti, implicano una selezione delle proprietà rappresentate, e quindi un certo grado di “riduzione”17 o astrazione, guidato da un criterio di rilevanza che è funzionale agli scopi pragmatici per cui il modello stesso è stato realizzato. Questo dovrebbe intanto contribuire a rassicurare coloro che vedono nella riproduzione mimetica una minaccia per la presunta autonomia dell’opera d’arte rispetto alla realtà, scambiando mulini a vento per giganti, ma soprattutto mette allo scoperto la radice profonda, antropologica, che accomuna il gesto mimetico, il lavoro dell’immaginazione e l’orientamento gnoseologico di un certo interesse poietico ed estetico. La realizzazione o la percezione del modello, per citare ancora Lévi-Strauss, “non è dunque una semplice proiezione, un omologo passivo dell’oggetto, ma costituisce una vera e propria esperienza sull’oggetto: nella misura in cui il modello è artificiale, diviene possibile comprendere come è fatto”; in altre parole, il suo pregio intrinseco “è che esso compensa la rinuncia a dimensioni sensibili con l’acquisizione di dimensioni intelligibili”18. Gli oggetti “fuori scala”, che si tratti di scala ridotta o 16 Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica ed i movimenti locali, Leiden 1638, ora in Opere, a c. di A. Favaro, VIII, Firenze 1898, p. 169. 17 La riduzione (Verkürzung) è una delle tre caratteristiche – insieme al carattere “riproduttivo” e alla valenza “pragmatica” – che definiscono il modello secondo Herbert Stachowiak (Allgemeine Modelltheorie, Wien 1973). Ma per riduzione non si deve intendere necessariamente una riduzione dimensionale del modello concreto né una riduzione numerica delle proprietà realmente istanziate (che potrebbero essere persino più numerose di quelle dell’originale, tanto più nei modelli in scala maggiorata), ma una riduzione delle proprietà rappresentate secondo la costante di proporzionalità. 18 Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, cit., pp. 36-37.

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amplificata, invitano o comunque consentono un’inedita libertà di pertinentizzazione di alcuni tratti della realtà, giacché tematizzano, secondo una particolare strategia cognitiva, certe strutture e relazioni degli oggetti lasciandone altre su un orizzonte atematico. Nel caso di oggetti “da museo” – che come i tavoli di Therrien non hanno, se non per accidens, altro uso pratico oltre quello ostensivo – la tematizzazione può mettere a fuoco questo stesso processo, questa stessa strategia nel suo complesso. Ma qui dobbiamo intendere “museo” nel suo senso più generale e comprensivo. In effetti, dal punto di vista analitico e funzionale che ci interessa – e dunque anche indipendentemente da altri aspetti di carattere programmatico, simbolico, ideologico, ove pure esplicitamente dichiarati dall’autore – le quasisculture di Therrien sfidano e sfumano i confini disciplinari che di solito segregano ambiti istituzionali distinti e proprio per questo consentono di riflettere sul senso di quei confini. Se si riesce ad evitare di impelagarsi nella fatidica domanda se quello che vediamo sia o non sia arte e se stia a buon diritto nel luogo in cui sta (domanda, beninteso, più che legittima e alla quale qualcuno dovrebbe comunque rispondere), si possono scorgere omologie magari impreviste ma forse proprio per questo potenzialmente illuminanti. Non sono forse modelli in scala a pieno titolo anche tanti oggetti che troviamo esposti in bella mostra nei musei di storia naturale oltre che di storia dell’arte? Non funzionano forse allo stesso modo dei mobili giganti di Robert Therrien anche le opere di “artisti” non istituzionali come Alfred Keller – tanto per fare un nome pressoché sconosciuto ai cultori d’arte – che tra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso produsse straordinarie sculture per il Museum für Naturkunde di Berlino, dove si possono ancora oggi ammirare (figg. 10-11)?

10. Alfred Keller, Pulex irritans, 1930

11. Opere di Alfred Keller, Museum für Naturkunde, Berlin

I modelli di Keller riproducono con eccezionale accuratezza “oggetti” probabilmente persino più comuni e ordinari di quanto non siano tavoli e sedie da cucina: mosche, zanzare, pulci, formiche e simili, ma in una scala da 50 a 100 volte più grande, quanto basta per trasfigurare il “banale” in un

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“terrible wonder”, come ha scritto giustamente, guarda caso, uno storico dell’arte19. Il “fuori scala” della rappresentazione neutralizza le affordances di interazione pragmatica divenute routine percettiva – vedere una sedia semplicemente come qualcosa su cui sedersi, una zanzara come qualcosa da schiacciare – e offre per contro qualcosa da osservare con diverso orientamento 20 e rinnovata attenzione, nelle sue proprie fattezze. Si tratta in fondo di quello stesso stupore e di quella stessa curiosità – un po’ infantili ma non per questo meno scientificamente motivati – sperimentati dai vari Cesi, Hooke, Redi, Huygens e compagni, che per la prima volta, attraverso le lenti dei primi microscopi, poterono vedere “magnificate” le immagini di esseri minuscoli e altrimenti insignificanti, poterono contemplare “a occhi veggenti” come erano fatti e come funzionavano (fig. 12). Ciò che invece non dovrebbe far stupore è che le creature di Alfred Keller possano produrre gli stessi effetti, tanto che li si osservi nel Museum für Naturkunde quanto che li si incontri nel Museum für Gegenwart, cosa che, di fatto, è capitata di recente21.

12. Robert Hooke, Micrographia, 1665

Potrà sembrare che, di nuovo, si vogliano mettere insieme, per analogia, cose che invece vanno tenute distinte. Può darsi, ma quella che conta qui è un’analogia proportionalitatis, coma la chiamavano gli Scolastici, che con i rapporti di scala ha certamente a che fare. Perché i mobili quotidiani di Therrien o gli insetti non meno quotidiani di Keller – sebbene secondo la storia dell’arte da manuale giochino su tavoli diversi e di diversa altezza – non istanziano solo il type degli oggetti che rappresentano, ma Sebbene, bisogna riconoscere, uno storico dell’arte abbastanza atipico come Martin Kemp e, per di più, su una rivista di cultura scientifica come Nature. Vedi M. Kemp, Terrible Wonder, in “Nature”, 468 (2010), pp. 506-507. 20 Di una “Wahrnehmungslenkung” ha parlato proprio a proposito di modelli iconici G. Boehm, “Ikonisches Wissen. Das Bild als Modell”, in Id., Wie Bilder Sinn Erzeugen, Berlin 2007, p. 116. 21 Si tratta della mostra “Die Kunst ist super – Die Sammlungen” organizzata appunto al Museum für Gegenwart di Berlino tra il settembre 2009 e il febbraio 2010. 19

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incarnano anche un type di modello: esibiscono esemplarmente qualcosa come un modello di modello, per così dire. Anche qui la dimensione intelligibile guadagna dalla dimensione sensibile, per questo possiamo servirci di un modello di un certo tipo per capire meglio un modello di tipo diverso, sia pure secondo un rapporto non più omeomorfo, ma paramorfo. Anche questo, in fondo, è un salto di confine e insieme di scala, e se ci interessa la grandezza “giusta”, come ricordava D’Arcy Thompson, conviene sempre procedere “rispettando le scale”.

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