Ciantes

June 19, 2017 | Autor: Carla De Benedetti | Categoría: Narrative
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Descripción


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ANTONIO LOTIERZO

La cabbala di Joseph Ciantes, romano e gli agresti



I -Un romano.
Roma, Piramide Cestia. Come era nel 1602? La mente potrebbe correre ad immaginare, ma esiste un'àncora concreta, una rara immagine, che ci sconvolge per la differenza con la contemporaneità. Niente case, aperta campagna, a sinistra un alto Testaccio vuoto ed incombente, a destra la piramide, dietro le mura di S. Paolo. In primo piano, v'era questa campagna ordinata e divisa per lunghi filari d'alberi, coltivata meglio d'un giardino. In basso, la tenuta si protendeva nel Tevere, che era attraversato da due vigili barche, che segnalano i commerci, anche quelli del casato. E' la tenuta familiare di Orazio Ciantes ( che, forse, proveniva dalla Spagna) e Lucrezia de Citara. Lucrezia è davvero una donna di nobiltà antica, perché è una delle tre figlie di Jacobi (Giacomo) de Citara e di Ludovica Albertoni, a sua volta figlia di Lucrezia Tebaldi. (allargare notizie su questa figura!!!!!!) Nel cimitero anacattolico vi sono le tombe di A. Gramsci, Dario Bellezza ed altri intellettuali.
Lucrezia Tebaldi è la terziaria francescana nota sia per le opere di carità e sia perché, in quanto dichiarata beata, venne ritratta in estasi dal Bernini nella splendida statua della chiesa di s. Francesco a Ripa.
Nella tenuta si svolge la vita del senatore romano Horazio, che è affaccendata nell'agricoltura, nel commercio via fiume e nella politica comunale, ordinata e sottoposta al Papa monarca.
La famiglia era allietata da vari figli, Joseph, Ignatius, Laurentius e, crediamo, una o due figlie, che, in quanto donne, spesso non venivano segnate in anagrafe. La vita di Horatio è alla fine: morì il l17 settembre 1603; gli sopravvisse Lucretia de Citara fino al 25 agosto 1625, nobildonna che resse con polso la situazione economica avviata ma sempre in bilico. L'immagine del giardino di casa Ciantes non si ricava dallo sguardo attuale, che è del tutto impedito dal caos cittadino, dalla mole dei palazzi e dalle mura di difesa,che scompaiono nel traffico, che va a diradarsi soltanto se si sale sull'Aventino ed allora lo spettacolo cambia e si fa di molta ampia visione. Altro sguardo sarebbe quello del Piranesi, i cui scuri disegni avviluppano anche questo spazio, presentando i minuscoli uomini che si muovono smarriti ai piedi della piramide che ha a fianco alcune colonne, dalla cui imponente misura possiamo contare l'altezza del sepolcreto, che è più di tre colonne messe l'una sull'altra e dal neo esce la scritta e parte quel sogno d'un mistero ancora non violato che circonda mura e fossati. L'immagine è tratta da un archeologico volume di Athanasius Kirker, l'Oedipus aegyptiacus, titolo di bellezza sincretica, che compara i simboli funebri egiziani con le nostre presenze, legando lo spazio ad una acattolicità, di cui è altro segno l'attuale cimitero, silenzioso e rilassante.
La carta è descritta come "Hortus seu vinea Ill.mae Familiae Ciantes ad radices Montis Testacei Roma Cryptis Aeolys celebris" (1682) orto o vigna, recintata da un corposo muro, che si sviluppa ai piedi del Monte Testaccio, accanto alla celebre Grotta del Vento, riprodotta nel ' Mundus subterraneus', illustrato come in Subtherrean Word da Johnathan Waesberger, stampatore protestante di Amsterdam.
Kirker, gesuita tedesco, è una miniera, vale un museo. E' un rigattiere impenitente e presenta immagini di un Oriente religioso, dall'Egitto alla Cina. Ci fa apparire un'India prodigiosa, dove molti uomini hanno i piedi rivolti all'indietro e dove esistono serpenti che inghiottono cervi e si allontanano nell'oceano verso isole su cui bivaccare. Il materiale, che Kirker rielaborava da lettere che gli spedivano i missionari, è accumulato per la propaganda della Controriforma e mescolato alla rivalutazione religiosa di Ermete Trimegisto, il cui Pymander veniva interpretato come una giustificazione della ricostruzione cattolica. Versione opposta a quella di Giordano Bruno, per cui l'ermetismo si saldava all'aspirazione verso una rigenerazione intellettuale. Nel crogiuolo di Kirker i sapienti si rimescolavano: Platone e Plotino, Alberto Magno e Cusano. Usando l'analogia, il suo studio della natura evidenziava le corrispondenze (ben prima del simbolismo romantico di C. Baudelaire) fra mondo e fenomeni celesti, fra personaggi mitologici e forze dell'universo, fra i dogmi e le virtù etiche, fra la magia e i vizi che disgregavano un mondo tenuto in armoniosa unità dal Dio Buono. Il sole è simile alla Trinità. Il sole è fecondo; emana la luce; possiede virtù del calore; orbene la fecondità rinvia al Padre, la luce è l'intelligenza del Figlio, il calore è lo spirito dell'amore. Ecco una metafora della Trinità. L'interesse di Kirker per la piramide Cestia è tutta contenuta nel suo ricondurre le civiltà pagane alla origine egiziana. Il Museo approntato da Kirker nel Collegio Romano era costituito da due grandi stanzoni, dalle volte a crociera, in cui depositò alcune stele piramidali e reperti sugli scaffali.
Nello spazio naturale, diviso fra vigneto, giardino e porticciolo per mercanzie tiberine, dobbiamo immaginare l'infanzia di Joseph Ciantes e fratelli, la cui vita ordinata rispecchiava l'ordine naturale, vivida espressione della creazione divina. Per cogliere qualche linea della mentalità, si può riferire che una Lucrezia della Citara si rintraccia nella vita di s.Filippo Neri, quale esempio di miracolosa guarigione. Mamma Lucrezia ebbe un fluente flusso di sangue uterino e la flussione si fermò allorché pose sul suo ventre e sulla sua testa un berretto appartenuto a Filippo Neri. Molto altro le carte non dicono né siamo interessati a questo labirinto di vita che è stato sublimato dal Bernini.

II – Studiosa Cupiditas.
Dal contesto sociale, data l'enorme importanza attribuita alla fede, non ci si meraviglierà se la Chiesa romana ed i suoi incarichi e benefici professionali apparissero come un sbocco naturale, in cui si poteva svolgere una carriera sia materialmente, nei molteplici e lauti uffici e sia in una maniera spiritualmente apprezzabile.
Intorno al 1617, ritroviamo l'adolescente Joseph, insieme al fratello Ignazio,nel Convento della Minerva, a studiare per diventare un domenicano, un teologo ed un predicatore. La sua brama di conoscenza venne incanalata nel piano di studi e di vita comunitaria che l'Ordine dei Predicatori della Minerva aveva affinato da secoli. Dopo le preghiere del mattutino, il refettorio accoglieva i monaci bianconeri; il chiostro ne riceveva i brevi intervalli d'ozi, al coperto e nel quadrato con esili colonne di ricurve goticità. Fuori dal secolo si studiava per prepararsi a guidare il secolo. Nella chiesa, dal soffitto che era un azzurro cielo, con stelle dorate, le molte navate accoglievano i grandi esempi che un giovane doveva imitare. Come non rimanere abbacinati e orientati dalla cappella Carafa, dove era un trionfo di s. Domenico, che stava a suo agio fra santi e madonne, collocato in un paradiso di gloria, che s'offriva al giovane che avrebbe seguito gli ammaestramenti della Chiesa romana! E quante riflessioni sulla potenza terrena che garantiva lo studio delle Scritture ed il servizio divino: Rita da Cascia, il Beato Angelico a mani giunte sotto il suo lastrone, i busti che da ogni dove indicavano la vita, il Cristo di Michelangelo di greche proporzioni e bianco risalto. Tutto ispirava purezza, disciplina, serena aderenza alla verità, operosità religiosa ed elitaria identità in un noi che dava forza al singolo io e ne riempiva i calici esistenziali. Dopo le altre materie, Ciantes scoprì di essere interessato alla lingua ebraica (in Hebraica lingua erudite versatus), che prese a coltivare insieme ai più rigorosi studi di teologia e di quella' filosofia perenne' che sapeva unire la ragione con la fede, accordando la conoscenza del pensiero umano con le Verità depositate nelle Sacre Scritture. Qualcosa doveva non andare, era il fine degli studi prospettati, ma i monaci non lo vedevano, legati al concreto del loro unico universo. Non andava il fine degli studi, che era orientato a barricarsi nella verità propria, ad escludere ogni altra ricerca o studio: il fine era rivolto anche a piegare la testardaggine degli ebrei (ad flectendam pervicaciam). La mente di Ciantes veniva programmata per sostenere un prefetto, un predicatore cattolico degli ebrei romani che avrebbe esercitato la sua missione nel ghetto e nella chiesa di S.Angelo in Trastevere. Camminando mugolava spesso il Pange lingua, che lasciava rintronasse nella sua bocca.




III - Haebreorum pervicacia.
L'ossessione della Chiesa cattolica medievale e moderna era l'idea di 'conversione degli Ebrei'. Ciantes è uno dei tanti campioni,'eroi', cattolici che dedicò la sua vita a questa idea, che appare terribile oltre che errata per la nostra visione giuridico-culturale e per la pratica violenta di controllo sociale, aspetti che solo dal 1963 la Chiesa, con episodicità, avvia a superare. Ma l'organizzazione violenta ed acculturatrice avvenne già dal 1278, quando la Chiesa rese ufficiale il suo programma educativo, prima ristretto nelle solo opere dottrinarie. Nicola III , emanando la bolla 'Vineam Soreth' ,invitò i domenicani della Lombardia a procedere nella pratica della predicazione e dell' assimilazione forzata. Ma, dopo il Concilio Trentino, è dal 1577, con Gregorio XIII che venne istituita la Casa-collegio dei Catecumeni e neofiti in Roma,dove si coltivarono predicatori ebraizzanti ed arabizzanti. Nel 1584, su spinta dell'Inquisizione, Gregorio XIII con la bolla (che è un vero programma ideologico) 'Sancta Mater Ecclesia', ordinò che gli Ebrei, dai dodici anni in sù, fossero obbligati ad assistere ai sermoni, sotto pena di interdizione dal commercio con i cristiani o sotto comminazione di prigione o ammende. Nello stesso tempo, era stato creato il ghetto, uno spazio geografico controllato in cui dovevano vivere gli ebrei romani. Si è scritto che era un'espulsione verso l'interno, dentro Roma, un quartierino fra i quartieri. Quanti erano gli Ebrei romani nel 1610? Saranno stati poco più di duemila. E quanti si convertirono nel periodo di J.Ciantes? Fra 1626 e 1640, al massimo, si convertirono al cristianesimo un duecento ebrei. Ma lo sforzo egemonico della Chiesa rimase notevole e costante.
( Io Lotierzo sono qui occupato da J. Ciantes, ma nella ricerca mi vengono incontro altri domenicani che occuparono questo ufficio di Maestro Predicatore degli Ebrei e, fra di loro, stabilirono legami di stima e reciproco sostegno.)
Prima di Ciantes, l'incarico fu ricoperto da Pietro Pichi da Trevi, che dal 1604 l'occupò su nomina di Paolo V e lo tenne fino al 1626. Successore di Ciantes fu, invece, Gregorius de Scharantibus (pseudonimo di Gregorio Boncompagni) che lo tenne dal 1646 al 1683, quattro anni prima di morire e lasciò uno scritto di predicazioni: 'Conciones ad Hebraeos'. Il perugino Pietro Pichi fu un apripista, una testa quadrata, ha lasciato quattro libri di didattica (aggressiva) della conversione: il 'Trattato della passione del Messia contra gli Ebrei' pubblicato nel 1618 a Roma, apud S. Paolino; poi nel 1621 pubblicò un 'De partu Virginis deiparae adversus Iudaeos' ed ancora, nel 1622, una 'Epistola agli Ebrei d'Italia, in Roma, da Facciotto; e infine 'Le stolte dottrine de gli Ebrei con la loro confutazione" che è del 1625, solo un anno prima di lasciare la carica. Era un insegnante metodico questo Pichi, si scriveva i manuali, si preparava le lezioni, strutturava le confutazioni. Fu un precedente d'illustre dottrina cattolica per J.Ciantes. Il volume "Le stolte dottrine…" venne ristampato nel 1640, quale omaggio anche a Ciantes, che ormai era il titolare dell'ufficio di predicatore. La ristampa del libro di Pichi è ,infatti, dedicata a G. D. Nazzaro, il padre Armeno, a J. Ciantes, ed è un lungo elogio, non privo di solidale ipocrisia, che rende bene il costume culturale dell'epoca: "a Giuseppe Ciantes (per il suo) valore singolare, al suo gran grido, nella santa predicazione della vera Fede, e conversione degli Ebrei e altri infedeli". Poi si ricorda che per ben due anni, lo stesso Ciantes utilizzò il libro di Pietro Pichi come manuale per la sua predicazione, infatti " per due anni Lei (Ciantes) si è avvalso della mia opera come di suo istrumento nello spirituale servizio dei suoi Cathecumeni e Neofiti". E prosegue nel definire le loro esistenze, perché questo ufficio venne valutato come "occasione di avanzarsi nel servizio di Santa Chiesa" e venne ristampato in Roma,il 4 aprile 1640, un mese dopo che Ciantes era "avanzato nel servizio", infatti era stato nominato da Urbano VIII Barberini quale vescovo di Marsico, nelle terre salernitane del Principato Citra.
I predicatori cattolici, a loro giustifica, ribadivano di rispondere ad un imperativo evangelico, che fondavano su Luca (14,23): "E il maestro disse al servo:"Vai per le strade e le siepi e fai entrare la gente a forza, affinché la mia casa si riempia" e su Matteo (28,19) "Insegnate a tutte le nazioni,,," e anche in Giovanni (18,20) "Ho insegnato nella sinagoga…". Il comando missionario discendeva dalla credenza per cui: chi detiene la verità (= la Chiesa) deve condividerla con gli altri. Ciantes riteneva di condividere l'impegno degli Apostoli nella predicazione dopo la diaspora. L'avversario erano i giudei, ma vi era un'identificazione alla rovescia . Inoltre i predicatori ripetevano le parole della tradizione:le frasi di Tertulliano e di sant'Agostino infiocchettavano d'autorità gli attacchi agli Ebrei. E infine ci si appellava a s. Paolo, ricordando che i cristiani attendono anche loro, ma non il Messia – che è già venuto bensì la parousìa, il ritorno di Cristo, tempo futuro in cui gli Ebrei si convertiranno. Per evidenza.
Un esempio di ebreo convertito e di successo in Roma fu Giovanni Battista Iona, che dobbiamo ricordare anche perché collaborò molto con Ciantes nell'allestimento della traduzione in ebraico della latina Summa contra Gentiles di Tommaso d'Aquino, che il Ciantes approntò nella maturità e che solo ingiustamente gli viene del tutto attribuita. Nato come Jouah ben Isaac a Safed nel 1588, dopo varie peripezie in Europa, si convertì a Varsavia nel 1625, per poi, dal 1638, trasferirsi a Roma, ospite del Collegio dei Neofiti della Propaganda Fide. A Roma G.B. Iona lavorò sia come maestro-lettore di lingua ebraica e sia nella biblioteca vaticana, iniziando a produrre varie opere, dal 1653. A Iona si deve la traduzione in ebraico del Catechismo di Roberto Bellarmino nel 1658 e del Nuovo Testamento nel 1668. Sono proprio gli anni di J. Ciantes e del suo impegno acculturativo nel correggere gli Ebrei dai loro errori, morali teologici esistenziali. Iona ha lasciato manoscritto un trattato sul nome di Jesus e un dizionario ebraico-caldaico. La sua collaborazione attiva e preparata con Ciantes contribuì certo al successo del domenicano nell'ambiente romano. Altre referenze su Iona si rintracciano nella precisa Enciclopedia giudaica.
Le prediche 'adversus Judaeos' sviluppavano uno schema fisso. Si cominciava dall'esposizione di brani del Vecchio Testamento, incentrati su Mosè e sui profeti e ,in successione, si passava al Vangelo, trattando: dell'Incarnazione del figlio di Dio, come prima verità del cristiano e s'esponeva la vita di Gesù; si presentava il Regno di Dio; si riprendeva la Legge; si criticava la vana attesa ebraica del Messia; l'utopia del ritorno alla Terra promessa; l'edificazione del Tempio; si criticavano le eresie. Tutte le prediche esponevano e confutavano le false interpretazioni delle Scritture. Il tema era: correggersi; decidersi a convertirsi. Ma le haggadah, le narrazioni quasi mai raggiungevano l'effetto, perché la tradizione ebraica era strutturata con ferrea logica e viva con emozione nelle coscienze, tetragona anche perché l'identità è una compagna fedele che rassicura la mente del credente.




IV – Il sogno della cabbalà.

Yohanan Adret scuciva vestiti fuori il suo negozietto, di fronte alla fontana delle tartarughe, che risalivano la strada della fonte sacra, che sta sempre in alto.
Riandava al sogno in cui vertiginosamente era solito riassumere le proprie dottrine.
Fonte che irrora i giardini, a questa sei simile , o fontana, che anche stamani colmi la differenza degli anelli della grande catena dell'essere. Acqua astrale, spirito intermediario, che benedici e purifichi le mie mani prima del cibo che dà forza al mio corpo. Dammi la preghiera che mi faccia compiere l'ascensione celeste di Enoc ,concedimi il ritorno alla condizione di Adamo. Questo sole di Roma, questa città non sia per me che un mezzo per conseguire il tuo amplesso, dammi,o Signore, la forze per unirmi a te. Recito il Pentateuco e ripeto con Deuteronomio, mentre oscillo il capo: ubbidirò ai tuoi comandamenti, amo il nostro Dio, lo servo con tutto il mio cuore e spero di poter raccogliere grano,vino ed olio, come Lui promise. Permettimi, o Signore, di consolidare il mio legame conTe.Io voglio restare unito al Signore che è mio Dio come sono congiunte due palme da datteri. Il mio contatto sarà più stretto del braccialetto che stringe il polso d'una donna. Perciò vieni , o Shekhinah, abita il tuo spirito dentro di me, sommergimi come acqua da sorgente che ora è già ruscello. Congiungo la mia anima all'anima universale e muovo in ascensione verso il Signore. Concedimi questo contratto, dammi la tua devequt con cui colmerò il divario fra il mio modesto spirito umano e la tua deità. Prego con Ezra di Gerona: il giusto eleva la sua anima pura fino alla santa anima superiore e conoscerà le cose future come i profeti. Allora comprenderò in me tutte le cose, quando la mia anima sarà unita con l'anima superiore. Dammi la concentrazione mentale, rendi la mia anima specchio delle Sefiroth con cui mi unisco,concedimi la morte con il tuo bacio, come avvenne a Mosè che crollò come frutto maturo che si distacca dal corpo arboreo. Dammi il bacio che fondi la mia anima con la Tua. Io seguirò i tuoi precetti come fa il giusto che trae diletto solo dal seguire l'unione con la tua mente divina o con il Tetragramma. Dai forza alla recitazione delle mitzwot, rendi Hokhmah la Sapienza la mia sorella e fondi il mio sangue con il suo. Anche qui a Roma noi ebrei rispettiamo i tuoi precetti, perché essi sono le vie per attingere l'unione con Te. Negli anni, i nostri frutti saranno consacrati al Signore. E nel quinto anno,la mia anima s'unirà all'En-Sof, che abbraccia ogni cosa, essendo un'anima universale. E' scritto,infatti, che "Io sono il Signore tuo Dio". Ecco davanti a me appariranno le lettere del nome di Dio. Ecco il Tetragramma, di cui il re Davide disse:mi sta sempre davanti agli occhi. Ecco la mia anima è illuminata; ecco i morti che sono vivi a causa dell'unione col Tetragramma. Ecco la benedizione del sesso, la benedizione del popolo d'Israele che, copulando con la propria moglie, unisce il suo pensiero alle entità superiori. E la luce superiore penetra nella goccia del suo seme e trascina la forza della luce divina verso il basso di questa umana famiglia. Perciò pregherò per ottenere la congiunzione con il nome grande. Annunzierò al mattino il tuo amore e pronunzierò la tua fedeltà durante la notte. I rami tornano ad unirsi alla propria radice, l'orante si congiunge con l'En-Sof. Ascolta Israele:nella recitazione uniamo le Sefirot, indirizziamo il pensiero dentro Keter la Corona, da cui tutte furono emanate. L'anima del Re Messia si unisce all'albero della vita ed egli attuerà il tiqqun, la restaurazione dell'armonia e dei congiungimenti fra le potenze divine e noi uomini. Consentimi di superare il baratro che separa me,miserabile creatura, da Te, Infinito creante. Trasformami, come Enoc, in Metatron. Lega la metà del mio cerchio alla tua metà e stringimi in unione. Allora griderò: "Io, anch'io, sono Lui". Ani ani hu. Così nel cerchio saranno conchiusi i due io, il divino e l'umano. Le due metà riformeranno la radice intera,l'unione, sia benedetta, ci legherà con l'En Sof, dissolvendoci come goccia nel mare. Fa che io diventi acqua di brocca versata nel tuo pozzo, in cui insieme siamo acqua corrente, una sola sostanza. Per questo Enoc è Metatron. E il fuoco divorerà altro fuoco. La nostra anima contemplerà la luce divina, senza perdersi nel suo abisso. Per poter vivere in Te, mortificherò me stesso,seguirò i precetti, diventerò povero che è come essere morto nel mondo.
Passò un macellaio e lo scosse, quello si lamentava, camminando. Adret lo confortò:
" Fai bene. Anche Il Signore versa lacrime per la Distruzione del Tempio". Il macellaio rispose: "Il mio è un pianto di pentimento. Occorre pentirsi se vogliamo che il Messia venga fra di noi".
"Che il tuo pianto si connetta con pianto divino, sia benedetto e ti porti le visioni del Signore", chiuse Adret e se ne rientrò a casa. Il giorno seguente altri sogni popolarono la sua mente, trasportandolo in una dimensione immaginifica, che nascondeva nel suo raccoglimento quotidiano del lavoro di cucito e vendita degli stracci e pezze del suo lavoro.
Le Sacre Scritture somigliano ad una casa dalle cinquanta stanze; davanti ad ogni stanza v' è la chiave ma non è quella giusta e pertanto tutte le chiavi sono confuse.(Origene, Commento al Salmo 1, in Migne,Patrologia Graeca,XII 1080)(Scholem, La kabbala…p.17)
Guidami, o Santo, nel sentiero della contemplazione attiva ma permettimi di restare nella giusta via del tuo timore ed amore incondizionato. Non consentire a questi Cristiani Romani di corrompere il mio cuore e la tradizione del Padri ma, mentre svolgono le loro prediche, lasciami percepire la tua voce, manda Elia a dettarmi i tuoi messaggi. Che io ascolti dalla tua voce. "Io sono il Signore Dio tuo". Aleph. Tu sei la radice. (Scholem,27) Nessuno è degno di entrare in Paradiso, nella zona mistica della devekùt o comunione con Dio, se non ha preso a sazietà pane e carne,se non ha studiato il Talmud, scrisse Maimonide, (Scholem,35) La Kabbalà o Tradizione ci parla delle Sefiròth, della sfera delle emanazioni divine, in cui si squaterna l'energia creativa di Dio. Le Sefiròth sono, per i teologi cristiani, gli attributi di Dio, sono la vita divina che si dirige verso la creazione, si solidifica nella materia. E l'En-Sof è l'infinito, la radice nascosta che si espande nelle emanazioni e si manifesta come Luce. E siano lodati i tuoi Nomi, perché anche in essi manifesti e concentri la tua energia che si rivela in tutti i processi, fino alla natura. E nei Nomi ogni lettera conta, come sa ogni scrivano, a cui il rabbi Akiba comandava d'essere cauto nel suo lavoro, perché se ometteva una lettera o ne scriveva una di troppo rischiava di distruggere il mondo intero. Questa è la magia della Torah, che è un organismo vivente, a cui non si può togliere nemmeno una lettera. (Scholem,51) Nel giorno della creazione, la parola Luce compare cinque volte, così come cinque sono i libri della Torah che sono il nome del Santo, che Egli sia lodato. La Torah è un unico nome sacro, è il nome del Santo. E come ripeteva lo spagnolo Joseph Gikatilla, la Torah non è solo il nome di Dio ma anche la spiegazione di questo nome, è il commento al Tetragramma: JHWL. Io sono sarto e so che il nome di Dio compare nella tessitura della Torah, che è un tessuto di soprannomi o appellativi o kinnuyìm o epiteti come misericordioso, clemente. (Scholem,55-56) Prima che fosse creato il mondo, esistevano solo Dio e il suo nome. Il Santo, che Egli sia lodato, è nel suo nome e il suo nome è in Lui ed il suo nome è la Torah.
(La concezione organicistica della Torah non è solo di Joseph Gikatilla, cabalista della fine del secolo XIII, conoscitore di parti dello Zohar, e neppure solo di Menahem Recanati, vissuto intorno al 1300, ma risaliva a Filone di Alessandria, che nel De vita contemplativa - p.119- presenta la Torah come un essere vivente, dove il senso letterale è corpo e l'anima è il senso segreto che fonda la parola scritta. La Scrittura assomiglia ad un uomo:ha carne, anima (= allegoria) e spirito (=mistero). Ma anche Mosè de Leon, autore del Libro dell'anima razionale (1290) e di quasi tutto lo Zohar, scrisse che la Torah è chiamata l'Albero della Vita, in cui tutto è una sola unità ). (Scholem,60-61)
La Torah venne scritta con fuoco nero su fuoco bianco. La Torah scritta appare nella sefiròt Tifereth come sfera del dono della divinità; la Torah orale esprime la sfera ricettiva della shekhinah e della comunità di Israele. Le interpretazioni del senso della Torah sono diverse, infatti le parole della Torah sono come una noce. La noce ha un guscio esterno ed un frutto interno, un gheriglio protetto anche da una buccia. Così anche la Torah contiene un fatto esterno, un midrash ed un mistero (sod). Per i cabbalisti è quello interno il mistero della fede, che si rivela solo a colui che ama. La parola Pardès (Paradiso), nelle consonanti, contiene questi strati interpretativi:P sta per Peshat o senso letterale; R sta per Remez o allegoria( detto anche midrash); D sta per Derasha o interpretazione talmudica(o senso tropico, sekhel); S sta per Sod, senso mistico. Perciò re Salomone disse, entrando nel paradiso mistico: sono disceso nel noceto (Cantico dei Cantici 6.11). Pardès è anche la Shekhinah in esilio, intesa come l'ultima delle emanazione delle dieci sefiròth. La kabbalà è il senso dell'anagogia, nel quale si interpreta la Scrittura in rapporto con i fini ultimi. Ogni lettera ha settanta volti, settanta aspetti, perché tante erano le nazioni che popolavano la terra, con le loro settanta lingue. Pertanto lo Zohar afferma: "In ogni parola brillano molte luci". (Zohar,III,202a) La parola di Dio è inesauribile, conceda Dio che noi possiamo conoscere almeno un poco di quella ricchezza. La Torah è un pozzo che nessuna brocca (kad) potrà estinguere. Quando Dio disse:"E luce sia", volle dire:"E il mistero sia". Questa è l'inesauribilità della parola divina. Quando il kabbalista medita sulle Scritture ne estrae un raggio di luce della luce inesauribile. In tal modo si comprende come il senso letterale della Torah è oscurità perché fatto di racconti che sono i suoi abiti esteriori, mentre il senso cabalistico e misterioso è lo zohar, è lo splendore racchiuso in ogni riga delle Scritture. Guardate questi miei cenci, voglio dirvi che anche la Torah ha degli abiti: chi rispetta i comandamenti positivi è come uno che rivesta la Shekhinah dei suoi abiti terreni che le consentono di apparire; chi pecca e vive nel male sveste la Schekhinah dei suoi abiti, colorando di nero lutto il suo abbigliamento. Liberiamo la matrona dai vestiti oscuri dell'esilio e rivestiamo la regina di vesti splendenti.
(Sviluppando il pensiero della scuola di Safed nel secolo XVI. Mosè Cordovero rispose a queste due domande: quale era la natura della Torah prima del peccato originale? Quale sarà la sua natura nell'età messianica? Cordovero argomenta presupponendo che all'inizio la Torah fosse composta di lettere divine, espressione della luce divina. Ma negli stadi successivi le lettere si combinarono in modo diverso,subendo un processo di materializzazione. Prima formarono nomi divini; poi attributi e predicati che descrivono il divino;poi si formano parole che si connettono a fatti terreni e ad oggetti materiali. In questo stadio della materia si inserisce il peccato originale, in base al quale le lettere spirituali si trasformarono in lettere materiali, adeguandosi al mondo. Con l'arrivo futuro del Messia si formerà una nuova Torah, perché Dio rivelerà le parti bianche, che ora sono per noi invisibili. Questo rinnovamento corrisponde alla teoria dell' Aevangelium Aeternum che verrà sostenuto da Gioacchino da Fiore, infatti il senso mistico della Scrittura sarà rivelato solo nella futura età dello spirito, quando quello sostituirà il senso letterale del Vangelo (Scholem, La Kabbalà,91-107) )
Mi pongo una domanda: perché noi Ebrei siamo soggetti ad un perenne esilio? Perché Dio ha voluto che venissimo a Roma? Perché ha permesso che gli Spagnoli ci espellessero nel 1492? Perché il demoniaco si ripresenta sempre nel mondo?
( E' fondamentale un paradosso di G. Scholem: lo "gnosticismo, una delle ultime grandi manifestazioni del mito all'interno del pensiero religioso, concepito almeno in parte nella lotta contro gli ebrei che lo avevano superato, ha fornito ai mistici ebrei il loro linguaggio".(Scholem, La Kab.,125) L'ebraismo rabbinico mostrò un'avversione decisa contro il mito. Ma, tuttavia, proprio nel medioevo, attraverso la kabbalà venne introdotta una visione gnostica del mondo, che penetra nel cuore dell'ebraismo ed è evidente nel mondo degli eoni . Per Scholem sia nello Zohar che negli scritti di Isaac Luria molti simboli gnostici diventano operativi nella fede ebraica, superando la precedente accusa di forme eretiche. Con una dose di ambiguità, la Kabbalà costituì una reazione mitica all'interno di un monoteismo che aveva cercato di emanciparsi dal pensiero mitico; i cabalisti agiscono e si ribellano in un mondo che, a livello di coscienza, continuano ad affermare. La kabbalà si propone di descrivere, con un pensiero che rifiuta il mito,un mondo che appartiene al mito. La teosofia, che contempla la vita misteriosa di Dio, ha costruito un mondo di miti. In questo carattere la Kabbalà è affine a processo del misticismo, alla religione di un Jacob Bohme, sostiene Scolma e chissà cosa ne avrebbe pensato un Galvano della Volpe. Il carattere mitico di Dio viene in luce con forza nella teoria delle dieci sefiroth, che esprimono le potenze e le forme di azione del Dio vivente.)
Nella teogonia,Dio esce dalla sua innominabilità segreta e si mostra come creatore. Dio viene ricondotto alle dieci categorie fondamentali che sono le sefiroth. I dieci numeri (il termine viene da safar, contare)sono le forze basilari dell'essere e ad ogni sefirah sono associati vari simboli, archetipi degli esseri. Così è l'albero delle sefiroth, descritto nelle omelie gnostiche dello Zohar e portato a sistema nelle Porte della luce di Joseph Gigatilla. (Scholem, La Kab.,129) Dio non creò dal nulla e neppure dal padroneggiamento del caos originario ma la sua volontà di Re operò tracciando segni nell'aura celeste. Segni nell'aria di Luce che circonda l'En-Sof, l'Infinito, senza inizio ed increata. Uscendo dal suo segreto, Dio si manifestò nell'albero della vita, nella radice di tutte le radici, passò nel tronco e passò nei rami, prolungando la sua forza in sfere sempre più ampie che costituirono l'emanazione delle sefiroth. Dio che si svela diventa l'uomo originario, l'Adam Kadmon.Ed al suo interno separa le forze generatrici maschili e le forze ricettive femminili. Nella nona sefiroth Yesod è descritta la generazione, il processo del sacro connubio, lo hieros gamos delle forze maschili e femminili.
( Il mito più sbalorditivo,per la coscienza ebraica, scrive G: Scholem,(p.133 e s.) appare nella decima sefirah, nell'idea della Shekhinah, in cui è descritta la presenza in Dio di potenze femminili. Mentre nell'ebraismo rabbinico con il termine Shekhinah si intende,letteralmente, il 'domicilio di Dio nel mondo, si intende la sua onnipresenza, lo stare al suo 'cospetto'; nell'uso linguistico della kabbalà si formula la Shekhinah come un'ipostasi distinta in Dio stesso,un aspetto di Dio che è concepito come elemento femminile interno e quasi autonomo. Questo processo era già avviato nella terza sefirah, che rappresentava la potenza demiurgica(Yotser bereshit). Nelle prime sei sefirah si esplica il simbolismo fallico. Dio è giusto, tutela e preserva le forze della generazione e "il giusto è il fondamento del mondo" (Proverbi,10.25) Nella decima sefirah si mostra il femminile come madre, sposa e figlia, che integra il momento maschile. Dio ha relazione con la comunità di Israele; la Schekhinah si presenta,infine, come anima, sede della psiche. L'ebraismo rabbinico, non accettando questa esegesi, ha alterato l'interpretazione di quella femminilità ed ha ridotto la Schekhinah ad innocuo simbolo della provvidenza divina che sorregge la creazione.)
Un altro motivo è l'ambivalenza e l'esilio (galuth) della Skekhinah, che esprimono le sue fasi alterne. Ambivalenza lunare, perché lei assaggia anche l'amaro, fa oscuro il suo volto. Essa è albero della morte separato dall'albero della vita,il tutto in un intreccio complicato di motivi. Se chi segue il Talmud ha questa idea dell'esilio: "In ogni esilio in cui trasse Israele, la Schekhinah fu con loro " va interpretata come presenza di Dio che accompagna sempre Israele nei suoi esili; chi segue la Kabbalah interpreta la frase come: qualcosa che appartiene a Dio è esiliata da Dio stesso. L'esilio della Schekhinah è l'azione distruttiva del peccato umano. Adamo ha lacerato l'unità e separato l'albero della conoscenza dall'albero della vita. L'esilio è simbolo della colpa. Il progetto della redenzione dovrà consistere nella riunificazione di Dio, attraverso cui il maschile e il femminile dovranno ricondursi alla unità originaria. Ogni formula liturgica prevede la recitazione :" ai fini dell'unificazione di Dio e della sua Shekhinah". (Scholem, La Kab.,138) La caduta di Adamo ripete il processo della rottura dei vasi e del precipitare di tutto nel disordine. I vasi delle sefiroth, in cui si sarebbe dovuta depositare l'emanazione, sono rotti e forati. Le scintille della psiche di Adamo si sono sparpagliate in ogni direzione e sono racchiuse sotto i gusci del demoniaco. Ogni peccato ripete il processo demoniaco; ogni buona azione contribuisce alla liberazione dall'esilio ed al ritorno in patria. Si esige, pertanto, l'avvio del processo della restaurazione, del Tikkun. Il rispetto della legge opera la reintegrazione spirituale. Chi agisce secondo la legge della Torah collabora a riportare a casa le scintille cadute della Schekinah. Nel sottoporsi al governo della legge, l'ebreo collabora alla reintegrazione del mondo. Con opera di magia e di efficacia realistica, l'azione umana riscatta il mondo dalla confusione e lo libera dalle potenze demoniache, opera la redenzione che riporta all'esterno della natura la Luce. Quando verrà il Messia, allora questo processo di liberazione e di redenzione sarà completo. Il Messia sarà il garante dell'avvenuta liberazione del mondo dall'esilio, ma l'opera di redenzione non sarà frutto della sua azione ma delle nostre azioni di individui, che, operando secondo la legge, scriviamo la nuova storia. Pertanto chi vive seguendo la Torah vive seguendo il Santo, sia Egli lodato. E' questo il significato della preghiera mattutina della comunità: produrre una purificazione e un perfezionamento con cui si sale dal basso mondo fino a Dio. Questo è il tikkun: la rettifica, la correzione, il perfezionamento, l'organizzazione della vita in maniera che si ricongiungano i cieli e la terra. Il tikkun restaura l'unità dalla molteplicità demoniaca dell'esperienza. Ogni ebreo vive in questa escatologia, in questa tensione che porta la vita a restaurarsi, nell'obbedienza ai 613 comandamenti, che consente di espellere l'"altra parte", la parte maledetta che turberà la divinità con il suo conflitto con il demoniaco, che cesserà solo con l'avvento del Messia.
(In alcune concezioni ebraiche si assiste alla trasformazione in un rito delle azioni di natura profana. Qui sia il mangiare che le relazioni sessuali vengono vissuti come atti che hanno contatto con la sfera sacra. Simile funzione ha il racconto della vita del patriarca Enoch, diffuso dall'ambiente di Izhak di Acco. Il patriarca Enoch era un calzolaio, che, ad ogni punto che dava con la sua lesina, univa sia la tomaia con la suola ma anche congiungeva il mondo di sopra con il mondo di sotto. Mentre lavorava continuava a meditare, per cui le sue azioni profane venivano trasformate in azioni rituali, fino al momento in cui egli stesso venne portato in cielo da Dio e trasformato nell'angelo Metatron. Così avvenne la trasfigurazione sacrale del calzolaio Enoch nell'angelo Metatron,l'uomo superiore. Questo racconto conferma che le nostre azioni profane possono trasformarsi in azioni cosmiche, come ritorno all'uomo cosmico, alla condizione perduta di Adamo.)
(Sono queste concezioni cabalistiche che, diffuse da Safed nel secolo XVI,colpiscono negativamente Ciantes e sulle quali egli dribla veloce, cancellandole nella sua esposizione, come sciocchezze. E le sue elucubrazioni sono tutte verità? Cinquanta giorni dopo la Pasqua, si celebrava la festa delle settimane o Shav'oth, l'alleanza fra Dio e Israele, che era un vero e sacro connubio, un matrimonio fra lo sposo Dio e la vergine Israele. Erano sciocchezze? Anche il Sabato era un rituale con il femminile, infatti la luce del mondo divino irrompe nel mondo profano. Molti dal venerdì sera esclamavano, avvolgendosi nel mantello: Vieni, lascia che andiamo incontro alla regina Sabato. Vieni,o sposa!". Nella notte del sabato il re si unisce con la sposa-Sabato e feconda il campo dei meli sacri; da questa mistica unione nascono le anime dei giusti" (Scholem,La Kab.,179) Ciantes censura del tutto la nona sefiroth, Yesod, il fondamento, in quanto connessa con gli organi sessuali maschili e femminili).
Cantavamo l'inno del banchetto del venerdì sera:
Andiamo al campo /dei pomi sacri. /Apparecchiamo col candelabro/ che splende verso di noi./Giunge la sposa /nei suoi ornamenti festivi./Lo sposo l'abbraccia nel suo corpo/ e ne soddisfa le forze./Arrechiamoci gioia,/ si irradi la luce/ scorrano fiumi di benedizioni./Prepariamo cibi alla sposa/ e pesci fecondi./Su di lei è Dio,/ in lei splendono i mondi./ Scacciate le forze impure,/ i demoni sono in catene./Il tuo corpo congiunto/ sia il cocchio per la Shekhinah." Al risveglio, dalla tavola presi un carciofo freddo e lo mangiai con gusto,forse vi era troppo aglio.
Il giorno dopo, mentre cucivo al sole davanti casa, mi venne in mente un passo di Avraham Abulafia contro i teosofi: non si può pensare alla dottrina delle Sefiroth come attributi divini, perché allora sarebbero assimilabili alla Trinità dei cristiani. La diffusione della Cabbalà cristiana era solo a fini missionari, senza rispetto della ebraicità e con forte mescolamento con il pensiero greco, specie platonico, come fece Pico della Mirandola. Come due palme di datteri. L'ebreo ha il precetto di consolidare l'unione fra lui e Dio: la devequt. Unirsi a Dio, unirsi alla Shekhinah, giungendo alla morte per bacio, al raggiungimento dell'anima superiore, all'En-Sof che abbraccia ogni cosa ed è universale. Se ti rivolgerai verso il Signore, Egli si rivolgerà verso di te. Chi raggiunge la congiunzione, raggiungerà l'equilibrio psichico, che consegue questo equilibrio raggiungerà il segreto della concentrazione e solo allora conseguirà l'unione con lo spirito divino e gli deriverà la profezia e prevederà il futuro.( Yitzhaq da Acco, in Idel, Qabbalah, p. 121) Come l'acqua sale fino alla fonte e si sperde in essa, così il sacerdote, che compie il sacrificio, unisce la sua anima ala superiore e sale in alto. Ma la devequt è anche nell'unione sessuale, infatti nel rapporto sessuale l'uomo può rivolgere la mente alle entità superiori e le trascina in basso, facendo posare la luce sulla goccia di seme, che scenderà verso il basso e questo pensiero è un requisito per la procreazione.(Idel, 125) E questo è il versetto della congiunzione: "Congiungersi con il nome grande". E così i rami sono uniti alla radice. Così le sefiroth dovranno rientrare in Keter, che l'indica l'uno da cui sono emanate. "A Lui ti congiungerai". I due semicerchi della yod portano alla formazione del cerchio divino. E si compirà la restaurazione dell'anthropos superiore. Il tiqqun è questa restaurazione teosofica. Ma per noi Ebrei resta netta la separazione fra l'uomo e Dio, forte il senso della distanza fra Creatore e creatura, un baratro che separa l'Infinito dal mondo. E' questa la trascendenza che può permettere una comunione, ma mai un'unione con Dio. Dapprima le anime sono una parte (heleq), sono mezzi corpi; ma quando l'anima inferiore si uniscxe a Lui, allora le due parti si uniscono e diventano una cosa sola".(Idel,143) L'annichilimento è anche l'unione. E' la dissoluzione della goccia d'acqua nel mare. E'l'acqua di una brocca versata nel pozzo,che diventa una sola entità. Un fuoco che divora un fuoco. Enoc è Metatron. Il ramo è l'En-Sof e la radice è l'En-Sof.
(Per aver usato la similitudine:come goccia d'acqua assorbita dal mare, venne mandata al rogo la mistica cristiana Marguerite Porète) (Idel,148)
Molte confusioni: nella Bibbia Dio trascende l'universo; nei racconti miti, invece, gli dei creatori sono sempre presenti nel cosmo.
Le Sefiroth, per Itzhaq il Cieco, si originano nelle profondità divine. Ma per alcuni ebrei sono essenza divina e parte di Dio; per altri sono solo connesse con Dio e strumenti per la creazione; per altri sono l'elemento della divinità immanente, sono la divina emanazione nella realtà creata. Ma con M.Cordovero le tre interpretazioni furono unificate: le Sefiroth sono da intendere sia come essenze di Dio e sia come recipienti o strumenti di Dio. Ma egli è Uno, come il tizzone ardente alla fiamma. (Idel,250) Ogni separazione esiste solo nel mondo della materia, al di sotto del mondo unificato delle Sefiroth. (Teoria e formula neoplatonica). Nessun mutamento è possibile né in Dio né nelle sefiroth, sostiene con forza Shem Gaon. Va notata una affinità nelle interpretazioni delle sefiroth che danno musulmani , ebrei e cristiani: le sefiroth sono attributi di Dio. Ma i musul mani credono che gli attributi siano solo tre: Scienza, Potenza e Volontà. I cabalisti ritengono che siano molti di più. I cristiani ripongono il numero tre con la Trinità, ma gli ebrei contestano che possa esistere una differenziazione all'interno di Dio e pertanto le sefiroth sono solo attributi delle relazioni che Dio svolge nel mondo.
(Parlando della Trinità non credo che J.Ciantes abbia colto e focalizzata la concezione delle idee intradivine di Tommaso d'Aquino. E' un punto che gli interessa,anche perché segue il Credo del Concilio di Trento e basta. Invece un autore che è stato influenzato dalle idee intradivine di Tommaso fu Daniel Romano.)(Idel,p.545)
Sosteneva Barzilai: tutto venne creato per mezzo delle dieci parole creatrici,le dieci sefiroth, esse sono immanenti in ogni cosa, come il succo del grappolo d'uva.
Dio si espande da alef a yod, dalla prima alla decima sefirah, dal pensiero a giustizia, scriveva Abulafia (Idel,265).
M.Idel (p.274) afferma con sintesi:"Possiamo riassumere la posizione della Qabbalah teosofica come visio rerum omnium in Deo. Dall'altra parte, la Qabbalah estatica si interessa solo ad una visio Dei in omnibus rerum".
Una concezione pessimistica interpreta la storia per gli Ebrei, infatti per i cabbalisti il nostro ciclo storico è retto dalla Sefirah detta Gevurah, che è il giudizio severo, per cui non potrà cambiare la condizione umana.(Idel,276) E tuttavia il pensiero ebraico creò un nuovo mito: il mito della volontà di Dio. In esso, la storia è intesa come rivelazione della volontà dinamica di Dio. E la Torah e l'osservanza dei precetti indicano i criteri con cui si incrementa la donami di Dio. Teurgia dei precetti. (Idel 292)
Non si comprende perché i cristiani non ci lasciano assolvere ai nostri tradizionale precetti. Non comprendiamo perché lo stesso non valga per loro. Per noi Ebrei l'adempimento dei precetti costituisce l'inabitazione della Presenza Divina. Infatti la presenza della Schekhinah è condizionata dalla perfezione religiosa del popolo d'Israele. Un tempo la Shekhinah stava nel Paradiso, ma si allontanò da lì a causa del peccato di Adamo ed a causa dei peccatori successivi iniziò a salire verso il cielo. L'ascesa avvenne in dieci tappe, che corrispondevano ai momenti del suo allontanamento. Gli uomini che rispettano i precetti, con quest'azione teurgica ed efficace, favoriscono il suo ritorno. La discesa della presenza divina venne descritta nel Midrash partendo dalle gesta di Abramo sino a terminare nella costruzione del Tempio di Salomone allorché la Schekhinah tornò ad abitare in questo mondo. Il servizio rituale ed il Tempio avevano la forza di attrarre la Schekhinah nell'edificio sacro. A volte Lei veniva accompagnata dall'Angelo del volto, che, attraverso tecniche magiche promosse dagli uomini, mostrava loro i misteri della sapienza, rivelava i segreti del mondo superiore ed inferiore. Il Tempio assumeva il ruolo di casa della rivelazione, che poteva essere provocata da tecniche magiche. Implorare Dio, attrarre la sua rivelazione. L'uomo, creato ad immagine del Superno, può diventare nel suo corpo una statua vivente in cui inabita la Shekhinah. La funzione delle mitzwot e delle azioni buone consiste nel predisporre la propria anima alla attrazione su di sé dell'influsso della luce dell'emanazione divina. L'uomo deve diventare un trono su cui potrà posarsi il trono superno. Dalla catarsi all'inabitazione, dalla purificazione all'ospitalità delle Sefirot nella carne trasparente. La pronuncia delle combinazioni dei nomi di Dio, con la permutazione di settantadue lettere, costituisce una delle tecniche per attrarre la potenza divina ed unirsi ad essa. (Idel,296) Diventare mistici, farsi uno strumento predisposto alla ricezione della potenza spirituale, scrive Moshe Cordovero, ecco il tzaddiq. (idel,p.297) Quando ci si immerge nel pensiero mistico, allora lo spirito di Dio discenderà su di lui ed aleggerà per tutto il giorno. Lo svolgimento dei rituali era l'attività per sostenere Dio ed anche la pratica per il mantenimento dell'universo. Il rituale crea il benessere cosmico.
( trattato Cordovero Pardes rimmonim correggi!)cfr Idel 423\la cabbala non era più una dottrina esoterica e gli allievi la diffondevano come dottrina etica, rivolta alle masse, dottrina basata però su antichi testi cabalistici)
(per l'abrogazione cristiana dei precetti, cfr Idel 434)



V- Episcopus Marsicensis (1640)
J.Ciantes giunse a Marsiconuovo in piena crisi del Seicento. Forse anche lui, come gli altri, non se ne accorgeva, ma noi ne cogliamo gli elementi strutturali. L''universitas', la comunità dei paganti le tasse, aveva concluso e perso la propria battaglia per vivere in autonomia, per esistere come 'città regia', dal 1554. Aveva perso sulla fiscalità. Per i debiti fiscali accumulati verso il viceré, Marsico era stata messa in vendita ed era stata acquistata dalla famiglia Pignatelli nel 1638, che stava per iniziare ad organizzare la propria signoria (che sarebbe durata fino al 1806). I Pignatelli si stabilirono nel palazzo Barrese Liparuoli, in attesa che venisse edificato il proprio, più a valle. Due anni dopo i Pignatelli,nel 1640, giunge il nuovo vescovo, Joseph Ciantes, romano. Marsico sembra separata in due: la parte alta, impostazione benedettina, è gestita dalla Chiesa, il potere della cattedrale,l' episcopio, il convento dei Francescani, le chiese romaniche; la parte centrale è dominata dal potere feudale, che si esprimeva nel palazzo Pignatelli, luogo di svolgimento anche delle cause civili. La parte più bassa, il Casale, si raggrumava intorno al convento femminile delle Benedettine, che raccoglieva il fiore monacato delle figlie della borghesia valligiana . A fine Settecento, quando una famiglia, i Potenza, sarà al culmine del proprio radicamento, tanto da introdurre il culto di s. Augustale, si ritrova una badessa della loro famiglia; e così occorre pensare per gli altri secoli. Nel Seicento vi dovevano essere state badesse provenienti da Saponara o da Moliterno e, se di Marsico, appartenenti alle famiglia Capano, Barrese,Tafuri, nucleo storico del ceto professionista che viveva utroque, degli affari legati alla gestione del patrimonio ecclesiatico e di quelli civili. Tutto intorno era la turma agraestium,il corpo sociale dei contadini, degli artigiani e dei pastori, i lavoratori manuali che smuovevano l'economia dei cereali, dei latticini,degli armenti e maiali, del vino e dell'olio. E questa turma, questo assembramento di corpi neri intabarrati, che secoli dopo C. Levi dipinse anche con facce malariche, dovette accogliere il vescovo Ciantes all'ingresso del paese ed accompagnarlo su in cattedrale per il Te Deum di insediamento. Tutto intorno,nel profumo d'incenso, gli si strinse il ceto degli ecclesiastici, ora lividi e guardinghi ora curvi e proni, pedine d'un ingranaggio funzionale che prevedeva l'arciprete, il cantore e i parroci con i diaconi. Mi fa piacere pensare che Ciantes assunse il controllo della diocesi il 24 aprile, quando da tutti i paesi venivano ad ossequiare il vescovo ordinario e tutti si dovevano mostrare obbedienti e sottomessi. Sono sempre le strette colonne latine in cui è stampato l'Ughelli a riassumere l'attività d'un vescovo. Ciantes non viveva la carica vescovile solo come un servizio alla Chiesa ma anche come un beneficio economico per sé, in quanto gli consentiva di vivere. Ma forse le aspettative dovettero andare deluse, per la rendita che non raggiungeva i settecento ducati annui oppure per lo stato dei luoghi e dei costumi, che l'allontanarono dalla Roma barocca e fervente d'incontri ed accademie. Certo l'Ughelli scrive che ' collapsam disciplina Cleri restituit suavi prudentia', che è formula agiografica per quella prudenza dolce che è tecnica d'esercizio del potere ecclesiastico ma che doveva esser altrettanto una fermezza costante, se voleva raggiungere l'obiettivo di restituire una disciplina per un clero che appariva sempre ingovernabile, sfaldato, impastato di passionalità rurali. E sono questi i lucani, le figure che dovremmo conoscere meglio per comprendere lo stato della socialità e religiosità lucana. E che il lettore curioso potrà trovare descritte in tanti altri libri dedicati alle diocesi di questo tempo storico, perché il comparativismo aiuta a risolvere molti dilemmi, insieme a fonti come le rivele del catasto onciario, che è successivo al 1736. Anche la cattedrale," amplia ma fredda", ricevette le attenzioni restauratrici di Ciantes, ma forse è esagerato quel 'vetustate fatiscens pane a fundamentis exaedificavit', perché non credo che il vescovo precedente, Timoteo Caselli, napoletano , avesse lasciato deperire questo ed altri beni ed immobili. Il Caselli è seppellito a Napoli, nella chiesa della Sanità, dove una vasta lapide ricorda e porge encomio alle sue azioni, fra cui quella di aver portato delle reliquie dalle catacombe della Sanità in Marsico. Si può credere all'Ughelli, e ad una lapide, sulle azioni per cui 'sacra spellectili locupletavit', sull'abbellimento di arredi, ma le opere edilizie del Ciantes, forse, andarono soltanto ad una sistemazione della sacrestia ed ad un ampliamento del coro. Dobbiamo al Ciantes un'attenzione per l'ordinamento dell'archivio, nel quale andavano a conservarsi tutti i contratti giuridici,i prestiti, i censi ed i fitti, nonché le nomine degli ecclesiastici e l'assegnazione dei benefici. Un archivio ordinato consentiva di elaborare un bilancio finanziario veritiero e di controllare gli incassi. Ciantes, che spesso è definito un 'doctus episcopus', non poteva non curare anche il miglioramento della formazione del clero, per cui grande impegno profuse per istituire il 'seminarium clericorum', collocato in un'ala del suo episcopio, con la sala studio, il refettorio, il dormitorio. I seminaristi oscillarono sempre, da sei a venticinque, tutti paganti ed espressione della borghesia locale. Tre preti furono nominati maestri. Nel 1643 organizzò un Sinodo, che, stampato in Roma, trattò degli argomenti voluti dal Concilio. Poco sappiamo, al contrario, delle sue relazioni con il potere temporale, con i Pignatelli; spesso il principe si assentava nelle solenni occasioni, per non mostrare un ossequio nei confronti del vescovo. I due poteri sembrano separati e procedenti per proprio conto, anche se, nell'ambito della struttura feudale, essi costituivano un blocco di potere economico-giuridico-culturale, che bene venne definito come 'ancien régime'.
Uno sguardo diverso sulla vita nella diocesi della Val d'Agri si estrae dal vivido quadro che emerge dalle carte che riguardano la lite fra il vescovo di Marsico e gli arcipreti di Saponara, lite svoltasi nel Tribunale della Sacra Rota e che portò anche Ciantes più volte in Roma. Qui l'Ughelli sintetizza le azioni giuridiche nella frase : Ciantes 'restituit potestati Marsicensis', affermò il principio della primazia del vescovo di Marsico sulla Chiesa Collegiata di Saponara. Ughelli qui riporta il punto di vista della Chiesa romana, narra della volontà e delle azioni messe in campo da Ciantes, ma la realtà storica appare più complessa e fallimentare per la politica egemonica romana, possiamo ricavarla dal manoscritto di Niccolò Ramaglia, che , nel 1736, raccolse la diatriba delle resistenze particolaristiche nelle sue "Memorie Grumentine Saponariensi" (stampato nel 2005 da Vincenzo Falasca).
Il testo, che raggiunge le trecento pagine, rappresenta una summa di storia antiquaria, che fece esplodere lo storico Giacomo Racioppi nel giudizio negativo, espresso fra 1879 e 1881, per cui l'autore sarebbe uno che "raccatta tutte le fiabe che la grama erudizione indigena ebbe inventate nei secoli XVI e XVII", giudizio, tuttavia, attenuato successivamente in un:"raccoglie copia di documenti e di notizie che alla storia della sua patria riescono di prezioso interesse". Insomma Racioppi riconosce che uno storico, dell'età positivistica e no, può ricavare e ritrovare fra quelle fiabe e quella grama erudizione anche dei documenti e delle notizie che risultano una spia efficace per la ricostruzione di una storia sociale e di mentalità. Infatti, il nostro Ciantes urtò contro un modo di intendere il potere in periferia, si scontrò contro il muro delle 'non lodabili consuetudini' ma pur sempre tradizioni vive e difese con le unghie, e constatò la testardaggine, pervicace ed ottusa, con cui gli uomini di chiesa di Grumento difendevano il diritto al potere ecclesiastico nel loro territorio. Si dirà che è una storia di localismi, di frazionamento feudale delle istituzioni e, certo, che è anche testimonianza delle aspre lotte interne alla chiesa cattolica, anche qui priva di discussioni teologiche o attinenti la pietà ed il servizio divino. La storia della' Collegiata insigne di Saponara' diventa anche storia del litigio giurisdizionale tra la chiesa saponarese e la chiesa marsicana, che esplode dopo il medioevo e solo nel Cinquecento, con la tridentina residenza dei vescovi, ma va a rifondare le lodabili ( o non) consuetudini, nate in secoli anteriori, fin dal 1095. Giovanni Ferrara, membro della collegiata, venne eletto dai sacerdoti di Saponara, nel 1530, alla funzione di "arciprete". Ma quando questa nomina venne comunicata al vescovo di Marsico, per la sola e solita ratifica , il vescovo Ottaviano Caracciolo non volle ratificarla ma l'annullò, in punta di diritto, come atto improprio ed illegittimo, in quanto la nomina dell'arciprete, per lui, doveva essere effettuata dal vescovo ( e non dal capitolo). Da qui ebbe origine il ricorso del clero saponarese alla Sacra Rota e s'avviarono quelle cause che durarono fino al Settecento e si conclusero, di fatto, solo con l'arrivo dei Napoleonidi, con l'abolizione del sistema feudale e con l'avvio della storia nuova dell'età borghese, ratificata nella legge italiana del 1867,che liquidò anche le Collegiate. Ma la stessa diocesi era stata abolita e fusa nella riforma del 1818. Intanto, nel 1640, Ciantes, si trovava, per suo malgrado, nel fuoco della controversia, consumò tante energie e visse la sconfitta come un insuccesso giuridico personale mentre era espressione del proverbiale 'il paese è dei paesani', dell'irredimibile anarchia della lucanità, che vuole decidere sempre lo svolgimento della vita nei propri territori.
Nella lite i Grumentini sostenevano che fin dal 1095, col vescovo Gisulfo si era trovato un accordo, "per vivere quieto e senza litigio, e per non fare innovazione", nella quale intesa il vescovo di Marsico concesse :
a) una bolla di Collegialità per la Chiesa grumentina, che consisteva nella facoltà del Collegio di ' eligere' il suo Arciprete, che poi il Vescovo doveva solo ratificare .
b) confermò la giurisdizione che l'Arciprete esercitava nel paese ( territorio 'nullius', extradiocesi, come Tramutola, nascosta sotto il manto dei Benedettini di Cava), obbligandolo solo all'atto, pubblico e formale, di riverenza e di obbedienza che tutti i sacerdoti della diocesi andavano ad esprimere al Vescovo nella festività di S. Giorgio, il 23 aprile, nella cattedrale di Marsico (completata da Arrigo nel 1131).
c) Poiché di economia qui si tratta e non solo di precedenze e privilegi, va ricordato che la Collegiata si impegnava a versare al Vescovo solo la quarta delle decime e dei funerali e nessun'altra imposizione.
d) L'Arciprete permaneva nel diritto di giurisdizione, vale a dire di amministrare la giustizia sopra i 'sudditi' di Saponara.
Ogni qual volta un Vescovo ( nel 1330, nel 1368, nel 1407) tentò di imporre nuove tasse e 'pesi a suo capriccio', i Grumentini si appellavano all'arcivescovo di Salerno, spesso del casato dei Sanseverino, che reggeva il loro paese. Un periodo di pace si registrò fra 1466 e 1572, in cui i rescritti delle vecchie pergamene furono rispettati. Concluso il Concilio di Trento, il clima storico cambiò ( s'avviava anche lo 'stato moderno', con la sua centralizzazione del potere) e venne avviata la riorganizzazione delle strutture ecclesiastiche con l'egemonia del vescovo residente, per cui, specie dopo il 1572, iniziarono i " fieri imbarazzi " e le battaglie legali, fino alla "totale abbiezione" sette-ottocentesca. A noi può sembrare eccessivo e pletorico, ma il clero presente in Saponara aveva questi numeri: il Capitolo della Collegiata insigne della Chiesa di s. Antonino constava di un numero fisso di 21 sacerdoti, vale a dire: l'Arciprete, 12 canonici (ornati d'almuzio di color violetto e fodera d'armosino cremisi) ed 8 partecipanti. Resta da determinare la rendita che sosteneva tanti professionisti della fede.
Il Ramaglia riporta anche i "sinodi della Collegiata" (celebrati da Niccolò Malerba nel 1426; da Giovanni B. Gerbasio nel 1443; da Pietro Palazzo nel 1455; da Tommaso Malerba nel 1484; da Pietro Palazzo nel 1507) da cui ricaviamo per il nostro racconto solo le indicazioni sulla vita quotidiana e gli atteggiamenti di mentalità.
(1426) Si aderisce e custodisce la fede santa cattolica ed apostolica. Se qualcuno scrivesse qualcosa che devia dalla fede cattolica o dia scandalo, venga denunciato. Sia punito il prete che non rispetti gli obblighi, scritti in tabella, del suo ufficio, dalla cura delle anime all'assistenza ai malati e moribondi, all'obbligo di predicare la dottrina. La perizia nel canto è non solo necessaria ma decente negli ecclesiastici. Le promozioni ai sacri ordini avverranno con decisioni di tutto il Collegio. I preti non vestano abiti indecenti; non si mascheri; non faccia l'istrione; non frequenti le cantine né gli opifici; non custodisca animali né ne faccia commercio; non si mescoli in altri comportamenti vili e turpi; non esca di notte;non porti con sé delle armi;non tenga una concubina in casa. Va rilevato che, con nostra grande perturbazione d'animo, molti uomini della nostra plebe sono così dissoluti che, quando lavorano nelle vigne e nei campi, verso le donne che si trovino a passare, rivolgono loro richiami bestiali, fino a nitrire imitando i cavalli ed a proferire parole erotiche, con detrimento dell'onestà e corruzione dei costumi. Queste persone vanno scomunicate e non assolte in confessione, se non si sono sottoposti a pubblica penitenza. Nessuno lavori la domenica; non eserciti attività servili, non commercio; non atti giudiziari. Nessuno possegga né legga libri venali e proibiti. Nessuna donna eserciti l'ostetricia se prima non sia stata esaminata da noi circa il battesimo e non abbia ricevuto approvazione scritta. Alle monache spetta la santità, per cui evitino le cure secolari, i vizi ed i colloqui superflui.
(1443) Nessun ecclesiastico presuma di poter ascoltare le confessioni sacramentali dei fedeli se non sia stato prima approvato dall'arciprete. Nessun sacerdote possa prestare assistenza ai contraenti senza la nostra licenza. E' proibito alle sante monache, nella clausura del monastero e in ogni altra occasione, partecipare a festeggiamenti, guidare le voci del coro o ,peggio, cantare cantilene profane e la Badessa potrà privarle dell'ufficio e scomunicarle con immediatezza.
(1455) Nessun ecclesiastico presuma di poter coabitare con donne, oltre il terzo grado di parentela. In modo simile è proibito tenere una donna estranea in casa, anche se come serva e se d'età inferiore ai cinquanta e sia di vita proba e si ottenga la nostra licenza scritta. E' proibito a tutti presumere di poter cantare cantilene sotto le finestre delle sante monache. Similmente è proibito, in qualsiasi occasione, osare condurre canti nell'atrio del monastero, fare tripudi oppure rappresentare altra azione oscena teatrale.
(1484) Nessun ecclesiastico abbia commercio con donne sotto qualsivoglia pretesto e nessuno eserciti l'arte della venefica e superstiziosa divinazione, pena l'inflizione di scomunica e altre colpe. E' punita la pratica delle bestemmie, in special modo del nome di Dio e della Madre gloriosa e degli altri santi. Se qualcuno sarà noto come pubblico bestemmiatore, lo si indichi alla Curia, che lo scomunicherà. Nessuno potrà essere promosso ai sacri ordini se non avrà titoli e patrimonio sufficiente, patrimonio reale e non presunto, affinché non venga spinto a mendicare con disdecore per l'ordine. Gli assegnatari d'un beneficio, le confraternite e i membri del Collegio capitolare abbiano cura del patrimonio delle Chiese, delle cappelle e degli ospedali. I beneficiati custodiscano i beni ed i diritti e non si sottraggano al culto, alle celebrazioni, ai sacrifici ed alle processioni ed altri doveri. E ci tengano per tutte le cose e non siano negligenti in alcuna. Quando il Prelato celebra in maniera pontificale, tutti i fratelli anziani, i canonici , i presbiteri e i chierici assistano, aspettando la sacra benedizione. E nell'altare in cui l'arciprete ha celebrato pontificalmente conviene che per quel giorno nessun altro suddito celebri né vesta quegli stessi panni. Le monache non accettino né offrano alcun dono senza il permesso dell'Abatessa. Le ostetriche non si sostituiscano, con superstizione, nel rito del battesimo. Tutti siano obbligati a comunicarsi nella solennità di Pasqua o entro il mese successivo. La Comunità dei laici non osi, sotto qualsiasi pretesto, di imporre tasse o obbligazioni sulle persone ecclesiastiche o sui beni ecclesiastici, sotto pena di scomunica inflitta dai governatori e interdetto da parte dell'Università. Chi è tenuto al pagamento delle decime, sia reali che personali, provveda al versamento al procuratore del Capitolo durante il mese di ottobre. ( Jugum Domini portate et accipietis requiem animis vestris, conclude il T. Malerba, invitando a pagare le tasse)
(1507) Nessun ecclesiastico può sottrarsi o allontanarsi dal servizio né può vagare a sua volontà per luoghi diversi, né può uscire fuori dal paese o pernottare altrove, senza i consenso dei confratelli e senza contravvenire ai decreti dei nostri predecessori. Dalla fondazione e da tempo immemorabile, dodici presbiteri anziani sono chiamati canonici e a loro spetta il posto nel coro ed una porzione della rendita, in ordine, né è consentito ammettere altri né accettarli, sotto pena decisa dall'Arciprete e, come si auspica, sotto appello alla Sede Apostolica. Nessuno può essere ammesso ad un titolo della collegiata o ai sacri ordini , anche come cantore, se non ha compiuto un trienni di servizio, come d'uso, con le chiavi nell'ufficio della sacrestia. Nessun ecclesiastico è tenuto a comparire nei tribunali laici per querela criminale o per comparizione in processi civili, né subisca interrogatori senza la nostra licenza. I capitolo ed i fratelli non esigano nulla per la sepoltura dei defunti, ad eccezione delle elemosine consuete per pia consuetudine dei fedeli e si versi la somma a favore della sacrestia. Nessun laico osi, nei giorni festivi, di condurre dei cori, di svolgere azioni teatrali, di rappresentare favole e neppure ardisca di camminare mascherato per il paese. (Qui vult ad vitam ingredi servet mandata, conclude il Palazzo).
Le liti giurisdizionali fra il vescovo di Marsico e il Collegio di Saponara ripresero e si acuirono dopo la conclusione del Concilio di Trento, quando il vescovo fiorentino Marzio de Marzi Medici, fra il 1565 ed il 1572, volle processare l'arciprete Ettore Giliberti per usurpata giurisdizione, in quanto esercitava le funzioni di ordinario in Saponara. Morto Marzio M. nel 1573 mentre si trovava a Venezia, ed eletto vescovo suo nipote Angelo Marzio M., la lite venne affidata ad Ascanio Parisi, presbitero di Moliterno, che nel 1578 pronunziò sentenza di assoluzione per Giliberti, volendo riconfermare (come "da tempo immemorabile") che la Chiesa di s. Antonino era Collegiata, che l'elezione del suo Arciprete competeva al Collegio e che il vescovo avrebbe dovuto soltanto confermare questa decisione;che la giurisdizione riguardava l'esercizio delle cause civili e matrimoniali,criminali e miste; che spettava all'arciprete formare ed emettere delle costituzioni sinodali. Ma diventato egli stesso vescovo di Marsico, dal 1601 al 1614, Ascanio Parise capovolse l'impostazione verso la collegiata e ricominciò le liti, pretendendo di avocare a sé ogni giurisdizione e, come scrive il Ramaglia, lo fece " non per zelo dell'onor di Dio … ma per avidità di maggior lucro e guadagno". Era questo dunque il problema? Lucro e guadagno. Desiderio del vescovo di incrementare le scarse rendite. Dal 1614 al 1639 il clima non si rasserenò, sotto il vescovato di Timoteo Caselli, domenicano della Sanità in Napoli, dove v'è una grande lapide, che ricorda il trasferimento di reliquie catacombali in Marsico. Il Caselli nominò un proprio Vicario foraneo e da lui fece affiggere dei cedoloni di scomunica verso l'arciprete Bernardino Cioffi saponarense. Il Cioffi osò lacerare i cedoloni e distruggere anche la patente del Vicario, sostenendo che solo lui fosse l'Ordinario di Saponara. Il Caselli procedette a querela contro Cioffi, ma perse il processo svolto nella Sacra Rota, che sentenziò a favore dell'arciprete. Anni dopo,verso il 1630, il vescovo Caselli mandò degli editti nei quali chiedeva di voler esaminare i confessori ed approvarne l'ufficio e chiese di visitare la Chiesa di s. Antonino. Ma l'arciprete rispose che era pronto a riceverlo se fosse venuto come vescovo viciniore o come delegato apostolico, ma quando Caselli gli rispose che veniva come suo vescovo, allora l'arciprete Cioffi rifiutò l'assenso alla visita e " si oppose alle di lui sfrenate voglie e mal guidate resoluzioni". E qui il Ramaglia prosegue in maniera colorita, affermando che il Caselli, non potendo eseguire la visita, se ne tornò "con scherno e vituperio e rossore…, molto corrucciato, e mordendosi le dita" , lanciando un interdetto generale contro l'Arciprete e il popolo. A sua volta, il borioso Cioffi, stringendo anche alleanza con il cardinale Lucio Sanseverino, fratello del conte del paese, riottenne l'uso dei Pontificali vescovili e, inorgogliendosi del suo stato autonomo e particolaristico, reclamò per sé anche il godimento del beneficio della Mensa e della chiesa di s. Laverio. Ci chiediamo: tanta acrimonia, ma a quanto ammontava la rendita? O erano lotte di mantenimento di un arcaico potere ma per quattro denari? Uno stesso rifiuto di poter esercitare la visita e l'ordinazione di sacerdoti si vide presentare Geronimo, vescovo di Potenza , nel 1638, che rispose comminando una scomunica. In questo clima di puntigli, di animo vendicativo e non caritatevole (scrive sconvolto il Ramaglia) giunse, nel 1640, la nomina del domenicano J. Ciantes in queste terre, che terrà in cura fino al 1656. Ciantes iniziò a riprendere la sfida con l'arciprete G. Fr. Danio ed infatti, il 10 luglio, gli fece notificare un editto sull'approvazione dei confessori, che trovò altri ostacoli. Sembra che J. Ciantes tramasse in Roma servendosi del sostegno di Donna Olimpia Pamphili, cognata del Papa Innocenzo X, e che riuscisse ad ottenere un responso, nel 1647, della Sacra Rota che intimava all'arciprete di rispettare le decisioni ("Stetur in decisis"). Ciantes viene accusato di aver vinto la causa sulla giurisdizione per essere riuscito a corrompere i potenti burocrati romani. La Chiesa di Saponare venne ridimensionata con la bolla della S. Sede del 1662). Sembrava la fine della Collegiata di S. Antonino. Il Ramaglia congeda il Ciantes con questo ritratto critico:" Il Vescovo Ciantes, guidato dalla sua grande ambizione di maggior potenza, con la speranza di sua protettrice (D. Olimpia Pamphili), pensando di passare ad altra chiesa più pingue, rinuncò a quella di Marsico e frattanto infermatosi Innocenzo X e passato da questa vita, cessarono le protezioni, finirono i suoi avanzi, e da camaleonte che succhiava l'aere della speranza diventò semplice topo mal veduto e quasi incognito ecclesiastico. Camminando molte volte per quella città (di Roma), incontratosi col nostro arciprete Danio, sempre ripeteva questo motto:" né io, né voi", volendo intendere al governo della nostra Collegiata, per cui tanto contrasto passato havea." Qui il Ramaglia scrive un bozzetto da romanzo ma ignora ed inventa le reali motivazioni della rinunzia di Ciantes , motivazioni che attengono in misura maggiore al suo desiderio di procedere con velocità agli studi ebraici ed alle traduzioni per le conversioni, ossessione della sua vita e tipo di studi che gli consentivano una reputazione fra i dotti e le accademie romane in cui si frammischiava. Anche questa questione medievale e strutturata nell'antico regime, si scioglierà con il 1818, con la fine dichiarata della diocesi di Marsico, con le riforme napoleoniche e gli effetti culturali del movimento illuministico che, avviando il mondo nuovo della borghesia, dissolveranno le funzioni della Chiesa , dei patrimoni ecclesiastici e delle parrocchie.
( Come il cane Bendicò, il vecchio apparato dell'antico regime si trasformò in un nugolo di polvere, schiacciato sull'asfalto della storia.)
L'azione complessiva del vescovato di Ciantes si può inscrivere nel modello tridentino dell'ufficio del vescovo: migliorare la pastorale, elevare la cultura e la vita dei sacerdoti,controllare meglio le rendite, istituire i seminari, risistemare gli archivi, arricchire gli arredi sacri e ristrutturare la cattedrale, erigere i monti frumentari quali strumenti per il piccolo prestito agricolo e sostegno per le comunità. Il vescovo è un organizzatore, un architetto della vita morale della comunità, che egli modella la società in esecuzione rigida della tradizione chiesastica. Il vescovo è un obbediente che struttura l'altrui obbedienza, perché nulla possa deviare dalla maggiore gloria di Dio, che è la gloria della sua Chiesa. Ogni vescovo si sporca del fango della storia fra cui opera, le sue vesti sono intrise del male della storia, ma, quando egli si mostra in pubblico, ricopre tutto con i paramenti sacri e con la predicazione che, come un'ideologia, nascondono il ribollire del fuoco delle coscienze e purificano i detriti dell'umanità.



V- Fra la rivolta del 1647 e i Pignatelli.
La crisi sociale del Seicento si manifestò nella violenza degli anni della rivolta del 1647-48. Rivolta contro la tassazione eccessiva; rivolta contro il 'malgoverno' ma non contro la monarchia; rivolta d'un ceto forense e borghese che si tenne al battesimo della politica, intesa come sfida al potere feudale e ricerca d'una alleanza con la monarchia al fine di iniziare ad incrinare quel legame di sfruttamento dei sottoposti che era il regime feudale-ecclesiastico. I borghesi, spesso del ceto giuridico, guidavano le rivendicazioni delle comunità, delle università, che gestivano in quanto sindaci. Non bisogna immaginare che fossero particolarmente cattivi i due feudatari coinvolti nella valle: il principe Caracciolo che dominava fra Buccino, Atena e Marsicovetere ed era governatore del Principato, ed il signore di Marsico, Pignatelli. Ma quando la gente non ne può più allora esige una trasformazione, specie della struttura dei bilanci comunali, connessa con l'esazione delle tasse. I borghesi chiedono: perché i feudatari non pagano da anni la loro quota di bonatenenza o di fiscali? Perché non restituiscono delle entrate che hanno usurpato dalla comunità, come la portolania? Perché pretendono la riscossione su beni fittati quando questi erano in origine di tutti? Perché sfondano i pascoli portando i propri animali nelle zone demaniali? Perché si sono impossessati di aree demaniali coltivate da contadini e da cui pretendono un'imposizione, come il terraggio? Il viceré spagnolo duca d'Arcos, già da metà settembre, sembrò accogliere queste richieste popolari, in un tentativo di alleggerimento della pressione fiscale, che, strutturalmente, gravava sui ceti popolari. L'eterna e nefasta politica europea vide, anche in quella occasione, ripresentarsi l'offerta della Francia, che prometteva un sostegno, interessato, ai rivoltosi. L'agitazione della città di Napoli serpeggiò e si estese a Salerno e si propagò nelle terre interne della Basilicata.Se a Salerno agiva Ippolito da Pastena, a Polla ed Atena giunse Vincenzo da Pastena spingendo alle armi, avviando collegamenti con l'avvocato lucano Mattia Cristiano che fra gennaio e marzo dominò fra Salerno e Matera, conquistando la Basilicata al partito filo francese del Guisa.
Ma dall'aprile del 1648 il governo del viceré spagnolo si ristabilì in Napoli, dopo che fu chiaro che la Francia e la flotta minacciante si ritiravano senza altre decisioni e la rivolta rientrava divenendo un'occasione mancata, una manifestazione di immaturità sociale nelle trasformazioni. Non siamo in Olanda, non siamo in Inghilterra, la maturazione borghese richiederà altri tempi e contesti. Tuttavia è dal 1648 che le menti degli intellettuali colsero come le rivolte nascano dall'unione fra il peso del fisco (gabelle ed imposte) e dalle vessazioni dei feudatari sulla gente del popolo, verso cui i potenti si prendevano troppo libertà arbitrarie ed il tutto con grave rischio per lo stesso potere del Re, che rischiava di perdere il proprio dominio. In questi "tumulti" la Chiesa sembra non rientrarci, una tradizione paternalistica ce le presenta sempre come "succurre miseris" ma tale visione è vera solo in parte. I sacerdoti della Chiesa erano, nello stesso tempo, i parenti delle famiglie borghesi, in cui vivevano, per le quali gestivano affari, come l'assegnazione di un buon terreno ecclesiastico, oppure l'erogazione di un prestito fornito da un censo ecclesiastico, oppure la compartecipazione a società di scopo per la commercializzazione d'animali o di beni. La Chiesa è immersa nei legami feudali, la chiesa come organizzazione economico-sociale è legata, in maniera per lei pericolosa, ad una struttura che s'avvia a scricchiolare, prima nei trattati giuridici del giusnaturalismo e poi nell'azione politica dei ceti emergenti, che pretendevano uno stato attento al benessere dei sudditi, perciò favorevole al commercio ed alla fisiocrazia. Nasceva il tema della ricchezza delle nazioni e la lotta al parassitismo sociale, nasceva la razionalità economica al servizio del progresso ordinato della nazione.



VI–Epistola Pestis (1656) .
Io medico di Sala, Diego Gatta, chiamato più volte a consulto nella vicina città di Marsico, mi recai a dorso di cavallo, scavalcando le irte ma brevi montagne che ci separano. Sappiate che invisibile arrivò la peste nei paesi interni ed inattesa, perché si pensava che la salubrità dell'aria potesse uccidere ogni germe. La peste giungeva dalle coste, dai commerci via mare, infieriva da maggio in Napoli, a giugno lì mieteva vittime a centinaia, dopo che era discesa da una nave, forse spagnola o proveniente dalla Sardegna. In queste nostre colline appenniniche giunse dopo oltre sessanta giorni, viaggiando sui corpi dei commercianti, o sugli animali trasportatori o sulle merci che s'acquistavano. L'aria, raffinata e pulita, di cui si gloriavano queste colline, s'era trasformata in un veicolo di febbri e di morte, anche per la mancanza di pioggia, la sìccita (come pronunziavano in dialetto, con ricalco latino). Dopo il suo passaggio,la peste ha cambiato i paesi, più di tutto; ne ha ridisegnato le famiglie, ha consegnando tutti i patrimoni ai sopravvissuti, che non furono sempre i migliori; la peste ha distrutto alcuni ceppi familiari che dominavano i paesi da secoli ed ha portato parvenus sulla scena sociale, con un'interna rabbia contro gli altri e l'impossessamento da faccia di corna di tutti i beni rimasti vuoti di cittadini. Così si trasformò questa borghesia dei due secoli successivi: i terreni cambiarono proprietari, le gualchiere e i mulini furono gestiti da nuovi padroni, i commerci vennero a muoversi con facce diverse, che ambivano a stabilizzare, con le professioni dei figli, la posizione consolidata dall'occasione pestifera. A Brienza, ad esempio, la peste s'era portato via l'unico erede del feudo dei Caracciolo, che ora chissà a chi sarebbe passato. Intanto il vescovo Ciantes era già dalla primavera a Roma, dimissionario e libero da cure pastorali e nulla si curò dei suoi pievani, ormai ex della sua vita passata. Ma la peste infieriva con certo grado anche a Roma e Ciantes se ne stette rintanato nel chiuso convento della Minerva, a rimodellare le sue traduzioni in ebraico del sommo scolastico, davanti alla cui immagine, ogni giorno, si inginocchiava in meditazione, di fronte ai quadri esaltanti di Filippino Lippi, dove Tommaso appariva vivo e circonfuso nella gloria divina della Madonna e adorato dai principi della terra. Anche Donna Olimpia Pamphili era appena morta appestata, scompigliando il suo cenacolo e le sue trame del potere romano. Quando giunsi a Marsico, per incontrare il collega Angelo, trovai che nel paesino, d'impianto salernitano, le case erano chiuse e barricate. Mi dicono che il grosso della morìa avvenne fra settembre ed ottobre;le decine di morti al giorno resero tutto precario, traviarono i tradizionali costumi e incattivirono le persone. Certa gente attribuisce la peste ad un castigo divino per la cattiveria della gente! Altri hanno pensato che il 1656 sia stato l'anno che richiamava il diluvio universale. I proprietari conservatori hanno sostenuto che Dio ci voleva punire per la rivolta politica del 1647! Marsico è una sede di passaggio, unisce i due valli, porta dalla Basilicata interna alla via Regia per Salerno, perciò è più esposta a tali contagi e fu molto colpita tanto che restò "esausta di gente e sterile", come diceva il vescovo Falvo, che poi ancora scrisse al papa: "Populo diminuite nimis fuit ex illo contaggio 1656 aperta, et edificiis diruta, cuius omnes pauepertate premuntur". La peste va a spegnersi a fine gennaio 1657, ma intanto nella diocesi valligiana dovevano essere morti circa 2750 persone in tre mesi. Come ha anche scritto l'altro vescovo, Angelo Pinerio, nel suo inventario dei beni della diocesi, la rendita della mensa del vescovo era precipitata: da 1200 ducati annui non se ne ricavavano più di 600 ducati ed anche dal mulino che prima rendeva da solo per 100 tomoli di grano ora se ne ottenevano soltanto 60 tomoli. Molte funzioni e chiese erano senza preti, i sopravvissuti erano abbastanza rudi ma buoni per costumi ("presbiteri rudes, bonis tamen moribus"). Devono darsi da fare, tutti. Ma la ripresa richiederà più d'un decennio. Anche più figli bisogna fare e che tutti si sposino, altrimenti poveri terreni e animali che nessuno potrà più curare.

VII. Trinuni.
In Roma,nel 1668, venne stampato presso il Varese, in lingua, il 'discorso' sulla 'Santissima Trinità' di Gioseffo Ciantes,vescovo di Marsico e dedicato al maestro del Palazzo Apostolico Giacinto Libelli. Ecco quanto sostiene Ciantes.
Schernendosi e sostenendo d'aver obbedito a chi d'autorità glielo chiedeva, sostiene d'aver scritto questo trattato sul mistero della SS. Trinità, nel quale intendeva convincere gli Ebrei che siamo obbligati a credere nell'Unità e nella Trinità di Dio e proprio per ossequio delle loro tradizioni, a cui sembrano molto attaccati. Il trattato illustrerà la verità come massimo bene dell'intelletto ed oggetto di piacere, risultando dilettevole per i letterati. La verità sarà estratta dal pozzo dove gli Ebrei l'hanno seppellita e sarà illuminata per tutti e comunicata con i suoi argomenti. Gli Ebrei, al di sopra degli Angeli, pongono un altro ordine di intelligenze spirituali, che chiamano Sefirot, che significa chiarezza, splendore, denotando la perfezione semplice del loro essere . Le Sefirot sono i primi enti che Dio causò dal non-essere ed al di sopra di esse vi è solo Dio, prima causa e chiamata dagli Ebrei En-Sof. En-Sof, cioè Infinito ed unico. Le Sefirot sono dieci Intelligenze," i primi e più perfetti enti, che habbia causati Iddio dal non essere, e condotti all'essere". E, come insegnarono i Santi Profeti, nella infinita essenza e Divina Sostanza vi sono Tre Cose, che dichiarano con nomi e attributi essenziali. "E perché questa Dottrina Rabbinica mirabilmente serve per confermare la verità della Santissima Trinità, è necessario di riferirla distintamente". I Rabbini chiamano queste Tre gran Cose coi nomi di :Luce Eccelse, Luce Intrinseche e Luci Esistenti. Ma al fine di non permettere la moltiplicazione della Deità, essi aggiungono alla Trinità l'Unità. E questo è lo stesso credo dei Cristiani, il supremo mistero dell'Unità e della Trinità di Dio. E' questo " un Arcano fra i più grandi che io abbia avvertito nella lettura dei libri loro". Quali sono gli antichi Rabbini che hanno credute Tre Cose in Dio? Il primo è (Moisé) Cordovero, " il quale distingue queste Luci in Tre, e le chiama Tre occulti esistenti in Dio e distinti dalle Creature", come scrisse nel Pardes Rimmonim.
Il secondo è Hai Gaon, soprannominato Luce di Sapienza, che scrisse: "Ora dichiarerò a voi le Tre Luci Eccelse, che sono sopra le dieci Intelligenze e dai nostri Vecchi Santi abbiamo ricevuto i nomi loro: Luce Intrinseca Antica; Luce Clarificata; Luce Chiara. Queste Tre Luci sono nell'Infinito. Questi Tre nomi sono nella Radice di tutte le Radici. E dalla Luce Antica si protrae il pensiero Mondo ( che è la prima Sefirot), così come sono protratti i pensieri del cuore; dalla Luce clarificata e dalla Luce chiara, come da due Fonti, si protrae il Madah ( o Scienza) e il Sechel ( o Intelletto), e, per mezzo di queste, le fiamme Spirituali ricevono l'essere, l'una nell'altra e con l'altra". Le fiamme Spirituali sono le altre sette Intelligenze, che in tutto costituiscono le dieci Sefirot.
In modo simile, un terzo rabbino, Chamai Aron, spiega che quei tre nomi significano un Soggetto, e sono nella Radice di tutte le Radici.
Quarto rabbino fu Simeone di Iocai che spiega : " In Dio, prima è la Luce Antica, e dopo la Luce Chiara, accompagnate dal loro segno che è Chamets, ma nel Cheter è prima la Luce Chiara di quella Chiarificata, e lo prova con la similitudine del sigillo, in cui, con diverso ordine, stanno le figure di quello che sta nella materia, dove esso s'imprime". Simeone di IOcai spiega il simbolo ternario, i " Tre Iodim (che ) sono i Tre Occulti nel Cheter con i tre Capi dei Capi, che sono nella sostanza della Radice, che sono il punto IOD, che esso parimenti forma tre punti IODIM, per significare la manifestazione dei Tre Occulti, che stanno nell'Infinito sopra i Tre, che stanno nel Cheter".
Tesi che sono riassunte nel quinto rabbino, Mair Aben Gabbai: " Ed ecco gli Occulti, sono inclusi nel numero Ternario, e sono chiamati Luce Antica, Luce Clarificata, Luce Chiara, conforme alla tradizione di R. Simeone figlio di Iocai, nel suo libro dei Teccunim, l'istessa è la tradizione di R. Hai Gaon, che questi Tre Lumi sono sopra le dieci Intelligenze o Sefirot, e così del pari si ritrovano in R. Chamai Gaom."
Un sesto rabbino è Ieudà Chaiat, che così si esprime: "Abbiamo ancora inteso che l'Azilut cammina a Tre a Tre, di Tre in Tre, e questo per motivo che nasce da quelle Tre gocciole, che stanno nell'Infinito".
Giungendo ad una conclusione, Ciantes, che dichiara d'aver riportato questa disputa solo per "la spirituale utilità", afferma che pertanto per gli Antichi Ebrei, prima che fosse creato il mondo, in Dio esistevano tre Luci occulte ed eccelse, nome che i Cristiani hanno chiamato Trinità, Luce Beata, Luce di Luce. E che costituiscono le tre cause di tutti gli altri principi. Noi (scrive Ciantes) seguendo il rigore filosofico e della Scolastica, diciamo agli Ebrei che hanno errato nel modo di parlare, perchè quelle Luci sono le Tre Persone di un unico Principio. "Tre Gocciole, Tre Iodim, Tre Capi dei Capi".
Gli Antichi Ebrei chiamarono la Causa prima En Sof, e cioè: Infinito, da cui si originarono le Emanazioni, le Produzioni, le Processioni. Il Cordovero sostiene sia che le Luci procedono una dall'altra e sia che è il meccanismo dell'Emanazione a produrre la distinzione, in virtù della quale le Luci si dicono Tre. E' nel carattere proprio della sostanza il dato della processione, che è il compimento della sostanza, che si diffonde ed emana nella Radice occulta. Riflettiamo sul diverso operare fra Dio e l'uomo: quando l'uomo adopera la facoltà dell'immaginazione, in un primo tempo figurerà l'azione o cosa solo nel suo Intelletto e solo dopo, usando la facoltà della volontà,produrrà l'atto, ponendolo in essere.Invece, in Dio,la santa emanazione avvenne senza mutamento della sua sostanza, il Producente ed il Prodotto sono sempre la stessa sostanza e lo stesso principio. L'En Sof, risplendendo nella sua Luce,produce altri nove Troni o Sefirot occulte, restando nella propria sostanza. Tutto il processo avviene nella Radice occulta, dentro Dio. Si può fare un elenco di questa produzione, che è:Diffusione, Distendimento, Origine, Discoprimento, Emanazione, Produzione, Formazione, Sfavillamento, Diradiazione, Irraggiamento. E questi sostantivi ebrei sono accettati anche dai cristiani. Per questo si può avvertire una consonanza mirabile fra la dottrina cristiana delle divine processioni e quella che Dio insegnò agli Ebrei, un tempo Diletti di Dio.
Spiegata come avvenga la produzione in Dio, occorrerà esplicare come, nella Teologia occulta, gli Ebrei illustrino la distinzione reale che hanno, fra di loro, le Tre Luci. Procedendo una Luce dall'altra, una è Causa ed una è Causata, pertanto Dio è sia Uno e sia Trino. Le Sefirot procedono l'una dall'altra e si distinguono fra di loro. Rabì Chaiat sostenne: "Riceveranno il numero per essere loro cause, e causati, e così sono due; le dieci Intelligenze somigliano alla Luce, che illumina, rispetto a chi la riceve e rispetto a chi la comunica". A sua volta, Rabì Cordovero scrisse: " è la distinzione loro ed il procedere loro l'una dall'altra è di causa, tanto che la causa è sopra il causato ed il causato è sotto la causa. E dunque, sebbene le Sefirot sono unite fra di loro con unità perfetta, esse sono altresì distinte, perché una è causa dell'altra." In conclusione, gli Antichi Ebrei cedettero reale la distinzione delle Tre Luci, ma ne trattarono con sobrietà, proibendo agli uomini comuni o triviali di immergersi nella contemplazione di questi concetti, essendo questi difficilissimi, occultissimi ed imperscrutabili. Hai Gaon ricorda che i Savi del Talmud proibirono che si discutesse questa Sapienza, in quanto essa è imperscrutabile e non vi è ragionamento che possa arrivare a capirla e gli strumenti della conoscenza delle Creature sono corti per intenderli. Pertanto questi argomenti vanno studiati di passaggio, senza soffermarcisi sopra, data la loro profondità e costituiscono un Arcano imperscrutabile. Bisogna argomentare, a questo punto, contro i vostri Dottori Ebrei, perché hanno sostenuto che questo mistero sia difficilissimo, che vi sia un Arcano imperscrutabile, che per comprendere un Oggetto tanto grande il nostro intelletto è corto. Ebbene non si vergognano di non riconoscere il lavoro intellettuale di tante altre generazioni e dei cristiani che espongono in ogni predica gli attributi di Dio ma anche la sua unità d'essenza, la distinzione delle Luci ma anche l'intrinseca unità. Luce è l'Onnipotenza, Luce è l'Eternità, Luci sono la Giustizia, la Misericordia, la Liberalità, perché essendo una cosa medesima con Dio ogni diverso attributo è anche luce. Ma i Maestri della Sinagoga perché vedono qui un Arcano? Perché ne predicano l'imperscrutabilità? La risposta è questa: perché non voglio accettare la spiegazione chiara dei Cristiani, per cui vi è Unità di Dio e Trinità di Dio. Non vogliono convenire che la spiegazione la fornì Cristo, Signore Nostro e vero Messia, quando attribuì a ciascuna di quelle Luci, il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Gli Ebrei non vogliono confessare che la Fede Cristiana ha reso chiaro questo mistero, quando dice: unum te Lumen credimus, quod, et ter idem colimus. I Cristiani si sono arricchiti,poi, con la Filosofia e la Teologia, più degli Ebrei, e per questo chiamano Padre la Luce producente e le Luci prodotte le chiamano Figlio e Spirito Spirato. I Cristiani chiamano opposizione quell'incompatibilità fra Producente e Prodotto. E la chiamano opposizione relativa, in quanto è fondata sull'azione. Pertanto , stando alle Antiche Dottrine, fra noi e gli Ebrei vi è solo la differenza relativa all'altissimo mistero della Trinità. Noi siamo ammaestrati dalla Metafisica, laddove loro ne sono abbastanza digiuni. Non vi è che una Persona, una sostanza, distinta dal Mondo. E le loro Tre luci sono sostanze, sia perché non vi sono accidenti in Dio e sia perché ciò che è in Dio è Dio, il quale non può non essere. Se volessi qui esporre delle sottigliezze teologiche, ma so, in quanto parlo spesso con loro, che gli Ebrei sono gente aliena dalle belle lettere, potrei dire che il nome delle Tre Luci in R. Simeone il giusto corrispondono alle Tre Persone per come le descrisse egregiamente S. Tommaso. Poiché gli Ebrei hanno sempre timore che si possano porre Tre Dii, in loro si sottolinea sempre che le Tre Luci sono una cosa sola con l'Essenza Divina unica. R. Hai Gaon rispose a chi l'interrogava che le Tre luci sono la Sostanza, la Radice di tutte le Radici. E Cordovero commentò: " questi Tre occulti sono in Dio, perciò non sono Intelligenze o Sefirot ma sono la Sostanza dell'Infinito; né vi è ragionamento che possa giungere alla loro conoscenza, perché non vi è cognizione che possa intendere l'En-Sof. Il Cheter è la divisione tra le Sefirot e le Fonti, che stanno unite nell'Essenza della Radice". Orbene non si comprende perché gli Ebrei vogliano distinguersi dai Cristiani ed in loro si verifica la profezia di S. Giovanni, lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt. E per loro noi cristiani siamo Idolatri, perché diciamo che Dio è uno e trino? Ma,in vero, né noi per la dottrina delle Tre Persone né loro per la dottrina delle Tre Luci siamo idolatri; entrambi abbiamo posto sia l'Uno che il Tre. E' questo il mistero della SS: Trinità, che resta Uno in ragione della Sostanza divina e resta Tre in quanto a Luci; sono Tre Persone e un solo Dio.
In conclusione, gli Ebrei ammettono la produzione e la distinzione fra il Producente ed il Prodotto:la prima Luce produce la seconda, come un Lume ne accende un altro ma senza che quello si muti o venga a mancare. A me sembra – continua Ciantes – d'aver discorso sufficientemente intorno a quelle Tre Luci e d'aver posta in pubblico una Dottrina, la quale non può essere negata dagli Ebrei, e che manifestamente li confonde, il tutto sia a Gloria di Dio, alla quale solamente ho avuta la mira, nella risoluzione di dare alla Luce, questi pochi fogli. Ho seguito l'esempio di S. Giovanni Evangelista, che, disputando con gli Ebrei che negavano la Divinità di Cristo, incominciò il suo vangelo dalla generazione eterna del Verbo. E neppure v'è dubbio che la Trinità fosse conosciuta dagli Antichi Savi Ebrei, benché non con tanta chiarezza con cui fu poi predicata dai Cristiani, perché non mancò Dio, che agli Ebrei diede la Legge e insegnò le Dottrine, di ammaestrarli in tutte quelle notizie che avrebbero potuto portarli a conseguire la salute eterna. Anche se è altrettanto vero che gli Ebrei poi ne abbiano avviluppate le dottrine e le confondino con le loro stolte dicerie e vane superstizioni, pur tuttavia dai libri degli Antichi Ebrei s'impara assai, traspirano alcune verità che si fanno, come per spiragli, vedere. Ora è opera d'ogni prudente cristiano togliere loro di mano quei loro testi e portar loro i nostri libri, per confermazione della nostra verissima e santissima fede, come ha fatto Giovanni Battista Giona, uomo peritissimo nelle Dottrine dei Rabbini. Giona ha tradotto la dottrina cristiana del Cardinale Bellarmino dalla lingua volgare nell'idioma ebraico, con l'aggiunta di alcune note dottissime ed ha mostrato che si possa ritrovare, nei libri degli Ebrei, Gesù Cristo, la Beatissima Vergine, i Santissimi Sacramenti e molti altri misteri della Santa Fede. E Giona mi spiegò come nell'annuale commemorazione che gli Ebrei fanno della distruzione del Tempio di Gerusalemme, emettono una lamentazione in cui Dio manifesta il suo grande dolore per gli stranieri che adorano tre Dei e pertanto attaccano la Trinità dei cristiani. Ma per lo stesso motivo dovrebbero lamentarsi di se medesimi, in quanto adorano Tre Luci ed una Luce, che è l'essenza divina dell'En-Sof. Ma cessino di querelarsi e convenghino con noi. Così dovrebbero fare, ma ci spero poco che lo facciano,perché di queste Luci non vogliono disputare né ragionare ; inoltre, se qualcuno le studia nei libri, impone poi il silenzio a se stesso, e non lo comunica agli altri, ma chiede perdono a Dio, come se avesse ardito troppo. Se questo punto fosse studiato e disputato nelle scuole come predicano i deliri del loro Talmud, allora riuscirebbero a conoscere quanto è comune a noi ed a loro ed eviterebbero i beffeggiamenti, che poi risulterebbero reciproci. Ma chi beffasse le Tre Luci degli Ebrei meriterebbe biasimo, perché furono loro insegnate dai Santi profeti e da quelli, per tradizione e scrittura, è pervenuta ai loro dottori; mentre a noi è stata insegnata da Cristo, vero Messia,perché ciò che ha promulgato nel Nuovo Testamento già era contenuto nel Vecchio. Come dice s. Gregorio: allo stesso modo si contiene la ruota in mezzo alla ruota; oppure come dice s. Crisostomo: come il grano è contenuto nella spiga. Infatti la dottrina di Cristo era già nei Profeti e Savi dell'antica legge, anche se non vi appariva. Dunque, la trina Luce degli Ebrei è quel velame sotto cui Dio nascose la SS. Trinità ai Savi del vecchio testamento. Sono da riprovarsi,perciò, sia i beffeggiamenti reciproci e sia la derisione con cui si espongono le nostre dottrine fra gli scolari ebrei, infatti è cosa degna di compassione e di riso insieme che gli ebrei esagerino come sciocchezza dei cristiani il porre negli abissi di Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito, mentre loro stessi trattano di Sefirot, di sostanze, di elementi femminili, di copule e abbracciamenti, di baci ed unioni; di nominare i genitali e di fare apparire ermafrodito il Cheter, che è la prima Intelligenza. Con quanto studio parlano della generazione e dei concubinaggi! Quanta oscenità nominano fra i casti nomi del Padre e del Figlio. Aveva ragione . Paolo: la legge di Cristo appare scandalosa ai Giudei. Ma questo scandalo deve essere tollerato finché lo permetterà Dio,che ,nella infinita sapienza, ha promesso di salvare le reliquie di quella Nazione.


VIII – Opus seu cibus salutaris
Nel 1657, dopo di essersi dimesso dal vescovato e mentre infuria la peste, a Roma, Ciantes pubblica l'edizione bilingue della "Summa contra Gentiles" di S. Tommaso, traducendo in ebraico la prima parte,con l'aiuto costante di G.B. Giona ( o Iona), dotto ebreo convertito. L'opera lo rese ancora più famoso a Roma e fra gli intellettuali anche perché venne pubblicata con una dotta e lunga prefazione del vescovo cistercense Juan Caramuel Lobkovitz, che conviene riprendere per il lettore.
La "Praefatio" di Caramuel, densa e diffusa in cinquanta pagine a doppia colonna, elogiava Ciantes ma soprattutto si impegnava ad attaccare gli errori che opprimono gli indotti ("impugnandis sunt errores"). Caramuel sottolinea che pochi Ebrei capiranno quest'opera, infatti " mercatores sunt illi, non Dialectici" (sono mercanti e non filosofi, non teologi), non comprendono i ragionamenti sottili. Caramuele, con un'esposizione logica e serrata, fondata su tredici articoli, intende correggere i principali errori degli Ebrei. Si domanda: gli Infedeli sono anche atei? Negano l'immortalità dell'anima, non credono nell'Inferno e nel Purgatorio. E i Rabbini sono atei? Credono in una teologia che è superna e segreta, da loro chiamata Cabala, ma che appare chimerica ed improbabile; non si potranno convertire fino a che seguiranno la Cabala; Dio resta per loro inconoscibile. Incautamente Lullo, Pico Mirandolano, Agrippa hanno lodato la cabala, nella quale hanno osservato che le prime tre Sefirot contengono l'arcano della Santissima Trinità. Va confermata la subalternità delle Scienze della Natura alla Teologia. La teologia ebraica è la cabala, raccolta nel libro Pardes o Hortus Viridarium, a cui si rifanno gli autori Simeone ben Iokai e Moyses Cordovero. L'Essere supremo è detto En-Sof, l' Infinito, ma è sia Inconoscibile e sia Innominabile. Al di sotto vi sono le Sefirot, rappresentate come l'Albero della vita. Applicando la logica aristotelica, Caramuel propone questo sillogismo: Dio è l'Ente necessario ed esistente ( che non ha un principio ed è eterno). Le Sefirot non sono enti necessari ed esistenti. Perciò le Sefirot non sono Dio. Pertanto realmente si distinguono da Dio. Il principio della distinzione è salvo e ribadito, così pure la relazione fra Causa e Causato. Altro errore è la non conoscibilità di Dio, il dato per cui Dio non si dà e pertanto per gli Ebrei la mente umana non potrà mai giungere dagli effetti ed a posteriori , alla conoscenza di Dio. E, pertanto, nella cabala vi sono enormi errori ed altri ne derivano, per cui non la si può correggere ma soltanto allontanarla, respingerla e condannarla. La Cabala è una metonimia pestifera, sostiene Caramuel. Se si riflette che il Dio degli Ebrei si identifica con le Sefirot, che sono, a loro volta, finite e limitate, si deve desumere che l'En-Sof non è l'Ente infinito e pertanto il Dio degli Ebrei non è Dio. Ecco allora il corollario ( e articolo tredicesimo): come convertirli? Per prima cosa occorre estirpare la teologia dei rabbini e farli ragionare con argomenti estratti dalle Sacre Scritture, ad esempio conducendoli a sostenere che il figlio di Davide è Cristo e che pertanto Cristo è Dio (come recita Matteo: "Voi chi credete che sia Cristo?"). La gente ebraica è carente della conoscenza delle Sacre Scritture, a loro va ricordato che la Lettura letterale uccide e che solo lo Spirito vivifica. Poi bisogna incrementare l'azione della Santa Congregazione della Propaganda della Fede, promossa da Leone X, Gregorio XV e perfezionata da Urbano VIII. Devono ascoltare la nostra voce, uno è l'ovile ed uno è il Pastore. Promuovere le missioni dappertutto, per rimuovere gli errori circa l'Unità, la Trinità, l'Incarnazione, la Grazia e la Gloria di Dio.
La definizione elogiativa di Ciantes è espressa alla fine della prefazione e suonava in tale modo: per Caramuele " est enim Illustrissimus D.Ciantes, non solum eruditissimus Theologus, sed et severissimus Thomista; in utraque doctrina (Scolastica et espositiva) multis annis cum gloria et applausu versatus. Romanun id S. Thomae protestatur Collegium in quo magno discipulorum accursu fructoque de Divinarum perfectionum abissu Acroases profundas ed subtiles distavi". E poco più avanti chiariva: "At ipsum linguam sanctam percallere ut Romanam persuadent Orationes et Institutiones Evangelicae, quas ad Hebraeos magno cum fructu declamavit. Videbunt illa cito lucem; et in ipsis posteritas contra Iudeorum pertinaciam magna fulminum tempestatem inveniet". Caramuele firmò questa sua lettera: Praga,14 marzo 1657, che, nel suo forbito latino ed impaginazione grafica, rispecchiava lo stile barocco e movimentato, flessuoso e spiraliforme, come rispecchia la facciata del Duomo di Vigevano, che è la sua più armoniosa opera come architetto :
"Illustrissime presule, abfui per plures menses, partim Viennae, partim in Austria superiore:inde reversus inveni gratissimas eiusdem litteras cum foliis ex Opere praeclaro Illustrissimi D.D. Josephi Ciantes Episcopi Marsicani, qua mox non minus avide involavi, quam sitientes aqua dulcis rivum. " Gli intellettuali si sostengono, ancora di più quando il fine è condiviso. Bisogna che la verità sia il fine ultimo della ricerca di tutti.







L'opera successive di Joseph Ciantes è "De Sancta Christi Incarnatione, clarissimis Hebraeorum doctrinis" (Roma,Tinassi, 1668), incentrata sul dogma dell'Incarnazione che l'autore si prefigge di ribadire e confermare anche attraverso chiare dottrine presenti già negli Antichi Ebrei.


VII. La perfezione del Vescovo.
L'ultimo trattato scritto da J. Ciantes è del 1669, un anno prima della morte: "Della perfezione del Vescovo" e, come altri libri della stessa tematica dottrinaria ed apologetica, compie un ritratto del vescovo ideale in età barocca. Il trattato si snocciola in venticinque capitoli, che comportano circa duecentotrentacinque pagine. Dopo il trattato sulla Trinità ed il successivo sull'Incarnazione, questo saggio svolge il concetto di "perfezione cristiana", secondo la "mera e pura dottrina di S. Tommaso", "adorato come dottore divino". Il metodo di lavoro viene indicato nella dedica a I. Libelli, come consistente "nell'aspergere le dottrine teologiche, ora con l'autorità della Sacra Scrittura e dei Padri,(…) ora con l'autorità dei più antichi ed accreditati filosofi, come sono Aristotele, Averroe, Avicenna ed altri". Come migliore elogio, fra di loro, intellettuali come Libelli e Ciantes accettavano l'espressione di essere valutati come "Tomista severissimo". La perfezione è definita come il compimento dell'essere. Che si ritrova nella figura circolare. La perfezione comparativa è di natura semplice,consiste nell'aderire alla natura delle cose. La perfezione assoluta si avrà solo nel Paradiso, connessa con la carità perfetta. Infatti quando l'anima s'unirà a Dio si realizzerà questa perfetta carità. Il prete secolare,dovendo essere d'esempio, vuole servire Dio con spirito sciolto e libero. Il religioso regolare vuole servirlo con l'asprezza delle penitenze. Il Vescovo lo deve servire con quelle ansietà che convengono a chi ha cura delle anime. Più lo stato delle persone aumenta e più si addice la dignità. I Vescovi sono obbligati attraverso la solennità delle sacre obbligazioni. Essendo molte le azioni da esercitarsi, nella chiesa si distinguono molti stati e molti uffici e gradi, che rispecchiamo i criteri della natura, anche se S. Paolo afferma che siamo tutti un corpo solo con Cristo nostro capo (Rom.12). E tuttavia sempre S. Paolo afferma anche che in una casa è necessario che vi siano vasi d'oro e d'argento ma anche di creta, così nella casa di Dio (Tim,2). Distinti, dunque, i tre stati, che sono lo stato secolare, il religioso ed il Vescovile, le perfezioni convenienti ad uno, non debbono considerarsi come gradi convenienti all'altro. Si argomenta,poi, quale sia la differenza fra l'essere perfetto e l'essere nello stato di perfezione. "Perfetti furono Abramo,Isacco, Giacobbe, Davide, Giobbe,Tobia, e tutti quei santi nel nuovo testamento, come s. Giuseppe, s. Crispino, Lidia, s. Anna, s. Marta, s. Monica, Aquila, Priscilla, s. Cornelio, s. Sebastiano, s. Maurizio." Non perfetti, ma nello stato di perfezione sono quei Vescovi e religiosi scelerati che sono pieni di peccati, ma restano nello stato di perfezione perché ad esso si erano obbligati, anche se non sono nella vita perfetti e non hanno carità. Avere l'abitudine alla carità costituisce il precetto di amare Dio, con tutto il cuore,lo spirito e la mente. Trattando della direzione delle nostre operazioni vitali, s. Paolo afferma che sia quando mangiamo o beviamo o compiamo altre azioni, tutte le dobbiamo ordinare a Dio, a suo fine e gloria. ( Cor .10) Togliamoci,però, dalla mente gli scrupoli, abbandoniamo l'ansietà perenne per cui qualcuno avverte di non aver saputo ordinare le sue operazioni a Dio e solo così sapremo liberare la sua mente da tante angosce e difficoltà. L'amore di Dio e la carità non si conservano se non li si esercita in continui atti. Le abitudini acquistate possono,infatti, o estinguersi di fronte a forze contrarie come i vizi oppure marcire in quanto estinte per la cessazione degli atti. I peccati veniali diminuiscono la carità; il peccato mortale la distrugge. (Tommaso, Disputazioni,24). La carità è rivolta all'universale e perciò ama Dio più ardentemente; la concupiscenza è il fervore per un oggetto o bene particolare. La perfezione dei religiosi consiste nell'osservare i consigli a cui si sono spontaneamente obbligati. Col voto di castità, il religioso sceglie il celibato e mette la mente tranquilla in maniera da contemplare ed amare la divina bontà. Nel voto dell'ubbidienza si sceglie la perfezione come rinunzia della propria libertà, per adeguare l'anima alla volontà di Dio. Come nota s. Gregorio, già gli ebrei facevano una differenza fra sacrificio ed olocausto. Nel sacrificio solo una parte dell'animale sacrificato veniva offerta a Dio, mentre nell'olocausto tutto l'animale era di Dio. Pertanto come l'olocausto esprime una perfezione maggiore rispetto al sacrificio, così i religiosi, che legano la loro anima a Dio e fanno voto di obbedienza, sono più perfetti d'ogni altra persona non religiosa. La perfezione della carità è rinunzia alla cupidità dei sensi e dell'avere. E tuttavia spesso la realtà è un'altra: quanti pochi sono quelli che entrano nei Chiostri per guadagnare Cristo ed al posto di stimare i guadagni di questo mondo, ut stercora, come voleva che si facesse s. Paolo (Ad Filip.3), piangono le perdite che hanno fatto! I religiosi sono servi della pena., sottoposti alle azioni afflittive che sono le astinenze ed i digiuni ed alle mortificazioni del corpo e dell'anima. E come servi pérdono ogni diritto. Lo loro perfezione consiste nell'osservanza dei tre voti fatti nella professione e nell'osservare i comandamenti e tutti i precetti. Essa è una disposizione della mente ed un rispetto di azioni esteriori unite ad una perfetta penitenza. E' una milizia, un esercizio, uno strumento. La perfezione del Vescovo è pari alla grandezza di pesi delle sue operazioni, è uno stato di virilità e di magistero; è uno stato di perfezione acquistata, fondata sul magistero verso i popoli, divenendo egli simile a dottore delle genti, epiteto con cui s. Paolo amava definirsi. Si aggiunga,poi, la perfezione della sua carità. In sintesi, il Vescovo è il perfector cioè il perfezionante che con la sua carità viva illumina tutti gli inferiori a sé; il religioso è perfectus cioè perfezionato. Con la consacrazione, il Vescovo diventa tutto di Dio ed offre se stesso a Dio; mentre per Dio egli è tutto del prossimo, al cui servizio è dedito. Nos autem servos vestros propter Iesum, dice s. Paolo (Cor.4). Il religioso offre la sua vita a Dio ma nella quiete della contemplazione; il Vescovo l'offre non solo in quella quiete ma anche nei travagli del foro, per cui il suo olocausto è molto più perfetto ed abbondante e più a Dio gradito. (Il peso delle liti, giurisdizionali ed economiche, è un lavoro duro per il vescovo e Ciantes ne sapeva qualcosa) Il papa è l'agente superiore, il vescovo è l'agente inferiore. In quest'ordine stabilito spetta al vescovo consacrare l'olio, confermare la fede nella cresima, consacrare le chiese, consacrare le vergini, pronunzia delle sentenze. L'ordine vescovile è additivo delle anime a Dio, consiste nel servire il prossimo per Dio. Caritas Christi urget nos. Lasciate Dio per Dio. Il vescovo è posto non nell'ozio ma nel negozio. Il vescovo è obbligato a stare in mezzo ai popoli, per lo più non amici ma nemici. Egli deve continuare ad amare pur fra le punture e gli stimoli continui. In mezzo ai persecutori deve procurare la salvezza dei persecutori. Il vescovo in mezzo ai popoli è come un medico che cura i frenetici, che odiano il medico e la medicina. Sa di essere bestemmiato e deve pregare la divina bontà per il bestemmiatore. Egli deve esporre se stesso alla morte a favore delle pecorelle, che è quando dice s. Paolo: impendar et superinpendar ipse pro animabus vestris. (Cor.,12) I vescovi sono emulatori degli Angeli, infatti cercano un'abbondanza di carità e di perfezione che consenta l'esercizio dei ministeri divini (Cor.14). Passiamo ora a trattare senza equivoci cosa si debba intendere per povertà del vescovo. Il vescovo fa voto di povertà, lascia i suoi averi per Dio. Ma contrapponiamo la pratica: il vescovo accomoda l'animo a ritenere per fortune quelle che gli altri giudicano delle disgrazie. Per il card. Gaetani il vescovo è in uno stato più alto del voto di povertà e castità;il suo distacco dalle cose materiali è totale e rigoroso. Il vescovo ha l'obbligazione di obbedire al Sommo Pontefice ed ha in cura la custodia della roba che va impiegata per i bisogni dei poveri. I vescovi, pur essendo poveri in atto, tuttavia professano la vita attiva ( e non solo la contemplativa) , per cui hanno bisogno di operare molte cose, che si fanno con l'istrumento del denaro. Come scrisse Aristotele, chi governa opera attraverso tre organi, gli amici, le ricchezze e la potenza. Le stesse Leggi non solo non negano al Vescovo le ricchezze ma gliele concedono e gli prescrivono il modo in cui deve distribuirle, in quanto strumenti necessari per esercitare atti di virtù. Pertanto la povertà in atto non è necessaria alla perfezione attiva del vescovo. Infatti nella Chiesa vi furono vescovi santissimi e ricchissimi! Bisogna ammonire i vescovi ricchi le cui diocesi sono piene di poveri:devono sovvenire a quella povertà in maniera che non si vedano stenti estremi e si diliga il prossimo come se stessi e si compiano opere di misericordia, come il pascere gli affamati e l'insegnare agli ignoranti. Il vescovo, procurando la salute degli altri, guadagna la propria. Piuttosto egli soffre un'oppressione di cuore nel vedere che il suo popolo non può andare in Paradiso perché non ha chi ve lo conduca. Egli va di persona a catechizzare uomini selvaticissimi, che, per bollore di passioni, sono più simili alle bestie che ad altro e sono uomini rozzi,storditi ed incapaci, a cui il vescovo dovrà instillare esortazioni, sensi di pietà, devozioni per la salvezza della loro anima. E' da segnalare che poiché fra gli uomini si vive fra ingiurie e calunnie, non occorre desiderare un vescovato, ma lo si può ricevere solo quando la carità lo richieda o per ubbidire a comandi superiori. Affinché si conoscano i pericoli connessi con il vescovato, bisogna parafrasare una spiegazione di s. Crisostomo, che paragonava ad un pastore che perde le pecore per furti o malattie e deve renderne conto al padrone, lo paragonava al vescovo che deve rendere conto a Dio delle anime delle persone a lui affidate. Il vescovo, dice s. Paolo, dovrà combattere con i principati, con gli uomini prepotenti, che spesso armano la loro autorità insidiosa contro i vescovi, dovrà combattere le potestà temporali che tenteranno di opprimerlo. O quanto sono grandi le afflizioni dei vescovi! (esclama con un chiaro riferimento alla sua esperienza nella diocesi di Marsico) I vescovi vedono a volte la propria ragione mortificata dalla forza, senza potervi mettere rimedio, vedono l'offesa di Dio senza poterla impedire. Nella diocesi si costituiranno due partiti, uno dei quali è di Dio ed uno del demonio; spesso assisterà alle vittorie del partito del demonio; proverà su di sé come siano taglienti le armi del principe. E le sue orazioni a Dio saranno piene d'amarezza, per i peccati commessi dagli uomini di cui ha cura. Per danneggiare la sua fama produrranno calunnie, ma chi l'ha subita sa come spingano alle depressioni. Ma un esercito di nemici più crudeli , dice s. Paolo, è costituito dalle opere della carne, dalle fornicazioni, dagli adulteri, dai venefici, dalle liti, dall'iracondie, dalle contese, dalle detrazioni e mormorazioni, dai gonfiamenti degli uomini superbi e dagli altri vizi (constatati nella propria diocesi). Ci vuole molta grazia di Dio per resistere in questa battaglia. A volte il vescovo fornendo delle medicine compie un male peggiore. Infatti nelle medicine dell'anima non si può medicare chi non vuole essere medicato. Che fare? Occorre usare molta prudenza, conoscere meglio l'animo e le abitudini del peccatore. Esistono,poi, molti uomini buoni che sanno governare se stessi ma più raramente sanno governare gli altri. Si speri nel divino aiuto, lo si invochi come faceva s. Agostino; ci si metta nelle mani di Dio e si preghi di non inciampare e se caduti si preghi di essere rialzati. In Dio, dunque, e nei suoi aiuti sperino i vescovi e si accingano a combattere animosamente.

























































































































































































































































































































































































































































































































































































































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