La Tragedia

September 27, 2017 | Autor: Alberto L. Siani | Categoría: Aesthetics, Hegel, Tragedy
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Descripción

La Tragedia (Alberto L. Siani)1

La trattazione della tragedia è certamente tra i punti più noti della filosofia di Hegel, e, diversamente da altri aspetti di essa, non solo nella cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Nonostante alcuni suoi punti siano stati messi in discussione da filosofi, filologi e studiosi di letteratura, essa resta, accanto a quelle di Aristotele e Nietzsche, la più influente riflessione filosofica sulla tragedia mai formulata2. Non sarà qui possibile rendere pienamente conto della sua straordinaria complessità e profondità, né tantomeno offrire un quadro della storia della sua ricezione3. Il mio obiettivo è, più modestamente, quello di presentarla nelle sue linee principali, per offrire un punto di partenza a chi sia interessato ad approfondirne lo studio e anche per facilitarne la comprensione a studiosi interessati a temi contigui, magari anche non di diretta rilevanza estetica. Hegel, infatti, non mira tanto a fornire un insieme di precetti formali sulla tragedia, quanto a interpretarla come espressione di un contesto storico, etico, politico e religioso. Dunque, lo studioso della filosofia hegeliana non solo dell’arte, ma anche della storia, della religione, della politica, dell’etica, del linguaggio etc. incontrerà la trattazione hegeliana della tragedia in contesti di primaria importanza. Allo stesso tempo, essa offre spunti di riflessione che portano molto al di là della cerchia specialistica degli studi hegeliani. La teoria hegeliana della tragedia è innanzitutto un’ermeneutica dell’esperienza del tragico4, laddove quest’ultimo non è da intendersi nel senso generico di un fenomeno o di un sentimento umano, bensì in quello ben preciso di un momento 1

Questo lavoro è nato nell’ambito di un periodo di ricerca presso la Universität Münster, finanziato dalla Alexander von Humboldt Stiftung, che qui ringrazio. Ringrazio inoltre gli autori dei contributi di questo volume con i quali ho discusso il mio lavoro. 2 Cfr. A.C. Bradley, Hegel’s Theory of Tragedy, in Id., Oxford Lectures on Poetry, London, MacMillan & Co, 1950, p. 69 e K. Düsing, Die Theorie der Tragödie bei Hölderlin und Hegel, in Jenseits des Idealismus: Hölderlins letzte Homburger Jahre (1804-1806), a cura di C. Jamme, O. Pöggeler, Bonn, Bouvier, 1988, p. 55, che nomina anche Hölderlin, la cui influenza sulla teoria hegeliana della tragedia è stata determinante. 3 Per un primo orientamento si veda l’introduzione di M. Schulte, Die »Tragödie im Sittlichen«. Zur Dramentheorie Hegels, München, Fink, 1992. 4 Sulla distinzione di tragico e tragedia cfr. K. Düsing, Die Theorie der Tragödie bei Hölderlin und Hegel, cit., p. 71.

Ultima versione del contributo apparso in: M. Farina, A.L. Siani (eds.), L’estetica di Hegel, Bologna: Il Mulino, 2014, pp. 181-195.

dialettico dello sviluppo spirituale dell’umanità, inquadrato all’interno della filosofia hegeliana della storia, della religione e della politica. Tuttavia, non bisogna nemmeno intendere la tragedia come una casuale espressione del tragico in forma artistica. Al contrario, se Hegel comprende la tragedia a partire dal tragico, anche il tragico viene alla luce e si rende comprensibile solo, o almeno in maniera esemplare, nella forma della tragedia, e viene superato attraverso la sua manifestazione in questa forma e non in altre. Tragico e tragedia sono quindi legati a doppio filo, e tuttavia non coincidono: Hegel parla di tragico anche in contesti in cui nessuna questione estetica è a tema, e la sua estetica si occupa anche di tragedie “senza tragico” (i drammi moderni). Il mio contributo si articolerà in tre parti. Nella prima ricostruirò i momenti salienti dello sviluppo del pensiero hegeliano sulla tragedia e sul tragico fino alla Fenomenologia dello spirito compresa, così come il contesto sistematico in cui si situa la riflessione sulla tragedia. Nella seconda mi occuperò più diffusamente della teoria della tragedia greca classica (per Hegel, la tragedia per eccellenza) facendo riferimento soprattutto alle Lezioni di estetica. Questo testo sarà anche alla base, nella breve terza parte, dell’esposizione della teoria hegeliana del dramma moderno.

I. Considerando quanto detto nella premessa, non dovrebbe sorprendere che i primi riferimenti di Hegel alla tragedia si trovino in contesti che nulla sembrano avere a che fare con l’estetica o anche con una teoria della tragedia in quanto tale. Nella serie di appunti giovanili che vanno sotto il nome di Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, nell’ambito di una critica piuttosto stereotipata al carattere formalistico e dualistico della religione ebraica nonché alla sua venerazione fanatica per la legge, troviamo: «La grande tragedia del popolo ebraico non è una tragedia greca; non può suscitare né terrore né compassione, poiché questi sentimenti nascono solo dal destino del necessario errare di una bella essenza»5. Il legame tra grecità, destino, necessità, errore e bella essenza costituisce già qui il nocciolo della comprensione hegeliana della tragedia; anche il paragone del destino del popolo ebraico con quello di Macbeth, che troviamo subito dopo, implica indirettamente una contrapposizione di tragedia greca e tragedia moderna che rimarrà costante in Hegel.

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Nohl, p. 260 [393, trad. it. modificata].

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Nel saggio del 1802/3 Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale troviamo la celebre espressione «tragedia nell’etico»6. Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di una diretta messa a tema della tragedia, ma piuttosto del ricorso a essa come strumento ermeneutico7 di comprensione di un passaggio storico: quello del dissolvimento dell’eticità della polis greca, che è al tempo stesso conciliazione con le stesse potenze distruttrici. Il riferimento è all’Orestea, e in particolare alle Eumenidi. La conciliazione con cui si concludono opera e trilogia viene interpretata da Hegel in chiave etico-politica come riconoscimento del diritto della natura «inorganica» (rappresentata dalle Erinni) e come «sacrificio» dell’eticità. Concretamente questo significa l’ammissione del diritto della sfera egoistica della società civile e del sistema dei bisogni (fino a quel momento semplicemente identificata con il lavoro degli schiavi) accanto a quello della sfera etica dei cittadini liberi. Il sacrificio consiste nell’abbandono, da parte del potere statale, della pretesa di assolutezza e nel riconoscimento del potere “sotterraneo” delle Erinni (che diventano Eumenidi), fino a quel momento non viste come parte integrante della vita della polis, ma solo come forza vendicatrice del sangue e dei legami privati. Questo passaggio epocale però non è un’integrazione libera e consapevole da parte dei cittadini, ma quasi il risultato di un eterno gioco dell’Assoluto con se stesso8: in effetti, nelle Eumenidi, il potere umano della polis non è in grado di giudicare Oreste (nel processo che vede opposti Apollo e le Erinni sul destino di Oreste, i voti dell’Areopago si dividono a metà tra le due parti, non permettendo una decisione). È invece Atena, come dea della città Atene, a salvare con il suo voto Oreste e al tempo stesso a garantire la riconciliazione offrendo alle Eumenidi di unirsi alle divinità protettrici della città. Già a partire dalla Fenomenologia dello spirito Hegel abbandona il modello tragico – ispirato a Hölderlin – di conflitto tra nature diverse (organica e inorganica) a favore di un modello di comprensione dei fenomeni storici basato sul divenire della coscienza9. In quest’opera troviamo già una comprensione articolata del tragico e della tragedia che si manterrà, nelle sue linee principali, invariata anche nella compiuta teoria della tragedia esposta nelle Lezioni di estetica. Nella Fenomenologia troviamo diretti 6

NR, p. 458 [81, trad. it. modificata]. K. Düsing, Die Theorie der Tragödie bei Hölderlin und Hegel, cit., p. 71, si spinge però forse troppo in là, parlando di uso metaforico della tragedia in questo contesto. 8 Cfr. NR, p. 458 [81]. 9 Sulla scarsa plausibilità del primo modello e il passaggio al secondo cfr. E. Weisser-Lohmann, „Tragödie“ und „Sittlichkeit“. Zur Identifikation ästhetischer und praktischer Formen bei Hegel, in Die geschichtliche Bedeutung der Kunst und die Bestimmung der Künste, a cura di A. Gethmann-Siefert, L. de Vos, B. Collenberg-Plotnikov, München, Fink, 2005, pp. 111-112. 7

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riferimenti al tragico e alla tragedia in due contesti: in «Lo spirito vero, l’eticità» (primo capitolo della parte VI, «Lo spirito»), e a proposito dell’ «opera d’arte spirituale», terza e ultima forma della religione artistica, nella parte VII, «La religione». Il primo dei due contesti ricostruisce natura e sviluppo dell’eticità greca. Questa ricostruzione, diversamente dal modello classicista di armonia e bellezza degli scritti giovanili, è decisamente orientata al modello della tragedia: l’eticità greca è presentata sì come eticità immediata e irriflessa, ma al contempo come destinata alla dissoluzione fin dal principio, perché strutturata intorno al conflitto tragico che darà origine alla moderna soggettività determinando così la fine di quella forma di eticità10. L’eticità greca è presentata come scissa (all’inizio in modo inconsapevole) tra due «masse della sostanza etica»11: da un lato la legge umana (principio maschile e dello stato) e dall’altro la legge divina (principio femminile e della famiglia), laddove il riferimento è, ovviamente, all’Antigone di Soflocle12. In un primo momento le due leggi sono in quiete, in armonia tra di loro (primo paragrafo di questo capitolo). Subentra però la necessità della scissione, che avviene tramite «l’azione etica»13. L’individualità agente si fa portatrice di una delle due leggi in forma assoluta, cioè senza riconoscere il diritto dell’altra, perché l’eticità è ancora concepita come compatta, non suscettibile di scissioni: il principio della soggettività, in cui possono coesistere riflessivamente diverse leggi, non è ancora presente, o meglio nasce proprio attraverso questa opposizione, che è il nucleo del conflitto tragico. In questo conflitto, che conosce varie articolazioni (Hegel si riferisce in queste pagine, oltre che all’Antigone, anche all’Edipo re e ai Sette contro Tebe), entrambi i lati si macchiano della colpa dell’unilateralità: l’azione etica, introducendo un elemento di scissione, porta necessariamente con sé la colpa degli individui agenti e la loro sofferenza tragica. Il conflitto può essere 10

Cfr. F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci, 1998, p. 122. 11 PhG, p. 241 [295]. 12 L’Antigone è sicuramente per Hegel (che da giovane tentò anche di tradurla) la tragedia – e perfino l’opera d’arte in generale – più perfetta ed esemplare: di qui la prevalenza dei riferimenti a essa nel mio contributo. Cfr., tra l’altro, Ascheberg 1820/21, p. 325 («L’Antigone è l’opera d’arte più eccellente»), Hotho 1823, p. 306 [297] («la più compiuta delle opere d’arte») e G, § 166A, p. 149 [145] (il conflitto dell’Antigone «è la suprema opposizione etica e pertanto la suprema opposizione tragica»). Sull’esemplarità dell’Antigone e su validità e limiti dell’interpretazione hegeliana si veda anche Houlgate, Hegel’s Theory of Tragedy, in Hegel and the Arts, a cura di S. Houlgate, Evanston, IL, Northwestern University Press, 2007. L’interpretazione hegeliana dell’Antigone è stata inoltre oggetto di molte letture femministe e di studi di genere. Per un bilancio generale e ulteriori rimandi bibliografici su Hegel e Antigone si vedano anche F. Iannelli, Oltre Antigone. Figure della soggettività nella Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel, Roma, Carocci, 2006 e C. Ferrini, La dialettica di eticità e linguaggio in Hegel interprete dell’eroicità di Antigone, in Antichi e nuovi dialoghi di sapienti ed eroi. Etica, linguaggio, dialettica fra tragedia greca e filosofia, a cura di L. M. Napolitano Valditara, Trieste, EUT, 2002. 13 PhG, p. 251 [307].

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ricomposto solo negativamente, con l’ «uguale assoggettamento di tutt’e due i lati» alla forza superiore e impersonale del «destino»14. Si tratta, quindi, di una conciliazione che in realtà svela l’intrinseca debolezza dell’eticità greca e la necessità del suo tramonto15 e del passaggio a una nuova figura, lo «statuto giuridico» del mondo romano (terzo e ultimo paragrafo della sezione). Allo spirito vero del mondo greco corrisponde la trattazione della seconda forma di religione: quella artistica, all’interno della quale incontriamo di nuovo il riferimento alla tragedia. A differenza della religione naturale (momento precedente), in cui il divino si presenta – almeno prevalentemente – appunto nella figura di elementi della natura (luce, piante, animali), nella religione artistica è la soggettività cosciente dell’artista a dare forma sensibile al divino. Qui è da trovarsi la radice della dissoluzione di questa forma di religione e dello stato che su di essa si fonda: la figura divina è creata, e quindi totalmente pervasa, dalla coscienza della soggettività creatrice. Progressivamente, rivolgendosi al suo dio, l’individuo membro della comunità si renderà conto di trovarvi nient’altro che se stesso: si renderà così necessario il passaggio alla religione rivelata. Questa transizione si prepara già nei tre momenti della religione artistica, al loro interno ulteriormente articolati in varie forme artistico-religiose: l’opera d’arte astratta, l’opera d’arte vivente e l’opera d’arte spirituale. Attraverso questi momenti la coscienza finisce per svuotare il cielo dei suoi dèi e comprenderli in se stessa, ma ancora in forma negativa e inconsapevole. Il passaggio successivo sarà quello del dio che si rivela agli uomini in forma umana. L’opera d’arte spirituale si suddivide in tre forme: epos, tragedia e commedia. La prima mette già in campo il confronto tra gli uomini e gli dèi, in cui l’elemento divino, sottoposto al pari di quello umano alla potenza superiore del fato, si rivela un po’ alla volta superfluo, cosicché in realtà è l’uomo, nella figura bella e drammatica dell’eroe, il vero protagonista dell’opera, nonostante sia ancora il termine estraneo dell’aedo a narrare. Nella tragedia questo processo si radicalizza, e l’eroe diventa protagonista che parla in prima persona. Al tempo stesso, però, l’eroe è ancora privo di una coscienza universale: egli è il rappresentante unilaterale di una delle potenze etiche, alla quale se ne contrappongono altre con pari diritti, e nessuna delle due parti può avere ragione in senso assoluto, perché entrambe hanno ragione. Va in scena allora il cozzare violento e non mediabile delle potenze, la cui unica possibile conclusione è la distruzione di 14 15

PhG, p. 256 [313]. PhG, p. 260 [317-318].

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entrambe le individualità, portatrici “integraliste” di diritti che esse vorrebbero, erroneamente, assoluti ed esclusivi. Con il tramonto nell’oblio dell’individualità portatrice di un’essenza universale, la pretesa manifestazione di questa essenza negli dèi del pantheon tradizionale finisce per essere messa in ridicolo. La tragedia contiene in sé il seme del passaggio alla commedia.

II. Dopo aver presentato a grandi linee la collocazione sistematica della tragedia e il suo contesto storico, religioso, etico e politico, in questa seconda parte proverò a isolare la teoria hegeliana della tragedia e a esplicitarne il funzionamento in chiave più strettamente estetica16, e lo farò a partire da due considerazioni di tipo formale17. In primo luogo, per Hegel la tragedia rientra con la commedia nel genere del dramma, che è a sua volta «lo stadio più perfetto della poesia e dell’arte in genere»18. Nel dramma abbiamo una fusione delle due forme poetiche dell’epica e della lirica. Tratto distintivo dell’epica è l’oggettività19, della lirica la soggettività20; nel dramma «l’interiorità del lirico è […] superata e oggettiva se stessa in accordo col lato epico, che però qui non è come mero accadere, ma come accadere prodotto dall’individuo»21. Ciò vale tanto per la tragedia quanto per la commedia, con la differenza che «nella tragedia a venir fuori vittorioso è l’eterno sostanziale, nella commedia la soggettività come tale». Entrambe le forme del dramma rappresentano un conflitto tra l’individuo (o gli individui) e uno scopo oggettivo. Nella commedia l’individuo distrugge lo scopo oggettivo ridicolizzandolo, e la soggettività umana risulta vincitrice proprio nell’annullamento di ogni aspetto sostanziale e oggettivo, mentre nella tragedia «l’individualità viene distrutta dall’unilateralità del suo scopo. […] Questo però deve

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Non potrò che offrire una rappresentazione semplificata del pensiero hegeliano, basata prevalentemente sul testo delle lezioni di estetica del 1823. In questo e nel prossimo paragrafo riutilizzo parzialmente e sviluppo materiali già presentati nel primo capitolo del mio libro Il destino della modernità. Arte e politica in Hegel, Pisa, ETS, 2011, cui rimando per approfondimenti. 17 Da notare, a proposito dell’esperienza diretta che Hegel ha della tragedia, che la prima vera e propria rappresentazione di una tragedia greca sulla scena tedesca avvenne solo dieci anni dopo la morte di Hegel, e che «quindi Hegel non ha mai visto una tragedia greca in teatro» (H. Flashar, Die Entdeckung der griechischen Tragödie für die deutsche Bühne, in Kunsterfahrung und Kulturpolitik im Berlin Hegels, a cura di O. Pöggeler, A. Gethmann-Siefert, «Hegel-Studien», Beiheft 22, 1983, p. 285). 18 Hotho 1823, p. 298 [289]. 19 Hotho 1823, p. 284 [275]. 20 Hotho 1823, p. 297 [288]. 21 Hotho 1823, pp. 298-299 [289].

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essere uno scopo sostanziale, viene dunque mantenuto con riguardo alla sua sostanzialità e sopprime solo l’unilateralità che l’individuo realizza»22. Arriviamo così alla seconda considerazione, quella sui “protagonisti” della tragedia. Al centro è sicuramente l’azione dell’eroe, che è però, oltre che osservata dagli spettatori esterni (il pubblico), anche accompagnata da uno spettatore interno (il coro). A queste tre parti corrispondono tre piani etico-storici, che bisognerà ora analizzare nella loro interazione. Il coro è la base della tragedia, il terreno etico su cui si svolge l’azione: «Non rappresenta una mera riflessione esteriore, ma è la base degli eroi stessi, la condizione sostanziale, il terreno fecondo sul quale i quadri si formano a fiori ed alberi: è quel che precede. […] Il coro può essere paragonato all’architettura spirituale che racchiude le statue degli dei, gli eroi»23. Il coro è il rappresentante dell’eticità immediata e irriflessa, e dunque di una situazione di quieta staticità e assenza di conflitto. Esso è forza affermativa priva di concetto che, «mancando del potere del negativo, […] non è in grado di tenere insieme e di domare la ricchezza e la variopinta pienezza della vita divina, ma lascia che essa vada disperdendosi, e nei suoi inni devoti canta le lodi d’ogni singolo momento come si trattasse di un dio autonomo, di volta in volta questo o quell’altro»24. Il coro è l’espressione dell’ideale astratto, in cui universale e individuale sono ancora spontaneamente legati, perché la pluralità degli dèi, non entrando questi in azione reciproca, non si contrappone alla sua pretesa assolutezza e unità. Ovvero, in ciascun dio è venerato il contenuto sostanziale, senza che ci si ponga il problema di ricondurre questa pluralità a unità. Il dio è la statua (e infatti la scultura è l’arte del bello ideale), e nulla vieta di onorare ciascuna statua come se fosse l’unica. Quando però sorge il contrasto tra legge umana e legge divina, sul terreno stesso dell’eticità nasce l’eroe, che incarna uno dei due lati in modo assoluto e unilaterale. La tragedia si regge quindi su un’opposizione polare: quella di coro ed eroi25. L’azione di questi ultimi ha senso solo sulla base costituita da quello. La tragedia «inizia da una situazione: alcuni individui sono coinvolti nell’offesa recata a una condizione, e debbono perciò darsi in essa uno scopo». Infatti, «quel che è giustificato è l’eticità in genere, ma le potenze etiche sono diverse. Nella condizione quieta esse sono 22

Hotho 1823, p. 301-302 [292]. Hotho 1823, p. 303 [294, trad. it. modificata]. 24 PhG, p. 393 [480]. 25 Per tutte queste considerazioni tengo ampio conto di C. Menke, Tragödie im Sittlichen. Gerechtigkeit und Freiheit nach Hegel, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1996, in particolare pp. 85-93. 23

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in armonia come cerchia degli dei. Ma deve anche accadere che esse vengano offese, e in questo modo sono chiamate ad apparire come attività. Gli individui appaiono così come il πάθος, come la realizzazione di una potenza etica». Se il coro resta fermo al primo livello, alla quiete armonica e alla pacifica pari dignità di tutte le potenze etiche, l’eroe è invece colui che prende partito per una di esse, e anzi si immedesima in essa: la potenza etica è in lui come pathos, anzi l’individuo stesso appare come pathos. Abbiamo così, in generale, una duplice scissione, cioè, da un lato, tra l’immediatezza etica del coro e l’unilateralità del pathos dell’eroe, e, dall’altro, tra le varie unilateralità che si contrappongono: «Il coro rappresenta la condizione quieta, che vive in un’eticità non turbata, teme la scissione delle potenze etiche e rimane per sé neutrale. Il secondo lato della coscienza etica passa nella figura particolare ed entra così in scena come inimicizia reciproca». Tramite l’azione dell’eroe l’indistinta unità delle potenze etiche si scinde e si individualizza: vi è un’attivazione di quelle potenze che fino a quel momento avevano riposato in una quiete irriflessa. Emerge così la loro «inimicizia reciproca»: l’azione soggettiva, il darsi uno scopo da parte dell’eroe necessariamente entra necessariamente in conflitto con le altre potenze. È fondamentale però che questo conflitto non nasca da elementi casuali o da pura malvagità, ma sia mostrato come necessario, perché entrambe le potenze possono presentarsi come potenze etiche, e come tali essere giustificate. Caratteristico della tragedia classica come forma suprema dell’arte è il fatto che «a produrre la collisione non è una volontà malvagia, non è la mera disgrazia, ma la giustificazione etica che si trova da entrambi i lati. L’astrattamente cattivo non è né vero né interessante»26. Non è necessario che vi siano (come nell’Antigone) più rappresentanti delle varie potenze etiche contrapposte. Nella tragedia di Edipo, ad esempio, vi è un unico eroe che incarna, in maniera assoluta e unilaterale, il diritto della coscienza, entra in conflitto con il diritto delle forze dell’inconscio e del sotterraneo, e viene così distrutto non da un’azione esterna, ma dalla sua stessa brama illimitata di sapere, cioè dal pathos che egli stesso incarna. Resta però la necessità del conflitto, che si articola poi in forme differenti. In generale, dunque, al primo livello (quello del coro) c’è il coesistere pacifico, perché inattivo, di una pluralità di potenze etiche, che però, non essendo ancora distinte tra loro, non esistono ancora come tali, ma solo come un’unica massa statica. Al secondo livello le potenze si attivano nell’azione soggettiva e si individualizzano nel pathos dell’eroe o degli eroi. Poiché il terreno, la base etica fornita 26

Hotho 1823, pp. 302-303 [293-294].

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dal coro sostiene il diritto dell’eticità in quanto tale, l’eroe, che su quel terreno nasce e agisce, non può che concepire come assolutamente giustificata la potenza da lui attivata, ed entra necessariamente in conflitto con altre potenze, le quali, dal canto loro, si pretendono altrettanto assolute. L’eroe è una figura plastica, scultorea, perché non conosce incertezze e scissioni, ma vive, agisce – ed eventualmente muore – animato solo da un principio unilaterale. Questa caratteristica marca in modo netto, sia sul piano etico che su quello estetico, una differenza fondamentale tra soggettività antica e soggettività moderna: «Noi [scil.: moderni] crediamo che la colpa faccia il suo ingresso quando l’individuo ha avuto la possibilità di scegliere […]. Ma nelle figure plastiche questa scelta è allontanata, l’individuo è quel che è, agisce sulla base di questo carattere, questo pathos». Nella tragedia antica «gli eroi sono tanto colpevoli quanto innocenti»: colpevoli, perché portatori unilaterali di un principio che pretendono assoluto, e che oppongono ad altri princìpi altrettanto giustificati; innocenti, perché questa unilateralità non è il risultato di una loro scelta, ma è la loro stessa natura. E proprio l’insieme di colpevolezza e innocenza rende, da un punto di vista estetico, grandi e immortali questi caratteri: «La forza dei caratteri antichi è proprio questa, che essi non scelgono ma, quel che fanno, sono»27. Per quanto riguarda la conclusione della tragedia, essa «può essere solamente il superamento delle opposizioni, la conciliazione di esse. […] Lo scopo della tragedia viene raggiunto in modo tale che l’unilateralità viene cancellata e l’individualità, che ha valore solo in quanto singolo pathos, perisce». La conclusione della tragedia è la conciliazione delle opposte potenze etiche, raggiunta però con il sacrificio dell’individualità agente. Sacrificio non vuol dire per forza morte fisica (come nel caso di Antigone e Creonte, che resta quello «più perfetto»28): in altri casi può implicare la rinuncia da parte dell’eroe alla propria unilateralità in seguito all’intervento di una potenza superiore o di un deus ex machina (Filottete, Aiace), oppure il riconoscimento superiore (non da parte dell’eroe, ma di un dio) del pari diritto delle potenze in gioco (Eumenidi). Qualunque sia la modalità della riconciliazione, comunque, il punto centrale è l’appagamento dello spirito nel riconoscere l’uguale legittimità delle potenze in conflitto, e il superamento dell’unilateralità individuale. Lo scopo sostanziale viene 27 28

Hotho 1823, p. 305 [295-296]. Hotho 1823, p. 306 [296-297].

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affermato e legittimato, ma non più come assoluto: per questo è necessario il soccombere dell’individuo, rappresentante unilaterale di quello scopo. È chiaro allora come la riconciliazione finale sia, in fondo, ambigua e precaria: non è l’individuo a operarla coscientemente, ma una forza superiore che è al di sopra dell’individualità, e anzi la sopprime. Come abbiamo visto nella Fenomenologia, questa forza che condanna l’individualità all’ «oblio» è «la quiete del tutto entro se stesso, l’unità immota del destino». Con il tramonto nell’oblio dell’individualità portatrice di un’essenza universale, la pretesa manifestazione di questa essenza nelle diverse individualità degli dèi del pantheon finisce per essere messa in ridicolo: «Questo destino porta a compimento lo spopolarsi del cielo, cioè di quella commistione priva di pensiero fra l’individualità e l’essenza […]. La cacciata di simili rappresentazioni prive di essenza, che veniva sollecitata da alcuni filosofi dell’antichità, incomincia dunque già in generale nella tragedia»29. La fede nel destino è una forma solo negativa di riconoscimento, che non è ancora giunta a concepire le azioni come espressione di valori ricostruibili e fondabili riflessivamente, bensì come necessità imperscrutabile rispetto alla quale l’individuo è inconsapevole e incosciente: non è ancora invalso il principio per cui si ha responsabilità solo per ciò che si conosce e si vuole30. L’eroe tragico deve soffrire e perdersi a prescindere dalla propria responsabilità individuale: non conosce positivamente la colpa da cui deriva la sua pena ma, al contrario, comprende solo negativamente – secondo la celebre sentenza di Antigone – di aver sbagliato per il fatto stesso di soffrire31. Questo ci porta direttamente a occuparci del terzo livello della tragedia, quello dello spettatore esterno, cioè del cittadino che assiste alla rappresentazione. La conciliazione nella tragedia porta a una conciliazione attraverso la tragedia (che non coincide però, per Hegel, con la catarsi aristotelica). La sottomissione al destino dell’eroe nella tragedia ha il suo risvolto, al di fuori ma tramite essa, nel riconoscimento, da parte degli spettatori, dell’esistenza di valori che sono sì opposti, ma cui va tributato pari onore perché innervano tutti la vita della polis 32. Nella messa in 29

PhG, p. 396 [485]. Lo stesso Socrate, per aver sollecitato questa necessaria cacciata assecondando però così la dissoluzione dell’eticità greca, fu al tempo stesso per Hegel colpevole e innocente, così come gli Ateniesi che lo condannarono a morte, e «il destino di Socrate è quello della più alta tragedia» (VPhG, p. 382 [405]). 30 Intorno a questo principio si sviluppa il piano, proprio della modernità, della “moralità”, secondo momento della matura filosofia hegeliana del diritto. 31 Cfr. PhG, p. 256 [312] e Hotho 1823, p. 307 [297]. 32 Cfr. C. Menke, Tragödie im Sittlichen. Gerechtigkeit und Freiheit nach Hegel, cit., p. 105.

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scena della propria genesi etica, cui partecipa nella sua (quasi) totalità, la polis vede rafforzati i propri valori e confermati i propri costumi, ma a un livello superiore rispetto a quello dell’eticità immediata33. La tragedia antica è allora prima di tutto una radicale esperienza di partecipazione politica e di comunanza etica34. Attraverso di essa la comunità riconosce e si appropria il diritto-dovere di contribuire con la propria soggettività e capacità valutativa alla fondazione del vivere comune, superando già lo stadio di una eticità immediata e irriflessa. Questa condivisione, radicata ancora nella mitologia e in ultimo nella comune credenza nella universale e irresistibile giustizia del destino, costituisce di fatto, nell’equilibrio e riconoscimento paritario dei valori fondamentali, la polis nella sua unità e l’orientamento etico-politico-religioso dei cittadini. La funzione storica della scultura, paradigma dell’arte classica e corpo ideale del divino, era stata quella di dare forma (umana) al sereno politeismo di memoria omerica. La funzione storica della tragedia, emblema altrettanto valido dell’arte classica, ma forma non più ideale di bellezza, è una funzione di confine. Nel fondare una comunità i cui rapporti sono ben più complessi di quella che il coro sta a rappresentare, essa mostra, prima dei sofisti, prima dei filosofi, quali strade stanno percorrendo le forze che distruggeranno quella comunità. E queste forze si nutrono della tragedia stessa, del suo potenziale riflessivo, dell’inesorabile cacciata degli dèi cui essa trascina35.

III. La tragedia moderna presenta caratteristiche molto diverse. Per introdurle, farò riferimento al celebre discorso di Napoleone con Goethe, che Hegel riprende nella sua filosofia della storia: «Napoleone disse a Goethe che l’interesse della tragedia consiste nel destino e che da noi, scomparso il fato degli antichi, al posto del medesimo può 33

Questo anche da un punto di vista cronologico: l’azione della tragedia si svolge infatti in un tempo precedente rispetto a quello vissuto dagli spettatori. Quella della tragedia è una condizione pre-statale, in cui gli eroi sono portatori di valori e princìpi che impongono o tentano di imporre tramite la propria azione. Gli spettatori vivono invece già in un contesto in cui il piano normativo possiede oggettività, cioè è incarnato non nelle azioni dei singoli, ma nei valori e nelle leggi della comunità. 34 «Andare al teatro è al tempo stesso partecipare al governo» (C. Menke, Tragödie im Sittlichen. Gerechtigkeit und Freiheit nach Hegel, cit., p. 107). 35 Da ricordare a tal proposito come la filosofia hegeliana si faccia per molti versi carico dell’eredità della tragedia (cfr. O. Pöggeler, Hegel und die griechische Tragödie, in Id., Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Freiburg-München, Alber, 1973, p. 102) e mantenga, superandoli nel discorso concettuale, molti tratti di essa, al punto che si è potuto (non senza forzature) caratterizzare la visione hegeliana del mondo sia come “pantragismo” che come “panlogismo”. Su questi temi cfr. J. Hyppolite, Le tragique et le rationnel dans la philosophie de Hegel, in «Hegel-Jahrbuch», 1964.

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subentrare la politica»36. Tralasciando le implicazioni filosofico-storiche e politiche, è facile notare come il venir meno della fede nel fato cancelli, di fatto, ogni interesse sostanziale della tragedia. Infatti era solo la guida di una potenza superiore e misteriosa a poter ristabilire un equilibrio di potenze entrate in conflitto in seguito all’azione e alla decisione umana. Nel momento in cui, invece, è la politica, come forza universale, a governare ogni interstizio delle vicende umane e perfino lo svolgimento della tragedia, è chiaro che quest’ultima non può più trasmettere all’uomo un contenuto superiore. L’eticità moderna è diversa da quella della polis, perché possiede una struttura che è al tempo stesso rigida e particolarizzata. È rigida perché gli ordinamenti legali, le condizioni giuridico-politiche sono, per quanto parzialmente, già date, e quindi refrattarie all’azione di innovazione del singolo37. Al tempo stesso è particolarizzata: la comunità è organizzata in sfere che comunicano inconsciamente, senza che ciascun individuo abbia una visione complessiva. Manca, quindi, un terreno comune, una base etica condivisa, e, infatti, «alla tragedia moderna il coro non si adatta. […] Il coro non si adatta all’intrigo; quando sono in questione interessi particolari, esso perde il suo punto di osservazione»38. La tragedia moderna sta tutta sotto il segno del romantico (nel senso hegeliano del termine): essa non trasmette più alcun contenuto normativo e vincolante, ma è manifestazione delle passioni e degli interessi particolari dei protagonisti (e dell’autore). Così, per esempio, le tragedie shakespeariane mettono in scena caratteri animati da passioni che si sviluppano durante l’azione ed eventualmente distruggono l’individuo: l’amore in Romeo e Giulietta, la gelosia in Otello, il desiderio di potere in Macbeth, la pazzia nel Re Lear etc.39 I caratteri di Shakespeare rappresentano in maniera emblematica l’ultima fase dell’arte romantica, quella del «formalismo della soggettività». Essi sono appunto soggettività formali, casuali, astratte, che non portano sulla scena princìpi superiori, ma solo la loro particolare natura: «Sono caratteri particolari, che si mettono in evidenza per l’astratta fermezza della loro volontà. Un carattere di questo tipo è Macbeth, che, per impadronirsi della corona, compie tutte le cose più orrende». Sono caratteri in sé privi di sostanzialità, di “contenuto” e di volontà, che rappresentano una mera determinatezza formale in modo quasi inconsapevole, come spinti da una necessità superiore (cui però, a differenza di quanto avveniva nella 36

VPhG, p. 393 [414]. Cfr. Hotho 1823, p. 85 [82]. 38 Hotho 1823, p. 303 [298]. 39 Cfr. Kehler 1826, pp. 233-234. 37

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tragedia antica, lo spettatore non crede più): «I caratteri di Shakespeare sono quello che sono; essi si dan da fare, sulla base della loro determinatezza, nelle circostanze che capitano loro. La connessione tra ciò che essi sono e quel che loro capita è indeterminata […]. È ritornato il fato come necessità astratta». In Shakespeare troviamo però anche il modello opposto di soggettività formale, quello dell’anima bella ricca di sostanzialità ma completamente ripiegata sulla propria interiorità, incapace di ogni oggettivazione e facilmente preda di una passione totalizzante cui sacrificare tutto, come Giulietta40. Rappresentativo è anche il caso dei drammi di Schiller: in molti di essi (in particolar modo nei Masnadieri e nel Wallenstein) si mostra come in un contesto sociale già formato, complesso e strutturato da legami normativi oggettivi e preesistenti, il tentativo individuale di modificare l’eticità imponendo altri princìpi non porti, come nella tragedia antica, a una, seppur dolorosa, conciliazione finale e al riconoscimento di nuovi valori, bensì al fallimento del protagonista, che finisce per assumere tratti di eversore e criminale, nonostante in molti casi fosse animato da buone intenzioni41. Una simile conclusione non è un capriccio dell’artista, ma il risultato necessario del tentativo di orientare l’eticità del mondo moderno tramite l’azione dell’individuo eroico. Da notare poi come al fallimento dell’azione eroica individuale corrisponda la generale insufficienza dell’arte come forma spirituale di orientamento dell’azione e fondazione dell’eticità nel mondo moderno42. Solo la tragedia greca, e in generale l’arte classica, è una forma spirituale pienamente adeguata al proprio tempo, perché si basa su un’eticità condivisa che essa è in grado di comunicare immediatamente allo spettatore. Al contrario, il dramma moderno non basta a se stesso: per comprendere le motivazioni del fallimento dell’eroe siamo spinti oltre la forma artistica, a un piano riflessivo 43. La tragedia moderna introduce un elemento di scissione, e non presenta uno spettacolo di conciliazione con il quale ci si possa – tanto eticamente quanto esteticamente – identificare. Ecco perché essa da un lato non fornisce quella pacificazione dell’animo propria della tragedia classica, e dall’altro non è in grado di proporre, quanto meno in via diretta, un modello positivo di eticità e di orientamento dell’azione. La differenza tra

40

Cfr. Hotho 1823, p. 188-189 [194-195]. Cfr. Pfordten, pp. 87-88. 42 Per illustrare più compiutamente questo punto bisognerebbe entrare nella questione della “morte dell’arte”, che però richiederebbe una trattazione a sé. Mi permetto di rimandare, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, al mio Ende der Kunst und Rechtsphilosophie bei Hegel, in «Hegel-Studien», 46, 2012. 43 Cfr. A. Gethmann-Siefert, Einführung in Hegels Ästhetik, München, Fink, 2005, pp. 330 ss. 41

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tragedia classica e moderna è allora espressa nel modo più efficace da due Xenie schilleriane (nn. 325 e 326), da Hegel condensate nella conclusione del suo saggio giovanile sul Wallenstein dello stesso autore: «La nostra tragedia parla all’intelletto, perciò lacera così il cuore / quella [greca] muove all’emozione, perciò placa così!» e «Noi moderni, noi usciamo sconvolti, commossi dalla rappresentazione drammatica / il greco ne saltellava fuori con cuore alleggerito».

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