Da Madrid al Purgatorio, da Cuba all\'eternità. Un dialogo con Carlos Eire

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Opinioni e dibattiti

DA MADRID AL PURGATORIO, DA CUBA ALL’ETERNITÀ. UN DIALOGO CON CARLOS EIRE Pasquale Palmieri

Mi risulta difficile includere Aspettando la neve all’Avana in un genere letterario: non è infatti una biografia, né un romanzo, tantomeno una semplice raccolta di memorie, ma possiede una insolita varietà di caratteristiche1. Leggendo questo libro, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un instancabile flusso di coscienza. A tratti ho fatto fatica a comprendere pienamente i pensieri e gli intenti dell’autore che procedono senza un ordine preciso e sfuggono a qualsiasi tentativo di catalogazione. Tuttavia, pagina dopo pagina, ho capito che quella scrittura istintiva e viscerale, segnata da scatti improvvisi e da rallentamenti altrettanto improvvisi, non è il risultato di una fredda scelta stilistica, ma il frutto di una profonda esigenza interiore. Non ho trovato strategie espositive finalizzate alla costruzione di un testo capace di sfuggire ai canoni e alle convenzioni di un genere letterario ben codificato. Il racconto di Carlos Eire è semplicemente spontaneo e sincero, come la sua volontà di liberarsi dalla rabbia e dal dolore. Con toni sorprendentemente lievi ed elegiaci, la sua scrittura cerca di restituire al lettore i momenti piú significativi di un’infanzia vissuta nella Cuba degli anni Cinquanta, prima sotto il regime di Fulgencio Batista, poi sotto quello di Fidel Castro. Gli episodi piacevoli ripercorsi con vena nostalgica e ironica convivono con quelli traumatici, segnati da violenze e privazioni. I ricordi vengono ricostruiti nell’intreccio tra la storia familiare e le vicende politiche di un intero popolo, ma la descrizione di questa macrostruttura narrativa non rende l’idea della complessità del testo. A un livello piú profondo di lettura si può cogliere infatti il cuore dell’opera, che a mio avviso sta nell’incontro tra il dolente, in-

C. Eire, Waiting for snow in Havana. Confessions of a Cuban boy, New York, Free Press, 2003; in questo intervento farò riferimento esclusivamente all’edizione italiana tradotta da Annalisa Carena: Aspettando la neve all’Avana, Casale Monferrato, Piemme, 2008. Faccio notare che questa versione è priva del sottotitolo presente nell’edizione originale, con il quale si intendeva definire l’opera come un libro di memorie e non come un romanzo. Il dato è ancora piú significativo, in quanto l’autore mi ha chiarito di non essere stato consultato sulla questione. Il titolo dell’edizione italiana è riconducibile unicamente alle scelte dell’editore Piemme.

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92 Pasquale Palmieri genuo, pacato stupore dello sguardo infantile del narratore e le sue consapevolezze adulte, intrise di cultura storica e letteraria. Nato all’Avana il 23 novembre del 1950, Carlos Nieto (questo era il cognome paterno, prima che egli decidesse di adottare quello della madre) abbandonò l’isola di Cuba all’età di 12 anni, per decisione dei suoi genitori, nell’ambito della cosiddetta «operazione Peter Pan», cominciando una nuova vita negli Stati Uniti. Dopo lunghi anni di sacrifici e di privazioni, di pesanti lavori manuali affiancati allo studio, ha intrapreso il mestiere di storico. I suoi interessi sono rivolti prevalentemente alla storia europea, ai rapporti tra religione e politica, al culto delle immagini e alle rappresentazioni della morte nei secoli XVI e XVII. I suoi titoli piú importanti, ben noti agli specialisti del periodo, meno agli storici di altre epoche, sono War against the idols. The reformation of worship from Erasmus to Calvin (1986)2; From Madrid to Purgatory. The art and craft of dying in sixteenth century Spain (1995)3, oltre al recentissimo A very brief history of eternity (2009)4. Waiting for snow in Havana, pubblicato in lingua inglese nel 2003 e tradotto in spagnolo quattro anni piú tardi, ha ricevuto dalle autorità cubane lo stesso trattamento riservato a testi come Le passé d’une illusion di François Furet, A way of hope di Lech Walesa, Sakharov speaks di Andrei Sakharov, Diario de la revoluciòn cubana e Retrato de familia con Fidel di Carlos Franqui, Letters from prison di Adam Michnik, The magic lantern di Timothy Garton Ash, Animal farm e 1984 di George Orwell: è stato messo al bando5. Oggi Carlos Eire insegna storia moderna e storia delle religioni all’Università di Yale, dove ho avuto la possibilità di incontrarlo, di porgli alcune domande, di discutere con lui alcuni passaggi importanti dei suoi libri.

C.M.N. Eire, War against the idols. The reformation of worship from Erasmus to Calvin, Cambridge, Cambridge University Press, 1986. 3 C.M.N. Eire, From Madrid to Purgatory. The art and craft of dying in sixteenth century Spain, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. 4 C. Eire, A very brief history of eternity, Priceton, Princeton University Press, 2009. Carlos Eire è anche coautore, insieme a John Corrigan, Frederick M. Denny e Martin S. Jaffee di Readings in Judaism, Christianity and Islam, Upper Saddle River (NJ), Prentice Hall, 1998. 5 Una lista di testi e autori censurati a Cuba, aggiornata al 24 settembre 2006, è sul famoso portale http://www.semicolonblog.com. Un altro sito frequentatissimo dai bibliofili internauti, http://lotrlibrarian.blogspot.com, in un articolo datato 14 febbraio 2006, propone un elenco di 35 celebri testi, tra i quali sono compresi anche The autobiography of Martin Luther King e Amnesty International Report 1999. Rimane tuttavia difficile comprendere quali testi non siano acquistabili nelle librerie, rinvenibili nelle biblioteche o considerati fuori legge dal governo dell’isola. Carlos Eire ha dichiarato pubblicamente, nel corso del National Book Festival del 2004, che la messa al bando da parte del governo cubano è stato il riconoscimento piú importante ottenuto da Waiting for Snow in Havana. Il discorso a cui faccio riferimento è visibile su http://www.researchchannel.org. 2

93 Un dialogo con Carlos Eire Palmieri: Professor Eire, lei è autore di un testo di memorie che ha avuto un successo enorme, che è stato tradotto in diverse lingue, ricevendo riconoscimenti prestigiosi tra i quali il National Book Award6. Ciò nonostante, in nessuna occasione pubblica ha osato definirsi uno scrittore. Al contrario, davanti a intervistatori che la etichettavano nei modi piú vari (memorialista, autore di best-sellers), ha spesso sottolineato che lei è uno storico, che il suo mestiere è una parte fondamentale della sua identità, che gli stessi ricordi della sua infanzia sono stati scritti «as a historian». Queste dichiarazioni mi hanno molto colpito. Nel mio paese, l’Italia, avviene spesso il contrario. Gli storici che scrivono libri senza note a piè di pagina, quasi a voler rinnegare la loro formazione accademica, amano definirsi nei modi piú diversi: opinionisti, politologi, a volte cronisti o giornalisti. Al contrario, i giornalisti o tutti coloro che si cimentano occasionalmente con la storiografia abbracciano senza remore l’etichetta di storici. Lei avrebbe potuto facilmente continuare, forte della conquistata notorietà, a produrre testi di ampio consumo, ma non lo ha fatto. Per quali ragioni ha difeso in maniera cosí determinata la sua identità di storiografo? Eire: Negli anni che hanno preceduto la pubblicazione del mio unico libro senza note a piè di pagina, nessuno mi aveva mai definito uno scrittore. Io sono uno storico e lo sono stato anche nello scrivere la mia memoria. Ho usato le tecniche che ho imparato da storico, muovendomi avanti e indietro nel tempo, cercando costantemente le connessioni tra i miei ricordi, il mio presente, la mia visione del futuro. Un oracolo, una misteriosa voce interiore, mi ha aiutato a mettere in ordine i diversi momenti della mia narrazione e, passo dopo passo, mi sono reso conto di quello che è realmente accaduto. Ho fatto ricorso a una parte del mio cervello che non avevo mai usato prima. Avevo concepito il libro come un romanzo e come tale lo avevo proposto al mio editore. Per questa ragione mi ero sentito autorizzato a narrare attraverso le immagini, come non mi era mai successo in precedenza. Non ero cosciente fin dall’inizio di lavorare alla scrittura di una memoria. Solo gradualmente mi resi conto che stavo rivedendo alcuni eventi della mia vita come se fossero contenuti in un lungo filmato. A stento riuscivo a trattenere la mia sorpresa. Durante il lavoro di editing – è importante sottolinearlo – i contenuti originali sono stati ridotti di un terzo. Nella maggior parte dei casi si trattava di passaggi del testo in cui la mia indole professorale aveva preso il sopravvento e mi aveva portato a spiegare le mie metafore ai lettori. Ho dovuto uccidere il professore, strangolarlo (sorride), metterlo finalmente a tacere.

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Il testo è stato premiato nel 2003 nella sezione «non fiction».

94 Pasquale Palmieri Palmieri: Proviamo a ragionare per assurdo e andiamo avanti con l’immaginazione di 200 anni: ci troviamo nel 2209 e lei non è Carlos Eire, ma semplicemente uno storico interessato a studiare la rivoluzione cubana. Considererebbe Aspettando la neve all’Avana una fonte primaria o comunque una fonte di importanza prioritaria? Eire: Sí. Penso che abbia il valore di una testimonianza e, in fondo, è quello che desideravo che fosse, fin dai mesi in cui l’ho scritta. Non si tratta assolutamente di fiction, anche se ne possiede alcune caratteristiche. In un certo senso ho usato una strategia gesuitica: informare le persone raccontando una storia appassionante, ma nel mio caso profondamente reale. Non mancano di certo le imprecisioni. I piccoli particolari sono importanti in un grande affresco, ma la ferrea volontà di ricostruire i fatti non mi ha preservato dai tranelli che mi hanno allontanato dalla verità. Ti faccio un esempio: nell’ultima parte del libro racconto dei giorni in cui mio padre portava me e mio fratello in un fantastico parco dove trascorrevamo momenti indimenticabili. In quelle pagine affermo che quel parco era stato costruito dal governo appena insediatosi nel 1959 e che, pertanto, lo ritenevo l’unica opera buona della rivoluzione. Anni dopo compresi che le cose stavano in maniera completamente diversa. Mi trovavo a Miami per una presentazione del libro e tra il pubblico si alzò un uomo, un architetto che aveva lavorato in quel cantiere, e mi disse: «Hai commesso un errore grossolano. La costruzione era cominciata anni prima e, dopo l’avvento di Fidel Castro, fu conclusa in maniera frettolosa. C’erano ancora molte cose da mettere a posto». Quelle parole furono difficili da digerire, ma poi capii che la spiegazione non era cosí semplice, che bisognava guardare a un contesto piú ampio, che il punto di vista che avevo espresso nel libro rispondeva a ragioni complesse e non perdeva la sua validità. Mio padre, tutte le persone che si trovavano con noi quel giorno, io stesso, credevamo fermamente che quel parco fosse stato costruito dal governo, che controllava tutte le fonti di informazione e riusciva in alcuni casi a convincere della bontà del suo operato persino i suoi oppositori. Palmieri: Non credo che in un libro come Aspettando la neve all’Avana ci siano dei brani che possono essere definiti piú importanti di altri: si tratta infatti di un testo in cui il lettore è portato a comprendere a piccoli passi i problemi posti dall’autore. Tuttavia non posso negare che alcuni capitoli hanno avuto per me un significato rivelatore e mi hanno consentito di sciogliere alcuni nodi che mi sembravano decisamente intricati. In certi momenti, pur nell’enorme diversità della mia esperienza personale rispetto a quella narrata da lei, si è messo addirittura in moto un processo di identificazione. Deve sapere che ho vissuto, e vivo tuttora, a Caserta, una piccola città del Sud Italia, dove ogni anno ha luogo a fine luglio una processione in onore di

95 Un dialogo con Carlos Eire sant’Anna molto simile a quella che lei descrive nel suo libro. Da bambino, i miei genitori mi accompagnavano a vederla ed ero profondamente turbato da alcune immagini che mi toglievano il sonno: tanti uomini a piedi scalzi che cercavano di portare sulle spalle quel carro pesantissimo con la statua della santa, la sofferenza e i segni della fatica dipinti nei loro volti, le lacrime di tantissime donne che accompagnavano il corteo, soprattutto le musiche e i ritmi che accompagnavano la lunghissima danza finale, che al mio sguardo ingenuo e catechizzato sembrava oltraggiosa verso un’immagine sacra. Col tempo ho imparato ad affrontare le inquietudini che mi destavano quelle scene, ho cominciato a viverle con distacco. Oggi mi capita ancora di osservarle qualche volta, ma mi rendo conto di farlo unicamente con l’interesse di una persona che intende capire le dinamiche di un rito, le ragioni di una devozione cosí saldamente legata al passato e resistente ai cambiamenti sociali. Le mie paure sono soltanto un ricordo e sono state messe a tacere dal prevalere della razionalità. Ciò nonostante, non posso negare che i miei interessi rivolti allo studio del culto dei santi siano profondamente legati a quelle esperienze. Nel suo libro, al contrario, si comprende chiaramente che lei non ha avuto la stessa possibilità e che, dopo aver abbandonato Cuba, ha continuato a convivere con le immagini che la terrorizzavano da bambino. Nelle sue pagine trovano spazio tutti i sentimenti generati dai diablitos7, dalle statue sanguinanti, dalle icone devote che minacciavano la dannazione eterna. Lei descrive lo sguardo di un aggressore che minacciava di morte tutti i componenti della sua famiglia con queste parole: Avevo già visto occhi come quelli, nei quadri e nelle statue di Gesú Cristo. Li avevo visti anche nei miei sogni. Molto spesso sognavo Gesú che compariva alla finestra della sala da pranzo portando la croce, mentre noi stavamo cenando. Si limitava a guardarmi, con il sangue che gli colava sul viso. E solo io potevo vederlo. Non aveva bisogno di parlare. Sapevo cosa voleva ed ero spaventato a morte8.

7 Eire si sofferma a lungo nel suo testo su diverse immagini riconducibili a una religiosità tipicamente cattolica, ma anche talvolta ai culti praticati nell’ambito della «santería» cubana, come nel caso dei diablitos. Negli ultimi trent’anni, l’argomento ha suscitato enorme interesse presso storici e antropologi. Per quanto riguarda il fenomeno nell’isola di Cuba, mi limito qui a rimandare al testo di D.H. Brown, Santería enthroned. Art, ritual and innovation in an Afro-Cuban religion, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2003; piú in generale si veda G. Brandon, Santería from Africa to the New World, BloomingtonIndianapolis, Indiana University Press, 1997: il testo affronta il problema in una prospettiva di lungo periodo e analizza anche le pratiche religiose di alcune comunità di esuli cubani negli Stati Uniti dopo il 1959. 8 Eire, Aspettando la neve all’Avana, cit., p. 20.

96 Pasquale Palmieri Piú avanti, cercando di dare una spiegazione ad alcuni dei nodi cruciali della sua narrazione, scrive: Non ho avuto l’opportunità di crescere insieme alle cose che mi facevano paura, quindi seguitano a farmi paura, prigioniere come sono dei miei ricordi infantili. Di tanto in tanto, alcune affiorano nei miei sogni. Cose che ho tutti i diritti di temere9.

Esplorando le sue memorie, ritroviamo alcuni cardini dei suoi lavori storiografici: la venerazione dei santi, il culto delle immagini, le ricadute sociopolitiche della credenza nei miracoli e nella vita eterna. Ha mai vissuto, anche solo in determinati momenti, la storia come una terapia di liberazione dal dolore? Ha mai considerato la ricerca storica come un tentativo di distruzione delle sue paure? Eire: Certamente. Fin dai miei esordi negli studi storici ero consapevole che il mio interesse per determinati argomenti era legato alle mie vicende personali. Molti mi chiedevano perché fossi deciso a intraprendere una professione che, come è noto, non è molto remunerativa. Una scelta del genere è ancora piú strana e inusuale per i rifugiati cubani, molti dei quali tentano di recuperare nella loro nuova vita quello che hanno perso in patria. Cercavano in tutti i modi di dissuadermi: «Potresti diventare un avvocato – mi dicevano – o meglio ancora un medico». Non li ho ascoltati perché sapevo di dover prendere un’altra strada e di dover chiedere qualcosa di diverso a me stesso. Il primo argomento che scelsi per la tesi di dottorato fu la distruzione delle immagini sacre nell’ambito della Riforma luterana e calvinista10. Volevo capire cosa era realmente successo in Germania, in Svizzera, in Francia nel XVI secolo. Volevo comprendere il processo attraverso il quale il mondo protestante aveva coltivato e alimentato le sue iniziative iconoclaste. Quelle stesse immagini sacre che finirono nel mirino dei luterani e dei calvinisti, in alcuni casi, mi turbavano e mi turbano ancora oggi. Quando visito i paesi cattolici dell’area mediterranea, mi colpisce profondamente la devozione basata sull’esibizione della sofferenza di Cristo. Ricordo con precisione alcuni episodi significativi. In una piccola chiesa in Corsica fui talmente spaventato dai dipinti e dalle icone esposte, che corsi fuori per cancellare quelle scene dalla mia mente. A Cadice vidi una processione quaresimale ancora piú inquietante: la statua di Cristo che portava la croce sulle spalle aveva la testa coperta di capelli umani e gli occhi di vetro. Non conosco bene le ragioni, ma gli abitanti di quella città sono tutti piuttosto bas-

Ivi, p. 138. Il titolo della tesi di dottorato di Carlos Eire è Idolatry and the Reformation: a study of the Protestant attack on Catholic worship in Germany, Switzerland and France (1500-1580), Yale University, Department of Religious Studies, 1979. 9

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97 Un dialogo con Carlos Eire si di statura e avevo l’impressione che quella tetra immagine camminasse sulle loro teste. Avevo piú di 50 anni, ma l’età e le consapevolezze adulte non riuscivano a cancellare il mio terrore. In fondo tutti gli esseri umani possono avere forti risposte psichiche o emotive verso ciò che non conoscono, ma non era il mio caso perché io sapevo esattamente definire ciò che vedevo e le ragioni per cui ero tanto spaventato: la razionalità non mi aiutava. Non riesco a cambiare questa parte della mia indole e credo di aver espresso nelle memorie le ragioni di questo blocco. Anche i miei lavori sulla percezione della morte nella Spagna di antico regime sono segnati da incroci con le mie esperienze personali. A volte nascono curiose relazioni tra gli storici e le persone che sono oggetto delle loro ricerche. Mi trovavo a Madrid nel 1988 e stavo studiando i testamenti del secolo XVI. A causa della colpevole noncuranza che si era protratta durante il regime di Franco, i documenti versavano in uno stato di completo disordine e abbandono, senza considerare che gli addetti agli archivi erano privi di qualsiasi competenza. Fui costretto quindi a dedicarmi innanzi tutto alla catalogazione e cominciai a stilare una lunga lista con i nomi delle persone decedute seguiti dalla data della morte. Qualche tempo dopo feci un sogno: stavo lavorando alla stessa lista e a un tratto mi fermavo, raggelato, perché il mio nome era lí, su quei fogli, seguito da una data. Mi risvegliai disorientato, impaurito, cercando inutilmente di ricordare i numeri che erano apparsi nitidi davanti ai miei occhi. Quel sogno mi aveva collocato tra individui morti quattro secoli prima che erano definitivamente entrati nella mia vita, erano diventati reali. Non ho piú dimenticato l’episodio perché da quel momento smisi di ignorare la mia mortalità e mutai radicalmente la mia concezione del tempo. Tante cose mi erano sfuggite, forse proprio perché mi sembravano ovvie. Quelle persone non erano diverse da me, molti erano giovani, avevano subito gravi incidenti o avevano patito improvvise malattie. In ogni caso, tutti erano terrorizzati dalla morte e avevano «investito» sull’aldilà. La «brevissima storia dell’eternità» che ho pubblicato recentemente può essere considerata una continuazione della stessa strategia di liberazione dal dolore. Gli stessi interessi che sto coltivando ora, la storia dei santi e dei miracoli, mi dimostrano che le questioni storiche e quelle metafisiche sono ugualmente presenti nei miei pensieri. Da storico, mi rendo perfettamente conto che certe domande sulle ragioni ultime della natura e della vita umana presentano difficoltà insormontabili, ma mi rendo altrettanto conto che sono ineludibili, oggi come in passato. Mi ha colpito molto nell’ultimo periodo la figura di Giuseppe da Copertino, il santo del XVII secolo a cui si attribuiva la capacità di volare. Penso a come sarebbe bello dare una risposta definitiva a tutti i dubbi che si sono avanzati sul suo conto. Mi pare piú che probabile che non la troveremo mai:

98 Pasquale Palmieri non ci sono prove del fatto che quest’uomo volasse, né ci sono prove del contrario. Palmieri: Nel corso dei miei studi sulle fonti agiografiche, ho incontrato in diverse occasioni il fenomeno della levitazione. Non vi ho prestato molta attenzione perché l’ho catalogato come uno stereotipo del genere letterario delle vite dei santi, finalizzato prevalentemente a suscitare lo stupore dei lettori chiamati a prestare la loro devozione ai candidati alla gloria degli altari. Dopo aver ascoltato una sua lezione ho capito che forse avevo peccato di leggerezza. In primo luogo ho ricordato che quegli aspetti della religiosità, che spesso etichettiamo superficialmente come credenze popolari, rispondono in realtà a precisi stimoli riconducibili alle dottrine ufficiali; che anche le argomentazioni maggiormente ricorrenti nella produzione apologetica acquisiscono diversi significati, a seconda dei periodi e dei contesti in cui vengono proposti. Ho cominciato a valutare quindi diversi problemi che mi hanno fatto comprendere la complessità della questione della levitazione, che coinvolgeva aspetti centrali del dibattito teologico e filosofico sul rapporto tra anima e corpo. Nel corso del XVII e del XVIII secolo, ad esempio, le correnti di pensiero aristoteliche, cartesiane, neoscolastiche, sensiste e razionaliste avevano assegnato a questo tema un ruolo prioritario. Eire: Approfondendo lo studio di un personaggio come Giuseppe da Copertino abbiamo l’opportunità di indagare sulla fede e sullo scetticismo, sulla sottilissima linea di demarcazione che separava l’ordinario dallo straordinario, il vero dal falso. Di fronte a fenomeni che vengono ritenuti sovrannaturali, confesso di non avere alcuna certezza, nessuna ragione forte che mi permetta di accettarli o di rifiutarli. A volte mi capita di avere delle esperienze che, secondo il mio punto di vista, oltrepassano la sfera dell’ordinario. Il fatto che buona parte della cultura «alta» abbia sconfessato i miracoli, li abbia qualificati come semplici credenze, non intacca in alcun modo la loro importanza. Non possiamo ignorare che tantissimi hanno continuato a crederci. Palmieri: In un’intervista concessa a Jeffrey Brown, lei ha dichiarato che l’unica nota a piè di pagina di Aspettando la neve all’Avana è la sua memoria11. Tuttavia, non posso fare a meno di vedere nel libro osservazioni e riferimenti che possono provenire solo dalla penna di uno storico. Sembra quasi che ci siano dei fili che legano in maniera stretta le sue memorie alla sua produzione storiografica. Oltre al punto di vista col quale lei guarda alla politica, alla religione, a determinati aspetti delle relazioni sociali, talvolta si ritrovano gli stessi contenuti e persino gli stessi personaggi: Meister Eckhart, Tommaso da 11

L’intervista è consultabile su http://www.pbs.org/newshour.

99 Un dialogo con Carlos Eire Kempis, san Giovanni della Croce, santa Teresa d’Avila. Non pensa che, in senso ampio, queste caratteristiche possano essere considerate come note a piè di pagina? Eire: Certo. Ciò dimostra che questa testimonianza è legata indissolubilmente alla mia vita, al mio mestiere. Non posso fare a meno di pensare da storico perché la storia è una parte del mio universo. Allo stesso tempo, mi rendo conto che molti lettori non possono capire il vero significato e le ragioni di alcune affermazioni, di alcuni riferimenti contenuti nel mio libro. In alcuni casi, ad esempio, lascio intendere il mio scarso apprezzamento per Kant. Gli studiosi conoscono il ruolo centrale che la cultura angloamericana (credo anche quella italiana ed europea) assegna a questo filosofo. Nel corso della mia formazione accademica sono stato costretto a studiare tutte le sue opere e non le ho mai apprezzate realmente, né ho compreso a fondo le ragioni della loro fortuna. Ciò nonostante, se i tuoi interessi sono rivolti alla filosofia o alle religioni, i meccanismi e le correnti dominanti del mondo accademico ti impongono di essere un kantiano. Quando lavoravo all’Università della Virginia ebbi un incidente significativo che vale la pena di essere raccontato. Dovevo leggere e valutare alcuni elaborati di «Theological-Philosophy» e uno studente espresse il desiderio di lavorare su sant’Agostino12. Il mio collega Robert Scharlemann, il responsabile del programma didattico, glielo impedí: il pensiero di sant’Agostino era un argomento da storici, non si trattava di un vero filosofo, non secondo il paradigma kantiano. Palmieri: Le immagini sacre e i loro significati sono uno degli aspetti centrali della sua infanzia ed entrano in quasi tutti i momenti cruciali delle sue memorie. Lei le rappresenta, a mio avviso, in maniera estremamente originale, attraverso una fusione di punti di vista: da un lato quello soggettivo ed emotivo, dall’altro quello altrettanto personale, ma certamente piú razionale, proprio dello storico. Propongo alcuni esempi. Raccontando di una visita al museo dell’Università dell’Avana, lei descrive accuratamente alcune icone tipiche della santería, i «costumi africani esposti in teche di vetro su manichini a grandezza naturale», il vivo spavento del suo sguardo innocente13. La paura fa di nuovo capolino davanti alla gigantesca statua esposta in casa di sua zia Carmela, raffigurante san Lazzaro «appoggiato alle grucce, sfigurato dalla lebbra, con i cani

Preferisco non tradurre i termini «Theological-Philosopy», dato che, come è noto, i dipartimenti di studio delle università americane dedicati a questo ramo delle scienze umane non hanno degli esatti corrispettivi nelle università europee. 13 Eire, Aspettando la neve all’Avana, cit., p. 134. 12

100 Pasquale Palmieri che gli leccavano le piaghe delle gambe»14: tanti devoti consideravano quella dimora un luogo di culto, meta di pellegrinaggi anche per gli afrocubani che ritenevano di venerare una potente «divinità africana sotto spoglie cattoliche»15. Anni dopo – ripercorriamo velocemente alcuni passaggi del testo – l’immagine dello stesso santo ritorna nella casa di una famiglia cubana di Chicago, omaggiata da sigari e bicchieri di rum, «proprio accanto a una linea di treni che non si fermava mai, ai margini di un quartiere degradato, a due isolati dall’azzurro lago Michigan e dai grattacieli dei ricconi [...]». La narrazione si scioglie nel momento in cui lo studioso e lo scrittore, entrambi coinvolti emotivamente nell’argomento che trattano, si incontrano e il primo, da buon professore, spiega ai suoi alunni-lettori: «Dato che tutte le immagini sono collegate al loro prototipo che è in cielo – persino quelle che nascondono divinità africane – quel Lazzaro di Chicago era costantemente sintonizzato con tutti gli altri Lazzari del mondo, e specialmente con tutti i Lazzari di Cuba, compreso quello della bellissima casa di Carmela»16. Le immagini e gli oggetti sacri sono anche indissolubilmente legati alla figura di suo padre, che riteneva di essere la reincarnazione di Luigi XVI ed era un accanito collezionista, tanto da trasformare la sua casa in un santuario in cui ogni rarità meritava una speciale devozione, al pari di una reliquia17. In qualche occasione il piccolo Carlos Eire, tentato dalla volontà di ribellarsi, immagina di diventare un pastore calvinista che accusa il genitore di idolatria e lo rimprovera per il suo attaccamento eccessivo ai falsi simulacri. Nella rappresentazione dello scrittore emerge la consapevolezza che l’intangibilità e la sacralità di quei cimeli suscitavano un fortissimo timore per la punizione eterna, costantemente inculcato anche dagli insegnamenti scolastici. Tra le memorie emerge dunque il linguaggio dello studioso, che sovrappone la sua coscienza razionale al suo ricordo di bambino e costruisce le descrizioni con l’idioma del suo sapere. In tal modo, lo sguardo della madre che lo rimprovera di aver rubato dei soldatini in un «negozio chiamato come la patria di Martin Lutero» diventa come «lo sguardo di Cristo in certe icone bizantine»18. Il sapere storico influenza certamente la visione della realtà. Possiamo dire che influenzi anche i ricordi, o almeno la loro rappresentazione? Eire: Ogni autore ha un numero limitato di riferimenti, anche nella costruzione delle immagini. Nella maggior parte dei casi mi sono appoggiato alla

Ivi, p. 135. Ivi, p. 136. 16 Ivi, p. 137. 17 Ivi, pp. 212-229. 18 Ivi, pp. 156, e 160. 14 15

101 Un dialogo con Carlos Eire mia esperienza professionale, ma talvolta anche le letture di diverso genere sono state importanti fonti di ispirazione. In particolare l’immagine dell’icona bizantina alla quale ti riferisci non è riconducibile alla forma mentis dello storico, ma proviene da un testo narrativo: un racconto breve di Flannery O’ Connor intitolato La schiena di Parker19. Si tratta della storia di un uomo che ha il corpo ricoperto di tatuaggi, sposato con una donna profondamente religiosa che disapprova le sue vanità. Per salvare il suo matrimonio, il protagonista decide di imprimersi sulla schiena, rimasta ancora libera, un’enorme figura di Gesú e O’ Connor si sofferma a tracciarne i particolari. Mentre leggevo quelle pagine capivo che si trattava di un tipico «Cristo Pantocrator» bizantino, con i suoi inconfondibili occhi spalancati. Quando mi trovai a dover descrivere lo sguardo di mia madre che leggeva nel mio atteggiamento colpevole la prova delle mie malefatte, mi tornò chiara in mente quella figura che mi aveva colpito profondamente. Non credo di aver compreso a pieno l’importanza delle immagini, la loro capacità di condizionare il linguaggio e le espressioni, fino a quando non ho cominciato a usarle nella mia scrittura, a costruire un racconto su di esse. Palmieri: Il quindicesimo capitolo di Aspettando la neve all’Avana è dedicato al culto dei morti. Lei ricorda le parole dei suoi parenti, che vale la pena di rileggere: Ascolta, figliolo, quando saremo morti e sepolti, ricordati di portarci dei fiori in tutte le feste comandate. Questo è un elenco delle festività, prendilo, e tienilo sempre accanto alle chiavi della tomba. Bada inoltre che il posto sia sempre pulito. E fa’ dire le messe necessarie, secondo le nostre ultime volontà. Questo è il testamento. Conserva anche questo insieme alle chiavi. E assicurati che le nostre ossa siano spostate dall’ossario dopo qualche anno, per far spazio ai nuovi arrivati... come te.

Poi, quasi a fare eco, arrivavano gli indottrinamenti di suo cugino Fernando: Nella maggior parte delle famiglie, quando compi sedici anni ti danno le chiavi della macchina e ti dicono di andare a divertirti. Nella nostra ti danno le chiavi della tomba al cimitero e ti spiegano come prenderti cura dei morti [...] C’è una cosa che devi imparare, e presto, per non avere brutte sorprese in seguito; alla nostra famiglia interessano solo tre cose: gli antenati, la morte e il buon gusto20.

Vengono passati in rassegna gli argomenti fondamentali di uno dei suoi testi storiografici: la cura delle tombe, gli investimenti nella vita eterna, la rappresentazione della buona morte nella Spagna del Cinquecento. Seguendo il filo dei suoi ricordi sembra quasi che il destino dello storico fosse scritto nelle in19 F. O’ Connor, La schiena di Parker: scritti e racconti, a cura di D. Rondoni e M.S. Falagiani, Milano, Rizzoli, 1999. 20 Eire, Aspettando la neve all’Avana, cit., p. 168.

102 Pasquale Palmieri clinazioni familiari e nei sentimenti del mondo che lo circondava, che il bambino Carlos Eire avesse già mille motivi per mettersi sulla strada che portava «da Madrid al Purgatorio». Eire: Il tema centrale di Aspettando la neve all’Avana, l’infanzia, ha dei significati universali. Forse i lettori hanno potuto rivedere nelle mie pagine i primi anni della loro vita, il periodo che ha formato una parte importante della loro personalità. Durante la scrittura, ho compreso diverse cose su me stesso che non sospettavo di sapere, o di poter ricordare. Dal resto una delle mie ossessioni è esplorare il passato, scoprire ciò che è nascosto. Persino le persone o le esperienze spiacevoli che avevo cercato di seppellire sono venute fuori con prepotenza e non le ho potute fermare, perché in fondo contribuiscono a rappresentare quello che sono oggi. Probabilmente la mia memoria si è messa in moto e ha funzionato piuttosto bene perché la mia infanzia si è interrotta in maniera talmente brusca, che posso dire di conoscere la data della sua fine: il giorno in cui ho lasciato Cuba. Prima mi hai detto che nella tua città puoi osservare con occhi diversi quello che vedevi da bambino. Lo stesso accade a mia moglie che, anche nei momenti piú drammatici della vita della sua famiglia, può tornare a casa e dormire nel suo letto. Nel mio caso, invece, qualsiasi legame è stato spezzato. L’unica connessione resta il ricordo. Palmieri: In From Madrid to Purgatory lei dimostra che la morte, nella Spagna del Cinquecento, non era un’efficace livellatrice, ma una estensione dello status quo, un consolidamento della gerarchia sociale. In alcuni casi si sofferma sull’analisi di episodi specifici comprovando che le attitudini individuali o di piccoli gruppi possono essere considerate rappresentative di comportamenti diffusi. Ritiene, allo stesso modo, che la visione della morte della sua famiglia possa essere considerata rappresentativa di una tendenza piú generale del popolo cubano? Pensa che quei sentimenti cosí lungamente descritti nelle sue memorie fossero il riflesso delle molteplici paure che attraversavano una società soggetta a profondi e continui cambiamenti? Eire: Non credo. I miei parenti erano un’eccezione, anche se certamente il popolo cubano ha delle attitudini nei confronti della morte decisamente piú reverenziali rispetto a quelle del popolo americano. La famiglia di mio padre aveva delle caratteristiche del tutto speciali dovute alla forte influenza della teosofia. La American Theosofical Society inviò delle missioni a Cuba nei primi anni del XX secolo che riscossero un enorme successo, come accadde anche in Brasile. Proprio in quei luoghi il cattolicesimo conviveva con i culti di origine africana diffusissimi tra il popolo, ma la teosofia si inserí in quei contesti raccogliendo molti consensi tra le classi medio-alte.

103 Un dialogo con Carlos Eire La religione di mio padre era una commistione di cattolicesimo, spiritualismo e teosofia, che si traduceva in una ossessione per la comunicazione con i morti. I medium erano spesso ospiti della mia casa e mio fratello partecipò a qualche seduta spiritica. Non ebbi l’onore dell’iniziazione solo perché ero troppo piccolo, ma sapevo quello che accadeva nelle altre stanze ed ero indicibilmente spaventato. In generale è difficilissimo descrivere in un quadro sintetico la religiosità cubana. All’epoca dei miei nonni l’isola era ancora una colonia spagnola. Poi divenne una semicolonia americana e accolse oltre un milione di immigrati provenienti dall’Europa e in prevalenza cattolici, che sconvolsero gli equilibri esistenti. Nel 1959 il 75% della popolazione era composta da bianchi. La cosiddetta santería, pur portando i chiari segni delle origini africane, era strettamente legata al cattolicesimo. La fusione tra le due tradizioni aveva quasi completamente annullato i segni di distinzione. Il san Lazzaro cubano, ad esempio, si sovrapponeva all’immagine di Babalú Ayé; santa Barbara invece veniva identificata con Changò. Palmieri: A differenza degli altri lavori storiografici, il suo ultimo libro, A very brief history of eternity, contiene molti riferimenti alle sue esperienze personali. Questo evidente cambiamento nel metodo storiografico si può attribuire alle «scoperte» sopraggiunte durante la scrittura delle memorie? Eire: Certo. Quel libro ha cambiato tutto. Mi ha fatto comprendere che alcune domande non possono essere escluse dal lavoro accademico, che la storia non deve essere necessariamente presentata in maniera fredda e asettica, ma può convivere con il mondo dell’autore. Attraverso la ricostruzione del passato possiamo suscitare il vivo interesse del pubblico, persino comunicare emozioni o cambiare le opinioni. Ho ricevuto migliaia di mail da tutto il mondo, man mano che venivano pubblicate le diverse traduzioni di Aspettando la neve all’Avana. Molte riguardavano particolari o minuzie, ma molte altre andavano al cuore della questione. Sbagliamo a pensare che i lettori vogliano essere solo intrattenuti. Talvolta vogliono comprendere, capire, essere coinvolti anche nell’indagine su temi storici come la morte, i rituali, i simboli, i miracoli. A volte mi chiedo per quale libro sarei ricordato se morissi oggi. Probabilmente per Aspettando la neve all’Avana, che ha raggiunto un maggior numero di lettori. Ciò non significa che io consideri di meno i miei lavori storiografici. Ieri ho ricevuto una mail di una ragazza cubana che studia all’università di Miami21. Ha 19 anni, come mia figlia, e ha lasciato Cuba all’età di 13 anni. Mi ha ringraziato definendomi il piú cubano dei cubani. Secondo lei 21

La data cui fa riferimento Eire è il 6 dicembre 2009.

104 Pasquale Palmieri avevo reso un servizio importante a un intero popolo, ma specialmente alla sua generazione che è vissuta dopo la caduta dell’Unione Sovietica, vuole una vita migliore e lotta per costruire qualcosa di importante. Per ironia della sorte, lungo tutta la mia vita ho dovuto disperdere la mia identità, ma alla fine sono diventato un cubano di professione. Palmieri: Lei considera War against the idols un tentativo «di raccontare il processo attraverso il quale una teologia diventò un’ideologia sociopolitica, e diede stimolo all’azione, al conflitto e, in alcuni casi, al cambiamento»22, di «analizzare la relazione tra le circostanze e le idee, di provare la dimensione pratica e politica di uno dei concetti centrali della tradizione riformata», il rifiuto del culto delle immagini23. Stando alla tesi centrale del libro, l’attacco contro la pietà cattolica si poté svolgere cosí vigorosamente perché le istanze dei teologi furono affiancate e appoggiate da un universo secolare che intendeva sovvertire un ordine sociale, scompaginando gli ordini e le gerarchie costituite, identificando in ultima analisi i governi con il culto che essi sostenevano. In A very brief history of eternity alcuni temi tornano a essere trattati, ma vengono declinati in maniera diversa, sulla base di piú decisi assunti metodologici. Lei afferma esplicitamente di voler smentire le posizioni secondo le quali «le idee contano poco o nulla nella storia umana, le mentalità, i pensieri e le credenze collettive sono riflessi involontari o epifenomeni passivi, rimasugli, effluvi privi di significato nello scettico contenitore del conflitto di classe, che scivolano nell’irrefrenabile gorgo delle forze naturali, economiche e politiche»24. Tende quindi a sottolineare l’importanza di valutare la relazione dinamica esistente tra credenze e comportamenti senza cedere a tentazioni riduzioniste, tenendo sempre presente che costantemente «i cambiamenti nelle credenze e quelli nella fabbrica della società hanno viaggiato mano nella mano» in una complessa relazione di mutuo interscambio25. Il testo si presenta in definitiva come una storia del modo in cui gli uomini dell’Occidente hanno «tentato di inserirsi nella piú ampia rappresentazione del tutto, di confrontarsi con un formidabile squilibrio concettuale» quale è l’eternità26. L’esperienza di un esule – leggiamo – vissuto in «posti dove il pensiero è scrupolosamente monitorato e il significato di termini-chiave come “dignità” è ingegnosamente manipolato» permette di valutare con occhi diversi «la differenza che possono fare le idee nella società», che le «culture e le

Eire, War against the idols, cit., p. 3. Ivi, p. 4. 24 Eire, A very brief history of eternity, cit., p. 16. 25 Ivi, p. 128. 26 Ivi, p. 17. 22 23

105 Un dialogo con Carlos Eire risposte culturalmente condizionate sono inseparabili, cosí come gli assunti, i concetti e le strutture che governano ogni società»27. Direi che, alla luce del suo ultimo testo, tanti contenuti del primo risultano molto piú chiari nella loro complessità. Eire: Certamente è cosí, ma comprendo anche facilmente le ragioni di questa evoluzione. Quando scrissi War against the idols non potevo assolutamente permettere che la mia esperienza personale entrasse all’interno del testo. Lungo tutto il percorso di ricerca ero perfettamente consapevole dell’operazione che stavo compiendo, ma non si presentava la possibilità di essere espliciti. Negli anni Settanta ci insegnavano che la nostra vita doveva rimanere fuori dai nostri lavori storiografici. I miei insegnanti mi ripetevano: «Non usare mai il pronome personale “io”. Ricorda sempre di essere un autore imparziale, uno scienziato. Per il lettore non esisti. Non sei differente da un paleontologo. Devi cercare di essere come una lente da laboratorio». D’altro canto gli storici che ho maggiormente amato e da cui ho tratto ispirazione, Natalie Zemon Davis, Peter Brown, William Christian, facevano esattamente il contrario e rendevano visibili il loro universo privato, il loro punto di vista, talvolta persino il loro coinvolgimento emotivo nei loro saggi. Palmieri: Intende dire che i loro testi la appassionavano perché le permettevano di connettere gli storici alle loro storie? Eire: Certo. Loro mettevano in atto il mio desiderio di rivelare il mio universo personale. Forse avrei dovuto farlo fin dall’inizio. Magari sarebbe stato interessante capire queste strane combinazioni di identità che si assommano nella mia persona e che sono visibili già dal nome, spagnolo, cubano, con qualcosa di irlandese. Palmieri: Lei ha dichiarato in un’intervista per la televisione pubblica che, avendo vissuto in una rivoluzione, ha deciso di studiare la Riforma protestante che può essere considerata la prima rivoluzione moderna28. In War against the idols sostiene che le rivoluzioni finiscono sempre per negare i loro stessi principi. Sostituito il vecchio sistema con il nuovo, anche gli obiettivi si capovolgono e convertono «il cambiamento in controllo»29. Descrivendo i protestanti come i «nuovi papisti» e Ginevra come la «Roma protestante», accenna ai rivoluzionari del XX secolo che hanno «cacciato i tiranni e hanno imposto la loro tirannia in nome della rivoluzione»30. Ivi, p. 155. L’intervista alla quale faccio riferimento è visibile su http://writetv.okstate.edu. 29 Eire, War against the idols, cit., p. 313. 30 Ibidem. 27 28

106 Pasquale Palmieri Le sue parole nascondevano un riferimento specifico alla rivoluzione cubana? O ritiene che ci siano delle caratteristiche comuni a tutte le rivoluzioni? Eire: Non c’era un riferimento specifico alla rivoluzione cubana. Le mie esperienze personali e le mie letture mi hanno portato, nella stessa misura, a quella conclusione. Dopo tutto ogni rivoluzione deve necessariamente creare un nuovo equilibrio. Il cambiamento non può essere un processo troppo prolungato nel tempo e i suoi protagonisti finiscono per imporre i propri punti di vista, proprio come è accaduto nell’Europa del XVI secolo. Terminate le mie ricerche sulla distruzione delle immagini nel mondo protestante, spostai i miei interessi verso la storia di un paese cattolico perché avevo compreso che le due confessioni si erano plasmate a vicenda. Le loro identità si erano formate e si erano evolute nell’ottica dell’opposizione verso la fede concorrente, sviluppando meccanismi di autorappresentazione basati prevalentemente sui termini della negazione. Da un lato si sottolineava il rifiuto del culto delle immagini, della celebrazione delle messe per espiare i peccati, dell’obbedienza al papa; dall’altro la condanna dell’iconoclasmo, del tradimento dell’insegnamento dei padri della Chiesa. Entrambe le culture, inoltre, erano vissute nella negazione del secolarismo. Nel libro di testo al quale sto lavorando da tempo, riguardante la storia d’Europa nell’età della Riforma, cerco di far emergere questa chiave di lettura: la cristianizzazione e la decristianizzazione sono processi gemellari, del tutto inseparabili. Anche in questo caso mi sembra centrale la dialettica tra identità oppositive. Quando cominciai i miei studi su Teresa d’Avila, uno degli aspetti che mi colpí profondamente era il fatto che fosse ossessionata dai protestanti, nonostante nella Spagna del suo tempo la loro presenza fosse del tutto trascurabile. Erano infatti, piú o meno, 5931. Palmieri: A volte sembra ovvio sottolinearlo, ma una delle sfide piú difficili del mestiere di storico è quella di riuscire a focalizzare l’attenzione sulle esperienze individuali di coloro che ci hanno preceduto senza subire eccessivamente il condizionamento dei modelli culturali attraverso i quali leggiamo il passato. Il rischio evidente è quello di riassorbire i contenuti delle fonti in strutture già confezionate o di includerli con qualche forzatura in determinati schemi interpretativi.

In From Madrid to Purgatory, Carlos Eire ritorna diverse volte sull’ossessione di Teresa d’Avila per il pericolo protestante e sull’accentuazione di questo aspetto operata dagli agiografi. Si vedano in particolare la sezione dedicata alla santa, pp. 371-501, e le conclusioni, pp. 504-507, 515-516.

31

107 Un dialogo con Carlos Eire Le faccio un esempio: quando studio le fonti agiografiche o i diari dei mistici di età moderna, mi rendo conto di avere delle forti tentazioni riduzioniste, probabilmente dovute al mio radicale scetticismo verso qualsiasi fenomeno non immediatamente spiegabile con la razionalità. In altre parole, come del resto fanno tantissimi storici, tendo frequentemente a ricondurre i contenuti di quelle testimonianze alle strategie di promozione di un culto o di un messaggio religioso. In From Madrid to Purgatory lei compie un’operazione diversa e cerca di esplorare l’individualità di Teresa d’Avila, di comprendere i suoi pensieri, senza postulare la dipendenza di questi ultimi dalle molteplici pressioni che si sviluppavano intorno a una donna venerata come santa. Il ruolo ricoperto dalla religiosa nella Spagna del suo tempo è solo una parte di un’analisi complessa basata sui rapporti tra la persona e la collettività. Eire: Soprattutto negli ultimi trent’anni la storia ha concentrato i suoi interessi prevalentemente sul sociale. Gli individui vengono presi in considerazione in primo luogo nella loro dimensione pubblica, nel ruolo che giocano nella comunità. In alcuni casi tendiamo ad accentuare solo alcuni aspetti della nostra analisi, con conseguenze negative soprattutto sui singoli personaggi: finiamo per imprigionarli negli schemi e li rappresentiamo secondo l’orizzonte di aspettative che li circondava. Teresa d’Avila, ad esempio, secondo l’opinione di molti storici, era semplicemente una manipolatrice e l’intera sua vita è stata ridotta a una strategia. Credo invece che le sue pretese e la sua individualità fossero molto piú complesse e, anche per queste ragioni, non è facile dare risposte sulla natura delle sue esperienze. Palmieri: Nelle prime pagine di From Madrid to Purgatory lei afferma di essere stato persuaso a intraprendere ricerche sul tema della morte dall’onestà intellettuale di studiosi come Michel Vovelle o Joachim Whaley, capaci di ammettere che tantissimi problemi legati a questo campo di ricerca rimanevano «indeterminati, oscuri, confusi»32. Per questa ragione era nato il bisogno «di risolvere quello che Vovelle aveva considerato come uno sfortunato divorzio tra lo studio dei problemi infrastrutturali (demografia, economia, strutture sociali) e le sovrastrutture ideologiche (teologia, filosofia, teoria politica)»33. L’onestà intellettuale risiede in ultima analisi nella capacità degli storici di stabilire un dialogo e di influenzarsi reciprocamente. Ritiene che la storiografia americana e quella europea abbiano oggi un proficuo rapporto di interscambio?

32 33

Eire, From Madrid to Purgatory, cit., p. 5. Ivi, p. 6.

108 Pasquale Palmieri Eire: Credo che esista una comunicazione efficace tra le diverse scuole storiografiche. Bisogna considerare tuttavia che viviamo in un periodo di profonde trasformazioni e assistiamo all’avanzata di nuove tendenze. Per questa ragione è arduo dare un giudizio sul quadro generale. Mi piace pensare qualche volta che ci stiamo avviando all’epoca del «post-secolarismo», ma anche questa definizione nasconde delle notevoli difficoltà interpretative. Dovremmo cercare tutti di guardare il passato secondo le sue priorità e i suoi valori, non solo secondo i nostri. Le stesse testimonianze che sono oggetto dei nostri studi non dovrebbero subire delle inutili forzature, ma dovrebbero essere semplicemente considerate per come ci vengono presentate dai protagonisti. Ritorna utile l’esempio di Martin Lutero, e in particolare delle sue tesi riguardanti la salvezza per sola fede. Rischiamo di essere riduttivi se cerchiamo immediatamente di inserire questi messaggi in una strategia sociopolitica, riconducendoli all’intento di sovvertire l’ordine esistente e di fondare una nuova Chiesa. Dovremmo cercare, al contrario, di prendere molto sul serio quello che diceva il monaco agostiniano, considerando innanzi tutto i significati teologico-filosofici dei suoi discorsi. Solo in questo modo possiamo capire meglio la sua individualità e, con essa, tutti gli aspetti del mondo che lo circondava. L’onestà intellettuale degli storici risiede nella capacità di apprezzare la complessità del passato. Se pensiamo alle esperienze di personaggi come Michele Serveto, che era uno scienziato e un teologo, o come Isaac Newton, un professionista della scienza interessato alle profezie e alla Bibbia, comprendiamo da vicino la frequente inefficacia delle schematizzazioni, i pericoli del riduzionismo. Difficilmente ci troviamo di fronte a questioni lineari o facilmente risolvibili. Palmieri: Considerando le attitudini verso la morte e l’aldilà come uno dei piú importanti punti di divergenza tra il mondo cattolico e quello protestante, lei ritiene che il caso della Spagna del XVI secolo, pur essendo rappresentativo di una tendenza ampia nel tempo e nello spazio, sia dotato di specificità non trasferibili ad altri contesti. Dalle attitudini verso la morte, dal culto dei defunti e dagli investimenti sulla vita ultraterrena, dalla letteratura agiografica e dai manuali di devozione emerge infatti una precisa visione della realtà che accomuna l’universo religioso e quello laico: «Il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio erano parte della topografia di quella nazione, allo stesso modo di Madrid, Gibilterra e dei Pirenei»34. Attraverso i paradigmi delle rappresentazioni della buona morte del re Filippo II, della santa Teresa d’Avila – andiamo alla tesi centrale del libro – si comprende meglio la psicologia collettiva di un popolo che, come dimostravano 34

Ibidem.

109 Un dialogo con Carlos Eire i testamenti, investiva una quantità sempre crescente di risorse materiali nella vita dell’oltretomba. I simboli e i rituali che circondavano il monarca e l’eroina della fede erano allo stesso tempo ricomposizioni immaginarie di una società lacerata, riassorbimenti ideali delle imperfezioni della realtà. I processi di legittimazione del potere, resi ancora piú necessari dalla concorrenza dei poteri taumaturgici dei sovrani francesi e inglesi, si accompagnavano alla disintegrazione di un impero che faticava a contenere i nemici esterni e le divisioni interne. Sulla costruzione mimetica di un mondo ultraterreno che imitava una realtà perfettibile si proponevano precisi modelli di comportamento a una società in cui «il conformismo era il supremo valore»35. Il valore dei simboli e dei rituali – lo dico senza il timore di esagerare – sembra uno dei punti di connessione piú forti tra gli Stati assolutistici del passato e gli Stati democratici contemporanei. Eire: Abbiamo meno simboli oggi, ma la loro importanza è ancora enorme. Se ci pensiamo bene anche il denaro è fatto di segni che attribuiscono significati a semplici pezzi di carta che giacciono nei portafogli e nelle banche. I simboli svolgono delle funzioni precise e hanno un’indiscutibile capacità di unire le persone portandole a uniformare i loro comportamenti. Ti faccio un esempio che mi sembra particolarmente significativo: il 12 settembre del 2001 negli Stati Uniti potevi vedere bandiere ovunque. Tutti i miei vicini avevano deciso di esporre la loro bandiera e anche io lo feci. Palmieri: Nella capacità di comunicare a un livello profondo e di annientare il controllo razionale risiedono anche i grandi pericoli della comunicazione simbolica. Quest’ultima infatti può costruire il consenso, orientare o condizionare le scelte della collettività, amplificare le ansie e le paure, stimolare le mobilitazioni, spingere le persone a trasformare il pensiero in azione. Ho letto che in un piccolo comune del Nord Italia, proprio in questi giorni36, i rappresentanti di un partito politico che gode di tantissimi consensi stanno organizzando un inquietante «White Christmas», un Natale senza persone di colore37.

Ivi, p. 525. La data dell’intervista è il 7 dicembre 2009. 37 Sulla incredibile iniziativa degli amministratori della Lega Nord del comune di Coccaglio in provincia di Brescia, spalleggiata anche dai leaders nazionali del partito, si vedano gli articoli di S. De Riccardis, Un bianco Natale senza immigrati. Per le feste il comune caccia i clandestini, in «La Repubblica», 18 novembre 2009, p. 1; Id., Viaggio nel paese di White Christmas. «I nostri figli hanno troppi amici neri», in «La Repubblica», 20 novembre 2009, p. 26; G. Spatola, Africani in piazza, tensione nel paese del «White Christmas», in «Corriere della sera», 23 novembre 2009, p. 15. 35 36

110 Pasquale Palmieri Eire: Il problema piú grande sta forse nel fatto che i simboli comunicano a un livello profondo della psiche che oltrepassa le barriere della razionalità. L’episodio italiano fa riflettere come quello della propaganda per il referendum svizzero che ha prodotto manifesti che rappresentano i minareti come missili nucleari: un tentativo di colpire l’emotività, di andare a scavare nelle paure piú profonde38. Le immagini hanno un ruolo preminente nella comunicazione politica e devono essere guardate con tutta l’attenzione possibile. I regimi totalitari, in verità quelli fascisti piú di quelli comunisti, sono stati impareggiabili fabbricatori e manipolatori di rappresentazioni simboliche. La stessa rivoluzione cubana è vissuta sul potere dei simboli. Per circa quarant’anni, ogni volta che un collega o uno studente cominciava a tessere le lodi di Fidel o di Che Guevara, preferivo tacere senza replicare. Dopo aver scritto Aspettando la neve all’Avana, ho trovato finalmente il coraggio di parlare e di esprimere il mio punto di vista senza remore. Durante un viaggio in Italia, a Venezia, mi trovai di fronte a una scena a mio avviso esilarante, che dimostrava quanto multiforme e incontrollabile potesse essere l’uso delle icone. In un caffè era in vendita del vino in una bottiglia con l’icona di Che Guevara. Proprio accanto c’era la bottiglia di Bob Marley, con il simbolo della pace. Il primo invece non aveva bisogno di altro perché il suo stesso volto esprimeva una quantità sufficiente di significati. A volte tuttavia è difficile comprendere il grado di consapevolezza con cui i simboli vengono proposti o trasformati, anche nelle società democratiche. Il presidente degli Stati Uniti, ad esempio, ha deciso di inchinarsi di fronte all’imperatore del Giappone, mentre poteva benissimo ricorrere a una stretta di mano, come avevano fatto tutti i suoi predecessori39. Il suo comportamento poteva essere interpretato come la volontà di rappresentare un’America che ha rinunciato a essere una superpotenza, o addirittura un’America disposta a inchinarsi a chiunque. In altre occasioni ha preferito non mettere la mano sul cuore durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Mi sono chiesto se fosse cosciente di quello che faceva, dei significati che potevano essere attribuiti ai suoi gesti. Certamente avrebbe potuto evitare molti problemi uniformandosi alle convenzioni. Palmieri: Oggi in Italia la storia ha un fascino editoriale decisamente esiguo. Negli Stati Uniti, invece, gli scaffali delle librerie traboccano di testi di storia. Le immagini dei noti manifesti cui si riferisce Carlos Eire sono visibili nell’articolo In Svizzera è polemica su manifesti di destra contro i minareti, in http://www.diariodelweb.it, e http://www.apcom.net, 7 ottobre 2009. 39 L’episodio dell’inchino di Barack Obama all’imperatore giapponese, che ha suscitato enormi polemiche negli Stati Uniti, non ha ricevuto molta attenzione nella stampa italiana. Alcuni riferimenti si trovano in F. Rampini, L’Obama cinese delude l’America, in «La Repubblica», 19 novembre 2009, p. 19. 38

111 Un dialogo con Carlos Eire Penso sinceramente che queste differenze siano dovute, in alcuni casi, al maggiore potere divulgativo dei testi storiografici americani. Lei cosa ne pensa? Eire: L’Italia, forse piú di ogni altro luogo al mondo, è la registrazione fisica e visibile di un passato lungo 3.000 anni; è un macrocontenitore di fonti nella sua stessa cultura materiale. Non deve disperdere questo dono. Nel nostro paese, invece, la fortuna editoriale della storia dipende in gran parte dalle consistenti vendite di testi biografici. In generale penso che sia necessario promuovere le potenzialità educative di questa disciplina, che è capace di fornire alle persone degli strumenti interpretativi e di permettere loro di osservare diversamente la realtà che li circonda. Il rigore scientifico non deve escludere le esigenze divulgative. Proprio temi come il potere dei simboli, la questione della costruzione delle identità (specie in relazione al problema dell’immigrazione) ci lasciano comprendere il valore centrale dei saperi storici, che devono tener viva la memoria della collettività.

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