Pedro López Barja de Quiroga, Historia de la manumisión en Roma: de los orígenes a los Severos. Gerión-Anejos 11. Madrid: Universidad Complutense de Madrid, 2007. Pp. 136, in Bryn Mawr Classical Review (Sept. 2009) [ISSN 10557660].

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Bryn Mawr Classical Review 2009.09.34

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Pedro López Barja de Quiroga, Historia de la manumisión en Roma: de los orígenes a los Severos. Gerión-Anejos 11. Madrid: Universidad Complutense de Madrid, 2007. Pp. 136. ISBN 9788466930536. €12.00 (pb).

Reviewed by Lorenzo Gagliardi, Università degli Studi di Milano ([email protected]) Word count: 2683 words

Il libro di Pedro López Barja de Quiroga (d'ora in avanti L.), che qui si recensisce, si compone di quattro capitoli. Il primo è intitolato Modos e in esso principalmente si esaminano le modalità con le quali si manomettevano gli schiavi in Roma antica. L. considera per prima la manumissio vindicta ed esamina tra l'altro il problema dei magistrati competenti, con particolare riguardo ai magistrati municipali. Successivamente, l'autore si concentra sul rituale della manumissio vindicta e sulle sue conseguenze, segnatamente quella di attribuire oltre alla libertà la cittadinanza romana. Dopo ciò, si passa a trattare della manumissio censu e di quella testamento, delle quali si ricostruiscono sviluppo storico e aspetti dogmatici. Quindi, si considerano le manomissioni pretorie e si tratta della lex Iunia. Si svolge poi un rapido accenno alle manomissioni che in epoca postclassica conferivano la cittadinanza romana (testamento, in ecclesia, ante consulem). Il capitolo si conclude con una digressione intorno al pilleus. Razones: è questo il titolo del secondo capitolo, nel quale si riflette sulle ragioni di fondo che inducevano i Romani a manomettere i loro schiavi e sul rapporto che legava manomessi e manumissori. In primo luogo l'autore considera che nel mondo romano gli schiavi erano manomessi per lo più a un'età inferiore ai trent'anni e si manomettevano le schiave assai più frequentemente degli schiavi. Si propende per ritenere che i padroni in generale tendessero a liberarsi degli schiavi meno produttivi, e cioè di donne e bambini. L'autore afferma che, a suo avviso, tanto nel mondo romano dell'età antica, quanto negli Stati americani schiavistici dell'età moderna, nella maggior parte dei casi gli schiavi venivano manomessi se riuscivano a recuperare danaro o altre risorse da dare al padrone come contropartita per la concessione della libertà. Va detto che per il mondo romano L. non fornisce dati concreti a supporto di tale opinione, salvo il fatto (a sua volta non meglio argomentato) che gli schiavi venivano sovente posti dai loro padroni a capo di un certo negozio come artigiani o commercianti e avevano in tal modo la possibilità di maneggiare denaro con cui comprare la propria libertà (p. 54). Va peraltro aggiunto che tuttavia, secondo L., erano in realtà le schiave, più spesso che gli schiavi, a comprare la propria libertà, dando i propri figli ai padroni: bisognerebbe tuttavia osservare che nelle fonti antiche (come ad esempio Columella rust. 1.8.19), non si parla al riguardo, in relazione alle schiave, di una vera e propria compera della propria libertà, ma di un atto spontaneo del padrone che, dopo che la schiava aveva

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generato parecchi figli, riteneva di compensarla con la manomissione. Di seguito, L. passa a considerare le manomissioni in quanto atti manifestanti un beneficium dei padroni verso i propri schiavi: anche quando gli schiavi avessero personalmente pagato un prezzo per la loro manomissione, secondo L. i padroni sarebbero rimasti liberi di decidere se concedere o meno la libertà. Il capitolo si conclude con un esame del dibattito antico e moderno sulle conseguenze dell'ingratitudine dei liberti e con una trattazione della vicesima libertatis. Nel terzo capitolo, Leyes, si comincia con il considerare le leggi di età augustea in tema di manomissioni. Per prima si prende in esame da vicino la lex Iunia, che stabilì che i manomessi con manomissioni informali dovessero avere lo status di Latini. Si collega l'origine delle manomissioni informali sia con l'epoca di Silla, che manomise in gran numero gli schiavi dei proscritti, sia con quella del tribuno Clodio, che nel 58 a.C. fece approvare per via legislativa distribuzioni gratuite di grano alla plebe di Roma. Quanto alla datazione della lex Iunia, come è noto si discute da tempo se collocarla al 19 d.C., anno in cui furono consoli M. Giunio Silano e L. Norbano Balbo, visto che Giustiniano (Inst. 1.5.3) denomina la legge come Iunia Norbana, oppure in epoca antecedente al 4 d.C., atteso che la lex Aelia Sentia, rogata appunto in tale anno, sembra presupporla. L'autore propende condivisibilmente per questa seconda ipotesi. Si considerano quindi le regole limitatrici delle manomissioni civili contenute nella lex Aelia Sentia e nella lex Fufia Caninia. Segue un quadro delle principali costituzioni emanate tra Tiberio e i Severi in tema di manomissioni. Nell'ultimo capitolo si tratta delle Orígenes degli atti di manomissione nel mondo romano. Si parte con la considerazione della nota vicenda di Carteia, che in un discusso passo di Livio (43.3.1-4) parrebbe presentata come una città di liberti nel secondo secolo a.C. Arretrando nel tempo, L. considera quindi la riforma delle tribù di Appio Claudio Cieco alla fine del quarto secolo a.C. e il suo tentativo di nominare senatori i figli di liberti. Arretrando ancora nel corso della storia, L. tratta delle origini vere e proprie delle manomissioni. Si confrontano qui le due principali versioni rinvenibili nelle fonti al proposito. La prima è quella di Livio (2.4.5-6), secondo cui il primo schiavo liberato e onorato della cittadinanza romana sarebbe stato un certo Vindicio, ricompensato con la manomissione per aver denunziato ai consoli, nel primo anno della repubblica, una cospirazione mirante a ristabilire l'ordinamento monarchico. La seconda versione è quella di Dionigi di Alicarnasso (4.22.4), secondo cui il primo a concedere la libertà e la cittadinanza romana a schiavi sarebbe stato Servio Tullio, interessato a rinvigorire l'esercito romano di soldati senza ricorrere a mercenari. L. sottolinea che è difficile optare per l'una o per l'altra tradizione. Non ci sono conclusioni generali sull'intera trattazione. Il volume si conclude semplicemente con la bibliografia (contenente vari errori di stampa)1 e bisogna purtroppo lamentare l'incomprensibile assenza dell'indice delle fonti, che sarebbe stato di grande utilità. In linea generale, in sede di commento dell'opera, il suo aspetto più curioso è quello di non iniziare con la trattazione delle origini delle manomissioni, ma di confinare questo tema all'ultimo capitolo. Ci si sarebbe forse aspettati il contrario, ma bisogna dire che la scelta di dispositio effettuata da L. può apparire accattivante, in quanto consente di iniziare il discorso con la trattazione di ciò che è più noto, lasciando la discussione intorno al probabile ad un momento successivo. L'aspetto migliore dell'opera è poi senza dubbio la sua sintesi. Ciò detto, tuttavia, bisogna osservare che su alcuni punti specifici dell'opera si sarebbe potuto e dovuto compiere qualche approfondimento maggiore. A mio avviso va infatti rilevato che, in relazione ad

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alcuni specifici temi trattati, L. ha mostrato di non avere tenuto nel dovuto conto la letteratura moderna, o di non avere saputo adeguatamente discutere i testi delle fonti antiche, pervenendo così a risultati non sempre completamente soddisfacenti o utili per il lettore. Il primo punto che vorrei esaminare è relativo alla procedura della manumissio vindicta. Come è noto, esiste al riguardo un'annosa diatriba in dottrina principalmente tra coloro che ritengono che essa avesse la forma di un fittizio processo di libertà e coloro che ritengono che invece si basasse soltanto sulla dichiarazione unilaterale di volontà del manumissor. L. dà conto delle due opinioni, ricordando che l'una è stata rappresentata soprattutto da Arangio-Ruiz (ma va lamentato che quando L. cita Arangio-Ruiz non offre indicazioni bibliografiche)2 e l'altra da Lévy-Bruhl. L. tuttavia accede a un'opinione ancora differente. Egli ritiene che la manumissio vindicta si svolgesse in due fasi: nella prima il padrone si proclamava proprietario dello schiavo e affermava davanti al magistrato la propria intenzione di liberarlo toccandolo con la bacchetta, e il magistrato dichiarava lo schiavo libero; nella seconda i littori del magistrato gettavano sullo schiavo la bacchetta e così completavano l'atto. Vorrei osservare che si tratta di una ricostruzione che di per sé potrebbe essere convincente. Naturalmente, anch'essa (come ogni altra ipotesi sullo stesso tema, dato lo stato contraddittorio delle fonti) presenta qualche difetto. Ha ad esempio il difetto di considerare necessaria per la validità della manumissio la presenza del littore, che in verità in D.40.2.8 (Ulp. 5 ad ed.) viene detto espressamente che potesse mancare (ma l'aporia potrebbe anche spiegarsi con regole diverse per i diversi periodi storici). Ha il difetto di non considerare adeguatamente un passo di Cicerone (Att. 7.2.8) da cui sarebbe possibile desumere la presenza di un adsertor libertatis (ma la testimonianza potrebbe essere interpretata diversamente; sta di fatto che la spiegazione sul punto di L. non è pertinente: egli afferma che nel caso cui allude Cicerone l'adsertor libertatis avrebbe avuto solo il ruolo che in seguito sarebbe stato svolto dal littore). A mio avviso sarebbe stato meglio ipotizzare che da un finto processo la manumissio vindicta si sia ridotta a un atto dal procedimento analogo a quello immaginato da L. Pertanto, l'adsertor libertatis avrebbe avuto un ruolo effettivo in età antica e poi il suo ruolo si sarebbe ridotto a simbolico. Con ciò, non si vuole negare che la ricostruzione di L. sia interessante. È pur vero, tuttavia, che essa non è nuova, come l'autore sembra sottintendere (egli scrive a p. 25: "esta reconstrucción hipotética, que aquí presentamos..."). In verità essa è già stata proposta negli stessi identici termini da Philippe Meylan nel 1953.3 Ma Meylan da L. non viene citato.4 Un secondo punto dell'opera di L. che vorrei esaminare da vicino è quello in cui L. sostiene (pp. 29 s.) che a suo avviso si poteva compiere una manumissio vindicta destinata ad avere efficacia dopo la morte del manumissore (il quale avrebbe potuto peraltro nel frattempo revocarla): si sarebbe trattato tecnicamente di una manomissione sottoposta a termine. È noto che questa possibilità parrebbe ammessa da D.40.2.8 (Ulp. 5 ad ed.), che tuttavia sembra interpolato, come rilevato tra gli altri da Impallomeni, atteso che la manumissio vindicta rientrava tra gli actus legitimi e pertanto non ammetteva né termine né condizione. Tuttavia L. cita un documento, edito per la prima volta da C. Naour nel 1985,5 proveniente da Maionia in Lidia e risalente all'anno 242/243 d.C., che dovrebbe viceversa attestare la possibilità di apporre un termine alla manumissio vindicta: nell'epigrafe si legge di un certo Tatianus che, teleutôn, avrebbe liberato per vindictam un certo Procopton (va peraltro incidentalmente osservato che L., p. 30, si riferisce al documento, ma

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omette di citarne l'edizione e non menziona Naour). Ora: come interpretare il participio teleutôn? Dei due autori citati da L. apparentemente a sostegno della sua opinione, J. Rea6 e D. Salsano,7 in realtà il primo nulla dice sul punto, mentre la seconda osserva che Tatianus con ogni probabilità decise di liberare Procopton con effetto immediato, ma in vista della propria morte (ecco il significato di teleutôn), che evidentemente sentiva imminente. Con questo, ovviamente, non intendo affermare che l'opinione di L. non sia sostenibile, ma vorrei osservare che si sarebbe dovuto argomentarla meglio, sulla base di un più puntuale esame della fonte antica. Mi pare quindi, in altre parole, che il metodo impiegato da L. per raggiungere le sue conclusioni possa suscitare notevoli perplessità. In terzo luogo, vorrei qui considerare la trattazione che L. riserva alle manomissioni attuate previo pagamento di prezzo. A p. 52 dell'opera, l'autore osserva che negozi di tal genere potevano darsi in alcuni casi, uno dei quali si verificava quando il padrone dello schiavo riceveva dallo schiavo stesso o da un terzo una somma di danaro o altri beni per manometterlo. Alle pp. 60 s. dell'opera l'autore torna brevemente sul tema, osservando che nel mondo romano la manomissione era considerata un beneficium, principalmente nel senso che era un atto di libera disposizione del dominus e non un atto dovuto. Viene inevitabile domandarsi se, quando il dominus percepiva (o dallo schiavo o da un terzo) un compenso per procedere alla manomissione, fosse poi obbligato ad attuarla e, in caso affermativo, se la manomissione restasse ancora un beneficium. A tale proposito L. afferma che anche quando la manomissione non era un atto gratuito restava comunque un atto libero, tant'è vero che, "cuando el esclavo paga por su libertad directamente a su dueño, éste es enteramente libre de manumitirlo o no". Osservo in primo luogo che, in questa sua ultima affermazione, L. considera solo il caso in cui il pagamento provenisse dallo schiavo, omettendo di trattare il caso in cui il pagamento venisse da un terzo. In realtà, i due casi sono inscindibili (e infatti non vengono considerati come diversi tra loro dalle fonti), in quanto il problema giuridico -- quello se il dominus che abbia accettato un prezzo sia obbligato o meno a manomettere lo schiavo -- si pone, dal punto di vista dogmatico, egualmente per entrambi. Ebbene, sul punto, le fonti (severiane o post-severiane), non citate da L., sono molto numerose e di rado concordanti tra loro, ma va segnalato che in due passi dei Digesta e in tre del Codex8 si afferma che, se il pagamento è avvenuto (o dallo schiavo stesso, o da un terzo), la libertà dello schiavo deve trovare luogo: in alcuni passi si dice che ciò avverrà automaticamente, in altri si prevede che avverrà previo ricorso al magistrato giurisdizionalmente competente. Una trattazione analitica sul punto si trova nell'importante opera di Buckland sulla schiavitù e a essa possiamo in questa sede senz'altro rinviare.9 Ancora, mi sembra utile qui discutere l'interpretazione offerta da L. (pp. 97 ss.) in relazione a Liv. 43.3.1-4 e alla storia della fondazione di Carteia da parte dei libertini. Il passo di Livio è probabilmente corrotto in una parola cruciale (manumisisset) e quindi si presta a varie ipotesi esegetiche. Esso presenta il caso di quattromila uomini, nati ex militibus Romanis et ex Hispanis mulieribus cum quibus conubium non esset, i quali nel 171 a.C. si rivolsero a Roma, chiedendo che venisse loro dato un oppidum, in cui abitare. Il senato decretò che si presentassero al governatore Lucio Canuleio, il quale, dopo non ben chiare manomissioni, li avrebbe resi latini e avrebbe loro assegnato le terre della deducenda colonia latina di Carteia. Il problema è comprendere che cosa fossero le manomissioni, cui il passo allude, e chi dovesse attuarle. L. accede in parte all'opinione, già proposta in dottrina, secondo cui le manomissioni sarebbero state compiute da Canuleio e oggetto di esse sarebbero stati proprio i quattromila uomini che a lui dovevano

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presentarsi. Ma secondo tale citata opinione, i quattromila, che dovevano essere manomessi, sarebbero stati schiavi e pertanto dovevano essere nati da madre schiava, dal che si dovrebbe supporre che tutte le Hispanae mulieres che si erano legate ai soldati romani fossero di statuto servile. Non convinto di ciò, L. propone allora di correggere tale ricostruzione, ritenendo che i quattromila non fossero schiavi, ma fossero filiifamilias e che la manomissione cui il testo allude fosse la loro liberazione dalla patria potestas dei padri, effettuata allo scopo di renderli liberti e latini. Non entro qui nella questione se nel secondo secolo a.C. la liberazione dalla potestà paterna portasse, come sostenuto da L., allo stato di liberti, anziché a quello di ingenui. Mi limito a rilevare che i quattromila, dato che erano stati generati ex militibus Romanis et ex Hispanis mulieribus non legati tra loro da conubium (come affermato esplicitamente da Livio), non potevano essere figli legittimi dei soldati romani e pertanto non erano soggetti alla loro patria potestas. Poiché il passo considerato è con ogni probabilità un testo mutilo, è difficile giungere a definire quale interpretazione dello stesso possa apparire la migliore, ma certamente non può a mio avviso essere accettata quella proposta da L. Osservo infine che, come abbiamo visto, L. scrive, quasi in conclusione del volume (pp. 112 s.), che tutte e tre le manomissioni del ius civile esistevano già all'epoca delle Dodici Tavole, e, basandosi su Gai. 2.224, asserisce che allora esisteva quindi già anche la manumissio testamento, effettuata tramite il testamentum per aes et libram. Tuttavia, sarebbe stato opportuno ricordare a questo proposito che non è sicuro che il testamentum per aes et libram esistesse già all'epoca delle Dodici Tavole. Al contrario, sembra ormai acquisito dalla dottrina maggioritaria che a quell'epoca i Romani conoscessero solo la mancipatio familiae e che il testamentum per aes et libram si sia sviluppato, oltre un secolo dopo l'età duodecimtabulare, dal precedente arcaico negozio mancipatorio, differenziandosene assai notevolmente. Le osservazioni che precedono, ovviamente, non sminuiscono il valore dell'opera di L., che, anzi, nell'offrire un quadro generale riguardante numerosi aspetti delle manomissioni del diritto romano, li riporta in primo piano all'attenzione degli studiosi, e non mancherà di offrire linfa nuova a dibattiti sempre più approfonditi. Notes: 1. A titolo esemplificativo: Ballestri per Balestri e claosola per clausola (p. 117); Anfange per Anfänge (p. 121); La scomparse per La scomparsa (p. 126). 2. Il riferimento è probabilmente alle Istituzioni di diritto romano, XIV ediz., Napoli 1960, 484. Nessuna opera di Arangio-Ruiz si trova nella bibliografia del volume. L'autore italiano è citato da L. a p. 22. 3. P. Meylan, "L'individualité de la manumissio vindicta", in Studi Arangio-Ruiz, IV, Napoli 1953, 469-484. 4. All'ipotesi avanzata da Meylan si può trovare un riferimento anche nella voce, di comune consultazione, "Manumissio (Diritto romano)", curata da M.A. De Dominicis per il Novissimo Digesto Italiano, X, 1964, 191 ss., part. 192, nt. 6. 5. C. Naour, "Nouveaux documents du Moyen Hermos", in EA 5 (1985), 56-60. 6. J. Rea, "A New Case of Manumission by vindicta", in ZPE 62 (1986), 81-85. 7. D. Salsano, "Manumissio vindicta in ambiente provinciale: problemi e proposte", in Chiron 28 (1998), 179-185. 8. D.40.1.19 (Pap. 30 quaest.); D.40.12.38.1 (Paul. 15 resp.); C.4.6.9 (Diocl. et Maxim., a. 294); C.4.57.4 (Gord., a. 240); C.7.16.8 (Diocl. et Maxim., a. 286). 9. W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in

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Private Law from Augustus to Justinian, Cambridge 1908 (rist. anastatica Union, New Jersey 2000), 640 ss. Comment on this review in the BMCR blog Read Latest

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